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Glossario



Glossario
Media.
Voce inglese: mezzi di comunicazione (MASS-MEDIA).
Mass-Media.
Voce inglese: mezzi di massa.
• Sociol. - Termine che indica il complesso degli strumenti di comunicazione
(radio, televisione, cinema, stampa, manifesti, ecc.), caratterizzati
dall'elevato numero di destinatari e dall'estrema ampiezza del loro raggio di
azione e di distribuzione. Oggetto della diffusione dei m. possono essere le
informazioni e i prodotti culturali di qualunque tipo e natura. Pur essendo
sempre esistita nella civiltà umana una qualche forma di comunicazione di massa,
il concetto e il fenomeno mass-mediatico si è imposto alla riflessione
sociologica in epoca industriale e, in particolare, nel secondo dopoguerra,
quando le innovazioni tecnologiche hanno mutato qualitativamente il potere della
comunicazione, in virtù dell'enorme estendersi del raggio di diffusione della
stessa fra le masse. Se da un lato i m. possono essere considerati come fattori
di emancipazione e di integrazione sociale, dal momento che favoriscono la
partecipazione e la condivisione dei costumi e della cultura e la conoscenza
delle informazioni essenziali alla vita di una determinata comunità, ugualmente
ad essi si può imputare l'assunzione da parte di settori della società stessa di
comportamenti devianti, quando diffondono su vasta scala modelli esistenziali
divergenti da quelli tradizionalmente approvati e applicati. In tutti i casi è
evidente l'indotto di potere che si collega al controllo di tali mezzi, sia esso
esercitato da un singolo individuo o da partiti politici e gruppi di pressione.
La questione centrale, relativamente all'uso dei m., è infatti il contenuto
delle informazioni: mediante un'analisi dei messaggi è possibile cogliere non
solo gli elementi espliciti di una comunicazione, ma anche quelli occulti o,
inversamente, scegliere opportunamente quale contenuto si voglia diffondere e in
che modo. L'analisi mass-mediologica rende riconoscibili sia i rapporti stabili
tra m. e destinatario (vale a dire ciò che si presume il destinatario voglia
ascoltare, leggere o vedere), sia i rapporti dinamici tra pregiudizi e
stereotipi culturali acquisiti e la spinta al cambiamento esercitata su di essi
dalle tecniche stesse della comunicazione di massa. È dunque possibile, partendo
dai messaggi mass-mediologici, ricavare un indice dei valori culturali e
psicologici esistenti e predominanti in una data società e, pur se entro limiti
abbastanza ristretti, formulare previsioni circa l'evoluzione della società in
oggetto e la possibilità di influenzarla. Gli effetti dell'azione dei m., che
cominciarono ad assumere dimensioni degne di nota nell'America degli anni Venti,
spinsero numerosi intellettuali ad esprimere la loro opinione in proposito, di
modo che si crearono, per così dire, due correnti di pensiero. L'una, in difesa
di una concezione elitaria della cultura e dell'arte, imputò ai m. il
deterioramento del gusto estetico del pubblico (Nietzsche, Eliot), l'altra, di
ispirazione marxista, individuò nell'industria culturale il più pericoloso
strumento di inibizione politica e di controllo sociale esercitato dai gruppi di
potere ai danni delle masse lavoratrici. Il problema degli effetti della
comunicazione di massa, in grado di condizionare l'opinione pubblica in misura
sempre crescente, è certamente rilevante ma, a causa della sua estrema
complessità, di assai difficile valutazione. Se la maggior circolazione delle
informazioni, infatti, può suscitare speranza in vista di una più omogenea
integrazione dei differenti gruppi sociali, d'altra parte è ugualmente
incombente il pericolo di una omologazione ed eterodirezione delle masse. La
ricerca sociologica, infatti, ha rilevato quanto difficilmente i m. si assumano
il rischio di entrare in conflitto con idee e tendenze socio-culturali dominanti
(König), fatto che sembrerebbe deporre per un sostanziale assoggettamento degli
stessi nei confronti dei gruppi di potere. Tuttavia, proprio la tendenza alla
"globalizzazione" teorizzata da Marshall Herbert MacLuhan, non ha comportato in
realtà una totale indifferenziazione bensì, accanto a fenomeni innegabili di
appiattimento dell'opinione pubblica, il facile accesso alle informazioni ha
favorito la crescita di precise identità culturali, tanto più incisive quanto
maggiore è la coscienza del ruolo centrale e attivo che può essere assunto dai
singoli o dai gruppi nel processo comunicativo.
MacLuhan, Marshall Herbert.
Saggista e sociologo canadese di lingua inglese. Direttore del centro di cultura
e tecnologia dell'università di Toronto. Esperto delle tecniche
dell'informazione di massa, ha elaborato una tesi sociologica sintetizzabile
nello slogan "il medium è il messaggio": i mezzi di comunicazione, cioè,
influenzano notevolmente il modo di pensare e d'agire della gente, fino a
determinare, in tempi lunghi, un cambiamento radicale della cultura. Così alla
civiltà tribale, incentrata sulla parola, è subentrata l'era della stampa,
destinata a sua volta a venir soppiantata dalla civiltà televisiva. Opere
principali: La galassia Gutenberg (1962); Voci della letteratura (1966); Dal
cliché all'archetipo (1970) (Edmonton 1911 - Toronto 1981).
RAI.
RAI - RADIOTELEVISIONE ITALIANA.
RAI - Radiotelevisione Italiana.
Società per azioni di interesse nazionale con sede legale e direzione generale a
Roma; il capitale sociale, di 120 miliardi, appartiene per il 99,55%
all'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), che gestisce in regime di
monopolio i servizi radiofonici e televisivi, e per il restante 0,45% alla SIAE
(Società Italiana Autori Editori). Attualmente l'attività della RAI è regolata
dalla L. 25-6-1993, n. 206 e dal contratto con il ministero delle Poste e delle
Telecomunicazioni del 4-4-1996, che ha rinnovato in esclusiva la «concessione
ventennale di servizio pubblico» per la diffusione dei programmi
radiotelevisivi. Infatti, oggetto sociale della RAI è l'esercizio del servizio
pubblico di diffusione dei programmi televisivi e radiofonici sul territorio
nazionale; la società può svolgere attività economiche connesse con lo
sfruttamento commerciale delle proprie produzioni culturali. Il personale
dirigente della RAI, formato da un presidente, due vicepresidenti,
l'amministratore delegato e il direttore generale, è nominato dall'esecutivo con
decreto del ministro delle Poste e Telecomunicazioni. L'obiettività e
l'imparzialità delle trasmissioni radiotelevisive è garantita da un'apposita
commissione di controllo parlamentare, formata da 40 membri nominati da tutti i
gruppi di entrambe le Camere e la cui composizione rispecchia quella del
Parlamento per quanto riguarda l'equilibrio fra le varie correnti politiche. Il
controllo del potere legislativo si esplica anche nella visione dei bilanci, che
vengono inviati al Parlamento per l'approvazione da parte della Corte dei Conti
e del ministero delle Poste. È facoltà dello Stato, su decreto del presidente
della Repubblica e per gravi motivi di ordine pubblico, sospendere senza
preavviso il diritto della RAI di gestire direttamente i programmi. La sua
attuale offerta è articolata in tre canali televisivi via etere (RAIUNO, RAIDUE,
RAITRE), tre canali radio FM-AM (RADIOUNO, RADIODUE, RADIOTRE), un canale radio
in isofrequenza (ISORADIO) che trasmette informazioni su traffico e viabilità,
cinque canali di filodiffusione, un canale teletext (TELEVIDEO), tre canali
tematici via satellite (RAISAT1, RAISAT2, RAISAT3); inoltre, i suoi programmi
televisivi e radiofonici sono diffusi via satellite e/o via cavo attraverso un
canale destinato all'estero (RAINTERNATIONAL). Origini: la nascita del servizio
pubblico risale al 27 agosto 1924, data in cui fu costituita a Roma l'URI
(Unione Radiofonica Italiana), derivata dalla fusione della Radiofono-Società
Italiana per le Radiocomunicazioni Circolari con la SIRAC (Società Italiana
Radio Audizioni Circolari). Il 6 ottobre dello stesso anno l'URI avviò un
servizio quotidiano di trasmissioni radiofoniche e il 27 novembre il Governo
accordò alla società, per la durata di sei anni, la concessione della gestione
in esclusiva dei servizi di radioaudizioni circolari. Successivamente la
convenzione del 1924 venne perfezionata da altre leggi promulgate nel 1927 e nel
1928: l'URI venne trasformata in EIAR (Ente Italiano di Audizioni Radiofoniche)
e la concessione in esclusiva fu prorogata fino al 15 dicembre 1952. Negli anni
fra il 1928 e il 1936 la società si sviluppò in modo assai rapido, con
l'installazione sul territorio nazionale di numerose stazioni e di impianti
trasmittenti radiofonici; inoltre, nel 1931 la SIP (Società Idroelettrica
Piemontese) entrò in possesso della maggioranza assoluta delle azioni dell'EIAR.
