STORIA CONTEMPORANEA - L'ITALIA POSTUNITARIA

LA SINISTRA AL POTERE

Come abbiamo già visto nel capitolo precedente, il Governo Minghetti, nel 1876, decadde e alla guida del Regno d'Italia passò la Sinistra storica. Le forze che avevano contribuito alla caduta del Governo erano molteplici: non solo la borghesia dell'Italia settentrionale (liberi professionisti) e i latifondisti del Mezzogiorno, ma anche ex garibaldini e mazziniani e perfino quegli industriali che temevano un'eccessiva ingerenza dello Stato nelle iniziative private (per esempio nell'appalto delle ferrovie).
Come si può notare, si trattava di forze estremamente eterogenee e non accomunate da un unico disegno politico.
Fu questo il periodo del «trasformismo», una pratica di Governo che consisteva nel coalizzare intorno al primo ministro uomini politici di diverse tendenze ideologiche, raggiungendo accordi, spesso instabili, sul programma. Tale pratica consentiva, anche tramite compromessi di carattere clientelare, la creazione di una maggioranza governativa debole e moderata.
Il nuovo Governo si caratterizzò anche per una eccessiva ingerenza dei primi ministri nelle elezioni: spesso i risultati elettorali venivano manipolati per confermare le maggioranze parlamentari. Inoltre i vari gruppi parlamentari venivano spesso costretti dai capi di Governo ad appoggiare non tanto la loro linea politica, quanto la loro persona (dittatura parlamentare). È per questo che i tre grandi ministri della Sinistra che dominarono la scena politica dal 1876 al 1914 (Depretis, Crispi, Giolitti) furono denominati «i tre dittatori».
Depretis subentrò a Minghetti nel 1876, inaugurando il Governo della Sinistra storica. Egli capeggiò tutti i ministeri fino al 1887, salvo due Gabinetti presieduti dal Caroli fra il 1879 e il 1881. Appoggiandosi all'amministrazione statale, il Depretis inaugurò quella politica di riforme che fino ad allora era stata combattuta dalla Destra conservatrice. Fra queste leggi riformiste ricorderemo la Legge Coppino (1877) che prevedeva l'obbligatorietà e la gratuità del primo biennio elementare. Con questa legge il Depretis si proponeva di combattere la piaga dell'analfabetismo, che, come abbiamo già altrove ricordato, riguardava il 60% della popolazione. Essa si rivelò ben presto una legge fallimentare: i fondi delle municipalità, specialmente quelle meridionali, non erano abbastanza capaci per sovvenzionare le spese dell'istruzione obbligatoria. Lo Stato fu quindi costretto a provvedere concedendo prestiti e impoverendo ulteriormente le proprie casse. Depretis abolì anche la legge sulla tassa del macinato (formulata da Quintino Sella). Tale misura, se portò qualche sollievo alla popolazione contadina, non servì a risolvere la pesante crisi agraria che in quegli anni infieriva sul Meridione. Qui era ancora diffuso il latifondismo, incrementato dalla vendita dei beni ecclesiastici, i capitali erano scarsi e notevole era anche la arretratezza tecnica e dei sistemi di coltivazione. Le popolazioni contadine, vivevano in condizioni disperate: la malaria, la pellagra, il colera con la loro diffusione epidemica le minacciavano. Aggiungeremo la denutrizione e l'aumento dei prezzi dei prodotti alimentari (soprattutto del pane), per capire come il provvedimento del Depretis non potesse risolvere una simile situazione.
Fra le leggi emanate dal Parlamento, sotto il Governo Depretis, ricorderemo anche quella elettorale (1882), volta all'allargamento del suffragio. Soltanto il 2% della popolazione aveva il diritto di voto: il suffragio fu elevato al 7% ma restavano sempre esclusi da esso gli analfabeti e i ceti inabbienti. Questa legge dunque finì col favorire le grandi città rispetto alle campagne e ancora una volta il nord si trovò avvantaggiato rispetto al sud.
Dopo il 1882, il Governo Depretis, scoraggiato anche dai risultati elettorali (1880), attuò una svolta conservatrice aprendosi verso le forze della Destra e ponendo fine alla sua politica riformistica. Il problema della crisi agraria si faceva sempre più pressante: il Governo passò all'azione puntando sulla emancipazione industriale ed economica del Paese e cercando di coinvolgere in questo processo anche il sud. Si costruirono strade, ferrovie; si potenziarono le casse statali ricorrendo a finanziamenti di grosse banche; si favorì il protezionismo doganale. Fu proprio il protezionismo a colpire gravemente il Mezzogiorno che era scarsamente industrializzato. Le sue poche industrie subirono la concorrenza del nord e restarono ulteriormente isolate. Inoltre le esportazioni di vino e di agrumi che il sud intratteneva con la Francia furono scoraggiate dalle forti imposte doganali. Questo avrebbe indotto la Francia a chiudere le proprie frontiere ai prodotti italiani (guerra doganale: 1886-1887).
In politica estera, il Governo Depretis si ispirò alla linea dell'equilibrio: nel 1882 fu stipulata la Triplice Alleanza tra l'Italia, l'Austria e la Germania. Fu una mossa conservatrice: a ragione molti vedono in essa la fine del Risorgimento italiano, in quanto l'Italia avrebbe rinunciato al possesso delle «terre irredente» (per esempio il Trentino) la cui liberazione aveva animato i programmi risorgimentali di Garibaldi. L'Italia si accingeva ad entrare nell'orbita germanica e, proprio sull'esempio della Germania bismarckiana, si diede all'espansione coloniale. Il colonialismo italiano si differenziò fortemente da quello delle grandi potenze industriali (Francia, Inghilterra): non era tanto il bisogno di nuovi mercati a provocarlo, quanto la necessità di terre dove poter trapiantare parte della popolazione eccedente. La spinta espansionistica italiana non ottenne mai risultati economici degni di nota e subì parecchie battute di arresto, come avvenne a Dogali, nel 1887, dove un corpo di spedizione italiano fu distrutto dalle truppe del ras Alula, durante la guerra italo-etiopica.

