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Le Mille e Una Notte - Storia d'Ali Cogia Mercante di Bagdad.

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LE MILLE E UNA NOTTE - STORIA D'ALI COGIA MERCANTE DI BAGDAD

Sotto il regno del famoso e nobile califfo Harùn ar-Rashìd viveva a Bagdàd un mercante chiamato Ali Cogia, che non era né tra i più ricchi né tra i più poveri.

Egli abitava nella casa paterna, senza moglie e senza figli.

Padrone delle sue azioni, viveva contento di quello che rendeva il suo negozio, quando ebbe per tre giorni di seguito un sogno, nel quale gli appariva un vecchio venerabile con uno sguardo severo, che lo rimproverava perché non aveva ancora assolto il dovere di andare pellegrino alla Mecca.

Quel sogno turbò Ali Cogia e lo mise in un grande imbarazzo.

Da buon musulmano non ignorava l'obbligo di fare questo pellegrinaggio:

ma egli doveva occuparsi di una casa, di beni mobili e d'una bottega, e aveva sempre creduto che queste ragioni fossero sufficienti per dispensarlo, cercando di supplirvi con elemosine e altre opere buone.

Ma, dopo il sogno, la sua coscienza gli rimordeva così vivamente, che, per timore non gli accadesse qualche sciagura, risolvette d'andare in pellegrinaggio alla Mecca.

Per mettersi in condizione di soddisfarvi entro l'anno, Ali Cogia cominciò a vendere i suoi mobili, poi la sua bottega e la maggior parte delle mercanzie di cui era fornita, riservandosi quelle che potevano essere vendute alla Mecca.

La casa, l'affittò.

Disposte le cose in tal modo, poté partire con la carovana di Bagdàd per la Mecca, ma prima volle mettere al sicuro una somma di mille monete d'oro, che non voleva portare con sé nel pellegrinaggio.

Ali Cogia scelse un vaso sufficientemente grande, vi pose le mille monete d'oro e finì di colmarlo di olive.

Dopo che ebbe ben chiuso il vaso, lo portò a un mercante suo amico, e gli disse:

"Voi sapete che tra pochi giorni partirò in pellegrinaggio per la Mecca in carovana.

Io vi domando la grazia di voler tenere questo vaso d'olive, e di conservarmelo fino al mio ritorno".

Il mercante rispose cortesemente:

"Tenete, ecco la chiave del mio magazzino, portatevi voi stesso il vostro vaso e mettetelo dove vorrete;

vi prometto che ve lo ritroverete".

Giunse il giorno della partenza della carovana e Ali Cogia con un cammello carico delle mercanzie che aveva scelto, vi si unì ed arrivò felicemente alla Mecca.

Visitò con tutti gli altri pellegrini il tempio così celebre e frequentato ogni anno da tutte le popolazioni musulmane, che vi convengono da tutti i luoghi della terra, osservando religiosamente le cerimonie che sono prescritte.

Quando ebbe terminato i doveri del suo pellegrinaggio, espose le sue merci, che aveva portate per venderle o per barattarle.

Due mercanti che passavano e che videro le merci di Ali Cogia le trovarono così belle, che si fermarono per esaminarle, quantunque non ne avessero bisogno.

Quando ebbero soddisfatto la loro curiosità, l'uno disse all'altro, andandosene:

"Se questo mercante sapesse quali guadagni potrebbe fare al Cairo con le sue mercanzie, ve le porterebbe subito, invece di venderle qui".

Ali Cogia sentì queste parole, e siccome aveva mille volte sentito parlare delle bellezze dell'Egitto, decise di profittare dell'occasione e di andarvi.

Così, dopo aver impacchettato di nuovo le sue merci, invece di ritornare a Bagdàd, prese la via dell'Egitto, unendosi alla carovana del Cairo.

Quando vi fu giunto, non ebbe da pentirsi della sua decisione, anzi vi ebbe tanto vantaggio che in pochi giorni terminò di vendere tutte le sue merci, con un guadagno assai maggiore di quanto avesse sperato.

Comprò altre merci, col proposito di passare a damasco, e mentre aspettava la comodità di una carovana che doveva partire dopo sei settimane, non si contentò di vedere quanto era degno di curiosità al Cairo, ma andò anche ad ammirare le piramidi, e risalì il Nilo per un tratto, visitando le più celebri e grandi città situate sull'una e sull'altra sponda.

