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Sicilia Storia.

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La scuola consegue tanto meglio il proprio scopo quanto più pone l'individuo in condizione di fare a meno di essa.
(Ernesto Codignola)

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Cartina della Sicilia

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Storia della Sicilia

La SICILIA è da sempre un microcosmo: un mondo composito nel quale popoli di razza, religione e lingua diversi si sono scontrati ed incontrati, lasciando nell'isola una stratificazione di presenze quanto mai significative. Dalla preistoria ad oggi si può dire che questa facies non ha subito modificazioni importanti. L'avvicendamento o la compresenza delle maggiori forze politiche operanti nell'area del Mediterraneo ha movimentato la storia della Sicilia, costruendole un variegato e singolare apporto e scambio di civiltà che ancora oggi ne connota la società ed i monumenti.

Dai primi abitatori, Sicani e Siculi, di incerta provenienza, ai Greci ed ai Fenici, fra i quali stava costretta la popolazione indigena degli Elimi, le coordinate della storia universale nell'isola trovarono un insostituibile punto d'incontro. Qui, infatti, vennero a diretto contatto le due grandi potenze che dominarono il bacino mediterraneo e che crearono i grandi imperi talassocratici. L'espansione greca che seguì una direttrice più settentrionale, approdò sulle coste orientali dell'isola e fondò colonie, come Catania, Siracusa, Gela ed Agrigento, che svilupparono una propria politica ed una propria cultura. I tiranni di Siracusa, soprattutto al tempo di Dionigi il Vecchio, tentarono la conquista di tutta l'isola, confrontandosi con l'altra potenza mediorientale, la Punica, che da Cartagine aveva consolidato la sua presenza nell'isola, con gli insediamenti di Mozia , Lilibeo, Erice, Panormo e Solunto, Gli scontri ai confini delle rispettive aree d'influenza si ebbero a Selinunte, al Sud, e ad Imera al nord (480 a.C.).

Nella realtà la presenza greco cartaginese perdurò sino a quando sul Mediterraneo si affacciò Roma. Furono i Romani che sottomisero le colonie greche e che con le guerre puniche acquisirono anche quella cartaginese. Da allora l'isola seguì le vicende della crescita della potenza di Roma, divenendone una provincia indispensabile per la politica e per l'economia della Repubblica e dell'Impero.

Le rivolte servili ed i saccheggi del pretore Verre, denunciati da Cicerone, furono, fra il II ed il I sec. a.C., i momenti salienti della dominazione romana in Sicilia. Quando l'Impero declinò e sull'Occidente europeo si abbatterono i barbari, l'isola risentì subito le ripercussioni della trasformazione radicale che maturava in quella realtà nuova, la Romania, erede della Romanità.

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Il momento barbarico della Sicilia va dal 440 al 535: da quando, cioè, il capo dei Vandali, Genserico, occupata la provincia d'Africa e padrone di una flotta, impose la sua potenza egemonica in tutto il Mediterraneo occidentale. I Vandali, infatti, dominarono sulle grandi isole, praticamente abbandonate a se stesse dall'impero, la Sicilia, la Sardegna e le Baleari. Soprattutto le prime due, col cui controllo Genserico recise, secondo Vittore di Vita, le " vene vitali di Roma " dato che da esse proveniva la massima parte del grano necessario alla vita della penisola italica e della stessa Roma.

La Sicilia, pertanto, rimase sotto il dominio vandalico, sino al 476, quando divenuto Odoacre re dell'Italia, dopo aver deposto l'ultimo imperatore romano d'Occidente, Romolo Augustolo, il re dei Vandali gli cedette a certe condizioni la Sicilia, ad eccezione dell'enclave di Lilibeo. Dopo l'esperienza odoacriana, l'isola passò in mano ai Goti, quando Teodorico il Grande, subentrò al re degli Eruli nel regno barbarico d'Italia (495). E si può ben dire che la Sicilia barbarica vive un momento di grande tranquillità e di certa prosperità.

