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Le Mille e Una Notte Storia delle Tre Mele.

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Mille e Una

Le mille e una notte  Storia delle tre mele

Storia della dama trucidata e del suo giovane marito

Le mille e una notte Storia delle tre mele Storia di Ali Nur Ed-Din e di Hasan Badr Ed-Din (1^ Parte)

Le mille e una notte Storia delle tre mele Storia di Ali Nur Ed-Din e di Hasan Badr Ed-Din (2^ Parte)

Le mille e una notte Storia delle tre mele Storia di Ali Nur Ed-Din e di Hasan Badr Ed-Din (3^ Parte)

Le Mille e Una Notte

Raccolta di novelle e fiabe della Letteratura Araba

Le mille e una notte - Introduzione

I Grandi Classici Cultura

Grandi Classici

1400 ca.

Le mille e una notte.

Scritti originariamente in arabo, i racconti delle Mille e una notte furono raccolti in un arco di tempo di ben seicento anni.

Capolavoro della letteratura araba, l'opera è entrata a far parte del patrimonio letterario mondiale.

Microsoft ® Encarta ® 2008.

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LE MILLE E UNA NOTTE - STORIA DELLE TRE MELE

Un giorno il principe Harùn ar-Rashìd avvisò il gran visir Giàafar di trovarsi la notte seguente.

«Visir», gli disse, «voglio girare la città ed informarmi di ciò che vi si dice, e in particolare se sono contenti dei miei ufficiali e funzionari.

Se ve n'è di cui si abbia ragione di lagnarsi, noi li deporremo per metterne dei migliori in loro vece:

se al contrario ve ne sono che abbiano un merito speciale, avremo per loro i riguardi che meritano.»

Il gran visir, recatosi al palazzo all'ora indicata, il califfo e Masrùr, capo degli eunuchi, si travestirono per non essere riconosciuti, e uscirono tutti e tre insieme.

Passarono per molte piazze e per molti mercati, ed entrando in un vicolo, videro, al chiaro di luna, un buon uomo dalla barba bianca, di alta statura, che portava delle reti sulla testa e un bastone in mano.

Il califfo disse ai suoi compagni:

«Avviciniamo quel vecchio e interroghiamolo».

«Buon uomo», gli disse il visir, «chi sei?»

«Signore», gli rispose il vecchio, «sono un pescatore, il più povero e il più sventurato dei pescatori.

Sono uscito di casa prima di mezzodì per andare a pescare e da allora non ho preso il minimo pesciolino; e ho moglie e figliuoli da mantenere.»

Il califfo, mosso a compassione, disse al pescatore:

«Avresti il coraggio di rifare il cammino e di gettare le reti un'altra volta?

Ti daremo cento dinàr per quello che pescherai».

Il pescatore a tale proposta, dimenticando la fatica della giornata, prese il califfo in parola, e ritornò verso il Tigri con lui, Giàafar e Masrùr, dicendo fra sé:

«Questi signori sembrano troppo onesti e troppo ragionevoli per non compensarmi della mia fatica; e quand'anche mi dessero solo la centesima parte di ciò che mi promettono, sarebbe già molto per me».

Giunsero in riva al Tigri.

Il pescatore gettò le reti: poi, avendole tirate su, ne trasse un baule chiuso e pesantissimo.

Il califfo gli fece subito dare dal gran visir cento dinàr e lo mandò pei fatti suoi.

Masrùr si caricò il baule sulle spalle per ordine del suo padrone, che ardeva dalla voglia di vederne il contenuto, e aveva quindi grande fretta di arrivare al palazzo.

Qui essendo stato aperto il baule, vi trovò un grande cesto di foglie di palma, con l'apertura chiusa e cucita con filo di lana rossa.

Per soddisfare l'impazienza del califfo non si volle stare a scucire la chiusura ma si tagliò prontamente il filo con un coltello, e si trasse dal paniere un fagotto avvolto in un tappeto logoro, legato con una fune.