Nel viaggio per Damasco, siccome la carovana doveva passare per Gerusalemme, il nostro mercante di Bagdàd profittò dell'occasione per visitare il tempio che è considerato da tutti i musulmani come il più santo dopo quello della Mecca, per cui questa città prende il Le Mille e Una Notte Storia D'Ali Cogia Mercante di Bagdad di città santa.

Ali Cogia trovò la città di Damasco così deliziosa per l'abbondanza delle acque, per le praterie e per i bellissimi giardini, che tutto quello che aveva letto gli parve al disotto della verità, e vi fece un lungo soggiorno.

Nondimeno non dimenticò di essere di Bagdàd, e partì alla fine per farvi ritorno.

Giunse ad Aleppo, dove sostò per qualche giorno e di là, dopo aver passato l'Eufrate, prese la via di Mussul, con l'intenzione d'accorciare il viaggio di ritorno discendendo il Tigri.

Arrivò così a Mussul e qui alcuni mercanti persiani che erano venuti con lui da Aleppo e che con la loro cortesia e la loro conversazione piacevole avevano stretto con lui una grande amicizia e acquistato molto ascendente sul suo animo, non durarono fatica a persuaderlo di non abbandonare la loro compagnia fino a Schiràz, da dove gli sarebbe stato facilissimo ritornare a Bagdàd con un considerevole guadagno.

Essi lo condussero attraverso le città di Sullenia, di Rie, di Coam, di Cascan, d'Ispahàn, e di là a Schiràz, e di lì ebbe ancora la compiacenza di accompagnarli in India e di ritornare con loro.

In tal modo, tenuto conto delle soste che aveva fatto in ogni città passarono circa sette anni da quando Ali Cogia era partito da Bagdàd; e allora finalmente decise di tornare a casa. Fino ad allora l'amico, al quale aveva affidato il vaso d'olive prima della sua partenza, perché glielo custodisse, non aveva pensato né a lui né al vaso.

Mentre Ali Cogia era in cammino con una carovana partita da Schiràz, quel mercante suo amico cenava una sera in famiglia, e venne a parlare d'olive.

Sua moglie manifestò il desiderio di mangiarne, dicendo che era molto tempo che non se ne erano viste in famiglia.

"A proposito d'olive", disse il marito, "mi fate ricordare che Ali Cogia me ne lasciò un vaso andando alla Mecca, or sono sette anni e che lo mise egli stesso nel mio magazzino per riprenderlo al suo ritorno. Ma dov'è Ali Cogia da quando è partito? E' vero che al ritorno della carovana qualcuno mi disse che era andato in Egitto. Ma è passato tanto tempo ed è certamente morto; possiamo mangiarci le olive, se sono buone. Datemi un piatto e una candela, andrò a prenderne, e le assaggeremo."

"Caro marito", rispose la donna, "guardatevi bene dal commettere una azione così malvagia! Voi sapete che nulla è tanto sacro quanto un deposito. Sono sette anni, dite voi, che Ali Cogia è andato alla Mecca e non ne è ritornato; ma vi hanno detto che è andato in Egitto: e dall'Egitto potrebbe essere andato più lontano. Non avete notizie della sua morte e perciò potrebbe ritornare da un momento all'altro. Che vergogna sarebbe per voi e per la vostra famiglia se, ritornando non gli rendeste il suo vaso nello stesso stato in cui ve l'ha affidato! Vi dichiaro che non ho desiderio di queste olive, e che non ne mangerò. Ne ho parlato solo per conversare. E poi, credete che dopo tanto tempo le olive siano ancora buone? Esse saranno certo fradicie. E se Ali Cogia torna, come un presentimento mi dice, e si accorge che le avete toccate, quale giudizio si farà della vostra amicizia e della vostra fiducia? Abbandonate il vostro proposito, ve ne scongiuro!"

La donna tenne un discorso così lungo a suo marito perché vedeva l'ostinazione sul suo viso. Difatti lui, senza ascoltare i suoi buoni consigli, si alzò ed andò nel magazzino con una candela e un piatto.

Allora la moglie gli disse:

"Ricordatevi che io non prendo parte a ciò che state per fare, e non datene a me la colpa, se vi accadrà di pentirvene".