Questa venne interrotta, allorquando Giustiniano, imperatore d'Oriente, tentò di ricostituire l'integrità territoriale dell'antico '' imperium romanum ". Conquistato, senza grandi difficoltà l'impero vandalico d'Africa (534), il generale di Giustiniano, Belisario, occupò la Sicilia, che gli serviva come base per la riconquista della penisola italiana. La campagna militare per l'occupazione di tutta l'isola fu quanto mai rapida (535), dato che erano poche le guarnigioni gotiche e, comunque, non in grado di contrastare l'avanzata del corpo di spedizione bizantino. L'assedio e la conquista dal lato mare di Palermo è rimasto esemplare nella strategia militare del Medioevo.

Così la Sicilia penetrò nell'orbita imperiale e risentì della politica e della civiltà orientali. Il processo di bizantinizzazione permeò di apporti orientali la vita isolana, consentendo però una sopravvivenza dell'elemento latino indigeno. La presenza in Sicilia dei funzionari e dei militari imperiali, la immigrazione di monaci orientali e di uomini dell'area mediorientale furono determinanti di un cambiamento cospicuo della facies socio-politica dell'isola. Vennero create scuole ecclesiastiche e furono coltivati il canto e le arti del trivio e del quadrivio. In campo filosofico furono conosciuti Platone ed Aristotele.

Cultori e letterati prosperarono in Sicilia, come i papi Agatone, Leone e Sergio, e Giorgio di Siracusa. Grande fama ebbe Gregorio di Agrigento (sec. VI) autore di opere che ebbero larghissima diffusione nell'ambito filosofico del tempo; letterati furono Epifanio di Catania e Gregorio Bizantino. Una cultura che continuò a vivere anche dopo l'occupazione musulmana dell'isola e che ebbe a rappresentanti di rilievo gli innografi San Metodio e San Giuseppe l'Innografo.

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L'827 segnò il momento dello sbarco musulmano a Mazara, che preluse alla conquista di tutta l'isola, in pratica sempre più lontana dalla vita dell'Impero d'Oriente e ormai ritenuta terra d'esilio e di deportazione. Nell '831 cade Palermo, nell'865 Siracusa e solo molto più tardi le ultime roccaforti della resistenza bizantina.

L'organizzazione dell'emirato fece centro su Palermo, che divenne la nuova capitale dell'isola soppiantando la vecchia Siracusa, e venne ristrutturata in funzione anche di emporio commerciale. La nuova città così poté competere con le grandi città dell'Oriente e dell'Occidente musulmano, organizzata in quattro borghi ed arricchita di quartieri residenziali, di monumenti e circa trecento moschee. Le ripercussioni delle lotte interne, che dilaniavano il Maghreb, si ripercossero in Sicilia avviando un lento e mai più arrestato processo di destabilizzazione, che consentì, a metà del sec. XI, ai Normanni del Mezzogiorno d'Italia, di avere ragione della forte presenza musulmana nell'isola.

E comunque certo che si ebbe soprattutto nella parte centro-occidentale dell'isola una vera e propria arabizzazione, che perdura ancora oggi nella toponomastica e nell'agricoltura, particolarmente per quanto concerne le tecniche dell'irrigazione e della conduzione di orti e giardini. Palermo, infatti, non fu soltanto la città delle moschee e il grande emporio mediterraneo, ma anche la città dei grandi giardini e dei grandi mercati.

Il ritorno della Sicilia all'Occidente si ebbe con i Normanni, con quegli avventurieri che calati nell'Italia meridionale bizantina, si erano a poco a poco impadroniti della Puglia, della Basilicata, della Campania e della Calabria e che, con Roberto il Guiscardo (+1085) tentarono di conquistare lo stesso Impero orientale.

