LA SINISTRA AL POTERE
Come abbiamo
già visto nel capitolo precedente, il Governo Minghetti, nel 1876,
decadde e alla guida del Regno d'Italia passò la Sinistra storica. Le
forze che avevano contribuito alla caduta del Governo erano molteplici: non solo
la borghesia dell'Italia settentrionale (liberi professionisti) e i latifondisti
del Mezzogiorno, ma anche ex garibaldini e mazziniani e perfino quegli
industriali che temevano un'eccessiva ingerenza dello Stato nelle iniziative
private (per esempio nell'appalto delle ferrovie).
Come si può
notare, si trattava di forze estremamente eterogenee e non accomunate da un
unico disegno politico.
Fu questo il periodo del «trasformismo»,
una pratica di Governo che consisteva nel coalizzare intorno al primo ministro
uomini politici di diverse tendenze ideologiche, raggiungendo accordi, spesso
instabili, sul programma. Tale pratica consentiva, anche tramite compromessi di
carattere clientelare, la creazione di una maggioranza governativa debole e
moderata.
Il nuovo Governo si caratterizzò anche per una eccessiva
ingerenza dei primi ministri nelle elezioni: spesso i risultati elettorali
venivano manipolati per confermare le maggioranze parlamentari. Inoltre i vari
gruppi parlamentari venivano spesso costretti dai capi di Governo ad appoggiare
non tanto la loro linea politica, quanto la loro persona (dittatura
parlamentare). È per questo che i tre grandi ministri della Sinistra che
dominarono la scena politica dal 1876 al 1914 (Depretis, Crispi, Giolitti)
furono denominati «i tre dittatori».
Depretis subentrò a
Minghetti nel 1876, inaugurando il Governo della Sinistra storica. Egli
capeggiò tutti i ministeri fino al 1887, salvo due Gabinetti presieduti
dal Caroli fra il 1879 e il 1881. Appoggiandosi all'amministrazione statale, il
Depretis inaugurò quella politica di riforme che fino ad allora era stata
combattuta dalla Destra conservatrice. Fra queste leggi riformiste ricorderemo
la Legge Coppino (1877) che prevedeva l'obbligatorietà e la
gratuità del primo biennio elementare. Con questa legge il Depretis si
proponeva di combattere la piaga dell'analfabetismo, che, come abbiamo
già altrove ricordato, riguardava il 60% della popolazione. Essa si
rivelò ben presto una legge fallimentare: i fondi delle
municipalità, specialmente quelle meridionali, non erano abbastanza
capaci per sovvenzionare le spese dell'istruzione obbligatoria. Lo Stato fu
quindi costretto a provvedere concedendo prestiti e impoverendo ulteriormente le
proprie casse. Depretis abolì anche la legge sulla tassa del macinato
(formulata da Quintino Sella). Tale misura, se portò qualche sollievo
alla popolazione contadina, non servì a risolvere la pesante crisi
agraria che in quegli anni infieriva sul Meridione. Qui era ancora diffuso il
latifondismo, incrementato dalla vendita dei beni ecclesiastici, i capitali
erano scarsi e notevole era anche la arretratezza tecnica e dei sistemi di
coltivazione. Le popolazioni contadine, vivevano in condizioni disperate: la
malaria, la pellagra, il colera con la loro diffusione epidemica le
minacciavano. Aggiungeremo la denutrizione e l'aumento dei prezzi dei prodotti
alimentari (soprattutto del pane), per capire come il provvedimento del Depretis
non potesse risolvere una simile situazione.
Fra le leggi emanate dal
Parlamento, sotto il Governo Depretis, ricorderemo anche quella elettorale
(1882), volta all'allargamento del suffragio. Soltanto il 2% della popolazione
aveva il diritto di voto: il suffragio fu elevato al 7% ma restavano sempre
esclusi da esso gli analfabeti e i ceti inabbienti. Questa legge dunque
finì col favorire le grandi città rispetto alle campagne e ancora
una volta il nord si trovò avvantaggiato rispetto al sud.