GOVERNI ITALIANI DAL 1860 AL 1988
Governi della Destra storica
Governi della Sinistra storica
1860-61
Camillo Benso di Cavour
1876-77
Agostino Depretis
1861-62
Bettino Ricasoli
1877-78
Agostino Depretis (II)
1862
Urbano Rattazzi
1878
Benedetto Cairoli
1862-63
Luigi Carlo Farini
1878-79
Agostino Depretis (III)
1863-64
Marco Minghetti
1879
Benedetto Cairoli (II)
1864-66
Alfonso Lamarmora
1879-81
Benedetto Cairoli (III)
1866-67
Bettino Ricasoli (II)
1881-83
Agostino Depretis (IV)
1867
Urbano Rattazzi (II)
1883-84
Agostino Depretis (V)
1867
F. Luigi Menabrea
1884-85
Agostino Depretis (VI)
1868-69
F. Luigi Menabrea (II)
1885-87
Agostino Depretis (VII)
1869
F. Luigi Menabrea (III)
1887
Agostino Depretis (VIII)
1869-73
Giovanni Lanza
1887-89
Francesco Crispi
1873-76
Marco Minghetti
1889-91
Francesco Crispi (II)
1891-92
Antonio di Rudinì
1892-93
Giovanni Giolitti
1893
Antonio di Rudinì (II)
1893-95
Francesco Crispi (III)
1896-97
Antonio di Rudinì (III)
1895-96
Francesco Crispi (IV)
1897-98
Antonio di Rudinì (IV)