Nella fase della grande espansione normanna, per la Sicilia si concepì una precrociata che avrebbe scacciato gli infedeli musulmani dal centro del Mediterraneo. L'impresa condotta dal più giovane dei fratelli Altavilla, Ruggero, con l'appoggio del capo carismatico Roberto il Guiscardo, durò trenta anni (1061-1091). Con fasi alterne e con l'appoggio di Ibn Tymnah, alla fine i Normanni entrarono a Palermo (1071), che rimase capitale della contea.

Compito dei nuovi conquistatori fu quello di creare ex nihilo le strutture del nuovo Stato: amministrative, finanziarie, feudali, religiose, approfittando, anzi sfruttando le competenze delle varie etnie presenti nell'isola al momento della conquista.

La Sicilia, infatti, si presentava in quel tempo come un microcosmo, dove abitavano, convivevano e collaboravano latini, greci, arabi ed ebrei.

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Con grande intuito e con intelligenza, il gran conte Ruggero (+1101) creò uno Stato modello affidando l'amministrazione all'elemento greco, le finanze a quello musulmano, mentre a quello latino toccò l'organizzazione della nuova feudalità, che nasceva con caratteristiche proprie, che correggevano le insofferenze di quel feudalesimo, di tipo francese, che dava instabilità all'Italia normanna continentale. Così pure venne favorito l'elemento ecclesiastico e monastico latino, con la fondazione dei vescovadi e di numerosi monasteri legati ai monaci occidentali; mentre si tentò di rivitalizzare anche il monachesimo greco in Sicilia, che aveva monasteri sopravvissuti alla stessa dominazione musulmana.

L'età normanna in Sicilia significò un irripetibile momento magico, per le conquiste e per le creazioni artistiche e letterarie.

Politica e cultura convissero per il costante impegno di mecenati dei sovrani normanni, che con Ruggero II (1101-1154) avevano ottenuto anche l'incoronazione regia. Se in campo dette arti per l'epoca ruggeriana, primeggiano monumenti eccelsi, quali la Cappella Palatina, Maredolce le Cube, le Cattedrali di Palermo e di Cefalù, i successori di Ruggero Il, Guglielmo I (1154-1166) e Guglielmo II (1166-1189) non furono da meno: la Zisa e la Cattedrale di Monreale, con il Chiostro benedettino, furono gli apporti più importanti. Nello stesso tempo, i grandi funzionari del nuovo Stato, come l'Ammiraglio Giorgio d'Antiochia e il primo ministro Maione da Bari, seguirono l'esempio dei loro sovrani e fondarono a proprie spese quei gioielli che sono le chiese di Santa Maria dell'Ammiraglio, detta la Martorana, e San Cataldo.

Né meno intensa fu l'attività in campo letterario e scientifico: da Idrisi si va a Nilo doxapatrios, da Aristippo all'emiro Eugenio, da Romualdo Salernitano al così detto Falcando, a Pietro da Eboli, tutti collaborarono a rendere illustre il regno siciliano ed a porlo, per impostazione ed interessi, in competizione con la cultura contemporanea. Traduzioni dal greco e dall'arabo riportarono in Occidente Tolomeo e Platone.

Il declino del regno normanno aprì le porta alle aspirazioni imperiali degli Svevi. Il matrimonio di Costanza d'Altavilla con Enrico VI, figlio dell'imperatore Federico Barbarossa, consentì la discesa in Sicilia di Enrico, la sua incoronazione a Palermo e lo sterminio degli ultimi discendenti della dinastia normanna siciliana. Ma il marito di Costanza non poté godersi à lungo il possesso del regno meridionale, essendo morto, nel 1197, in una campagna contro i ribelli isolani.

L'età sveva trovò il suo grande esponente in Federico II (1196 1250), nato da Costanza ed Enrico. Il nuovo re di Sicilia, che nel 1220 venne eletto imperatore, fece dell'isola la base della sua politica imperiale. Nonostante che considerasse la Sicilia, la ''pupilla'' degli occhi suoi, non vi soggiornò quasi mai, impegnato come fu nella lotta contro i comuni dell'Italia settentrionale e nella politica germanica.