Dopo il
1882, il Governo Depretis, scoraggiato anche dai risultati elettorali (1880),
attuò una svolta conservatrice aprendosi verso le forze della Destra e
ponendo fine alla sua politica riformistica. Il problema della crisi agraria si
faceva sempre più pressante: il Governo passò all'azione puntando
sulla emancipazione industriale ed economica del Paese e cercando di coinvolgere
in questo processo anche il sud. Si costruirono strade, ferrovie; si
potenziarono le casse statali ricorrendo a finanziamenti di grosse banche; si
favorì il protezionismo doganale. Fu proprio il protezionismo a colpire
gravemente il Mezzogiorno che era scarsamente industrializzato. Le sue poche
industrie subirono la concorrenza del nord e restarono ulteriormente isolate.
Inoltre le esportazioni di vino e di agrumi che il sud intratteneva con la
Francia furono scoraggiate dalle forti imposte doganali. Questo avrebbe indotto
la Francia a chiudere le proprie frontiere ai prodotti italiani (guerra
doganale: 1886-1887).
In politica estera, il Governo Depretis si
ispirò alla linea dell'equilibrio: nel 1882 fu stipulata la Triplice
Alleanza tra l'Italia, l'Austria e la Germania. Fu una mossa conservatrice: a
ragione molti vedono in essa la fine del Risorgimento italiano, in quanto
l'Italia avrebbe rinunciato al possesso delle «terre irredente» (per
esempio il Trentino) la cui liberazione aveva animato i programmi risorgimentali
di Garibaldi. L'Italia si accingeva ad entrare nell'orbita germanica e, proprio
sull'esempio della Germania bismarckiana, si diede all'espansione coloniale. Il
colonialismo italiano si differenziò fortemente da quello delle grandi
potenze industriali (Francia, Inghilterra): non era tanto il bisogno di nuovi
mercati a provocarlo, quanto la necessità di terre dove poter trapiantare
parte della popolazione eccedente. La spinta espansionistica italiana non
ottenne mai risultati economici degni di nota e subì parecchie battute di
arresto, come avvenne a Dogali, nel 1887, dove un corpo di spedizione italiano
fu distrutto dalle truppe del ras Alula, durante la guerra
italo-etiopica.
GOVERNI ITALIANI DAL 1860 AL
1988
|
Governi della Destra storica
|
Governi della Sinistra
storica
|
1860-61 Camillo
Benso di Cavour
|
1876-77 Agostino
Depretis
|
1861-62 Bettino
Ricasoli
|
1877-78 Agostino
Depretis (II)
|
1862 Urbano
Rattazzi
|
1878 Benedetto
Cairoli
|
1862-63 Luigi Carlo
Farini
|
1878-79 Agostino
Depretis (III)
|
1863-64 Marco
Minghetti
|
1879 Benedetto
Cairoli (II)
|
1864-66 Alfonso
Lamarmora
|
1879-81 Benedetto
Cairoli (III)
|
1866-67 Bettino
Ricasoli (II)
|
1881-83 Agostino
Depretis (IV)
|
1867 Urbano
Rattazzi (II)
|
1883-84 Agostino
Depretis (V)
|
1867 F. Luigi
Menabrea
|
1884-85 Agostino
Depretis (VI)
|
1868-69 F. Luigi
Menabrea (II)
|
1885-87 Agostino
Depretis (VII)
|
1869 F. Luigi
Menabrea (III)
|
1887 Agostino
Depretis (VIII)
|
1869-73 Giovanni
Lanza
|
1887-89 Francesco
Crispi
|
1873-76 Marco
Minghetti
|
1889-91 Francesco
Crispi (II)
|
1891-92 Antonio di
Rudinì
|
1892-93 Giovanni
Giolitti
|
1893 Antonio di
Rudinì (II)
|
1893-95 Francesco
Crispi (III)
|
1896-97 Antonio di
Rudinì (III)
|
1895-96 Francesco
Crispi (IV)
|
1897-98 Antonio di
Rudinì (IV)
|
|
1899 Antonio di
Rudinì (V)
|
|
IL GOVERNO CRISPI
Francesco Crispi subentrò al
Depretis, nella guida del Governo, a due riprese, dal 1887 al 1891 e dal 1893 al
1896.