1899
Antonio di Rudinì (V)



IL GOVERNO CRISPI

Francesco Crispi subentrò al Depretis, nella guida del Governo, a due riprese, dal 1887 al 1891 e dal 1893 al 1896.
Egli aveva sempre mantenuto un atteggiamento di netta opposizione nei confronti di Depretis e del suo iniziale riformismo. Nonostante in gioventù avesse militato nel partito mazziniano, si fece sostenitore dell'istituzione monarchica, l'unica che potesse offrire garanzie per un fondamento dell'unità nazionale. Tuttavia la politica crispina è fondata sulla concezione naturalistica dello Stato: lo Stato non sarebbe tanto il prodotto della volontà di un popolo, quanto un fatto naturale, immutabile anche nelle sue strutture. Una convinzione di questo tipo non poteva certo favorire un'evoluzione sociale e politica. Lo stesso Meridione fu visto come una zona «naturalmente» inferiore rispetto al nord e, in quanto tale, la sua condizione fu considerata non sanabile. Un'altra caratteristica della politica crispina fu la concezione autoritaristica del potere. La Germania del Bismarck si imponeva come modello all'opinione pubblica europea: il Bismarck era riuscito a fare della Germania una Nazione unita e potente, fulcro dell'Europa occidentale. Occorreva dunque imitarne la politica per inserire l'Italia nel processo di evoluzione economica e sociale che caratterizzava l'Europa di quegli anni. Questa premessa è indispensabile per capire la strenua difesa dello Stato compiuta da Crispi, che lo portò ad assumere una linea autonoma nei confronti del Parlamento, e la sua politica coloniale tendente a fare dell'Italia una grande potenza. Inizialmente Crispi fu influenzato dall'ala liberale del Governo, fortemente riformista e anticlericarista e, ispirandosi a questa linea, attuò una serie di riforme.
Nel 1888 fu emanata una legge che imponeva, per i capoluoghi di provincia e di circondario, la presenza di un sindaco elettivo. Nel 1889 fu riformato il codice penale, in cui non solo si delineava la possibilità di una abolizione della pena di morte ma si riconosceva il diritto allo sciopero, in risposta all'emancipazione delle masse operaie (ricordiamo che nel 1882 era stato fondato il partito operaio). Nel 1890 Crispi laicizzò le Opere pie e gli istituti di assistenza che erano tradizionalmente gestiti da ecclesiastici.
La sua linea assolutistica generò una vasta opposizione sia nella Destra che nella Sinistra: il Crispi fu costretto pertanto, nel 1891, a dimettersi. Si inaugurò un periodo ministeriale piuttosto debole (Rudinì: febbraio '91-maggio '92; Giolitti: maggio '92-novembre '93) caratterizzato da un fermento sociale sempre più consistente. Ricordiamo, a questo proposito, che nel 1892 a Genova, Filippo Turati aveva fondato il Partito Socialista Italiano, mentre in Sicilia i braccianti si erano opposti allo strapotere dei baroni latifondisti (rivolte dei fasci siciliani). Crispi approfittò di questi disordini, cui i suoi colleghi non riuscivano a porre rimedio, per risalire al potere (dicembre 1893): egli accentuò la sua politica anti-socialista, sciogliendo il partito di Turati e facendone imprigionare i capi. Si gettò a capofitto anche nella politica coloniale: abbiamo già visto come, in accordo con il ras Menelik, avesse fondato la colonia di Eritrea (1890), sul Mar Rosso. Il suo programma era volto a rafforzare i possessi coloniali italiani e quindi ad inglobare ai domini africani l'Etiopia. La campagna d'Etiopia, che iniziò nel 1895, si rivelò disastrosa: ad Adua (1896) ben 6000 soldati italiani morirono sul campo di battaglia.
La sconfitta di Adua coincise con il fallimento della politica crispina: sempre più pressato dall'opposizione Crispi fu costretto a dimettersi nel 1896, e questa volta per sempre.