Alla sua morte (1250), il regno meridionale passò al figlio Corrado IV e, nel 1254, a Manfredi. L'età sveva ebbe sviluppi impensabili sul piano della giurisprudenza, della letteratura in latino, delle scienze sperimentali e della poesia in volgare. Lo stesso Federico scrisse un trattato venatorio, il " De arte venendi cum avibus '', che si può considerare una summa sulla falconeria. E con lui collaborarono Pier delle Vigne, Taddeo di Suessa, oltre ai noti poeti della '' Magna Curia ".

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Alla sua morte, detestata dal papato e dai suoi avversari europei, la corona venne data a Carlo d'Angiò, fratello di Luigi IX il Santo, re di Francia. E col pretendente francese si confrontarono prima Manfredi, che venne eliminato nella battaglia di Benevento (1266) e poi il piccolo Corradino, sconfitto a Tagliacozzo e fatto decapitare dall'Angioino (1268). Ma la dominazione angioina nel regno di Sicilia, che avrebbe dovuto spianare a Carlo I la via per la conquista dell'impero d'Oriente, fu mal sopportata dai Siciliani, che non seppero adattarsi all'arroganza dei nuovi signori.

La rivoluzione del Vespro, scoppiata a Palermo il 31 agosto 1282, determinò ben presto lo sterminio dei francesi e la cacciata degli Angiomi dall'isola. A proprio sovrano i Siciliani scelsero Pietro III d'Aragona, che aveva sposato Costanza figliola di Manfredi. Su questo diritto nasce, nel 1296, quando Giacomo II diventa anche re d'Aragona, la elezione a re di Sicilia del figlio minore di re Pietro, Federico III (1296-l337).

Con questa scelta si aprì un lungo periodo di guerre continue col regno angioino di Napoli e, alla fine, la guerra civile, scatenata nell'isola dalle grandi famiglie baronali, quali i Chiaramonte, Ventimiglia, Rosso, Alagona, Peralta ecc. Il processo di declino del regno aragonese di Sicilia che investe i regni di Pietro II (1337-1342), di Ludovico (1342-1355) e di Federico IV (1355-1377), trovò il suo sbocco in una riconquista aragonese dell'isola, che venne realizzata da Martino l'Umano, per conto del figlio, anche lui di nome Martino, al quale era stata data in moglie la regina Maria, erede del quarto Federico.

Martino il Giovane (1392-1409) ebbe a sostenere una lunga lotta contro l'indomabile baronaggio siciliano ed, alla fine, perdette la vita in Sardegna, dove si era recato, per conto del padre re d'Aragona, a domare un'ennesima sollevazione dei Sardi. Era rimasta in Sicilia a tenere il potere come vicaria, Bianca di Navarra, seconda moglie del giovane Martino. E contro di lei, alla morte di Martino il Vecchio, che era succeduto al figlio in Sicilia (1410), si era scatenato il grande ammiraglio del regno, Bernardo Cabrera.

La nuova guerra civile, che travagliò l'isola per alcuni anni, fece scadere il regno a viceregno, quando sul trono d'Aragona venne eletto, a Caspe, Ferdinando d'Antequera. Bianca venne richiamata alla corte iberica ed in Sicilia fu inviato come viceré Giovanni duca di Penafiel. Per evitare pericoli autonomistici dei Siciliani, Alfonso V il Magnanimo (1416-1450) diede inizio ad una serie di viceré scelti da lui con oculatezza. Re Alfonso, che fu in Sicilia nel 1320, nel suo viaggio alla conquista del regno napoletano, seppe sfruttare con spregiudicatezza le risorse finanziarie del l'isola in favore della sua politica mediterranea e, soprattutto, di quel la italiana.