Egli aveva sempre mantenuto un atteggiamento di netta opposizione
nei confronti di Depretis e del suo iniziale riformismo. Nonostante in
gioventù avesse militato nel partito mazziniano, si fece sostenitore
dell'istituzione monarchica, l'unica che potesse offrire garanzie per un
fondamento dell'unità nazionale. Tuttavia la politica crispina è
fondata sulla concezione naturalistica dello Stato: lo Stato non sarebbe tanto
il prodotto della volontà di un popolo, quanto un fatto naturale,
immutabile anche nelle sue strutture. Una convinzione di questo tipo non poteva
certo favorire un'evoluzione sociale e politica. Lo stesso Meridione fu visto
come una zona «naturalmente» inferiore rispetto al nord e, in quanto
tale, la sua condizione fu considerata non sanabile. Un'altra caratteristica
della politica crispina fu la concezione autoritaristica del potere. La Germania
del Bismarck si imponeva come modello all'opinione pubblica europea: il Bismarck
era riuscito a fare della Germania una Nazione unita e potente, fulcro
dell'Europa occidentale. Occorreva dunque imitarne la politica per inserire
l'Italia nel processo di evoluzione economica e sociale che caratterizzava
l'Europa di quegli anni. Questa premessa è indispensabile per capire la
strenua difesa dello Stato compiuta da Crispi, che lo portò ad assumere
una linea autonoma nei confronti del Parlamento, e la sua politica coloniale
tendente a fare dell'Italia una grande potenza. Inizialmente Crispi fu
influenzato dall'ala liberale del Governo, fortemente riformista e
anticlericarista e, ispirandosi a questa linea, attuò una serie di
riforme.
Nel 1888 fu emanata una legge che imponeva, per i capoluoghi di
provincia e di circondario, la presenza di un sindaco elettivo. Nel 1889 fu
riformato il codice penale, in cui non solo si delineava la possibilità
di una abolizione della pena di morte ma si riconosceva il diritto allo
sciopero, in risposta all'emancipazione delle masse operaie (ricordiamo che nel
1882 era stato fondato il partito operaio). Nel 1890 Crispi laicizzò le
Opere pie e gli istituti di assistenza che erano tradizionalmente gestiti da
ecclesiastici.
La sua linea assolutistica generò una vasta
opposizione sia nella Destra che nella Sinistra: il Crispi fu costretto
pertanto, nel 1891, a dimettersi. Si inaugurò un periodo ministeriale
piuttosto debole (Rudinì: febbraio '91-maggio '92; Giolitti: maggio
'92-novembre '93) caratterizzato da un fermento sociale sempre più
consistente. Ricordiamo, a questo proposito, che nel 1892 a Genova, Filippo
Turati aveva fondato il Partito Socialista Italiano, mentre in Sicilia i
braccianti si erano opposti allo strapotere dei baroni latifondisti (rivolte dei
fasci siciliani). Crispi approfittò di questi disordini, cui i suoi
colleghi non riuscivano a porre rimedio, per risalire al potere (dicembre 1893):
egli accentuò la sua politica anti-socialista, sciogliendo il partito di
Turati e facendone imprigionare i capi. Si gettò a capofitto anche nella
politica coloniale: abbiamo già visto come, in accordo con il ras
Menelik, avesse fondato la colonia di Eritrea (1890), sul Mar Rosso. Il suo
programma era volto a rafforzare i possessi coloniali italiani e quindi ad
inglobare ai domini africani l'Etiopia. La campagna d'Etiopia, che iniziò
nel 1895, si rivelò disastrosa: ad Adua (1896) ben 6000 soldati italiani
morirono sul campo di battaglia.
La sconfitta di Adua coincise con il
fallimento della politica crispina: sempre più pressato dall'opposizione
Crispi fu costretto a dimettersi nel 1896, e questa volta per
sempre.
LA CRISI DELL'ITALIA LIBERALE
Con le dimissioni di Crispi, si aprì
per l'Italia un periodo di profonda crisi. La crisi fu economica, politica, ma
soprattutto sociale: gli Italiani, vessati dal rincaro dei prezzi (soprattutto
del prezzo del pane) e dall'inflazione, non potevano più approvare una
linea di governo accentratrice, incapace di valutare i reali problemi del Paese,
e manifestava il suo malcontento con moti insurrezionali o con associazioni
cospirative. Ma i tempi non erano ancora maturi per una linea di equilibrio: la
mediazione fra la classe dirigente e le esigenze popolari si sarebbe realizzata
solo con Giolitti.