La convenzione fra questo ente e lo Stato fu definitivamente disciplinata dalla
L. 27-2-1936, che fissò organicamente le norme di concessione. L'EIAR, che
iniziò nel 1939 i primi esperimenti di trasmissione televisiva, mutò nel 1944 il
suo nome in RAI (Radio Audizioni Italiane). Gli impianti di trasmissione,
gravemente danneggiati durante il secondo conflitto mondiale, furono ricostruiti
e notevolmente potenziati a partire dalla fine della guerra e in poco più di tre
anni giunsero ad assicurare una copertura del territorio più ampia di quella
prebellica. Il 26 gennaio 1952 fu stipulata una concessione che riservava
all'ente il monopolio delle trasmissioni televisive in Italia fino all'11 agosto
1972. La legge stabiliva inoltre che la maggioranza assoluta delle azioni
appartenesse all'IRI e che le azioni rimanenti fossero da intestare a persone
fisiche e giuridiche esclusivamente italiane. Il 3 gennaio 1954 ebbe inizio il
servizio regolare di trasmissione televisiva; le trasmissioni erano irradiate da
una rete di trasmettitori in VHF destinata a raggiungere il 36% della
popolazione. Il 10 aprile del medesimo anno la società modificava ancora la
propria denominazione ufficiale in quella attuale di RAI - Radiotelevisione
Italiana. Fra gli eventi significativi della storia della RAI fino al 1972 si
ricordano inoltre: la prima telecronaca diretta dal Parlamento per l'elezione
del presidente della Repubblica (28 aprile 1955); l'esordio della pubblicità
televisiva (3 febbraio 1957); l'inaugurazione del centro di produzione TV di via
Teulada a Roma (19 dicembre 1957); l'inizio delle trasmissioni televisive di
«Telescuola» (25 novembre 1958), di «Tribuna elettorale» (11 ottobre 1960), di
«Tribuna politica» (26 aprile 1961); l'installazione di una seconda rete
televisiva in UHF (4 novembre 1961); la partecipazione al primo collegamento in
rete eurovisione fra l'Europa e gli Stati Uniti d'America (23 luglio 1962); i
primi esperimenti di trasmissione in collegamento con satelliti artificiali (3
agosto 1964); la cessione alla STET, da parte della SIP, della sua quota di
partecipazione al capitale della RAI (9 febbraio 1965). La RAI e il sistema
radiotelevisivo dal 1974 al 1998: nel dicembre 1972, alla scadenza della
concessione ventennale alla RAI dei servizi radiotelevisivi, fu promulgata una
convenzione aggiuntiva che prorogava di un anno la validità della concessione,
che fu poi ulteriormente estesa, con decreto legge, all'aprile 1974 e quindi al
novembre dello stesso anno. Nell'ambito del dibattito suscitato dalla presenza
di un monopolio radiotelevisivo e dalla sottomissione della sua gestione al
controllo governativo, particolarmente importante fu la sentenza della Corte
Costituzionale del 10 luglio 1974, che delineava i principi ai quali doveva
attenersi la nuova disciplina del servizio radiotelevisivo. In base a tale
sentenza, la Corte riconosceva la legittimità del monopolio statale, purché i
servizi offerti al pubblico fossero «caratterizzati da obiettività e completezza
di informazione», fossero contraddistinti da un'ampia apertura a tutte le
correnti culturali e da una rappresentazione imparziale delle idee espresse
dalla società, e purché fosse favorito e reso effettivo «il diritto di accesso
nella misura massima consentita dai mezzi tecnici». A tale sentenza era aggiunta
un'altra che deliberava la legittimità dell'esercizio privato dei servizi
radiotelevisivi locali via cavo, dando in questo modo inizio sia alla libera
iniziativa, sia alla possibilità da parte dei cittadini di ricevere le
trasmissioni di altri Paesi. Sulla base delle sentenze emesse dalla Corte
Costituzionale, il 14 aprile 1975 venne promulgata la legge n. 103, che dettava
«nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva» e costituiva
l'inizio della riforma della RAI. Essa si articolava in alcuni punti essenziali:
1) dichiarazione che le trasmissioni radiofoniche e televisive costituiscono «un
servizio pubblico essenziale e a carattere di preminente interesse generale, in
quanto volto ad ampliare la partecipazione dei cittadini, a concorrere allo
sviluppo sociale e culturale del Paese», e definizione della composizione della
Commissione parlamentare di vigilanza, formata da 40 membri designati, dai
presidenti delle due Camere del Parlamento, fra i rappresentanti di tutti i
gruppi parlamentari; 2) concessione alla RAI della gestione dei servizi per sei
anni, rinnovabile per altri sei e definizione della composizione del Consiglio
di amministrazione, in carica per tre anni, competente per l'elezione del
presidente e del direttore generale della RAI e composto da 16 membri, dei quali
10 eletti dalla suddetta Commissione parlamentare, e 6 eletti dall'Assemblea dei
soci; 3) regolamentazione dei programmi pubblicitari che non potevano superare
il 5% delle trasmissioni complessive; 4) legislazione in materia di televisioni
via cavo. Infatti, con la legge dell'aprile 1975, l'installazione di impianti
via cavo venne ammessa in ragione di zone geografiche con popolazione non
superiore ai 150.000 abitanti. Il quadro della disciplina posta da tale legge fu
sostanzialmente modificato con la sentenza (n. 202 del 28-7-1976) della Corte
Costituzionale, che dichiarò illegittima la norma che impediva al privato di
installare stazioni via etere a portata non superiore un territorio
circoscritto. Ciò determinò un incremento considerevole di emittenti televisive
in ambito locale e iniziarono a crearsi collegamenti fra varie emittenti, che -
all'inizio degli anni Ottanta - portarono alla creazione di reti su scala
nazionale. Nel frattempo, il 1° febbraio 1977, con decreto ministeriale veniva
introdotta la televisione a colori; inoltre, il 15 dicembre 1979 era inaugurata
la terza rete televisiva RAI a diffusione sia nazionale sia regionale. Ciò
nonostante, gli anni 1979-80 furono alquanto difficili per la RAI, sia per le
critiche mosse all'ingombrante interferenza politica e partitica all'interno
della gestione dell'ente, accusato di manipolare l'informazione, sia per le
difficoltà economiche, che esplosero nel 1980 con un bilancio per la prima volta
negativo, sia infine per la spietata concorrenza delle emittenti private.
Infatti, alla rottura del monopolio televisivo pubblico non fece seguito la
necessaria disciplina legislativa volta a riorganizzare il sistema dei servizi
radiotelevisivi: pertanto, in una prima fase (1976-79) si verificò la
proliferazione di radio e televisioni a carattere locale, senza che si
realizzasse alcuna concreta proposta di regolamentazione, mentre in una seconda
fase (1980-84) si assistette al prevalere di un gruppo privato, la Fininvest di
S. Berlusconi. Infatti, mentre la RAI procedeva al suo riassetto - reso
possibile dal rinnovo della convenzione con cui nell'agosto del 1981 il
ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni le concedeva l'esclusiva per sei
anni - la mancanza della regolamentazione nel campo della libera iniziativa
aveva determinato l'affermazione di alcune reti commerciali a livello nazionale,
quali Canale 5 della Fininvest, Italia 1 di Rusconi e Retequattro del gruppo
Mondadori: in breve queste raggiunsero livelli di professionalità tali da
sottrarre alla RAI sia notevoli settori di pubblico, sia dirigenti qualificati,
tecnici e artisti televisivi. Tuttavia, in questo contesto il mercato italiano
si dimostrò insufficiente ad alimentare un tale numero di reti commerciali
nazionali in aperta concorrenza fra loro: per questo, l'abilità della Fininvest
nel gestire la raccolta pubblicitaria - attraverso la creazione della società
Publitalia, al fine di acquisire e di incanalare tali risorse - fu determinante
nel consentirle di affermare la propria supremazia. Infatti, la Fininvest
acquisì nel 1982 la rete Italia 1 e nel 1984 Retequattro, dando luogo di fatto
al regime di duopolio che ha caratterizzato il sistema televisivo italiano.