Il mercante non le prestò orecchio nemmeno questa volta e persistette nel suo proposito.

Quando fu nel magazzino, prese il vaso, lo scoprì e vide che le olive erano tutte fradicie.

Per vedere se quelle degli strati sottostanti fossero guaste come quelle di sopra, ne versò nel piatto, e scuotendo il vaso fece cadere alcune monete.

Alla vista di quelle monete, il mercante, per natura avido, guardò nel vaso e vide che aveva versato quasi tutte le olive nel piatto e che il resto del vaso era pieno di belle monete d'oro. Allora rimise nel vaso tutte le olive che aveva versato sul piatto, lo ricoprì e tornò indietro.

"Moglie mia", disse rientrando, "avete ragione; le olive sono guaste e ho ricoperto il vaso in modo che Ali Cogia, se mai ritorna, non si accorgerà mai che è stato toccato."

"Avreste fatto meglio a credermi", rispose la donna, "e a non toccarle. Dio voglia che non vi accada nulla di male!"

Il mercante non si lasciò turbare da queste parole della donna, come non lo era stato dalle rimostranze di prima. Egli passò tutta la notte a pensare al mezzo di appropriarsi dell'oro di Ali Cogia, in modo che restasse a lui, nel caso ritornasse e gli domandasse il vaso. L'indomani di buon mattino andò a comprare delle olive dell'anno, e, quando fu ritornato, tolse quelle vecchie dal vaso di Ali Cogia, ne tolse l'oro, che mise in un luogo sicuro, poi, dopo averlo ben colmato di olive, lo ricoprì con lo stesso coperchio e lo rimise allo stesso posto dove Ali Cogia lo aveva sistemato.

Circa un mese dopo che il mercante ebbe commesso un'azione così vile e che doveva anche costargli cara, Ali Cogia giunse a Bagdàd dal suo lungo viaggio.

Poiché aveva affittato la sua casa prima di partire, scese in un albergo dove prese alloggio, aspettando di poter avvertire il suo locatario che doveva cercarsi un'altra casa.

Il giorno dopo Ali Cogia andò a trovare il mercante suo amico, che lo ricevette con grandi abbracci e manifestazioni di gioia per il ritorno dopo una assenza di tanti anni;

gli disse anche che aveva cominciato a perdere la speranza di rivederlo.

Dopo questi complimenti dall'una e dall'altra parte come si fanno solitamente in simili occasioni, Ali Cogia pregò il mercante di volergli rendere il vaso di olive che aveva affidato alla sua custodia, e di scusarlo della libertà che si era presa dandogli un simile fastidio.

"Ali Cogia, mio caro amico", rispose il mercante, "voi avete torto di farmi delle scuse poiché il vostro vaso non mi ha recato nessun fastidio.

Tenete, ecco la chiave:

andate voi stesso a prenderlo;

lo troverete esattamente dove lo avete messo."

Ali Cogia andò nel magazzino del mercante, prese il suo vaso e, dopo avergli resa la chiave e averlo ringraziato del piacere che gli aveva fatto, ritornò all'albergo dove aveva preso alloggio, scoprì il vaso, e affondandovi la mano fino all'altezza delle mille monete d'oro che vi aveva nascoste, e che vi dovevano essere, fu maravigliato di non trovarle.

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Credette di ingannarsi, e per accertarsene subito, prese tutti i piatti ed altri vasi che aveva nella sua attrezzatura da viaggio, e versò tutto il vaso d'olive, senza trovarvi neppure una moneta d'oro.

Rimase immobile dalla meraviglia, ed alzando le mani e gli occhi al cielo esclamò:

"E' possibile che un uomo che ho sempre considerato come un buon amico mi abbia fatta una birbonata simile?".

Ali Cogia, addolorato dal timore di aver subito una perdita considerevole, ritornò presso il mercante e gli disse:

"Amico mio, non siate sorpreso se mi vedete ritornare subito. Ammetto di aver riconosciuto che il vaso d'olive che ho preso nel vostro magazzino è quello che vi avevo messo io stesso.

Ma in esso avevo nascosto mille monete d'oro, che non trovo;

forse voi ne avete avuto bisogno e ve ne siete servito per il vostro negozio.