Nell'isola, al vecchio baronaggio decimato dagli esili o messo a terra da patrimoni le cui rendite non potevano andare dietro alle spese di una vita condotta sui modelli spagnoli, subentrò la scalata dei gran di banchieri e dei grandi professionisti: Ajutamicristo, Alliata, Requesens, Abatellis, Speciale, e così via si nobilitarono con matrimoni che li posero al vertice della nuova aristocrazia. Con la morte del Magnanimo si aprì l'epoca spagnola, dato che il re napoletano volle che i due regni di Sicilia venissero divisi e che quello isolano fosse unito alla corona d'Aragona. Era anche il momento in cui maturava la grande Spagna dei re Cattolici; era l'età delle grandi scoperte geografiche e scientifiche; era il tempo in cui, con Maometto Il ed i suoi successori, la potenza turca partiva alla conquista dell'Occidente. In questi nuovi equilibri politico-militari, la Sicilia venne ad assumere una posizione strategica di grande rilievo, considerata come antemurale contro l'aggressione ottomana.

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In una tale ottica la storia di Sicilia del primo Cinquecento venne adeguata alla nuova funzione di punto di forza sia contro i Turchi che contro i pirati barbareschi. Le fortificazioni che la cinsero, torri e castelli, l'aumento delle guarnigioni e la scelta dei viceré obbedivano a questa fondamentale istanza. Non a caso nel 1535 Carlo V desiderò visitare l'isola ed entrare trionfalmente a Palermo. Sul piano interno si erano avuti dei moti popolari, come quelli contro il viceré Ugo Moncada (1516), come la rivolta dello Squarcialupo, come quella dei fratelli Imperatore (1523).

Nel Seicento nella Sicilia spagnola, che vide il trionfo dell'effimero in campo artistico, si aggravò la situazione economica, dato che le carestie resero deserte le campagne e la fame dilagò per le grandi città. Una sollevazione si ebbe a Messina (1646), ma diversa ampiezza e risonanza ebbe quella scoppiata a Palermo l'anno successivo. La folla assalì il palazzo di città, liberò i prigionieri della vicaria e compì altri eccessi. Se questa rivolta poté essere domata dal viceré Los Velez, che fece impiccare il capo, Nino La Pelosa, maggior successo ebbe quella, che immediatamente seguì, delle maestranze artigiane palermitane, capeggiata da Giuseppe D'Alesi. Questi, dopo la cacciata del viceré, fu eletto capitano generale e tentò l'instaurazione di un governo popolare. Fece abolire privilegi e gabelle e fece eleggere tre giurati popolani e tre nobili, ma Giuseppe D'Alesi venne ucciso il 22 agosto 1647, abbandonato da tutti. Un'altra rivolta contro il viceré don Giovanni d'Austria, questa volta di stampo borghese, venne soffocata sul nascere ed il suo capo, Giuseppe Pesce, decapitato.

Il trattato di Utrecht (1713) assegnò la Sicilia al duca di Savoia Vittorio Amedeo Il, che in quello stesso anno raggiunse Palermo e si fece votare, nel 1714, due donativi dal parlamento, per poi ripartire per il Piemonte, carico di beni ed accompagnato da uomini di cultura, come l'architetto Juvara. Lasciò come viceré il conte Maffei, che dovette affrontare la campagna del cardinale Alberoni, che voleva riportare con la forza la Sicilia sotto la Spagna. La spedizione del 1718 fece ritirare i savoiardi nell'interno dell'isola. Ma il trattato dell'Aia (1720), voluto da Austriaci ed Inglesi, portò l'isola sotto Carlo VI d'Austria, che nominò viceré il duca di Monteleone. Dopo i Savoia, gli Austriaci continuarono ad impoverire la Sicilia, con un eccessivo fiscalismo che fece rimpiangere gli Spagnoli. Filippo V di Spagna investì Carlo del regno delle due Sicilie. E Carlo venne nell'isola facendosi incoronare a Palermo (30 giugno 1735). La pace di Vienna (1738) gli riconobbe il titolo.