A Crispi successe nuovamente il Di Rudinì (marzo
1896-giugno 1898) che dovette affrontare il problema dei moti popolari scoppiati
in tutta Italia. Ricorderemo l'episodio di Milano dove il generale Bava
Beccaris, sparò sulla folla causando un eccidio (1898). Il Beccaris
sarà poi insignito per questa «valorosa azione» dal re Umberto
I con una medaglia al valore. Non essendo riuscito ad ottenere lo scioglimento
del Parlamento, il Di Rudinì si dimise.
Gli successe il Pelloux
(giugno '98-giugno 1900), convinto monarchico, che rafforzò notevolmente
il potere esecutivo del re a danno del Parlamento, detentore del potere
legislativo. Egli limitò la libertà di stampa, causando la nascita
di una fiera opposizione alla sua linea politica: opposizione che sarebbe uscita
vincitrice dalle elezioni che, nel giugno 1900, il Pelloux fu costretto a
organizzare. Nonostante i risultati elettorali, re Umberto I continuò nel
suo atteggiamento conservatore, eleggendo a primo ministro il Saracco (giugno
1900-febbraio 1901). In questo clima di tensione maturò l'assassinio del
sovrano, compiuto a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci, nel luglio del
1900.
Umberto I
Dal Risorgimento all’assassinio di Umberto I
Dal Risorgimento all’assassinio di Umberto I (english version)
IL GOVERNO GIOLITTI
Vittorio Emanuele III, successo a Umberto
I, prese atto dei risultati elettorali, che avevano portato alla vittoria
l'opposizione, e incaricò dapprima lo Zanardelli (febbraio 1901-ottobre
1903) e poi il Giolitti (novembre 1903-aprile 1914) di porsi alla guida del
Governo.
La novità della prassi politica adottata da Giolitti fu la
mancata repressione dei movimenti popolari di protesta, per saldare la frattura
tra istituzioni e classi lavoratrici. Giolitti dunque spezzò quella
politica antisocialista che era stata inaugurata dal Crispi, consolidando in tal
modo il consenso popolare verso lo Stato e la riduzione della tendenza eversiva.
In linea con questa direzione, Giolitti cercò di conciliare gli interessi
della borghesia liberale con quelli delle classi lavoratrici: se la borghesia
doveva prendere atto della potenza e della solidità raggiunta dal partito
socialista, i lavoratori avrebbero dovuto riporre la loro fiducia nel Governo
riformatore che Giolitti si proponeva di realizzare. È indicativo, a
questo proposito, l'atteggiamento tenuto da Giolitti, verso lo sciopero generale
del 1904, organizzato dai sindacalisti: egli non fece nulla per reprimerlo,
lasciò che le proteste seguissero il loro corso naturale. Sciolto il
Parlamento, indisse le elezioni che segnarono un dura sconfitta per il partito
socialista. Con questo Giolitti riuscì a dimostrare alla borghesia che le
azioni repressive non servivano a nulla, e agli operai che la linea
rivoluzionaria finiva con l'indebolire il loro Partito e che si sarebbero dovuti
associare alla linea governativa.
Contemporaneamente la situazione
economica dell'Italia subiva una forte ascesa: Giolitti incrementò
notevolmente lo sviluppo industriale e pose fine a quella linea di imperialismo
coloniale, tanto cara al Crispi, che aveva indebolito le casse statali.
Migliorarono anche le condizioni di lavoro per le masse operaie: si
decretò l'obbligo del riposo festivo, la proibizione del lavoro notturno
per donne e bambini, il diritto allo sciopero.
La linea governativa
giolittiana non mancò di suscitare opposizioni, soprattutto in relazione
alla questione meridionale. Si riteneva che l'incremento delle opere pubbliche
(strade e ferrovie) e la emanazione di leggi speciali per il Mezzogiorno
(soprattutto sgravi fiscali) non fossero sufficienti per risolvere i problemi
del Meridione.