Nell'ottobre 1984, continuando a mancare una legislazione in materia, alcuni
pretori oscurarono le reti Fininvest; in conseguenza di ciò, il Governo emanò un
decreto legge, poi prorogato e trasformato in legge il 4 febbraio 1985 (n. 10),
che consentiva la prosecuzione delle trasmissioni Fininvest, purché basate su
programmi preregistrati; tale legge, pur ponendosi come provvisoria, sanciva in
pratica la situazione di monopolio privato delle reti di Berlusconi; inoltre,
essa modificava anche alcune norme riguardanti la RAI, limitando i poteri del
Consiglio di amministrazione a beneficio del direttore generale. Nonostante
problemi sorti a livello dirigenziale, negli anni 1986 e 1987 la RAI riuscì a
far fronte alla concorrenza delle televisioni private; a ogni modo si rese
sempre più evidente la necessità impellente di una regolamentazione del sistema
radiotelevisivo, come sottolineò nel 1988 una sentenza della Corte
Costituzionale (n. 826), che richiamò all'ordine il legislatore affinché si
pervenisse a una normativa fondata sulla libera concorrenza, sulla trasparenza e
sul pluralismo. Nello stesso anno 1988 venne approvata la nuova convenzione,
valida per sei anni e rinnovabile, fra il Governo e la RAI per la concessione in
esclusiva del servizio pubblico, così come fu approvato un disegno di legge di
regolamentazione del servizio radiotelevisivo, presentato dal ministro delle
Poste e Telecomunicazioni O. Mammì, che fu trasformato in legge il 6 agosto 1990
(n. 223). La nuova legislazione ribadiva il carattere di preminente interesse
nazionale della diffusione dei programmi, individuando quali principi basilari
del sistema radiotelevisivo - realizzato con il concorso di soggetti pubblici e
privati - il pluralismo, la completezza, l'obiettività e l'imparzialità
dell'informazione; inoltre, istituiva la figura del garante della
radiodiffusione e dell'editoria, prevedeva limiti per la diffusione dei messaggi
pubblicitari, limitava a tre il numero delle reti nazionali possedute dal
medesimo soggetto; infine, vietava a chi possedesse imprese editrici di
quotidiani con una tiratura superiore a limiti prefissati di essere titolare di
più di una rete televisiva nazionale, e consentiva alle reti private la
diffusione di telegiornali in diretta. Nel frattempo, numerose continuavano a
essere le critiche relative all'amministrazione economica della RAI, per molti
anni in deficit; proposte di nuove formule organizzative, come la strutturazione
per genere di ogni singola rete, furono concomitanti all'elezione a nuovo
direttore generale di G. Pasquarelli in sostituzione di B. Agnes. Con la L.
25-6-1993, n. 206 fu delineato il nuovo assetto della RAI, stabilendone la
natura di società per azioni di interesse nazionale: essa è retta da un
Consiglio di amministrazione - composto da cinque membri nominati dai presidenti
delle Camere, in carica per non più di due esercizi sociali - che elegge il
presidente e designa il direttore generale, responsabile della gestione
aziendale. Tali criteri sono considerati validi fino all'entrata in vigore di
una nuova disciplina del servizio pubblico, nel quadro di una rinnovata
definizione del sistema radiotelevisivo. Ulteriori interventi normativi vennero
attuati nel 1994, con numerosi decreti legge - mai convertiti in legge, ma
sempre reiterati - i quali hanno previsto che il Consiglio di amministrazione
della RAI trasmetta al ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni, che lo
approva di concerto con il ministero del Tesoro, un piano triennale di
ristrutturazione aziendale che definisca in dettaglio gli obiettivi di
razionalizzazione attinenti al personale e agli assetti industriali e
finanziari. Tale normativa prevede inoltre che, qualora il piano non dovesse
essere approvato, i presidenti delle Camere possano nominare nuovi componenti
del Consiglio di amministrazione. I permanenti problemi gestionali della RAI,
determinati dalla difficoltà di pervenire al risanamento economico dell'azienda,
sono testimoniati dal continuo cambio ai vertici dirigenziali: dal 1994 al 1998
si sono succeduti ben quattro consigli di amministrazione, presieduti
rispettivamente da C. Demattè, da L. Moratti, da E. Siciliano e da R. Zaccaria.
Impianti e strutture tecniche: per ciò che concerne il settore dei trasmettitori
radiofonici, al 31 dicembre 1994 risultavano installati complessivamente 2.701
impianti, di cui 128 a onda media, 10 a onda corta, 1 a onda lunga e 2.562 a
onda metrica a modulazione di frequenza; fra questi ultimi, alcuni trasmettono
programmi in lingua tedesca (per l'Alto Adige) e in lingua slovena (per il
Friuli-Venezia Giulia), mentre altri 197 trasmettono in isofrequenza sulle
autostrade. Per quanto riguarda invece gli impianti di trasmissione televisiva,
al 31 dicembre 1994 erano in funzione 5.127 apparati - operanti con il sistema
standard PAL - collegati alle sedi e ai centri di produzione dei programmi,
mediante una rete di ponti radio a più vie, lunga complessivamente 30.000 km. In
seguito all'evoluzione delle tecnologie, nel 1977, nel 1985 e nel 1988 si sono
svolte a Ginevra le Conferenze mondiali relative all'utilizzazione delle orbite
dei satelliti geostazionari e alla pianificazione dei servizi spaziali
utilizzanti tali orbite; in virtù della disponibilità degli strumenti
internazionali, la RAI ha impiegato, per irradiare programmi televisivi da
satellite, dapprima (1989) il satellite Olympus, e quindi i satelliti Hot Bird 1
e 2. Società collegate alla RAI: attualmente la RAI è strettamente connessa,
tramite la partecipazione azionaria, alla gestione di numerose società: Telecom
Italia S.p.A. (installazione ed esercizio con qualunque tecnica dei servizi di
telecomunicazioni); Auditel S.r.l. (rilevamento dei dati sull'ascolto
televisivo); Nuova ERI - Edizioni RAI Radiotelevisione Italiana S.p.A.
(industrie editrici, giornalistiche, librarie, tipografiche, musicali,
audiovisive e discografiche); Nuova Fonit Cetra S.p.A. (acquisto, produzione e
vendita di registrazioni video e fonografiche); SACIS (iniziative attinenti alle
attività dello spettacolo in generale); SIPRA (assunzione e sfruttamento di ogni
tipo di pubblicità); Euronews Editorial (diffusione di telegiornali via
satellite); RAI Corporation - Italian Radio TV System (produzione, distribuzione
e commercializzazione di programmi radiotelevisivi nel continente americano);
Labia Services S.p.A. (immobiliare); TV I - TV Internazionale S.p.A. (acquisto,
gestione, locazione e manutenzione sul territorio nazionale e all'estero di
tutti i sistemi tecnici di trasmissione e diffusione audiovisiva).
Scuola.
(dal greco scholé: il tempo libero da impegni di lavoro; più precisamente il
tempo dedicato a piacevoli occupazioni intellettuali, quali la conversazione o
lo studio, indipendentemente da ogni bisogno pratico. Passato al latino
classico, il sostantivo schola fu impiegato per definire la trattazione dotta di
un argomento, quindi le lezioni e più tardi lo stesso luogo nel quale si attende
allo studio in relazione a un'attività di insegnamento svolta da docenti. Nel
latino medioevale, a questi usi del termine si aggiunse quello di designare
l'insieme dei discepoli di un maestro. Durante l'età carolingia il sostantivo
schola assunse forma definitiva, conservando il complesso dei significati
precedenti, ma caratterizzandosi soprattutto come ambiente specializzato per
l'insegnamento, distinto - se non proprio separato - dal contesto
economico-produttivo). Istituzione di carattere sociale organizzata
sistematicamente, che, attraverso un'attività didattica strutturata, ha il
compito di trasmettere alle giovani generazioni gli elementi fondamentali di una
civiltà, di una cultura o di avviare al possesso di una data disciplina o alla
pratica di una determinata professione. In quest'accezione (la più comune) s. è
in genere accompagnata da specificazioni che ne chiariscono l'esatto valore: s.
pubblica; s. elementare. Per estens. - Corso di istruzione relativo a un ambito
specifico; insegnamento metodico di una disciplina, di un mestiere o di un'arte:
s. di sci. L'insieme degli individui (insegnanti, studenti, personale non
docente) che fanno parte di un determinato istituto scolastico: sono andato in
gita con la s. L'edificio in cui si svolgono le lezioni e dove è impartito
l'insegnamento, vale a dire l'edificio o il complesso di edifici sede di un
istituto scolastico: la s. ha sede in un palazzo moderno. Per estens. -
L'insieme di pensatori, letterati, scienziati e artisti, uniti dai medesimi
principi ideologici o metodologici, che sviluppano un comune indirizzo e la cui
produzione appare pertanto omogenea: la s. impressionista. L'insieme di allievi
e seguaci di un grande maestro: la s. di Raffaello; in ambito artistico, il
concetto di s. può risultare talora riduttivo, se applicato alle opere, eseguite
dagli allievi di un maestro, prive di originalità. Nel linguaggio degli Ebrei
italiani, sinagoga. Ant. - Nome dato, a Venezia, ad alcune confraternite a
carattere sociale e religioso e alle loro sedi, spesso impreziosite da dipinti
di grandi artisti. Nave s.: unità navale adibita all'addestramento pratico di
ufficiali ed equipaggi. S. attiva: denominazione data alla corrente di
rinnovamento dei metodi d'insegnamento e dell'organizzazione scolastica
sviluppatasi nel mondo occidentale a partire dalla fine del XIX sec. per
iniziative sia pubbliche, sia private. Tale movimento, pur con metodologie
differenti, tende a promuovere nella pratica educativa, attraverso l'importanza
conferita al gioco e al lavoro, la libertà e la spontaneità del singolo alunno
favorendone la partecipazione e la creatività. S. europea: fondata nel 1953 nel
Principato del Lussemburgo, fu creata dalla CECA per dar modo ai figli dei
dipendenti, provenienti da diversi Paesi europei, di continuare gli studi senza
allontanarsi dalla famiglia. In pochi anni la s. europea acquisì un grande
numero di iscritti, non più solo figli di dipendenti delle istituzioni
comunitarie, poiché il diploma di tale s. consente di accedere alle università
di diversi Paesi europei. Le s. europee, controllate insieme dai governi degli
Stati membri dell'Unione europea, sono governate da un protocollo
intergovernativo che include lo Statuto della s. europea, firmato dai sei Stati
membri originari a Lussemburgo il 12 aprile 1957. Il loro compito è di fornire
una formazione multi-culturale, multi-lingue e multi-sociale per gli alunni dei
cicli materno, primario e secondario. Nel corso degli anni sorsero diverse s.