Sciolta la corda e svolto il fagotto, si vide con orrore il corpo di una giovane signora, bianco come la neve, e tagliato a pezzi.

Grande fu lo stupore del califfo a questo orrendo spettacolo.

Ma dalla sorpresa passò presto allo sdegno, e lanciando al visir uno sguardo furioso, gli disse:

«Ah! sciagurato, così dunque tu vegli sulle azioni del mio popolo?

Sotto il tuo governo si commettono impunemente degli assassinii nella capitale, e si gettano i miei sudditi nel Tigri? Essi grideranno vendetta contro di me, il giorno del giudizio.

Se tu non vendichi prontamente l'uccisione di questa donna con la morte del suo assassino, io giuro, per il santo nome di Dio, che ti farò impiccare, insieme a quaranta persone del tuo parentado!».

«Grande califfo», disse il visir, «supplico vostra maestà di accordarmi qualche tempo per fare delle ricerche.»

«Ti do tre giorni di tempo», rispose il califfo, «spetta a te farli bastare.»

Il visir Giàafar si ritirò in casa sua, esclamando:

«E come potrò trovare l'omicida in una città vasta e popolata qual è Bagdàd? Un altro, al mio posto, si limiterebbe a cercare un miserabile qualunque e lo farebbe morire per accontentare il califfo:

ma non voglio caricare la mia coscienza di simile misfatto».

Ordinò agli ufficiali di polizia e di giustizia che dipendevano da lui di fare ricerca del malfattore.

Mandarono in giro la loro gente; vi si misero loro stessi, non ritenendosi meno interessati del visir in tale affare:

ma tutte le loro ricerche furono vane; per quanta diligenza usassero, non poterono scoprire l'autore del delitto.

Arrivato il terzo giorno, un usciere venne a casa di quel disgraziato ministro e gli impose di seguirlo.

Il visir obbedì ed avendogli il califfo domandato dove fosse l'omicida:

«Principe dei credenti», gli rispose con le lacrime agli occhi, «non ho trovato alcuno che abbia potuto darmene il minimo indizio.»

Il califfo gli fece molti rimproveri, con voce fremente d'ira e di furore, e comandò che lo impiccassero davanti alla porta del palazzo, insieme a quaranta dei suoi parenti.

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Mentre s'innalzavano le forche, un pubblico banditore andò per ordine del califfo a gridare in tutti i quartieri della città:

«Chi vuole la soddisfazione di vedere impiccare il gran visir e quaranta dei Barmecidi suoi parenti, venga sulla piazza davanti al palazzo».

Quando tutto fu pronto, il giudice criminale e un gran numero di uscieri del palazzo condussero il visir con quaranta Barmecidi ai piedi delle rispettive forche e fu loro passata al collo la corda, con la quale dovevano essere sollevati in aria.

Il popolo, che affollava la piazza, non poté vedere quel triste spettacolo senza dolore e senza versare lacrime, poiché il gran visir Giàafar e i Barmecidi erano amati e onorati per la loro probità, liberalità e disinteresse, non solo a Bagdàd, ma anche in tutto l'impero.

Mentre tutto era ormai pronto perché fosse eseguito l'ordine irrevocabile del califfo, un giovane molto bello ed elegante facendosi strada attraverso la calca, giunse fino al visir e, dopo avergli baciata la mano, esclamò:

«Sommo visir, capo degli emiri di questa corte, rifugio dei poveri, voi non siete colpevole del delitto per il quale state per morire.

Ritiratevi e lasciate che io paghi per la morte della dama gettata nel Tigri.

Sono io il suo uccisore, e merito di essere punito!».

Benché questo discorso provocasse molta gioia al visir, egli non poté non sentire compassione del giovane, la cui fisionomia, invece di essere truce, aveva qualche cosa di attraente.

Stava per rispondergli, quando un uomo di alta statura e di età molto avanzata riuscì ad accostarsi al visir, e disse:

«Signore, non credete a ciò che vi dice questo giovane; io solo sono l'assassino della dama trovata nel baule e su di me deve cadere la pena:

in nome di Dio, vi scongiuro di non punire l'innocente invece del colpevole!».