L'equilibrio politico che Giolitti era riuscito a
realizzare (il suo Governo era infatti appoggiato dai socialisti riformisti, dai
liberali e da buona parte dei cattolici) cominciò a subire una
incrinatura con le elezioni del 1909, che segnarono un discreto successo dei
socialisti. Inoltre i maggiori ceti industriali e finanziari erano decisamente
ostili alle riforme giolittiane. Ma, dopo una breve crisi (marzo 1910 - marzo
1911), Giolitti continuò nella sua linea politica, accogliendo anche le
esigenze dei nazionalisti. Un'importante riforma da lui promossa fu quella
elettorale con cui venne sancito il suffragio universale maschile: furono
cioè ammessi al voto anche i nullatenenti e gli analfabeti, che fino a
quel momento erano rimasti estranei alla vita politica italiana. Il numero degli
elettori passò in tal modo a otto milioni e mezzo.
Giolitti
pensò poi di venire incontro all'opposizione di Destra impegnandosi nella
conquista della Libia. La guerra alla Turchia, che possedeva i territori libici,
iniziò nel 1911. Fu una guerra lunga e sofferta, per la resistenza
opposta dalle forze berbere, ma l'Italia ne uscì vincitrice e la pace di
Losanna (1912) sancì il possesso definitivo della Libia. La vittoria
rafforzò notevolmente il partito nazionalista, di tendenze
antidemocratiche e non fece che indebolire il Governo. Per giunta la concezione
del suffragio universale che Giolitti aveva approvato, veniva interpretata come
una minaccia al partito liberale e come una prova dell'orientamento
filo-socialista del primo ministro. Le elezioni del 1913 costituivano dunque
un'incognita per Giolitti che rafforzò il suo potere stipulando il Patto
Gentiloni (dal nome del presidente dell'unione elettorale cattolica), con cui si
invitavano i cattolici a votare per i candidati liberali, a patto che costoro si
astenessero da una politica anti-clericale. In tal modo Giolitti avrebbe
sconfitto l'opposizione socialista, creando in Parlamento una cospicua
maggioranza liberale.
La posizione del Giolitti ne risultò tuttavia
fortemente indebolita: i suoi seguaci si opponevano al suo orientamento
clerico-moderato, mentre il Partito liberale guardava con sempre maggiore
simpatia alle idee nazionalistiche.
In questo clima scoppiava la prima
guerra mondiale.
IL PARTITO DEI LAVORATORI ITALIANI
Per una migliore comprensione del problema
del proletariato, che abbiamo visto essere la forza emergente dell'età
Industriale, riportiamo qui di seguito un estratto del Programma del Partito dei
Lavoratori Italiani che, per certi versi, si ispira alle stesse esigenze del
cartismo inglese.
Dal programma del partito dei lavoratori italiani
(1892):
Considerando che nel presente ordinamento della società
umana gli uomini sono costretti a vivere in due classi; da un lato i lavoratori
sfruttati, dall'altro i capitalisti detentori e monopolizzatori delle ricchezze
sociali; che i salariati d'ambo i sessi, d'ogni arte e condizione, formano per
la loro dipendenza economica il proletariato, costretto ad uno stato di miseria,
d'inferiorità e di oppressione; che tutti gli uomini, purché
concorrano secondo le loro forze a creare e a mantenere i benefici della vita
sociale, hanno lo stesso diritto a fruire di cotesti benefici, primo dei quali
la sicurezza sociale dell'esistenza; riconoscendo che gli attuali organismi
economico-sociali, difesi dall'odierno sistema politico, rappresentano il
predominio dei monopolizzatori delle ricchezze sociali e naturali sulla classe
lavoratrice; che i lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione se
non mercé la socializzazione dei mezzi di lavoro (terra, miniere,
fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione sociale della produzione;
ritenuto che tale scopo finale non può raggiungersi che mediante l'azione
del proletariato organizzato in partito di classe, indipendente da tutti gli
altri partiti, esplicantesi sotto il doppio aspetto: 1) della lotta di mestieri
per i miglioramenti immediati della vita operaia (orari, salari, regolamenti di
fabbrica, ecc.) lotta devoluta alle Camere del lavoro ed alle altre associazioni
di arti e mestieri; 2) di una lotta più ampia intesa a conquistare i
poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche, ecc.) per
trasformarli, da strumento che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in
uno strumento per l'espropriazione economica e politica della classe dominante;
i lavoratori italiani, che si propongono la emancipazione della propria classe,
deliberano: di costituirsi in Partito, informato ai princìpi
suesposti...