LA CRISI DELL'ITALIA LIBERALE

Con le dimissioni di Crispi, si aprì per l'Italia un periodo di profonda crisi. La crisi fu economica, politica, ma soprattutto sociale: gli Italiani, vessati dal rincaro dei prezzi (soprattutto del prezzo del pane) e dall'inflazione, non potevano più approvare una linea di governo accentratrice, incapace di valutare i reali problemi del Paese, e manifestava il suo malcontento con moti insurrezionali o con associazioni cospirative. Ma i tempi non erano ancora maturi per una linea di equilibrio: la mediazione fra la classe dirigente e le esigenze popolari si sarebbe realizzata solo con Giolitti.
A Crispi successe nuovamente il Di Rudinì (marzo 1896-giugno 1898) che dovette affrontare il problema dei moti popolari scoppiati in tutta Italia. Ricorderemo l'episodio di Milano dove il generale Bava Beccaris, sparò sulla folla causando un eccidio (1898). Il Beccaris sarà poi insignito per questa «valorosa azione» dal re Umberto I con una medaglia al valore. Non essendo riuscito ad ottenere lo scioglimento del Parlamento, il Di Rudinì si dimise.
Gli successe il Pelloux (giugno '98-giugno 1900), convinto monarchico, che rafforzò notevolmente il potere esecutivo del re a danno del Parlamento, detentore del potere legislativo. Egli limitò la libertà di stampa, causando la nascita di una fiera opposizione alla sua linea politica: opposizione che sarebbe uscita vincitrice dalle elezioni che, nel giugno 1900, il Pelloux fu costretto a organizzare. Nonostante i risultati elettorali, re Umberto I continuò nel suo atteggiamento conservatore, eleggendo a primo ministro il Saracco (giugno 1900-febbraio 1901). In questo clima di tensione maturò l'assassinio del sovrano, compiuto a Monza dall'anarchico Gaetano Bresci, nel luglio del 1900.
Umberto I

Dal Risorgimento all’assassinio di Umberto I

Dal Risorgimento all’assassinio di Umberto I (english version)

IL GOVERNO GIOLITTI

Vittorio Emanuele III, successo a Umberto I, prese atto dei risultati elettorali, che avevano portato alla vittoria l'opposizione, e incaricò dapprima lo Zanardelli (febbraio 1901-ottobre 1903) e poi il Giolitti (novembre 1903-aprile 1914) di porsi alla guida del Governo.
La novità della prassi politica adottata da Giolitti fu la mancata repressione dei movimenti popolari di protesta, per saldare la frattura tra istituzioni e classi lavoratrici. Giolitti dunque spezzò quella politica antisocialista che era stata inaugurata dal Crispi, consolidando in tal modo il consenso popolare verso lo Stato e la riduzione della tendenza eversiva. In linea con questa direzione, Giolitti cercò di conciliare gli interessi della borghesia liberale con quelli delle classi lavoratrici: se la borghesia doveva prendere atto della potenza e della solidità raggiunta dal partito socialista, i lavoratori avrebbero dovuto riporre la loro fiducia nel Governo riformatore che Giolitti si proponeva di realizzare. È indicativo, a questo proposito, l'atteggiamento tenuto da Giolitti, verso lo sciopero generale del 1904, organizzato dai sindacalisti: egli non fece nulla per reprimerlo, lasciò che le proteste seguissero il loro corso naturale. Sciolto il Parlamento, indisse le elezioni che segnarono un dura sconfitta per il partito socialista. Con questo Giolitti riuscì a dimostrare alla borghesia che le azioni repressive non servivano a nulla, e agli operai che la linea rivoluzionaria finiva con l'indebolire il loro Partito e che si sarebbero dovuti associare alla linea governativa.
Contemporaneamente la situazione economica dell'Italia subiva una forte ascesa: Giolitti incrementò notevolmente lo sviluppo industriale e pose fine a quella linea di imperialismo coloniale, tanto cara al Crispi, che aveva indebolito le casse statali. Migliorarono anche le condizioni di lavoro per le masse operaie: si decretò l'obbligo del riposo festivo, la proibizione del lavoro notturno per donne e bambini, il diritto allo sciopero.
La linea governativa giolittiana non mancò di suscitare opposizioni, soprattutto in relazione alla questione meridionale. Si riteneva che l'incremento delle opere pubbliche (strade e ferrovie) e la emanazione di leggi speciali per il Mezzogiorno (soprattutto sgravi fiscali) non fossero sufficienti per risolvere i problemi del Meridione.
L'equilibrio politico che Giolitti era riuscito a realizzare (il suo Governo era infatti appoggiato dai socialisti riformisti, dai liberali e da buona parte dei cattolici) cominciò a subire una incrinatura con le elezioni del 1909, che segnarono un discreto successo dei socialisti. Inoltre i maggiori ceti industriali e finanziari erano decisamente ostili alle riforme giolittiane. Ma, dopo una breve crisi (marzo 1910 - marzo 1911), Giolitti continuò nella sua linea politica, accogliendo anche le esigenze dei nazionalisti. Un'importante riforma da lui promossa fu quella elettorale con cui venne sancito il suffragio universale maschile: furono cioè ammessi al voto anche i nullatenenti e gli analfabeti, che fino a quel momento erano rimasti estranei alla vita politica italiana. Il numero degli elettori passò in tal modo a otto milioni e mezzo.
Giolitti pensò poi di venire incontro all'opposizione di Destra impegnandosi nella conquista della Libia. La guerra alla Turchia, che possedeva i territori libici, iniziò nel 1911. Fu una guerra lunga e sofferta, per la resistenza opposta dalle forze berbere, ma l'Italia ne uscì vincitrice e la pace di Losanna (1912) sancì il possesso definitivo della Libia. La vittoria rafforzò notevolmente il partito nazionalista, di tendenze antidemocratiche e non fece che indebolire il Governo. Per giunta la concezione del suffragio universale che Giolitti aveva approvato, veniva interpretata come una minaccia al partito liberale e come una prova dell'orientamento filo-socialista del primo ministro. Le elezioni del 1913 costituivano dunque un'incognita per Giolitti che rafforzò il suo potere stipulando il Patto Gentiloni (dal nome del presidente dell'unione elettorale cattolica), con cui si invitavano i cattolici a votare per i candidati liberali, a patto che costoro si astenessero da una politica anti-clericale. In tal modo Giolitti avrebbe sconfitto l'opposizione socialista, creando in Parlamento una cospicua maggioranza liberale.
La posizione del Giolitti ne risultò tuttavia fortemente indebolita: i suoi seguaci si opponevano al suo orientamento clerico-moderato, mentre il Partito liberale guardava con sempre maggiore simpatia alle idee nazionalistiche.
In questo clima scoppiava la prima guerra mondiale.