La Sicilia si attendeva dal nuovo sovrano la soluzione dei suoi molti problemi; in realtà, Carlo III avvertì le istanze dei Siciliani e con una intelligente politica riformista tentò di sollevare i suoi sudditi isolani dalle condizioni di estrema miseria in cui versavano. Istituì la " Giunta per gli affari di Sicilia " e quella per il commercio del grano; difese contro la curia pontificia il privilegio dell'Apostolica Legazia e stipulò accordi commerciali con gli Stati africani.

L'ondata riformistica non s'interruppe col passaggio di Carlo sul trono di Spagna alla morte di Ferdinando VI (1759) e con la cessione del regno delle due Sicilie al figlio Ferdinando, perché in Sicilia giunse come viceré Domenico Caracciolo, un innovatore intelligente, seguace delle teorie illuministiche francesi. Egli, infatti, attuò riforme contro i privilegi del baronaggio e soppresse il famigerato Tribunale dell'Inquisizione (1782). Ma l'epoca del Caracciolo fu anche quella in cui si andò aggravando il distacco della Sicilia da Napoli, con contrasti che investirono la stessa monarchia borbonica, che non poteva a sua volta tollerare le spinte autonomistiche siciliane. La reazione nell'isola poggiò su un ambiente culturale che si permeava delle idee di progresso politico, sociale ed economico e che faceva leva sulla vecchia tradizione indipendentistica siciliana.

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Se, infatti, i principi della rivoluzione francese trovarono vivaci resistenze, tuttavia il giacobinismo penetrò nell'isola attraverso la massoneria. Ne fu esempio la congiura, soffocata nel sangue, di Francesco Paolo Di Blasi, che avrebbe dovuto rovesciare la monarchia e proclamare la repubblica (1795).

La delusione per l'atteggiamento di re Ferdinando permase anche quando per due volte il monarca napoletano fu costretto dagli avvenimenti a rifugiarsi in Sicilia: nel 1798, quando venne proclamata la repubblica partenopea, e nel 1806 dinnanzi al pericolo napoleonico. Ferdinando, infatti, piuttosto che esaudire i desideri autonomistici dei Siciliani, si servì dell'isola solo per la riconquista del Napoletano.

Tuttavia, con l'appoggio inglese ed in particolare di lord Bentink, la Sicilia ottenne una Costituzione, esemplata sul modello inglese da Paolo Bàlsamo, che venne approvata dal parlamento il 19 luglio 1812 e sanzionata dal re il 10 agosto. Il testo costituzionale ribadiva l'indipendenza della Sicilia da Napoli, la distinzione dei tre poteri e definiva il parlamento bicamerale, con una Camera dei Pari ed una dei Comuni. Ma la costituzione venne rinnegata da Ferdinando quando il Congresso di Vienna (1816) gli confermò la corona delle due Sicilie. Il malcontento antiborbonico si configurò nella penetrazione della Carboneria in Sicilia, diffondendosi nella borghesia e nel clero. I moti del '20 furono repressi con la forza militare; così che il ripristino dell'assolutismo portò ad una intensificazione dell'azione dei carbonari. La sollevazione capeggiata da Domenico Di Marco e le altre di Siracusa e Catania, scoppiate durante il colera del 1837, non ebbero esito e furono soffocate dal generale Del Carretto.

Ma ormai si era creato il presupposto con le idee e con la stampa per una rivoluzione di massa. I moti del '48, capeggiati da Giuseppe La Masa a Palermo, dilagarono per tutta la Sicilia: fu costituito un governo provvisorio, venne data vita al parlamento e si provvide ad un esercito che potesse contrastare un ritorno armato dei Borboni, Per un anno e mezzo i Siciliani godettero della loro indipendenza; ma al la fine, il 15 maggio 1849, le truppe del generale Filangeri entravano a Palermo. La restaurazione borbonica fu travagliata da cospirazioni che ne minavano l'attività come quella di Nicolò Garzilli (1850), come gli arresti di Salvatore Spinuzza e di Francesco Bentivegna (1853), come la spedizione da Malta promossa da Giovanni Interdonato.