PICCOLO LESSICO
Anarchismo
È il sistema
dottrinale degli anarchici. Si potrebbe definire come un movimento intellettuale
e politico sviluppatosi nel secolo XIX e tendente all'emancipazione totale
dell'uomo da ogni forma di autorità od oppressione politica, economica o
religiosa. Questo atteggiamento porta ad una programmatica soppressione di tutte
le organizzazioni considerate per loro natura gerarchiche e costrittive (lo
Stato, la Chiesa) e alla creazione di un ordine sociale fondato sul libero e
autonomo sviluppo dei gruppi e degli individui.
Autoritarismo
È un regime o un programma politico in cui
chi governa tende all'esercizio assoluto dell'autorità sottraendosi a
ogni forma di controllo che possa limitarla.
Inflazione
Consiste in un persistente movimento verso l'alto
del livello generale dei prezzi o, in altri termini, nella continua caduta del
valore della moneta. Diminuendo il valore della moneta, diminuisce il suo potere
d'acquisto e quindi accresce il valore della merce con il conseguente aumento
dei prezzi.
Ras
È voce etiopica che significa
«capo», sia nel senso proprio, sia in quello di persona dotata di
potere, sia in quello geografico. Nell'ordinamento dell'Impero etiopico, era il
titolo dei fondatori capi di intere regioni. La carica di ras, conferita dai
negus (re) mediante investitura, comportava la somma dei poteri civili,
giudiziari, amministrativi. Tuttavia il negus stesso poteva riservare a
sé alcuni di tali poteri, in particolare quello di alta giustizia. I vari
ras erano comunque indipendenti rispetto al Governo centrale e sovrani nei loro
territori: i loro obblighi nei confronti del negus erano limitati ai
rifornimenti militari in casi di guerra.
Sindacato
È l'associazione di lavoratori costituita
per tutelare gli interessi della loro categoria. La storia del movimento
sindacale è strettamente connessa con quella del movimento operaio, in
quanto il sindacato interessa soprattutto gli operai dell'industria moderna.
Sviluppatosi in forma ufficiale agli inizi del XIX secolo, acquistò
sempre maggior peso nella formazione delle decisioni relative sia all'impresa
sia alla società nel suo insieme. Il sindacato svolse infatti un ruolo
determinante per migliorare i salari, le condizioni di lavoro, i servizi sociali
ed ha per questo favorito l'emancipazione economica, politica e sociale delle
masse lavoratrici.
Suffragio elettorale
È il voto cioè la manifestazione
della volontà, soprattutto politica, del cittadino elettore. Nei regimi
politici rappresentativi si attua il suffragio universale che è il
sistema di votazione in base al quale il diritto di voto appartiene a tutti i
cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età. Il suffragio universale
è una conquista recente, nel sistema parlamentare italiano: inizialmente
si ebbe un suffragio ristretto cioè un sistema elettorale per cui il
diritto di voto è esercitabile solo dai cittadini in possesso di
determinati requisiti culturali, economici e politici.