IL PARTITO DEI LAVORATORI ITALIANI

Per una migliore comprensione del problema del proletariato, che abbiamo visto essere la forza emergente dell'età Industriale, riportiamo qui di seguito un estratto del Programma del Partito dei Lavoratori Italiani che, per certi versi, si ispira alle stesse esigenze del cartismo inglese.
Dal programma del partito dei lavoratori italiani (1892):
Considerando che nel presente ordinamento della società umana gli uomini sono costretti a vivere in due classi; da un lato i lavoratori sfruttati, dall'altro i capitalisti detentori e monopolizzatori delle ricchezze sociali; che i salariati d'ambo i sessi, d'ogni arte e condizione, formano per la loro dipendenza economica il proletariato, costretto ad uno stato di miseria, d'inferiorità e di oppressione; che tutti gli uomini, purché concorrano secondo le loro forze a creare e a mantenere i benefici della vita sociale, hanno lo stesso diritto a fruire di cotesti benefici, primo dei quali la sicurezza sociale dell'esistenza; riconoscendo che gli attuali organismi economico-sociali, difesi dall'odierno sistema politico, rappresentano il predominio dei monopolizzatori delle ricchezze sociali e naturali sulla classe lavoratrice; che i lavoratori non potranno conseguire la loro emancipazione se non mercé la socializzazione dei mezzi di lavoro (terra, miniere, fabbriche, mezzi di trasporto, ecc.) e la gestione sociale della produzione; ritenuto che tale scopo finale non può raggiungersi che mediante l'azione del proletariato organizzato in partito di classe, indipendente da tutti gli altri partiti, esplicantesi sotto il doppio aspetto: 1) della lotta di mestieri per i miglioramenti immediati della vita operaia (orari, salari, regolamenti di fabbrica, ecc.) lotta devoluta alle Camere del lavoro ed alle altre associazioni di arti e mestieri; 2) di una lotta più ampia intesa a conquistare i poteri pubblici (Stato, Comuni, Amministrazioni pubbliche, ecc.) per trasformarli, da strumento che oggi sono di oppressione e di sfruttamento, in uno strumento per l'espropriazione economica e politica della classe dominante; i lavoratori italiani, che si propongono la emancipazione della propria classe, deliberano: di costituirsi in Partito, informato ai princìpi suesposti...