Se è così, esse sono a vostra disposizione;

vi prego solamente di trarmi di pena, e di riconoscerlo pubblicamente, dopo di che me le renderete con vostro comodo".

Il mercante, che si aspettava che Ali Cogia sarebbe andato a fargli questo discorso, aveva preparato col pensiero quello che gli avrebbe risposto.

"Ali Cogia, amico mio", gli disse, "quando mi avete portato il vostro vaso di olive l'ho forse toccato?

Non vi ho data la chiave del magazzino?

Non l'avete portato voi stesso, non l'avete trovato allo stesso posto in cui l'avevate messo, nello stesso stato e coperto come stava?

Se vi avevate messo dell'oro, dovete averlo trovato.

Voi m'avete detto che vi erano delle olive ed io l'ho creduto.

Ecco tutto quello che ne so; credetemi, io non l'ho neppure toccato."

Ali Cogia usò modi persuasivi e amichevoli perché il mercante confessasse la verità.

"Io amo la pace, e sarei addolorato di dover ricorrere a dei mezzi estremi che non vi farebbero onore nel mondo, e di cui mi servirei solo con grande dispiacere. Riflettete che i mercanti come noi debbano abbandonare ogni interesse per conservare la loro buona reputazione. Ancora una volta vi dico che sarei disperato se la vostra ostinazione mi costringesse a ricorrere alla giustizia, perché finora ho sempre preferito perdere qualche cosa, piuttosto di ricorrervi."

"Ali Cogia", rispose il mercante, "voi convenite che avete messo in casa mia un vaso d'olive in deposito, ve lo siete ripreso e ve lo siete portato via, e ora venite a domandarmi mille monete d'oro. Mi avevate forse detto che fossero nel vaso? Non so neppure con certezza che vi fossero delle olive, perché non me le avete mostrate; mi meraviglio che non mi domandiate delle perle o dei diamanti invece dell'oro. Date retta a me: ritiratevi, e non fate assembrare gente davanti alla mia bottega."

Alcuni si erano infatti fermati, e queste ultime parole del mercante pronunciate col tono d'un uomo che sta per perdere la pazienza, fecero sì che se ne radunò un più gran numero, e che anche i mercanti vicini uscirono dalle loro botteghe e vennero a informarsi dei motivi della disputa sorta tra lui ed Ali Cogia, ed a cercare di metterli d'accordo.

Quando Ali Cogia ebbe esposto i fatti, quelli che stavano più avanti domandarono al mercante che cosa avesse da rispondere.

Il mercante ammise di aver custodito il vaso di Ali Cogia nel suo magazzino: ma negò di averlo toccato e giurò di sapere che vi erano delle olive solo perché Ali Cogia glielo aveva detto, e che li prendeva tutti a testimoni dell'oltraggio e dell'insulto che gli veniva fatto in casa sua.

"Ve l'attirate voi stesso, l'oltraggio", disse allora Ali Cogia, prendendo il mercante per il braccio, "ma poiché agite con tanta malafede, vi cito alla giustizia di Dio. Vedremo se avrete il coraggio di dire la stessa cosa davanti al cadì."

A questa ingiunzione cui ogni buon musulmano deve obbedire, se non vuol essere ribelle alla religione, il mercante non ebbe l'audacia di far resistenza.

"Andiamo", disse, "non chiedo di meglio: vedremo chi ha torto, se voi o io."

Ali Cogia condusse il mercante davanti al tribunale del cadì, dove l'accusò di avergli rubato un deposito di mille monete d'oro, esponendo i fatti come si erano svolti.

Il cadì gli chiese se avesse testimoni.

Ali Cogia rispose che aveva stimata inutile quella precauzione, poiché credeva di aver affidato il suo deposito a un amico, avendolo almeno fino allora conosciuto come un uomo onesto.

Il mercante non disse altro in sua difesa, se non quello che aveva già detto ad Ali Cogia e in presenza dei suoi vicini, e terminò dicendo che era pronto ad affermare con giuramento, che non solo era falso che egli avesse preso le mille monete d'oro, come veniva accusato, ma che non sapeva neppure che esistessero.

Il cadì gli chiese il giuramento, dopo di che lo rimandò assolto.