PERSONAGGI CELEBRI
Francesco Crispi
Uomo politico italiano
(Ribera, Agrigento 1818 - Napoli 1901). Compì i suoi primi studi nel
seminario italo-albanese di Palermo; ancora iscritto all'università
fondò e diresse, a Palermo, il giornale letterario «L'Oreteo»
di evidente ispirazione romantica. Laureatosi in giurisprudenza nel 1837, si
trasferì a Napoli nel 1845, esercitandovi l'avvocatura e partecipando
alle trame cospirative del 1848. Scoppiata la rivoluzione a Palermo (12 gennaio
1848) fece parte del comitato di guerra e fu uno dei capi più influenti
del movimento repubblicano isolano. Dopo il ritorno di Palermo nelle mani dei
Borboni, emigrò in Piemonte, guadagnandosi da vivere con collaborazioni
giornalistiche; arrestato e cacciato dal Piemonte come conseguenza del fallito
tentativo mazziniano del 6 febbraio 1853 a Milano, riparò a Malta dove
continuò a cospirare per la libertà della Sicilia. Allontanato
anche da Malta, fu costretto a recarsi a Londra (gennaio 1855) vivendo di
espedienti e a Parigi dove risiedette fra il 1856 e il 1857; ma fu espulso anche
da Parigi in seguito all'attentato Orsini. Dopo un breve soggiorno a Lisbona,
ritornò a Londra, stringendo amicizia con Mazzini, che là
risiedeva. In questo periodo Crispi subì fortemente l'influenza del
Mazzini e abbandonò la politica autonomistica della Sicilia per quella
unitaria dell'Italia. Nel 1860 fu uno degli organizzatori della spedizione dei
Mille, prendendo accordi con l'amico Rosolino PILo. Fu braccio destro di
Garibaldi, ne ispirò la politica e cercò di evitare l'annessione
delle terre meridionali al Piemonte, inimicandosi il Cavour. Nominato ministro
degli Esteri da Garibaldi, dopo il plebiscito del 1860 si ritirò,
inducendo lo stesso Garibaldi ad abbandonare la sua dittatura. Crispi divenne
poi capo dell'estrema sinistra del Parlamento italiano; gradatamente si convinse
che la Monarchia era l'unica in grado di garantire l'unità italiana. Si
dissociò pertanto dal Mazzini e dai repubblicani. Caduto il Governo
Depretis, divenne primo ministro (cfr. capitolo generale). Lasciò
interessanti memorie e documenti, raccolti e ordinati dal nipote T.
Palamenghi-Crispi e una nutrita corrispondenza con Mazzini e Garibaldi. Le sue
spoglie riposano a Palermo nel pantheon di S. Domenico.
Agostino Depretis
Uomo politico italiano (Mezzana Corti, Pavia 1813
- Stradella 1887). Figlio di agiati fittavoli dell'Oltrepò pavese (terra
lombarda appartenente in quei tempi al Regno di Sardegna), si laureò in
legge a Pavia nel 1834. Nel 1836 fu eletto sindaco del paese natale e, pur
dedicando un'intensa attività all'amministrazione municipale, visse per
diversi anni a Stradella, occupandosi della conduzione delle sue
proprietà fondiarie. Simpatizzante in gioventù per le idee
mazziniane, fu eletto deputato al Parlamento subalpino il 26 giugno 1848 e
divenne con Rattazzi e Valerio uno dei capi della sinistra parlamentare
piemontese. Partecipò ai preparativi che all'inizio del 1853 si fecero in
Lomellina per tentare un movimento rivoluzionario in Lombardia, d'accordo col
Mazzini. Dopo il fallimento dei moti milanesi del 6 febbraio si staccò
dai mazziniani, divenendo collaboratore del Cavour. Governatore di Brescia nel
1859, l'anno successivo, dopo lo sbarco dei Mille, fu richiesto da Garibaldi a
Cavour come prodittatore in Sicilia, ossia come rappresentante di re Vittorio
Emanuele II. Assunto l'incarico nel 1860 si dimise nel settembre di quello
stesso anno, per dissidi sorti con Crispi sul problema dell'annessione immediata
dell'isola al regno di Sardegna. Nel 1862 fu ministro dei Lavori Pubblici nel
primo Gabinetto Rattazzi; ebbe il ministero della Marina e, per breve tempo,
quello delle Finanze nel secondo Governo Ricasoli (giugno 1866-aprile 1867).
Rimase all'opposizione, guidando contro la Destra storica l'opposizione della
Sinistra, di cui era divenuto capo dopo la morte di Rattazzi. Caduta la Destra,
il Depretis costituì il primo Governo della Sinistra e da allora (25
marzo 1876) rimase al potere per più di undici anni come presidente del
Consiglio. Il Depretis non riscosse mai molte simpatie presso l'opinione
pubblica italiana: lo si accusava di scetticismo e cinismo. Ricordiamo a questo
proposito, la disistima che Cavour ebbe nei suoi confronti, cui si aggiunge
l'antipatia del Carducci che, in una delle sue Odi barbare, lo bollò con
l'espressione: «irto, spettral vinattier di
Stradella».