PICCOLO LESSICO

Anarchismo

È il sistema dottrinale degli anarchici. Si potrebbe definire come un movimento intellettuale e politico sviluppatosi nel secolo XIX e tendente all'emancipazione totale dell'uomo da ogni forma di autorità od oppressione politica, economica o religiosa. Questo atteggiamento porta ad una programmatica soppressione di tutte le organizzazioni considerate per loro natura gerarchiche e costrittive (lo Stato, la Chiesa) e alla creazione di un ordine sociale fondato sul libero e autonomo sviluppo dei gruppi e degli individui.

Autoritarismo

È un regime o un programma politico in cui chi governa tende all'esercizio assoluto dell'autorità sottraendosi a ogni forma di controllo che possa limitarla.

Inflazione

Consiste in un persistente movimento verso l'alto del livello generale dei prezzi o, in altri termini, nella continua caduta del valore della moneta. Diminuendo il valore della moneta, diminuisce il suo potere d'acquisto e quindi accresce il valore della merce con il conseguente aumento dei prezzi.

Ras

È voce etiopica che significa «capo», sia nel senso proprio, sia in quello di persona dotata di potere, sia in quello geografico. Nell'ordinamento dell'Impero etiopico, era il titolo dei fondatori capi di intere regioni. La carica di ras, conferita dai negus (re) mediante investitura, comportava la somma dei poteri civili, giudiziari, amministrativi. Tuttavia il negus stesso poteva riservare a sé alcuni di tali poteri, in particolare quello di alta giustizia. I vari ras erano comunque indipendenti rispetto al Governo centrale e sovrani nei loro territori: i loro obblighi nei confronti del negus erano limitati ai rifornimenti militari in casi di guerra.

Sindacato

È l'associazione di lavoratori costituita per tutelare gli interessi della loro categoria. La storia del movimento sindacale è strettamente connessa con quella del movimento operaio, in quanto il sindacato interessa soprattutto gli operai dell'industria moderna. Sviluppatosi in forma ufficiale agli inizi del XIX secolo, acquistò sempre maggior peso nella formazione delle decisioni relative sia all'impresa sia alla società nel suo insieme. Il sindacato svolse infatti un ruolo determinante per migliorare i salari, le condizioni di lavoro, i servizi sociali ed ha per questo favorito l'emancipazione economica, politica e sociale delle masse lavoratrici.

Suffragio elettorale

È il voto cioè la manifestazione della volontà, soprattutto politica, del cittadino elettore. Nei regimi politici rappresentativi si attua il suffragio universale che è il sistema di votazione in base al quale il diritto di voto appartiene a tutti i cittadini che abbiano raggiunto la maggiore età. Il suffragio universale è una conquista recente, nel sistema parlamentare italiano: inizialmente si ebbe un suffragio ristretto cioè un sistema elettorale per cui il diritto di voto è esercitabile solo dai cittadini in possesso di determinati requisiti culturali, economici e politici.