europee: a Bruxelles (Belgio) nel 1958, nel 1964 e nel 1999; a Ispra (Italia)
nel 1960; a Mol-Geel (Belgio) nel 1960; a Karlsruhe (Germania) nel 1962; a
Bergen (Olanda) nel 1963; a Monaco (Germania) nel 1977; a Culham (Gran Bretagna)
nel 1978; ad Alicante (Spagna) nel 2002; a Francoforte (Germania) nel 2002. I
cicli di insegnamento sono suddivisi in: ciclo primario di 5 anni e ciclo
secondario di 7 anni. Ogni alunno segue il corso nella sua lingua madre, ma deve
impararne un'altra, detta lingua veicolare. S. superiore della pubblica
amministrazione: organo della presidenza del Consiglio dei ministri, istituito
nel 1957 per curare la qualificazione e l'aggiornamento professionale dei
dipendenti statali. Dal 1993 svolge attività di formazione e ricerca sulla base
di direttive emanate dal presidente del Consiglio ed esprime pareri sui piani
formativi degli enti pubblici non economici.
• Mil. - S. militari: in passato tale denominazione era riservata ai soli
istituti per la formazione dei quadri militari (ufficiali e sottufficiali) e di
alcune categorie di specializzati. Con il tempo il concetto si è esteso
notevolmente, giungendo a designare il complesso di istituzioni organizzate per
l'educazione e la formazione dei quadri di ogni grado e categoria e per la
specializzazione della truppa, nonché per l'addestramento dei contingenti
militari di leva e per l'aggiornamento dei richiamati. Quasi tutti i Paesi hanno
questo tipo di s.; in genere sono coordinate dai rispettivi ministeri della
Guerra o della Difesa e sono comandate da ufficiali; ufficiali sono anche gli
istruttori. Nei secoli scorsi potevano frequentare le s. militari solo i nobili;
oggi vengono accolti giovani di qualsiasi classe sociale purché idonei
fisicamente, moralmente e intellettualmente. I giovani che vogliono entrare
nella s. militare non devono avere superato il 17° anno di età al momento
dell'ammissione. In Italia, le s. militari possono essere distinte in: istituti
superiori; s. interforze; s. dell'esercito; s. dell'aeronautica militare; s.
della marina militare. Istituti superiori: comprendono il Centro Studi Alta
Difesa, a sua volta ripartito in Istituto Alti Studi Difesa (per ufficiali
superiori e alti dirigenti di polizia) e Istituto Superiore Stato Maggiore
Interforze (per alti ufficiali in ambito interforze); l'Istituto Stati Maggiori
combinati, per la qualificazione degli ufficiali in campo interforze; la S. di
guerra (Esercito), che prepara gli ufficiali di Stato Maggiore; l'Istituto di
guerra marittima, istituito nell'anno 1921 con il compito di formare personale
in grado di affrontare problemi di applicazione strategica e di tattica
militare, sotto la direzione di un ammiraglio; la S. di guerra aerea, destinata
a ufficiali che, mediante un corso di due anni, ottengono la promozione al grado
di maggiore colonnello o comandante di squadriglia o di gruppo; inoltre, essa
impartisce nozioni sui piani di guerra ai tenenti colonnelli. S. interforze:
comprendono ufficiali delle tre forze armate. Sono l'Accademia di sanità
militare interforze, la S. telecomunicazioni, la S. per la difesa nucleare,
biologica e chimica e la S. di aerocomunicazione. S. dell'esercito: comprendono
le s. di reclutamento e di applicazione (accademie militari; s. di applicazione;
s. allievi ufficiali di complemento e allievi sottufficiali; s. militare
preparatoria della Nunziatella); le s. d'arma o di servizio, con funzioni
addestrative o di servizio (per esempio, s. carabinieri, di fanteria,
artiglieria, sanità, trasmissione, commissariato); le s. di specializzazione,
per tutte le categorie di quadri o truppa (per esempio, s. militare di
paracadutismo, s. militare alpina, s. di educazione fisica); i centri di
addestramento, prima detti Centri di Addestramento Reclute (CAR) e ora
denominati Reggimenti di Addestramento Reclute (RAR), per l'addestramento
preliminare degli scaglioni di leva. Le accademie, già ricordate, sono
l'Accademia di artiglieria e genio e l'Accademia di cavalleria e fanteria,
l'ammissione alle quali è regolata da un concorso bandito annualmente dal
ministero della Difesa. S. dell'Aeronautica militare: comprendono le s. di
reclutamento e applicazione (Accademia aeronautica, s. di applicazione per
sottotenenti piloti); le s. di volo, per piloti anche delle altre forze armate;
le s. specialisti, per la preparazione di specialisti in varie categorie; le s.
di specializzazione; i centri tecnici addestrativi, volti in particolare
all'ambito delle telecomunicazioni e della difesa aerea. Quanto all'Accademia
aeronautica, essa ha il compito di istruire il personale ufficiale del ruolo
piloti e del ruolo servizi mediante corsi regolari di uno, due o tre anni e
inserisce i candidati nei diversi gradi militari. A queste s. sono da aggiungere
le s. postmilitari dell'Aeronautica, che riguardano il reparto di turismo aereo;
vi ricorrono tuttavia per periodi di addestramento anche gli ufficiali in
servizio non effettivo e i piloti della riserva. S. della Marina militare: si
suddividono in: s. di reclutamento e di applicazione (Accademia navale, per la
preparazione di ufficiali effettivi e di complemento; l'istituto di
elettrocomunicazioni; la s. di sanità militare marittima); s. sottufficiali;
centri di addestramento, per la preparazione specialistica di alcune categorie
(per esempio, gruppo aeromobili imbarcati; antisommergibilisti; servizio
subacqueo; radar; arditi incursori; servizio sicurezza). L'Accademia navale,
nata nel 1881, ha sede a Livorno; è il maggiore organo d'istruzione militare
navale e da essa escono i futuri ufficiali della Marina da guerra.
"La scuola militare alpina" di Umberto Pelazza
• Econ. - S. storica dell'economia: corrente di pensiero sviluppatasi in
Germania negli ultimi decenni del XIX sec. e nota anche come nuova o seconda s.
storica dell'economia. Lo Storicismo economico tedesco affonda le proprie radici
nel Romanticismo economico affermatosi in Germania nella prima metà del XIX sec.
con A.H. Muller. Costui, di contro ai fondamenti filosofici della s. classica
inglese e in particolare alla teoria di A. Smith, rivalutò le componenti non
razionali del comportamento umano, quali le abitudini, le credenze religiose, i
sentimenti nazionali. Le dottrine di Muller furono alla base degli studi di J.
Rodbertus e F. List e influirono sull'analisi di autori quali W. Rocher, B.
Hildebrand e K. Knies, che però non formarono una s. vera e propria. Assai più
preciso fu invece l'indirizzo della corrente di pensiero economico che di fatto
rappresenta l'autentica s., associata soprattutto al nome di G. Schmoller
(1838-1917). Altri importanti esponenti furono L. Brentano, K. Bücher, A. Held,
G.F. Knapp, C. Engel, A. Wagner. Tutti costoro si opposero costantemente a
quella che essi definivano un'analisi isolante dei fenomeni economici,
affermando che, se studiati isolatamente, tali fenomeni perdevano ogni valore.