Giovanni Giolitti
Uomo politico italiano (Mondovì, Cuneo
1842 - Cavour, Torino 1928). Appartenente ad una famiglia di borghesia
impiegatizia, si laureò giovanissimo in giurisprudenza
all'Università di Torino (1860). Procuratore del re a venticinque anni,
percorse una rapida e fortunata carriera nell'amministrazione statale. Passato
al ministero delle Finanze, lavorò insieme a Quintino Sella, collaborando
alla sua opera di unificazione tributaria e acquisendo una notevole e articolata
conoscenza dei problemi politici ed economici dello Stato italiano. Consigliere
di Stato nel 1882, in quello stesso anno divenne deputato a Cuneo. Eletto su un
programma di sinistra, nel 1886-87, cominciò a staccarsi da Depretis
accostandosi al Crispi, con cui divenne, nel 1889, ministro del Tesoro. In
qualità di ministro del Tesoro, riordinò la contabilità
dello Stato e svolse un'efficace azione mirante al raggiungimento del pareggio
del bilancio. Si dimise nel novembre del 1890 perché non condivideva la
politica di spese (soprattutto militari) di Crispi. Caduto Rudinì, ebbe
da re Umberto I l'incarico di costruire il suo primo ministero (maggio 1892). Ma
la sua politica democratica suscitò l'opposizione capeggiata dal
Rudinì e da Crispi, oltre che dai ceti più conservatori,
preoccupati per la rivolta dei fasci siciliani. Scoppiato lo scandalo della
Banca Romana, Giolitti rassegnò le sue dimissioni (novembre 1893),
ritirandosi a Charlottemburg (1895), in Germania. Archiviato dalla Camera il
procedimento giudiziario contro di lui, tornò alla ribalta nel 1897,
divenendo uno dei «leaders» più autorevoli della sinistra
costituzionale. Dopo la rivolta seguita all'assassinio di Umberto I, Giolitti
entrò come ministro degli Interni nel Gabinetto Zanardelli (1901) e
divenne presidente del Consiglio nel 1903, dominando la vita politica italiana
fino alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale (1913). Durante la
guerra, fu sostenitore della neutralità, convinto che l'Italia avrebbe
potuto appagare le proprie aspettative anche attraverso trattative diplomatiche.
Nel clima del dopoguerra, Giolitti tornò al potere nel 1920, ma la
delicata situazione politica non gli permise di dominare gli avvenimenti, che si
indirizzavano sempre più verso la violenza. Nei confronti del fascismo,
egli tenne sempre un atteggiamento oscillante, passando da un sentimento di
simpatia ad uno di netta condanna, divenuto esplicito nel novembre 1924, quando
passò alla opposizione.
RIASSUNTO CRONOLOGICO
1876 (marzo):
Cade il Governo
Minghetti.
1876 (marzo) - 1887 (luglio):
Governo Depretis.
1877:
Viene emanata la legge Coppino.
1882:
Viene emanata la nuova legge
elettorale.
1882:
Si stipula la Triplice
Alleanza.
1887:
L'Italia è sconfitta nella battaglia di
Dogali.
1887 (luglio) - 1891 (febbraio):
Prima fase del Governo Crispi.
1888:
Emanata la legge sulle municipalità
locali.
1889:
Riforma del codice penale.
1890:
Vengono laicizzate le Opere
pie.
1891 (febbraio) - 1892(maggio):
Governo Rudinì.
1892 (maggio) - 1893 (novembre):
Governo Giolitti.
1892 (agosto):
Filippo Turati fonda il PSI.
1893 (dicembre) - 1896 (marzo):
Seconda fase del Governo
Crispi.
1895:
Inizia la campagna d'Etiopia.
1896:
6.000 soldati italiani muoiono ad
Adua.
1896 (marzo) - 1898 (giugno):
Governo Rudinì.
1898:
A Milano il generale Bava Beccaris spara sulla
folla in rivolta.
1898 (giugno) - 1900 (giugno):
Governo Pelloux.
1900 (luglio):
Umberto I, re d'Italia, è ucciso a Monza,
nei pressi della villa Reale.
1903 (novembre) - 1914 (aprile):
Governo Giolitti.
1904:
Il sindacato rivoluzionario organizza lo sciopero
generale dei lavoratori.
1911-1912:
Guerra di Libia.
1913:
Si stipula il patto Gentiloni.