PERSONAGGI CELEBRI

Francesco Crispi

Uomo politico italiano (Ribera, Agrigento 1818 - Napoli 1901). Compì i suoi primi studi nel seminario italo-albanese di Palermo; ancora iscritto all'università fondò e diresse, a Palermo, il giornale letterario «L'Oreteo» di evidente ispirazione romantica. Laureatosi in giurisprudenza nel 1837, si trasferì a Napoli nel 1845, esercitandovi l'avvocatura e partecipando alle trame cospirative del 1848. Scoppiata la rivoluzione a Palermo (12 gennaio 1848) fece parte del comitato di guerra e fu uno dei capi più influenti del movimento repubblicano isolano. Dopo il ritorno di Palermo nelle mani dei Borboni, emigrò in Piemonte, guadagnandosi da vivere con collaborazioni giornalistiche; arrestato e cacciato dal Piemonte come conseguenza del fallito tentativo mazziniano del 6 febbraio 1853 a Milano, riparò a Malta dove continuò a cospirare per la libertà della Sicilia. Allontanato anche da Malta, fu costretto a recarsi a Londra (gennaio 1855) vivendo di espedienti e a Parigi dove risiedette fra il 1856 e il 1857; ma fu espulso anche da Parigi in seguito all'attentato Orsini. Dopo un breve soggiorno a Lisbona, ritornò a Londra, stringendo amicizia con Mazzini, che là risiedeva. In questo periodo Crispi subì fortemente l'influenza del Mazzini e abbandonò la politica autonomistica della Sicilia per quella unitaria dell'Italia. Nel 1860 fu uno degli organizzatori della spedizione dei Mille, prendendo accordi con l'amico Rosolino PILo. Fu braccio destro di Garibaldi, ne ispirò la politica e cercò di evitare l'annessione delle terre meridionali al Piemonte, inimicandosi il Cavour. Nominato ministro degli Esteri da Garibaldi, dopo il plebiscito del 1860 si ritirò, inducendo lo stesso Garibaldi ad abbandonare la sua dittatura. Crispi divenne poi capo dell'estrema sinistra del Parlamento italiano; gradatamente si convinse che la Monarchia era l'unica in grado di garantire l'unità italiana. Si dissociò pertanto dal Mazzini e dai repubblicani. Caduto il Governo Depretis, divenne primo ministro (cfr. capitolo generale). Lasciò interessanti memorie e documenti, raccolti e ordinati dal nipote T. Palamenghi-Crispi e una nutrita corrispondenza con Mazzini e Garibaldi. Le sue spoglie riposano a Palermo nel pantheon di S. Domenico.

Agostino Depretis

Uomo politico italiano (Mezzana Corti, Pavia 1813 - Stradella 1887). Figlio di agiati fittavoli dell'Oltrepò pavese (terra lombarda appartenente in quei tempi al Regno di Sardegna), si laureò in legge a Pavia nel 1834. Nel 1836 fu eletto sindaco del paese natale e, pur dedicando un'intensa attività all'amministrazione municipale, visse per diversi anni a Stradella, occupandosi della conduzione delle sue proprietà fondiarie. Simpatizzante in gioventù per le idee mazziniane, fu eletto deputato al Parlamento subalpino il 26 giugno 1848 e divenne con Rattazzi e Valerio uno dei capi della sinistra parlamentare piemontese. Partecipò ai preparativi che all'inizio del 1853 si fecero in Lomellina per tentare un movimento rivoluzionario in Lombardia, d'accordo col Mazzini. Dopo il fallimento dei moti milanesi del 6 febbraio si staccò dai mazziniani, divenendo collaboratore del Cavour. Governatore di Brescia nel 1859, l'anno successivo, dopo lo sbarco dei Mille, fu richiesto da Garibaldi a Cavour come prodittatore in Sicilia, ossia come rappresentante di re Vittorio Emanuele II. Assunto l'incarico nel 1860 si dimise nel settembre di quello stesso anno, per dissidi sorti con Crispi sul problema dell'annessione immediata dell'isola al regno di Sardegna. Nel 1862 fu ministro dei Lavori Pubblici nel primo Gabinetto Rattazzi; ebbe il ministero della Marina e, per breve tempo, quello delle Finanze nel secondo Governo Ricasoli (giugno 1866-aprile 1867). Rimase all'opposizione, guidando contro la Destra storica l'opposizione della Sinistra, di cui era divenuto capo dopo la morte di Rattazzi. Caduta la Destra, il Depretis costituì il primo Governo della Sinistra e da allora (25 marzo 1876) rimase al potere per più di undici anni come presidente del Consiglio. Il Depretis non riscosse mai molte simpatie presso l'opinione pubblica italiana: lo si accusava di scetticismo e cinismo. Ricordiamo a questo proposito, la disistima che Cavour ebbe nei suoi confronti, cui si aggiunge l'antipatia del Carducci che, in una delle sue Odi barbare, lo bollò con l'espressione: «irto, spettral vinattier di Stradella».