«Signore», riprese il giovane, «sono stato io a commettere questa malvagia azione, e nessun altro è colpevole.»

«Figlio mio», interruppe il vecchio, «è la disperazione che ti conduce qui!», e rivolgendosi al gran visir:

«Ve lo ripeto, io sono l'assassino; fatemi morire, e non indugiate!».

La discussione del vecchio e del giovane obbligò il visir Giàafar a condurli davanti al califfo, col permesso del giudice criminale.

Quando fu in presenza del principe, baciò la terra per ben sette volte e parlò a questo modo:

«Principe dei credenti, io conduco a vostra maestà questo vecchio e questo giovane, che si dicono entrambi uccisori della dama».

Allora il califfo domandò agli accusati chi dei due avesse trucidato la dama e l'avesse gettata nel Tigri.

Il giovane assicurò che era stato lui; ma siccome il vecchio dal canto suo sosteneva il contrario:

«Andate», disse il califfo al gran visir, «e fateli impiccare tutti e due!».

«Ma, sire», disse il visir, «se uno di essi è colpevole, sarebbe ingiusto far morire l'altro!»

«Io giuro per Dio che ha innalzato i cieli all'altezza ove sono, che ho ucciso la dama, l'ho squartata e gettata nel Tigri quattro giorni fa.

Non voglio aver parte coi giusti al giorno del giudizio, se ciò che dico non è vero.

Quindi sono io quello che deve essere punito.»

Il califfo fu sorpreso da questo giuramento, e vi prestò fede, tanto più che il vecchio non replicò.

Perciò, volgendosi al giovane, gli disse:

«Sciagurato, per quale motivo hai commesso un delitto così orrendo?

E qual ragione puoi avere per essere venuto ora spontaneamente a denunciarti?».

«Principe dei credenti», rispose quello, «se si mettesse per iscritto tutto ciò che è avvenuto fra la dama e me, ne verrebbe una storia che potrebbe esser utilissima agli uomini.»

«Narracela», replicò il califfo, «te lo impongo.»

Il giovane obbedì cominciando il suo racconto in questo modo.

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STORIA DELLA DAMA TRUCIDATA E DEL SUO GIOVANE MARITO

La dama trucidata era mia moglie, figlia di questo vecchio, il quale è mio zio paterno.

Aveva solamente dodici anni quando la presi in moglie, e undici già ne sono passati da allora.

Ho avuto da lei tre figli maschi tuttora vivi, e devo renderle giustizia, che non mi ha dato mai il minimo motivo di dispiacere.

Era saggia, di buoni costumi e metteva ogni cura a piacermi.

Dal canto mio l'amavo alla follia e prevenivo tutti i suoi desideri.

Circa due mesi fa si ammalò.

Ebbi per lei tutte le cure immaginabili, non risparmiai nulla per procurarle una pronta guarigione.

Dopo un mese cominciò a star meglio e volle andare al bagno.

Prima di uscire di casa mi disse:

«Cugino mio», poiché così mi chiamava familiarmente, «ho voglia di mangiare delle mele:

mi faresti un piacere estremo se potessi trovarmene; da molto tempo ho questa voglia, e se non la soddisfo, temo che mi accada qualche disgrazia».

«Molto volentieri», le risposi, «corro subito per vedere se riesco ad accontentarti.»

Andai subito a cercare delle mele in tutti i mercati e in tutte le botteghe:

ma non potei trovarne neppure una, sebbene offrissi di pagarle un dinàr.

Tornai a casa molto spiacente di essermi inutilmente affannato.

In quanto a mia moglie, quando fu ritornata dal bagno e non vide nessuna mela, ne ebbe un tale dolore che non poté dormire per tutta la notte.

Mi alzai molto per tempo e andai in tutti i giardini, ma non ebbi maggior successo del giorno precedente.