Ali Cogia, estremamente afflitto vedendosi condannato a una perdita così considerevole, protestò contro il giudizio, dichiarando al cadì che avrebbe portato la questione davanti al califfo Harùn ar-rashìd, che senza dubbio gli avrebbe fatta giustizia: ma il cadì non si meravigliò della protesta, perché questo era l'effetto comune quando si perde una causa, ed era convinto di avere fatto il suo dovere rinviando assolto un accusato contro il quale non si erano prodotti testimoni.

Mentre il mercante ritornava a casa sua trionfante, con la gioia d'avere le mille monete d'oro così a buon mercato, Ali Cogia andò a preparare una supplica: e il giorno seguente, profittando del momento in cui il califfo doveva ritornare dalla moschea, dopo la preghiera del mezzogiorno, si appostò in una strada per dove quello doveva passare e, quando passò, alzò il braccio presentando la supplica; un ufficiale che camminava davanti al califfo, si staccò dal suo posto, e andò a prenderla per consegnargliela.

Siccome Ali Cogia sapeva che il califfo Harùn ar-Rashìd era solito, rientrando nel suo palazzo, leggere personalmente le suppliche che venivano presentate in quel modo, seguì il corteo, entrò nel palazzo, e aspettò che l'ufficiale, che aveva preso la supplica, uscisse dall'appartamento del califfo.

Uscendo l'ufficiale gli disse che il califfo aveva letto la sua supplica e gli fissò l'ora in cui gli avrebbe data udienza il giorno seguente; dopo d'aver saputo da lui l'indirizzo del mercante, mandò a dirgli di trovarsi alla stessa ora l'indomani al palazzo.

La sera dello stesso giorno, il califfo col gran visir Giàafar e Masrùr, capo degli eunuchi, l'uno e l'altro travestiti come lui, andò a fare il giro per la città.

Passando per una strada, il califfo udì del rumore, ed affrettando il passo giunse a una porta che immetteva in un cortile, dove dieci o dodici fanciulli, che non s'erano ancora ritirati, giocavano al chiaro di luna, e lui li scorse, guardando per una fessura.

Il califfo, curioso di saper a quale gioco quei fanciulli giocassero, si sedette sopra un banco di pietra che trovò vicino alla porta e, mentre continuava a guardare per la fessura, udì uno dei ragazzi, il più vivace ed il più sveglio di tutti, dire agli altri:

"Giochiamo al cadì! Io sono il cadì, conducetemi Ali Cogia ed il mercante che gli ha rubato mille monete d'oro".

A queste parole del fanciullo, il califfo si ricordò della supplica che gli era stata presentata lo stesso giorno e che aveva letto, e ciò gli fece raddoppiare l'attenzione, per vedere come sarebbe finito il giudizio.

Siccome l'affare d'Ali Cogia e del mercante era una novità e aveva fatto scalpore nella città di Bagdàd anche tra i fanciulli, gli altri accettarono la proposta con gioia, e si misero d'accordo sul personaggio che ciascuno doveva rappresentare.

Nessuno ebbe da ridire a che quello che s'era offerto di fare il cadì ne rappresentasse la parte.

Quando ebbe preso posto e si fu seduto con la gravità di un cadì, un altro, come ufficiale competente del tribunale gli presentò due negozianti, chiamando l'uno Ali Cogia e l'altro il mercante, contro cui il primo portava querela.

Allora il finto cadì prese la parola e interrogando gravemente il finto Ali Cogia:

"Ali Cogia", gli disse, "che volete voi dal mercante qui presente?".

Il finto Ali Cogia, dopo una profonda riverenza, informò il finto cadì del fatto, e, terminando, concluse supplicando d'interporre l'autorità del suo giudizio, perché non dovesse subire una perdita così considerevole.

Il finto cadì, dopo avere ascoltato il finto Ali Cogia, si volse dalla parte del finto mercante, e gli chiese perché non rendeva ad Ali Cogia la somma che gli domandava.

Il finto mercante portò le stesse ragioni che quello vero aveva portate davanti al cadì di Bagdàd e gli chiese ugualmente di poter confermare con giuramento, quanto diceva.

"Non andiamo così in fretta", riprese il finto cadì, "prima di ascoltare il vostro giuramento voglio vedere il vaso di olive."

Poi, rivolgendosi al finto Ali Cogia, gli disse:

"Avete portato il vaso?".