Giovanni Giolitti

Uomo politico italiano (Mondovì, Cuneo 1842 - Cavour, Torino 1928). Appartenente ad una famiglia di borghesia impiegatizia, si laureò giovanissimo in giurisprudenza all'Università di Torino (1860). Procuratore del re a venticinque anni, percorse una rapida e fortunata carriera nell'amministrazione statale. Passato al ministero delle Finanze, lavorò insieme a Quintino Sella, collaborando alla sua opera di unificazione tributaria e acquisendo una notevole e articolata conoscenza dei problemi politici ed economici dello Stato italiano. Consigliere di Stato nel 1882, in quello stesso anno divenne deputato a Cuneo. Eletto su un programma di sinistra, nel 1886-87, cominciò a staccarsi da Depretis accostandosi al Crispi, con cui divenne, nel 1889, ministro del Tesoro. In qualità di ministro del Tesoro, riordinò la contabilità dello Stato e svolse un'efficace azione mirante al raggiungimento del pareggio del bilancio. Si dimise nel novembre del 1890 perché non condivideva la politica di spese (soprattutto militari) di Crispi. Caduto Rudinì, ebbe da re Umberto I l'incarico di costruire il suo primo ministero (maggio 1892). Ma la sua politica democratica suscitò l'opposizione capeggiata dal Rudinì e da Crispi, oltre che dai ceti più conservatori, preoccupati per la rivolta dei fasci siciliani. Scoppiato lo scandalo della Banca Romana, Giolitti rassegnò le sue dimissioni (novembre 1893), ritirandosi a Charlottemburg (1895), in Germania. Archiviato dalla Camera il procedimento giudiziario contro di lui, tornò alla ribalta nel 1897, divenendo uno dei «leaders» più autorevoli della sinistra costituzionale. Dopo la rivolta seguita all'assassinio di Umberto I, Giolitti entrò come ministro degli Interni nel Gabinetto Zanardelli (1901) e divenne presidente del Consiglio nel 1903, dominando la vita politica italiana fino alla vigilia dello scoppio della prima guerra mondiale (1913). Durante la guerra, fu sostenitore della neutralità, convinto che l'Italia avrebbe potuto appagare le proprie aspettative anche attraverso trattative diplomatiche. Nel clima del dopoguerra, Giolitti tornò al potere nel 1920, ma la delicata situazione politica non gli permise di dominare gli avvenimenti, che si indirizzavano sempre più verso la violenza. Nei confronti del fascismo, egli tenne sempre un atteggiamento oscillante, passando da un sentimento di simpatia ad uno di netta condanna, divenuto esplicito nel novembre 1924, quando passò alla opposizione.

RIASSUNTO CRONOLOGICO

1876 (marzo): Cade il Governo Minghetti.

1876 (marzo) - 1887 (luglio): Governo Depretis.

1877: Viene emanata la legge Coppino.

1882: Viene emanata la nuova legge elettorale.

1882: Si stipula la Triplice Alleanza.

1887: L'Italia è sconfitta nella battaglia di Dogali.

1887 (luglio) - 1891 (febbraio): Prima fase del Governo Crispi.

1888: Emanata la legge sulle municipalità locali.

1889: Riforma del codice penale.

1890: Vengono laicizzate le Opere pie.

1891 (febbraio) - 1892(maggio): Governo Rudinì.

1892 (maggio) - 1893 (novembre): Governo Giolitti.

1892 (agosto): Filippo Turati fonda il PSI.

1893 (dicembre) - 1896 (marzo): Seconda fase del Governo Crispi.

1895: Inizia la campagna d'Etiopia.

1896: 6.000 soldati italiani muoiono ad Adua.

1896 (marzo) - 1898 (giugno): Governo Rudinì.

1898: A Milano il generale Bava Beccaris spara sulla folla in rivolta.

1898 (giugno) - 1900 (giugno): Governo Pelloux.

1900 (luglio): Umberto I, re d'Italia, è ucciso a Monza, nei pressi della villa Reale.

1903 (novembre) - 1914 (aprile): Governo Giolitti.

1904: Il sindacato rivoluzionario organizza lo sciopero generale dei lavoratori.

1911-1912: Guerra di Libia.

1913: Si stipula il patto Gentiloni.

 

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