Infatti, l'economia schmolleriana tendeva a non trascurare nessuno degli
elementi costituenti il cosmo sociale, per cui a rigore dovrebbe essere definita
una sociologia storicistica nel più ampio significato del termine; del resto, lo
stesso Schmoller chiamò la sua s. non solo storica, bensì storico-etica. L'opera
della s. di Schmoller fu continuata, in senso ancor più spiccatamente
sociologico, da altri studiosi, fra cui A. Spiethoff, W. Sombart e M. Weber, che
costituirono la terza o giovanissima s. storica. Sotto l'influenza dello
Storicismo romantico, la s. storica si contrappose all'economia classica
inglese, rimproverandole di essere dogmaticamente astratta, così da estraniare
l'indagine economica dalla realtà e dall'esperienza concreta. Rifiutando ogni
concetto di “leggi” economiche valide in ogni tempo e in ogni luogo, gli
economisti storici osservavano che non si potevano trascurare differenze
macroscopiche come quella tra il mercato medioevale e quello moderno, o la
diversa formazione del prezzo in un'economia curtense e in un'economia di libero
scambio, o ancora il divario fra l'impresa agricola in uno Stato fortemente
popolato e in uno Stato di nuova colonizzazione. Preoccupati di ricostruire i
fatti economici delle varie epoche, gli economisti della s. storica si
limitarono però a stendere ottime monografie descrittive o di storia economica,
senza giungere all'elaborazione di una nuova teoria. Nel 1883, la polemica fra
Schmoller e Menger si concluse con il successo di quest'ultimo, il quale
difendeva i diritti del pensiero teorico. Nonostante la sconfitta metodologica,
l'esigenza storicistica rimase viva, accompagnata dalla critica al Naturalismo
economico, vale a dire all'ipotesi dell'esistenza - prima e al di fuori dello
Stato - di una società economica regolata da leggi naturali. Alla s. storica
appartennero anche gli economisti tedeschi noti come socialisti accademici,
capeggiati dallo stesso Schmoller: riunitisi nella Società per la politica
sociale diedero un notevole impulso all'avanzata del fronte socialista in
Germania. Movimenti paralleli si svilupparono anche altrove e la stessa s.
tedesca ebbe ripercussioni in altri Paesi.
• Encicl. - Al fine di comprendere meglio il fenomeno s. attraverso la sua
evoluzione nel tempo, nell'ambito delle diverse civiltà, si devono tenere
presenti due caratteri fondamentali: da un lato, il rapporto che si instaura tra
chi insegna e chi apprende e, dall'altro, l'istituzionalizzazione sociale di
questo rapporto, che lo rende un'attività formalmente predisposta con propri
fini e proprie tecniche; per questo, più che per i suoi contenuti, la s. si
distingue dagli altri fattori e dagli altri aspetti della vita sociale e
culturale. Per altro, sia il carattere trasmissivo sia il carattere
istituzionale, pur costitutivi della s., non furono sempre manifesti né
pienamente intenzionali; inoltre, essi sono apparsi e appaiono ancora, a certe
correnti pedagogiche, una minaccia per la spontaneità e per l'autonomia del
processo di formazione della personalità, nonché un rischio grave per la
cultura, la quale risulta prodotta in un ambiente protetto, avulsa dai momenti
essenziali e fecondi della vita individuale e sociale. Ciò nonostante, i due
caratteri menzionati rappresentano un valido punto di riferimento in sede sia
storica, sia critica. La Grecia antica: nelle società arcaiche il fattore
unificante nel processo di acculturazione fu la religione, o più esattamente la
dimensione del sacro: le più antiche civiltà orientali conobbero una s.
sacerdotale, finalizzata a trasmettere la dottrina e le norme del culto, ma
talora - come nell'antico Egitto - destinata anche a preparare i più alti
funzionari pubblici. Nonostante la specializzazione di alcune funzioni, non si
delineò però una realtà scolastica a sé stante: era infatti la società stessa a
educare, attraverso la promozione, la gestione e il controllo dell'integrazione
dell'individuo secondo fasi successive, che richiedevano una certa
diversificazione di mansioni educative. I tratti comuni, pur nella varietà di
esperienze, delle società più arcaiche possono dunque essere individuati
nell'unitarietà del gruppo fondata su premesse religiose e nel graduale
differenziarsi di funzioni che non portano però all'istituzione formale di una
realtà educativa distinta. Con il progredire della civiltà, che rende più
complessa e articolata la vita sociale, si assiste a esperienze più concrete e
diversificate, connesse con le caratteristiche peculiari dei vari popoli. Così,
presso gli antichi Fenici fu avvertita l'esigenza di una specializzazione della
funzione educativa in ciò che concerneva le attività pratiche di tipo
artigianale, finalizzate alla vita commerciale, asse fondamentale dello sviluppo
economico e culturale fenicio. Diversamente, gli Ebrei, pur non trascurando
altri insegnamenti, diedero particolare rilevanza all'istituzionalizzazione
dell'insegnamento religioso. Gelosi custodi delle proprie tradizioni, vissute
come espressione di un patto di alleanza con la divinità, gli Ebrei avvertirono
l'esigenza di affidare l'interpretazione e l'insegnamento della legge (Thorà) a
una classe sacerdotale (tribù di Levi) e in particolare agli Scribi.
Conseguentemente, il momento dello studio delle tradizioni religiose diveniva
per tutti un aspetto essenziale dell'esistenza, strutturandosi in procedure
specifiche e ben definite. Tuttavia, è con l'antica Grecia che l'istituzione s.
assunse un'organizzazione complessa, disponendo di materie, di programmi, di
sedi e di insegnanti specifici. E non si trattò soltanto della creazione di
centri di cultura, sorti per iniziativa di sapienti (filosofi) desiderosi di
indagare la natura delle cose al di là dei modelli tratti dalla mitologia
tradizionale; infatti, oltre a queste s. si determinò per la prima volta la
reale formazione di un sistema scolastico generalizzato, destinato agli
appartenenti alle classi sociali che godevano dei diritti civili e politici. Gli
individui appartenenti a queste classi venivano precocemente inseriti in un
meccanismo ben articolato che provvedeva, secondo la concezione greca dell'uomo,
alla formazione integrale della personalità sul piano fisico, sul piano
dell'apprendimento di un sistema codificato di conoscenze, sul piano sociale.
Era assente da tale processo educativo la dimensione pratico-operativa: ad essa
infatti erano avviati gli appartenenti alle classi sociali inferiori, secondo i
tradizionali metodi di addestramento nell'ambiente di lavoro. Da tale concezione
ebbe origine e si caratterizzò il concetto di scholé, inteso come attività
libera da incombenze lavorative in ambito produttivo e commerciale. A Sparta
l'educazione era riservata al ristretto gruppo degli Spartiati, cioè ai membri
delle nobili e antiche famiglie che detenevano il potere politico e la proprietà
dei grandi latifondi. Ne erano invece esclusi sia gli iloti (schiavi di Stato
destinati ai lavoratori manuali), sia i perieci, individui di condizione libera
dediti alle attività artigianali più evolute e al commercio. I bambini
rimanevano all'interno della famiglia, affidati alla cura delle donne, fino al
compimento del 7° anno; erano quindi presi in consegna dallo Stato, il quale
provvedeva a impartire una completa educazione fino al compimento del 20° anno,
che segnava l'inizio della vita militare vera e propria. I contenuti e i metodi
dell'educazione scolastica spartana (detta agogé) erano finalizzati alla
formazione del cittadino-guerriero. La direzione dell'insegnamento era affidata
a un magistrato speciale, il pedonomo; i fanciulli venivano istruiti nella
ginnastica, nel canto e nella danza, e apprendevano alcuni testi
storico-letterari, nei quali era esaltato il tema della gloria militare: si
trattava infatti di un'educazione mirata, in quanto tutte queste discipline
tendevano essenzialmente a educare i giovani spartani all'arte della guerra.