Incontrai soltanto un vecchio giardiniere, il quale mi disse, che, per quanto io mi potessi affannare, non ne avrei trovata se non nel giardino di vostra maestà a Bassora.

Siccome io amavo mia moglie, e non volevo rimproverarmi d'aver trascurato di soddisfarla, indossai un abito da viaggiatore, e dopo averle comunicato il mio proposito, partii per Bassora.

Feci talmente presto, che fui di ritorno in capo a quindici giorni.

Portavo tre mele, che mi erano costate un dinàr ciascuna, poiché il giardiniere non aveva voluto darmele per meno.

Appena giunto le offrii a mia moglie, ma già le era passata la voglia.

Perciò si contentò di riceverle, e le posò vicino a sé.

Intanto cominciava ad essere ammalata di nuovo e io non sapevo quale rimedio trovare al suo male.

Pochi giorni dopo il mio viaggio, stando seduto nella mia bottega, vidi passare un grosso schiavo nero di aspetto molto malvagio, il quale aveva in mano una delle mele che avevo portato da Bassora.

Non avevo dubbi perché sapevo che non ce n'erano né a Bagdàd né in tutti i giardini dei dintorni; chiamai allora lo schiavo e gli dissi:

«Dimmi», ti prego, «dove hai preso questa mela?».

«E», mi rispose, «un dono che m'ha fatto la mia innamorata.

Sono stato oggi a trovarla e l'ho trovata un po' ammalata.

Ho visto vicino a lei tre mele, e le ho domandato da chi le avesse avute; mi ha risposto che suo marito aveva fatto un viaggio di quindici giorni a bella posta per andargliele a cercare.

Abbiamo fatto colazione insieme, e nel lasciarla ho portato via questa.»

Simile discorso mi fece uscire fuori di me.

Mi alzai dal mio posto, e, dopo aver chiuso la mia bottega, corsi a casa in tutta fretta e salii nella camera di mia moglie.

Guardai dapprima dove stavano le mele, e, avendone scorte due sole, domandai dove fosse l'altra:

«Cugino mio», rispose freddamente, «non so che cosa ne sia avvenuto».

Allora non ebbi più difficoltà a credere quanto mi aveva detto lo schiavo.

Immediatamente mi lasciai trasportare dalla gelosia, e, estraendo il coltello che portavo appeso alla cintura, l'immersi nel seno di quella miserabile.

Quindi le tagliai la testa, la feci a pezzi, poi la nascosi in un paniere.

Dopo averne cucito l'apertura con un filo di lana rossa, lo chiusi in un baule che mi caricai sulle spalle, appena fu notte, e andai a gettarlo nel Tigri.

I due figli più piccoli si erano già coricati e dormivano, il terzo era fuori di casa: lo trovai al mio ritorno seduto presso la porta, che piangeva a calde lacrime.

Gli chiesi il motivo del suo pianto.

«Padre mio», mi disse, «stamani ho preso a mia madre, senza che lei se ne avvedesse, una delle tre mele che tu le avevi portato.

L'ho conservata per lungo tempo, ma, mentre giocavo nella strada coi miei fratellini, un grosso schiavo che passava me l'ha strappata di mano e l'ha portata via:

gli sono corso dietro domandandogliela, gli dissi che apparteneva a mia madre ammalata, che tu avevi fatto un viaggio di quindici giorni per andargliela a prendere, ma tutto è stato inutile.

Non ha voluto rendermela, e siccome io lo seguivo, gridandogli dietro, s'è voltato, m'ha picchiato, e poi s'è messo a correre con tutta la sua forza per molte strade fuori mano, e l'ho perso di vista.

Da allora sono stato a passeggiare fuori della città per vedere se lo incontravo, e ti aspettavo, padre mio, per pregarti di non dir nulla a mia madre, perché ciò potrebbe farla stare più male.»

Terminate queste parole, le sue lacrime raddoppiarono.