Quello rispose che non l'aveva portato ed egli soggiunse:

"Andate a prenderlo e portatemelo".

Il finto Ali Cogia se ne andò per un momento, e ritornò fingendo di portare un vaso davanti al finto cadì, e dicendo che era lo stesso che aveva depositato in casa dell'accusato e che aveva ripreso.

Per non tralasciare nulla della formalità, il finto cadì domandò al finto mercante se lo riconosceva, e poiché quello, tacendo, lo confermava, comandò che lo si scoprisse.

Ali Cogia fece finta di togliere il coperchio, e il falso cadì fingendo di guardare nel vaso, disse:

"Ecco delle belle olive, lasciate che ne assaggi".

Finse di prenderne una e di gustarla, dopo di che soggiunse:

"Sono eccellenti; mi sembra che olive conservate per sette anni non dovrebbero essere così buone. Che si facciano venire dei mercanti di olive e che giudichino loro".

Due fanciulli gli furono presentati come mercanti di olive.

"Siete dei mercanti di olive?", chiese loro il finto cadì.

Ed avendo essi risposto che quella era infatti la loro professione, aggiunse:

"Ditemi, per quanto tempo le olive, conservate da persone che se ne intendono, possono mantenersi buone da mangiare?".

"Signore", risposero i finti mercanti, "qualunque cura si possa avere per conservarle, esse non valgono più nulla dopo tre anni perché non hanno più né sapore né colore, e non son buone che da gettar via."

"Se le cose stanno come voi dite", riprese il finto cadì, "osservate questo vaso e ditemi da quanto tempo vi sono state messe le olive."

I finti mercanti finsero di esaminare le olive e di gustarne, e dichiararono al cadì che esse erano buone e dovevano esser state messe di recente.

"Voi vi ingannate", disse il finto cadì, "ecco Ali Cogia che dice di averle messe nel vaso or sono sette anni."

"Signore", risposero a loro volta i mercanti, chiamati come periti, "noi possiamo assicurare che le olive sono di quest'anno e siamo sicuri che non uno tra tutti i mercanti di Bagdàd potrà dire il contrario."

Il finto mercante accusato dal finto Ali Cogia volle protestare contro la testimonianza dei periti. Ma il finto cadì non gliene diede il tempo, dicendogli:

"Taci, tu sei un ladro".

Rivolgendosi quindi al finto ufficiale con tono di comando, disse:

"Che sia impiccato!".

In tal modo i fanciulli posero fine al loro gioco con gran divertimento, battendo le mani e gettandosi sul finto delinquente come per condurlo alla forca.

Non si può descrivere l'ammirazione del califfo Harùn ar-Rashìd per la saggezza e lo spirito del fanciullo che aveva dato un giudizio così sapiente sull'affare che doveva essere perorato davanti a lui l'indomani. Cessando di guardare attraverso la fessura e alzandosi, chiese al gran visir, che era stato come lui attento a quello che era accaduto, se avesse udito il giudizio che il fanciullo aveva dato, e che cosa ne pensasse.

"Gran principe dei credenti", rispose il gran visir Giàafar, "non potrei essere più sorpreso di quanto sono per la saggezza di questo ragazzo."

"Ma", soggiunse il califfo,

"sai che domani debbo giudicare questo affare, perché il vero Ali Cogia ha presentata una supplica?"

"Lo sento ora dalla maestà vostra", rispose il gran visir.

"E credi", soggiunse il califfo,

"che io possa dare un giudizio diverso da quello che abbiamo sentito?"

"Se l'affare è lo stesso", riprese il gran visir,

"non mi sembra che vostra maestà possa procedere in altro modo, né pronunciare altra sentenza."

"Osserva bene questa casa", gli disse il califfo,

"e conducimi domani il ragazzo perché giudichi l'affare in mia presenza.

Manda a chiamare anche il cadì che ha assolto il mercante ladro, affinché impari a fare il suo dovere dall'esempio di un fanciullo, e si corregga.

Voglio anche che tu faccia avvertire Ali Cogia di portare il suo vaso di olive, e che ti occupi di far venire due mercanti di olive."

Il califfo gli diede quest'ordine continuando il suo giro, che terminò senza incontrare null'altro che meritasse la sua attenzione.