Perciò era assai importante l'inquadramento in reparti, detti agele, distinti
per età e suddivisi in squadre, organizzati con sistema strettamente
militaristico; i giovani vi si abituavano alla vita in comune, si esercitavano
nell'agonismo fisico e imparavano (anche attraverso prove iniziatiche, come le
spedizioni punitive nei confronti degli iloti) a essere coraggiosi e a
disprezzare la morte. A ciò si aggiunga che nella società spartana anche le
donne erano parzialmente coinvolte in questo meccanismo educativo-militare; esse
partecipavano infatti per qualche tempo all'educazione, condividendo i disagi e
la disciplina durissima degli uomini: tale formazione era necessaria,
nell'ottica spartana, perché, divenute adulte, generassero figli sani, robusti e
di carattere forte. Assai differente era invece l'impostazione educativa ad
Atene, dove la musica, la lettura e la scrittura non erano strumentali, bensì
costituivano valori in sé, destinati alla formazione di una personalità
equilibrata e completa. C'erano insegnanti specializzati, quali il pedotriba
(ginnastica), il citarista (musica), il grammatista (lettura e scrittura) e il
pedagogo, una sorta di assistente che accompagnava i fanciulli. Anche ad Atene
la prima educazione era affidata alla famiglia, e in particolare alla madre e
alle altre donne di casa riunite nel gineceo. Dal compimento del 7° anno tutti i
fanciulli liberi, anche quelli appartenenti alle classi più elevate, che
potevano disporre di servitù e di mezzi, frequentavano la s. fino a 14 anni. La
città non organizzava direttamente il sistema scolastico, ma ne promuoveva lo
sviluppo e ne coordinava l'attività. Fra i 14 e i 18 anni il ragazzo ateniese
frequentava il ginnasio, una palestra dove alle attività fisiche si associavano
esperienze di vita culturale e sociale, sotto la guida di un funzionario
statale, il ginnasiarca. Nei successivi due anni si attuava la preparazione
militare, detta efebato. Oltre agli schiavi e ai meteci (stranieri residenti),
erano escluse dalla s., nella democrazia ateniese, anche le donne. Nella seconda
metà del V sec. a.C. si sviluppò, ad opera dei sofisti, fondatori della
pedagogia teoretica, il concetto di paideia, cioè di formazione attraverso la
cultura; si generarono quindi due orientamenti educativi diversi, l'uno rivolto
alla formazione filosofica e politica (l'Accademia di Platone), l'altro alla
retorica (la s. di Isocrate); da tali esperienze discese poi, in epoca
ellenistica, la creazione di istituti di altissimo livello scientifico e
culturale come il Liceo di Aristotele. Nell'età ellenistica, l'incontro tra
esperienze e tradizioni di popoli diversi accentuò il fenomeno della
“professionalizzazione” della cultura, già iniziato dai sofisti. Tuttavia, in
questo caso non si trattò di un fatto soggettivo, ma dell'esigenza oggettiva di
codificare e di conservare il sapere, di cui fu segno la grande biblioteca di
Alessandria, contenente oltre mezzo milione di volumi. Lo studio divenne quindi
un fatto pubblico e tecnico: si delineò un primo ciclo scolastico, tra i 7 e i
14 anni, durante il quale i fanciulli apprendevano a leggere, a scrivere e a far
di conto, dedicandosi inoltre alla ginnastica, alla musica e al disegno. Tra i
14 e i 18 anni lo studio si allargava alla totalità del sapere, con insegnamenti
di letteratura, matematica, astronomia, biologia, fisica: si trattava infatti di
una vera s. secondaria superiore polivalente, alla quale faceva seguito un
biennio di specializzazione nel campo della filosofia, della retorica, della
medicina. A tale sviluppo si accompagnò, da parte dello Stato, un interesse
sempre più intenso per l'educazione, che assunse in numerosi casi l'aspetto
della diretta istituzione di s., con la predisposizione di strutture, di
programmi, di personale qualificato. L'antica Roma: l'incontro fra la civiltà
greco-ellenistica e Roma produsse un rilevante mutamento nel sistema educativo
romano, che fino a quell'epoca, a causa del prevalere degli interessi pratici e
politici, si era disinteressato degli studi liberali ed era rimasto affidato
all'ambito esclusivamente familiare: sotto l'influsso greco e in seguito al
formarsi di una letteratura romana si giunse in Roma a una più organica
impostazione, avente il carattere di s. pubblica (nel senso di collettiva), ma
gestita da privati, cioè ancora da nuclei familiari accordatisi tra loro. Se
nell'epoca arcaica il fanciullo, compiuti i 7 anni, passava sotto la cura del
padre, il quale lo avviava alla conoscenza della vita dei campi e soprattutto
dei criteri di un'oculata amministrazione, a partire dal I sec. a.C. la s.
assunse tutte le sue caratteristiche strutturali: comprendeva infatti un luogo
dove si recavano i fanciulli (non di rado anche le bambine) e aveva insegnanti
specifici e programmi dettagliati. La s. primaria era detta ludus, cioè ancora
attività libera non lavorativa, come per i Greci: l'insegnante era detto
litterator e impartiva nozioni elementari di scrittura, lettura, conto. Fra i 13
e i 16 anni si frequentava la s. secondaria, dove dominava la figura del
grammaticus, non di rado proveniente dalla Grecia, dal quale gli allievi
apprendevano le opere letterarie latine e greche. Seguivano quindi,
conformemente alla mentalità pratica dei Romani, indirizzi specialistici come le
s. di diritto e di retorica. Nell'epoca imperiale si ebbe un più diretto
intervento dello Stato nella s. secondaria e di livello superiore, con
istituzione di s. imperiali, mentre l'istruzione primaria ritornò a essere
competenza delle singole famiglie. Medioevo: la fine dell'Impero romano
d'Occidente pose termine all'esperienza delle s. imperiali. La cultura classica
entrò allora in crisi per effetto di due fattori concomitanti, le invasioni
barbariche e l'avvento del Cristianesimo. Tesa a promuovere l'affermarsi di
valori spirituali, la Chiesa avocò a sé la funzione di provvedere
all'insegnamento, organizzando s. parrocchiali che impartivano un insegnamento
religioso comprendente gli elementi essenziali della lettura e della scrittura.
L'istruzione secondaria assunse la caratteristica dell'avviamento al sacerdozio:
si svolgeva all'interno dei monasteri e comprendeva anche elementi delle arti
dette liberali (in virtù della tradizionale distinzione tra studio e lavoro)
quali l'aritmetica, la geometria, l'astronomia, la musica, la grammatica, la
dialettica, la retorica. Grazie all'opera di studiosi come S. Boezio, Cassiodoro,
M. Capella, i programmi si arricchirono di contenuti della cultura classica,
sulla base di traduzioni e di adattamenti, talvolta incompleti o infedeli ma pur
sempre importanti. Dopo la s. secondaria i candidati al sacerdozio passavano
alle s. cattedrali o vescovili, dove si perfezionavano nello studio della
filosofia e della teologia. Tra l'VIII e il IX sec., il sistema d'insegnamento
venne globalmente riorganizzato ad opera di Carlo Magno, il cui disegno era
quello di creare una rete omogenea di s., con un programma di studi ben
definito, adatto alla formazione delle classi dirigenti intellettuali, dove
predominavano le figure degli ecclesiastici. Per iniziativa di Alcuino e dei
suoi collaboratori, artefici di quella che comunemente viene indicata come
“rinascita carolingia”, vennero riordinate le s. monastiche e vescovili, sulla
base della distinzione delle arti liberali in trivio (grammatica, dialettica,
retorica) e quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica), intese come
propedeutiche agli studi teologici. Dopo il Mille si verificò un'importante
trasformazione degli studi superiori, che sfociò nella nascita delle università,
in seguito al formarsi di corporazioni di studenti e di insegnanti. Tra la fine
dell'XI e l'inizio del XII sec. sorse l'università di Parigi, nata dall'antica
s. cattedrale di Notre-Dame, specializzata in studi di teologia e
successivamente ordinata in quattro facoltà: Arti, Diritto canonico, Medicina e
Teologia. Alla prima metà del XII sec. risale anche l'università di Bologna, che
si specializzò negli studi di diritto e fornì a Federico Barbarossa gli
strumenti teorici di legittimazione della sua autorità. Da una scissione in seno
all'università di Parigi ebbe origine l'università di Oxford e da un'ulteriore
scissione quella di Cambridge, entrambe specializzate nello studio delle
scienze. Nella prima metà del XIII sec., per opera di Federico II, venne fondata
l'università di Napoli, che si affiancò alla s. medica di Salerno, e nello
stesso periodo fu fondata l'università di Padova. Fra i numerosi problemi che
caratterizzarono questa trasformazione della cultura superiore, va ricordata la
tendenza dell'autorità imperiale a intaccare il monopolio ecclesiastico, al fine
di formare intellettuali e funzionari laici e non necessariamente religiosi, in
grado di svolgere con competenza mansioni amministrative complesse e
culturalmente impegnative. Età moderna: il processo di laicizzazione della
cultura divenne rilevante solo nell'epoca umanistica e rinascimentale, in
conseguenza dell'arricchirsi del materiale culturale. In questo periodo
particolare rilevanza ebbero le s. che si ispiravano al modello dei convitti (s.-convitto
o s.-famiglia) creati dagli umanisti Vittorino da Feltre e Guarino Veronese;
inoltre, si affermarono da un lato le s. primarie municipali, che svolgevano un
insegnamento non più finalizzato allo studio dottrinale, dall'altro le
università e altri istituti superiori (come le accademie), dove insegnanti laici
approfondivano argomenti scientifici, letterari, giuridici e filosofici non più
connessi con l'ambito religioso. Per quanto riguarda l'istruzione secondaria,
pur non mancando iniziative municipali, continuò a prevalere l'insegnamento
impartito dagli ecclesiastici, al quale si affiancava sempre l'educazione data
all'interno della famiglia. Gelosa delle sue prerogative tradizionali,
l'autorità religiosa non si rassegnava infatti alla perdita del controllo della
cultura. Il problema si complicò con l'avvento del movimento della Riforma
protestante, iniziata nel 1517 da Martin Lutero e affermatasi rapidamente in
vari Paesi europei; infatti, in conseguenza sia della Riforma, sia della
Controriforma cattolica, la ricerca educativa e l'organizzazione scolastica
conobbero un ulteriore sviluppo ed estensione. Direttamente discendente dalla
Riforma, secondo la quale ogni individuo ha il diritto di realizzare un proprio
rapporto vitale con il testo delle sacre scritture, fu l'istanza di una generale
estensione della cultura, senza limitazioni di censo o di sesso. Lutero e i suoi
collaboratori si fecero promotori dell'istituzione di s. popolari ad opera dello
Stato e in questo modo fu avviato in molti Paesi europei, e in particolare in
Germania, il superamento del fenomeno dell'analfabetismo. Dal canto suo la
Controriforma mise in atto un'intensa ricerca di soluzioni educative teoriche e
pratiche che consentirono all'istruzione di organizzarsi in modo efficiente.