Il discorso di mio figlio mi gettò in un inconcepibile dolore.

Riconobbi allora l'enormità del mio delitto, e mi pentii, ma troppo tardi, d'aver dato retta alle imposture dello schiavo sciagurato, il quale, da quello che aveva saputo da mio figlio, aveva inventato la favola funesta che avevo creduto vera.

Mio zio, qui presente, giunse in quel momento:

egli veniva per visitare sua figlia, ma invece di trovarla viva, seppe da me che era morta, poiché nulla gli celai e, senza aspettare che egli mi condannasse, mi dichiarai io stesso il più colpevole di tutti gli uomini.

Ciò nonostante, invece di caricarmi di giusti rimproveri, egli unì il suo pianto al mio, e piangemmo insieme per tre giorni.

Lui piangeva la perdita di una figlia teneramente amata, e io quella di una moglie oltremodo cara e della quale m'ero privato in modo barbaro, per aver troppo facilmente creduto al racconto di uno schiavo mentitore.

Ecco, la sincera confessione che la maestà vostra ha chiesto da me.

Voi conoscete ora tutte le circostanze del mio delitto e vi supplico di ordinare la punizione.

Per quanto possa essere rigorosa, non me ne lamenterò e la troverò leggera.

Il califfo rimase estremamente attonito per quanto aveva raccontato il giovane:

«Questa azione», disse, «è perdonabile davanti a Dio, e scusabile da parte degli uomini.

Il malvagio schiavo è l'unica causa dell'uccisione, lui è il solo che bisogna punire.

Per la qual cosa - continuò volgendosi al gran visir - ti do tre giorni per trovarlo, altrimenti ti farò morire in sua vece».

Lo sventurato Giàafar, il quale si era creduto fuori pericolo, rimase oppresso da questo nuovo ordine del califfo; ma poiché non osava replicare al principe, di cui conosceva l'umore, si allontanò dalla sua presenza e si ritirò in casa, con le lacrime agli occhi persuaso di non avere più di tre giorni di vita.

Era talmente convinto di non trovare lo schiavo, che non ne fece la minima ricerca.

«Non è possibile», diceva, «in una città come Bagdàd, dove c'è un'infinità di schiavi neri, scoprire quello che cerchiamo.

Se Dio non me lo farà scoprire, come già m'ha fatto scoprire l'assassino, nulla può salvarmi.»

Passò i due primi giorni ad affliggersi con la sua famiglia che gemeva intorno a lui, lagnandosi del rigore del califfo.

Venuto il terzo giorno, si dispose a morire con fermezza, come un ministro integro, che nulla ha da rimproverarsi.

Fece venire a sé dei cadì e dei testimoni che sottoscrissero il suo testamento, fatto in loro presenza.

Dopo di ciò abbracciò la moglie e i figli e diede loro l'ultimo addio.

Tutta la famiglia piangeva a calde lacrime.

In quella giunse un usciere del palazzo, che gli disse che il califfo s'impazientava per non aver notizie di lui o dello schiavo nero:

«Ho l'ordine», aggiunse costui, «di condurvi innanzi al suo trono».

L'afflitto visir si dispose allora a seguire l'usciere; ma quando stava per uscire, gli condussero la più piccola delle sue figlie che poteva avere cinque o sei anni, affinché la vedesse per l'ultima volta.

Siccome nutriva per lei una particolare tenerezza, si accostò a sua figlia, la prese tra le braccia e la baciò parecchie volte.

Baciandola, si accorse che lei aveva in tasca qualche cosa di voluminoso.

«Mia carina», le disse, «che cosa hai in tasca?»

«Mio caro padre», gli rispose, «ho una mela sulla quale è scritto il nome del califfo nostro signore e padrone.

Raihàn, il nostro schiavo me l'ha venduta per due dinàr.»

Udendo le parole «mela» e «schiavo» il gran visir Giàafar diede un grido di sorpresa, mista a una gioia indicibile, e, mettendo subito la mano nella tasca di sua figlia, ne trasse la mela.