Ma già gli esuli siciliani avevano acquistato alla causa dell'isola lo stesso Mazzini, mentre all'interno cresceva la febbre rivoluzionaria. La spedizione garibaldina del 1860, con lo sbarco a Marsala, la vittoria di Calatafimi, l'ingresso a Palermo e la conseguente liberazione di tutta l'isola, fu il momento magico delle attese dei Siciliani. La dittatura di Garibaldi, le sue riforme e l'annessione portarono la Sicilia nell'ambito dell'unità d'Italia.

Da allora la storia dell'isola è rimasta dissolta in quella più vasta dell'Italia, alla quale l'isola ha dato uomini politici come Francesco Crispi, Michele Amari, Vittorio Emanuele Orlando; ed uomini di cultura che vanno da Giovanni Verga sino al Tomasi di Lampedusa ed a Quasimodo.

Dopo la seconda guerra mondiale, che nell'isola ha lasciato ferite ancora non sanate, e dopo la proclamazione della repubblica italiana, nel 1947 la Sicilia ha visto soddisfatte le sue aspirazioni autonomistiche con la concessione di un'autonomia regionale con a base uno Statuto speciale, che ha posto in sintonia i valori dell'unità con quelli dell'autonomismo.

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Articolo tratto da:

https://www.ilsicilia.it/il-banco-delle-due-sicilie-quando-il-sud-era-il-motore-ricco-delleuropa/

L'economia nella Sicilia nel meridione pre-unitari.

Il "Banco delle due Sicilie": quando il Sud era il motore ricco dell’Europa

di Vincenzo Roberto Cassaro 21 ottobre 2018

Più o meno tutti, almeno una volta nella vita, a parte qualche rara eccezione, abbiamo cercato di far passare un’affermazione falsa come un’affermazione vera, in che modo? Molto spesso ripetendo quella falsità fino allo svenimento, un metodo talmente efficace, che alla fine anche noi stessi, crediamo, ideatori e autori della menzogna, che quest’ultima corrisponda alla verità.

È incredibile ma la nostra mente funziona così, pertanto la percezione che possiamo avere della realtà può variare molto in base a come essa viene raccontata. Ecco, similmente, questa tecnica comunicativa è stata utilizzata dalla propaganda e dalla retorica politica piemontese dopo l’unità d’Italia, facendo passare il messaggio che il Regno meridionale, oppresso dai Borbone, fosse una terra povera e arretrata e che il Settentrione si sarebbe impegnato per il suo sviluppo. Infatti non è casuale che oggi molti meridionali hanno perso, almeno in parte, la coscienza del proprio passato.

Il Regno delle Due Sicilie era lo Stato più ricco e all’avanguardia d’Italia e tra i più floridi in Europa. Uno degli indicatori di questa ricchezza ci proviene dal sistema bancario meridionale preunitario.

A Napoli nel 1539 fu fondato il "Monte di Pietà", un istituto che aveva il compito di fornire prestiti a tasso zero a favore di coloro che si trovavano in una situazione di povertà, come garanzia si richiedeva un pegno. Dopo aver iniziato a svolgere attività bancaria e di deposito, nel 1584 l’istituto divenne un Banco. Così tra il ‘500 e il ‘600 a Napoli vennero fondati ben otto istituti bancari pubblici: il già citato "Banco di Pietà"(1539), il "Monte e Banco dei Poveri"(1563), il "Banco della Santissima Annunziata"(1587), il "Banco di Santa Maria del Popolo"(1589), il "Banco dello Spirito Santo"(1590), il "Banco di Sant’Eligio"(1592), il "Banco di San Giacomo e Vittoria"(1597) e il "Banco del Santissimo Salvatore"(1640), quest’ultimo, l’unico Banco a non essere legato ad istituti caritatevoli e assistenziali.