Esempio eccellente fu la ratio studiorum dei Gesuiti, relativa alla s.
secondaria: tale schema di studi comprendeva un quinquennio formato da tre anni
di grammatica, uno di umanità e uno di retorica, al quale faceva seguito un
triennio, detto filosofico, con insegnamento di logica, metafisica, psicologia,
etica, fisica, filosofia, matematica. Significativa fu anche l'istituzione di s.
popolari gratuite da parte degli Scolopi, in sostituzione delle s. municipali
ormai in grave crisi e in alternativa alle s. parrocchiali, povere di contenuti,
di metodi e di personale capace. Nell'età moderna i sistemi scolastici divennero
stabilmente un elemento integrato nella realtà interna dei singoli Stati. Alla
progressiva organizzazione della s. in struttura, con programmi ben definiti e
con l'autorità di rilasciare titoli di studio riconosciuti, seguì l'adattamento,
da parte degli stessi ordini religiosi, del proprio insegnamento alle differenti
situazioni. Tra il XVII e il XVIII sec., nella maggioranza dei Paesi europei si
assistette ancora alla preponderanza dell'educazione impartita a livello
primario e secondario nell'ambito delle istituzioni ecclesiastiche, mentre
l'insegnamento universitario acquisì piena indipendenza e autonomia. Nei Paesi
riformati, accanto alla s. privata si affermò quella promossa in vari modi dallo
Stato, il quale favoriva, finanziava parzialmente e coordinava le iniziative
locali delle comunità. Si configura in questo periodo il modello, definito
anglosassone, di una s. non statale ma garantita dallo Stato, il quale esercita
il controllo sui contenuti, sui metodi e sulla scelta dei docenti. In Gran
Bretagna iniziò allora a diffondersi la Grammar School, la quale rappresentava
un modello di s. secondaria in cui l'impostazione umanistica classica era
associata all'interesse per la realtà concreta dell'esperienza. L'insegnamento
era impartito a tempo pieno nei colleges, convitti frutto della collaborazione
tra Stato e associazioni private, e ben presto tale sistema di formazione delle
classi dirigenti si riprodusse anche nelle colonie americane. Nella s.
anglosassone era ed è tuttora elemento caratteristico l'organizzazione di forme
di autogoverno degli studenti, riuniti in vari circoli (club) culturali,
ricreativi, scientifici e sportivi. Con l'avvento dell'età dell'Illuminismo si
verificò una svolta decisiva nella storia della s.: infatti, all'esempio della
s. anglosassone fu contrapposto un altro modello scolastico che, recuperando le
esperienze del passato, concepiva l'educazione come un preciso obbligo dello
Stato. In questa concezione, sono compiti esclusivi dello Stato l'istituzione
diretta delle s., la definizione dei programmi, la formazione e il reclutamento
degli insegnanti, i quali divengono veri e propri funzionari statali. A tale
impostazione educativa si richiamarono i sovrani illuminati Federico II di
Prussia e Maria Teresa d'Austria, i quali si impegnarono non soltanto a
combattere l'ignoranza, ma anche a contenere e a sopravanzare l'educazione
scolastica impartita dagli enti religiosi. L'idea di una s. di Stato rigidamente
strutturata e centralizzata venne portata a definitivo compimento da Napoleone,
nella cui concezione il liceo diveniva strumento politico di formazione di un
ceto dirigente omogeneo. Il modello burocratico della s. napoleonica fu adottato
in Italia nel 1859 con la legge Casati che rappresentava per il Piemonte,
vittorioso con l'aiuto francese nella seconda guerra di indipendenza, un
efficace mezzo di unificazione linguistica e culturale delle popolazioni delle
varie regioni italiane progressivamente annesse al neonato Stato italiano.
Inoltre, nel XIX sec., accanto alla presenza dei due differenti modelli
scolastici, anglosassone e napoleonico, ebbe luogo la contrapposizione e la
separazione effettiva tra due concezioni della cultura e dell'educazione: da un
lato quella ispirata alla tradizione classica e umanistica, alimentata
dall'esaltazione fattane dal Romanticismo e dal pensiero idealistico, dall'altra
quella riferita principalmente al sapere scientifico, polemicamente affermata
dal Positivismo in contrasto con l'Idealismo. La tendenza ad abbandonare
l'impostazione prettamente umanistica a favore di quella tecnico-scientifica (o
“realista”) si era già sviluppata nei secc. XVII-XVIII soprattutto in Germania e
nel mondo anglosassone, con l'introduzione nei programmi d'insegnamento di
discipline quali la geografia, le scienze naturali, la fisica, le lingue
moderne; nel corso del XIX sec. portò alla creazione di istituti, quali la
Realschule prussiana, in cui l'esigenza di cultura era associata a un'accurata
preparazione tecnico-specialistica. Di conseguenza, la cultura tecnologica
iniziò a rivendicare pari o superiore dignità nei confronti della formazione
umanistica, tradizionalmente considerata come condizione necessaria per
l'accesso agli studi universitari. A livello di s. secondaria, l'orientamento
scientifico passò gradualmente dall'avere un carattere eminentemente pratico e
professionale all'acquisizione di un carattere più teorico e generale, tale cioè
da costituire la premessa non tanto a una diretta immissione nel lavoro quanto a
un'ulteriore formazione a livello superiore. Del resto, il problema della
professionalità degli studi secondari, se essi debbano cioè avviare a una
specifica professione o se debbano avere carattere polivalente e costituire una
preparazione di base in vista di una successiva acquisizione di professionalità,
è un argomento di discussione ancora attuale e dibattuto nei vari Paesi. Età
contemporanea: in Italia, fra la fine del XIX sec. e il primo ventennio del XX
sec. le istituzioni nazionali diedero vita a un ampio progetto di rinnovamento
della s., la cui riforma fu poi attuata nel 1923-24 dal filosofo G. Gentile.
Tale riordinamento prevedeva un'organica disciplina sullo stato giuridico e sul
trattamento economico dei maestri, degli insegnanti e dei presidi, al fine di
riqualificare la figura dell'insegnante e conferire autorità e disciplina morale
a quella del capo d'istituto. Alla capillare riorganizzazione
dell'amministrazione della s. si accompagnò la fondamentale riforma degli
ordinamenti e dei programmi scolastici. Il ciclo di studi primario fu suddiviso
in un triennio di grado preparatorio (di carattere prescolare, analogo alla s.
materna) e in un quinquennio di s. elementare, diviso a sua volta in un triennio
di grado inferiore e in un biennio superiore; a questo primo ciclo poteva far
seguito o un corso integrativo di avviamento professionale, con cui si
completava l'obbligo scolastico, oppure il passaggio al ciclo di studi
secondario. Quest'ultimo venne differenziato secondo le diverse finalità
formative attribuite ai vari istituti: oltre al ginnasio-liceo, di impostazione
umanistica, unica s. a consentire l'accesso a tutte le facoltà universitarie e
perciò destinata a formare i futuri dirigenti, fu istituito il liceo
scientifico, che permetteva l'accesso alle facoltà scientifiche; fu creato
inoltre l'istituto magistrale, per la preparazione degli insegnanti del ciclo
primario, fu riorganizzato l'istituto tecnico, ripartito in due indirizzi
(commerciale e di agrimensura) e fu inaugurata la s. complementare destinata ai
ceti più modesti della popolazione. In questa riforma fu conferita grande
importanza alla s. privata, fu introdotto l'esame finale di Stato, furono
adottati nuovi programmi d'esame al posto dei tradizionali programmi
d'insegnamento, fu inserito nelle s. l'insegnamento della religione cattolica.