Egli fece chiamare lo schiavo, che non era lontano, e quando gli fu davanti gli disse:

«Briccone, ove hai preso questa mela?».

«Signore», rispose lo schiavo, «vi giuro di non averla rubata né in casa vostra, né nel giardino del califfo.

L'altro giorno, passando per una strada un fanciulletto la teneva in mano; gliela strappai e la portai via.

Il fanciullo mi corse dietro, dicendomi che la mela non era sua, ma di sua madre ammalata; che suo padre, per soddisfare la voglia ch'ella ne aveva, aveva fatto un lungo viaggio, e ne aveva portate tre; lui ne aveva presa una senza che sua madre ne sapesse nulla.

Ebbe un bel pregare, io non volli rendergliela:

la portai a casa e la vendetti per due dinàr alla piccola signorina, vostra figlia.

Ecco quanto ho da dirvi.»

Giàafar pensò con stupore che la marioleria di uno schiavo era stata causa della morte di una donna innocente.

Condusse con sé lo schiavo, e, quando fu davanti al califfo, fece a questo principe un minuzioso ed esatto racconto di quanto gli aveva detto lo schiavo, e del fortunato caso che gli aveva permesso di scoprire il colpevole.

Nessuna sorpresa eguagliò quella del califfo.

Non poté trattenersi né impedirsi dal dare in grandi scoppi di risa.

Finalmente riprese il suo aspetto serio, e disse al gran visir che, poiché il suo schiavo aveva provocato un tale disordine, meritava una punizione esemplare.

«Non posso negarlo», rispose il visir, «ma il suo delitto non è irremissibile.

So una storia più sorprendente accaduta a un visir del Cairo chiamato Nur ed-Din, e a Shams ed-Din di Bassora.

Siccome vostra maestà si compiace di ascoltare i bei racconti, io sono pronto a raccontarla, a condizione che, se la trovate più bella di quella che avete ora udita, voi facciate grazia al mio schiavo.»

«Acconsento», riprese il califfo, «ma voi v'impegnate in una grande impresa, e non credo che possiate salvare il vostro schiavo, perché la storia delle mele è ben singolare.»

Giàafar allora, prendendo la parola, cominciò il suo racconto.

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Le mille e una notte - Introduzione

Il Mercante e Il Genio

Storia del Pescatore

Le avventure del Califfo Harun Ar Rashid

Storia D'Ali Cogia Mercante di Bagdad

Storia del Barbiere e Storia del Primo Fratello Gobbo

Storia del Facchino di Bagdad

Storia del Fratello dalle Labbra Tagliate

Storia del Mancino

Storia del Medico Ebreo e la Storia del Giovane di Mossul

Storia del Mercante Cristiano

Storia del Piccolo Gobbo

Storia del Principe Ahmed e della Fata Pari Banu

Storia del Principe Qamar Az Zaman

Storia del Principe Zeyn Al-Asnam e del Re dei Geni

Storia del Quarto Fratello Guercio e Storia del Quinto Fratello dalle orecchie tagliate

Storia del Sarto e Storia del Giovane Zoppo

Storia del Secondo Fratello Sdentato e Storia del Terzo Fratello Cieco

Storia del Sovrintende e Storia dell'Invitato

Storia della Principessa Giulnar La Marina

Storia delle Tre Mele

Storia delle Tre Sorelle

Storia Dell'Uomo Addormentato Ridestato

Storia di Aladino e Della Lampada Meravigliosa

Storia di Ali Baba e dei Quaranta Ladroni Sterminati da una Schiava

Storia di Ali Ibn Bakkar e di Shams An Nahar

Storia di Badr Principe di Persia e della Principessa Giawara Figlia del Re As Samandal

Storia di Codadad e dei suoi Fratelli

Storia di Ghanim Lo Schiavo d'Amore

Storia di Nur ed Din e della Bella Persiana

Storia di Sindibad il marinaio

Le mille e una notte - Conclusione

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