Il giorno seguente il gran visir Giàafar andò nella casa dove il califfo era stato testimone del gioco dei fanciulli e chiese di parlare al padrone; poiché costui era uscito, lo fecero parlare con la padrona.

Egli le chiese se avesse figli, e lei rispose che ne aveva tre, e li fece venire davanti a lui.

"Ragazzi miei", chiese loro il gran visir, "chi di voi faceva il cadì ieri sera quando giocavate insieme?"

Il primogenito rispose di essere stato lui: e, ignorando perché gli facesse tale domanda, impallidì.

"Figlio mio", gli disse il gran visir, "vieni con me, il gran principe dei credenti vuole vederti."

La madre fu presa da grande inquietudine quando vide che il gran visir voleva condurre via suo figlio, e gli chiese:

"E' per portarmelo via che il gran principe dei credenti lo cerca?". Il gran visir la rassicurò promettendole che il figlio sarebbe di ritorno in meno di un'ora, che avrebbe saputo al suo ritorno la ragione per cui era stato chiamato, e ne sarebbe stata lieta.

"Se la cosa sta così, signore", soggiunse la madre, "permettetemi di mettergli un abito più in ordine, perché sia degno di comparire davanti al gran principe dei credenti."

E ciò fece in pochissimo tempo.

Il gran visir condusse il fanciullo e lo presentò al califfo nell'ora indicata ad Ali Cogia e al mercante per l'udienza.

Il califfo, vedendo che il fanciullo era un po' spaventato, per prepararlo a ciò che voleva da lui, gli disse:

"Vieni, figlio mio, accostati; sei tu quello che giudicava ieri l'affare di Ali Cogia, e del mercante che gli ha rubato il suo oro? Io ti ho visto, ti ho ascoltato e sono assai soddisfatto di te".

Il ragazzo, senza scomporsi, rispose modestamente che era lui.

"Figlio mio", rispose il califfo, "io voglio farti vedere oggi il vero Ali Cogia ed il vero mercante; vieni a sederti presso di me."

Allora il califfo prese il fanciullo per mano, salì e si sedette sul trono, e quando l'ebbe fatto sedere vicino a sé, chiese dove fossero le parti. Furono fatte avanzare, e gli furono presentate, mentre si prostravano e toccavano con la fronte il tappeto che copriva il trono.

Quando si furono rialzati, il califfo disse:

"Difendete la vostra causa; il ragazzo che vedete qui vi ascolterà e pronuncerà la sentenza; se sbaglia in qualche cosa interverrò io".

Ali Cogia e il mercante parlarono l'uno dopo l'altro: e quando il mercante domandò di fare il giuramento che aveva fatto nel suo primo giudizio, il fanciullo disse che non era ancora il momento, e che prima era necessario vedere il vaso d'olive.

A queste parole Ali Cogia presentò il vaso, lo posò ai piedi del califfo e lo scoprì. Il califfo guardò le olive e ne prese una che assaggiò. Il vaso fu dato da esaminare ai periti chiamati per la circostanza e il loro rapporto fu che le olive erano buone e dell'anno.

Il fanciullo disse loro che Ali Cogia assicurava di avervele messe nel vaso da sette anni, ma essi diedero una risposta identica a quella dei fanciulli che avevano giocato a fare i periti, come abbiamo visto.

Il mercante accusato, benché vedesse che i due mercanti periti avevano pronunciata la sua condanna, non mancò di portare qualche scusa per giustificarsi. Il fanciullo però si guardò bene dall'ordinare di impiccarlo; guardando il califfo disse invece:

"Gran principe dei credenti, questo non è un gioco, e spetta alla maestà vostra di condannare a morte, e non a me, che lo feci ieri solo per gioco".

Il califfo, convinto della cattiva fede del mercante l'abbandonò ai ministri della giustizia per farlo impiccare; il che fu eseguito, dopo che egli ebbe dichiarato dove aveva nascosto le mille monete d'oro che furono rese ad Ali Cogia.

Infine questo monarca, pieno di giustizia e di equità, dopo aver detto al cadì, che aveva emesso la prima sentenza e che era presente, d'imparare da un ragazzo ad essere più scrupoloso nelle sue funzioni, abbracciò il fanciullo e lo congedò regalandogli una borsa di cento monete d'oro.

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