Siamo di fronte a un sistema bancario che pochi altri Stati dell’epoca potevano vantare. Alcuni importanti cambiamenti arrivano nel 1794, quando Ferdinando IV di Borbone istituisce il "Banco Nazionale di Napoli", il quale aveva il compito di coordinare e controllare l’attività degli otto Banchi napoletani.

Nel 1806 il re Giuseppe Bonaparte rivoluzionerà l’assetto bancario del regno, infatti egli farà chiudere due Banchi, quello "del Popolo" e quello "del Salvatore", inoltre creerà il "Banco dei Privati" che assorbirà i Banchi "della Pietà", "dei Poveri", di "Sant’Eligio" e dello "Spirito Santo", infine il "Banco di San Giacomo" cambierà nome in "Banco di Corte", con il compito di custodire e gestire il tesoro dello Stato.

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Sarà invece il re Gioacchino Murat a mutare profondamente il sistema bancario meridionale attraverso la fondazione del "Banco delle Due Sicilie", articolato in due rami, la "Cassa dei Privati" e la "Cassa di Corte". Nel 1844 fu fondata la "Cassa di Corte" a Palermo e nel 1846 la "Cassa di Corte" a Messina, tre anni più tardi esse saranno fuse nel "Banco Regio dei Reali Domini al di là del Faro". Ricordiamo che nel 1858 fu fondata la "Cassa di Corte" a Bari e nel 1860 la "Cassa di Corte" a Reggio Calabria e a Chieti. Insomma un apparato bancario veramente articolato e possente, a tal punto che nel 1860 il "Banco delle Due Sicilie" potrà vantare una ricchezza intorno ai 440 milioni di lire in monete d’oro, invece la ricchezza monetaria di tutti gli altri Stati italiani messi insieme non arrivava ad un valore di 230 milioni di lire, oltretutto una parte in cartamoneta.

Dopo il "sacco garibaldino", quel poco che rimaneva del "Banco Regio dei Reali Domini al di là del Faro" fu confluito nel nuovo istituto "Banco di Sicilia"mentre il "Banco delle Due Sicilie" fu convertito in "Banco di Napoli" e venne amministrato da funzionari piemontesi, oltretutto avrà il compito, per 65 anni, di emettere moneta nel nuovo "Regno d’Italia", fino a quando tale funzione sarà assunta nel 1926 dalla "Banca d’Italia".

Quindi, già con lo sbarco di Garibaldi, il sistema bancario meridionale iniziò a subire danni irreparabili, per poi essere smembrato a partire dall’Unità d’Italia. Non è un caso se oggi il "Banco di Sicilia" è di proprietà di "Unicredit", una banca milanese, e il "Banco di Napoli" di "Intesa-San Paolo", un istituto di credito torinese.

Dal 1861 si assistette a un’enorme trasferimento di capitali dal meridione al settentrione e il processo fu anche incredibilmente veloce e spietato, infatti dopo qualche decennio dall’unificazione, di quel florido mondo bancario, costruito attraverso i secoli, non rimaneva che qualche traccia, gran parte ormai era stato sotterrato dalle macerie dell’opportunismo e della Storia e anche dal tentativo, in gran parte riuscito, di cancellare la memoria collettiva di quello che un tempo era uno dei sistemi bancari più ricchi d’Europa, quello del Regno delle Due Sicilie.

Articolo tratto da:

https://www.ilsicilia.it/il-banco-delle-due-sicilie-quando-il-sud-era-il-motore-ricco-delleuropa/

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L'Economia nella Sicilia e nel Meridione Pre-Unitari - Il "Banco delle due Sicilie": quando il Sud era il motore ricco dell'Europa.

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