Nonostante i suoi limiti - l'accentuata separazione fra s. destinate alla
preparazione delle classi dirigenti e s. professionali, il predominio degli
studi classici su quelli tecnici e scientifici, l'assenza di collegamenti fra s.
e mondo del lavoro - questa riforma rivela senza dubbio una concezione elevata e
moderna della s. e dell'unità del sapere di cui essa deve farsi tramite. Negli
anni successivi, tale riorganizzazione fu parzialmente modificata, in seguito
alle vicende storiche e politiche dell'Italia, ma rimase sostanzialmente in
vigore: una nuova riforma, preannunciata dalla “Carta della s.” del 1939, non fu
portata a compimento a causa dell'entrata in guerra dell'Italia e delle
successive vicende belliche, che determinarono il crollo del regime fascista.
Nel dopoguerra, in Italia come in numerosi altri Paesi si è verificato un
rilevante sviluppo dei processi d'istruzione, il quale ha richiesto una politica
d'intervento più ampia e approfondita che nel passato. Il primo problema da
risolvere a livello mondiale è apparso quello dell'analfabetismo. Nelle aree
geografiche più avanzate (Europa, America Settentrionale, Giappone) tale
problema era piuttosto limitato e riguardava solo frange della popolazione
adulta, in particolare delle zone rurali e delle periferie urbane; infatti, nel
corso di pochi decenni si è riusciti, attraverso una politica scolastica di
interventi capillari e di forme differenziate di recupero, a eliminare in gran
parte il fenomeno dell'analfabetismo: in Italia, attraverso la creazione di s.
popolari e di altre iniziative analoghe, la percentuale degli analfabeti di età
superiore a sei anni è calata dal 13% nel 1951 al 2,1% nel 1991, per scomparire
quasi completamente nel 2001. Per contro, la piaga dell'analfabetismo continua a
costituire un grave problema nei Paesi in via di sviluppo (colpisce circa un
terzo di questi abitanti), soprattutto a causa della povertà e del basso
reddito, anche se sussistono differenze talora considerevoli fra Paese e Paese,
in conseguenza delle differenti tradizioni e politiche nazionali: in Cina e in
India, per esempio, negli ultimi decenni sono stati messi in atto programmi di
alfabetizzazione di grande impegno e dimensioni. Nel complesso, grazie al
contributo dei singoli Governi e all'impegno di organismi internazionali, fra
cui in particolare l'UNESCO, il tasso di analfabetismo nel mondo è calato dal
32,9% (1970) al 27,7% (1985). Nonostante i progressi compiuti, il fenomeno è
ancora lungi dall'essere risolto, come dimostrano le continue iniziative e gli
sforzi finanziari e organizzativi attuati dall'ONU e da altri organismi a
livello internazionale. Un altro problema che ha investito la s. a partire dal
dopoguerra, in particolare in Italia, è stato quello della scolarizzazione di
massa. Infatti, le strutture scolastiche tradizionali, che prima della seconda
guerra mondiale erano limitate, si sono rivelate del tutto inadeguate ad
affrontare l'ingente incremento della popolazione scolastica, dipendente da
diversi fattori concomitanti, quali l'aumento demografico, l'accrescersi del
tenore di vita, lo sviluppo dei settori produttivi dell'industria e del
commercio con le conseguenti migrazioni interne, l'inurbamento e la necessità
sempre maggiore di qualificazione culturale e professionale. Per rispondere a
questo fenomeno, che ha caratterizzato dapprima soprattutto la s. primaria,
quindi gradualmente quella secondaria e postsecondaria, lo Stato ha dovuto
affrontare numerosi problemi, quali l'adeguamento delle strutture scolastiche e
formative, il reperimento del personale necessario, la destinazione alla s. di
notevoli contributi finanziari. Perciò, a partire dagli anni Cinquanta, il
Governo italiano è intervenuto per diffondere capillarmente sul territorio le
istituzioni educative, a partire da quelle di base, attraverso piani di edilizia
scolastica; tuttavia, lo sforzo finanziario, anche se notevole e prolungato, non
sempre è riuscito a corrispondere alle necessità e ai bisogni, in quanto si sono
verificati talvolta ritardi e carenze. Inoltre, dagli anni Settanta i primi
segnali di crisi economica hanno indotto lo Stato a diminuire la spesa
finanziaria per l'istruzione. L'altro importante settore influenzato dalla
crescita della scolarizzazione concerne il corpo insegnante, e in questo caso la
risposta statale alle esigenze della s. si è rivelata spesso intempestiva e
inefficace. Infatti, l'aumento della popolazione scolastica ha indotto, in una
prima fase, le autorità competenti a reclutare i docenti anche fra il personale
non qualificato ed esperto; solo nel 1974 si è giunti in Italia alla creazione
degli Istituti regionali di ricerca, sperimentazione e aggiornamento educativi
(IRRSAE) destinati a diffondere e promuovere la formazione tecnico-didattica
degli insegnanti. Proprio nella fase di massima espansione dei sistemi di
istruzione si è innescato, non solo in Italia, ma in molti Paesi occidentali, un
processo di crisi che ha coinvolto tutte le componenti della s. e che di essa ha
messo in dubbio la stessa funzione educativa. La contestazione studentesca,
diffusasi negli anni Sessanta dagli Stati Uniti all'Europa e al Giappone, ha
infatti evidenziato lo stato di disagio giovanile che si è riflesso
principalmente nelle istituzioni scolastiche, ritenute inadeguate a far fronte
alle nuove problematiche realtà della società contemporanea. Quantunque
fortemente connotata in senso ideologico, la contestazione studentesca ha
contribuito a rendere indispensabile la necessità di una riforma generale
dell'intero sistema educativo. Inoltre, manifestazioni di protesta degli
studenti hanno continuato a verificarsi periodicamente dagli anni Ottanta in
avanti, traendo spunto da problemi concreti quali le mancate riforme,
l'insufficienza di sbocchi professionali per diplomati e laureati, il calo
drastico degli investimenti statali per la s. Motivi di protesta si sono
verificati anche da parte del corpo insegnante, in seguito al progressivo calo
di prestigio sociale del loro ruolo. A tale ampia crisi d'identità della s. si
va tentando di porre rimedio attraverso una riforma in profondità delle
strutture scolastiche tradizionali, al fine di rivalutare il compito precipuo
della s., cioè la promozione e lo sviluppo delle capacità intellettive, della
formazione culturale, morale e civile e delle competenze scientifiche e tecniche
dei giovani. Quanto alla specifica situazione italiana, si ricordano qui le
principali innovazioni introdotte nel sistema scolastico a partire dagli anni
Sessanta. Nel 1962, in sostituzione del doppio canale di s. media e s. di
avviamento professionale, venne istituita la nuova s. media inferiore unitaria,
ulteriormente disciplinata nel 1977 con adattamenti (l'insegnamento del latino,
divenuto facoltativo dal 1962, fu definitivamente abolito); nel 1968 fu creata
la s. materna statale; nel 1969 l'esame di maturità delle s. superiori venne
regolato da una nuova legge, provvisoria nelle intenzioni, ma di fatto in vigore
per quasi 30 anni, fino all'anno scolastico 1997-98; nel 1974, attraverso la
decretazione delegata, vennero riordinati gli organi collegiali della s., aperti
alle differenti componenti scolastiche, con l'intenzione di permettere una
gestione democratica della s.; la s. elementare, disciplinata nel 1957, fu
riorganizzata dapprima nel 1985 con l'introduzione di nuovi programmi
d'insegnamento, e quindi nel 1990, con l'attuazione di nuovi moduli didattici e
organizzativi. Per quanto riguarda l'insegnamento della religione nelle s., con
il nuovo Concordato del 1989 si stabilì che le famiglie degli studenti potessero
scegliere di fruirne in relazione alle proprie convinzioni. Nel 1996 furono
aboliti gli esami di riparazione e nel 1998 fu introdotta una nuova disciplina
degli esami di maturità, che mutarono il nome in esami di Stato (V. ESAME). Con
la riforma promossa dal ministro Moratti, dall'anno scolastico 2003-04 entrarono
in vigore numerose innovazioni, tra cui: l'innalzamento dell'obbligo scolastico
fino a 18 anni, con 12 anni complessivi di studio; l'abbassamento dell'età di
ingresso dei bambini alla s. materna (possono essere iscritti bambini che
compiano 3 anni entro il 28 febbraio successivo all'inizio dell'anno scolastico
- la scelta è facoltativa) e alla s. elementare (possono essere iscritti bambini
che compiano 6 anni entro il 28 febbraio successivo all'inizio dell'anno
scolastico); l'obbligatorietà dell'insegnamento di una lingua straniera a
partire dai 6 anni e di una seconda lingua dagli 11 anni; l'ampio spazio
concesso all'insegnamento delle tecnologie informatiche; l'abolizione dell'esame
di quinta elementare (viene mantenuto l'esame di Stato alla fine dei tre anni di
medie); la possibilità di passare dal liceo (quinquennale) alla s. professionale
(quattro anni) per tutta la durata degli studi; la creazione di nuovi licei
(economico, musicale, tecnologico, delle scienze umane) accanto a quelli
tradizionali.
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