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Glossario

Media.

Voce inglese: mezzi di comunicazione (MASS-MEDIA).

Mass-Media.

Voce inglese: mezzi di massa.
• Sociol. - Termine che indica il complesso degli strumenti di comunicazione (radio, televisione, cinema, stampa, manifesti, ecc.), caratterizzati dall'elevato numero di destinatari e dall'estrema ampiezza del loro raggio di azione e di distribuzione. Oggetto della diffusione dei m. possono essere le informazioni e i prodotti culturali di qualunque tipo e natura. Pur essendo sempre esistita nella civiltà umana una qualche forma di comunicazione di massa, il concetto e il fenomeno mass-mediatico si è imposto alla riflessione sociologica in epoca industriale e, in particolare, nel secondo dopoguerra, quando le innovazioni tecnologiche hanno mutato qualitativamente il potere della comunicazione, in virtù dell'enorme estendersi del raggio di diffusione della stessa fra le masse. Se da un lato i m. possono essere considerati come fattori di emancipazione e di integrazione sociale, dal momento che favoriscono la partecipazione e la condivisione dei costumi e della cultura e la conoscenza delle informazioni essenziali alla vita di una determinata comunità, ugualmente ad essi si può imputare l'assunzione da parte di settori della società stessa di comportamenti devianti, quando diffondono su vasta scala modelli esistenziali divergenti da quelli tradizionalmente approvati e applicati. In tutti i casi è evidente l'indotto di potere che si collega al controllo di tali mezzi, sia esso esercitato da un singolo individuo o da partiti politici e gruppi di pressione. La questione centrale, relativamente all'uso dei m., è infatti il contenuto delle informazioni: mediante un'analisi dei messaggi è possibile cogliere non solo gli elementi espliciti di una comunicazione, ma anche quelli occulti o, inversamente, scegliere opportunamente quale contenuto si voglia diffondere e in che modo. L'analisi mass-mediologica rende riconoscibili sia i rapporti stabili tra m. e destinatario (vale a dire ciò che si presume il destinatario voglia ascoltare, leggere o vedere), sia i rapporti dinamici tra pregiudizi e stereotipi culturali acquisiti e la spinta al cambiamento esercitata su di essi dalle tecniche stesse della comunicazione di massa. È dunque possibile, partendo dai messaggi mass-mediologici, ricavare un indice dei valori culturali e psicologici esistenti e predominanti in una data società e, pur se entro limiti abbastanza ristretti, formulare previsioni circa l'evoluzione della società in oggetto e la possibilità di influenzarla. Gli effetti dell'azione dei m., che cominciarono ad assumere dimensioni degne di nota nell'America degli anni Venti, spinsero numerosi intellettuali ad esprimere la loro opinione in proposito, di modo che si crearono, per così dire, due correnti di pensiero. L'una, in difesa di una concezione elitaria della cultura e dell'arte, imputò ai m. il deterioramento del gusto estetico del pubblico (Nietzsche, Eliot), l'altra, di ispirazione marxista, individuò nell'industria culturale il più pericoloso strumento di inibizione politica e di controllo sociale esercitato dai gruppi di potere ai danni delle masse lavoratrici. Il problema degli effetti della comunicazione di massa, in grado di condizionare l'opinione pubblica in misura sempre crescente, è certamente rilevante ma, a causa della sua estrema complessità, di assai difficile valutazione. Se la maggior circolazione delle informazioni, infatti, può suscitare speranza in vista di una più omogenea integrazione dei differenti gruppi sociali, d'altra parte è ugualmente incombente il pericolo di una omologazione ed eterodirezione delle masse. La ricerca sociologica, infatti, ha rilevato quanto difficilmente i m. si assumano il rischio di entrare in conflitto con idee e tendenze socio-culturali dominanti (König), fatto che sembrerebbe deporre per un sostanziale assoggettamento degli stessi nei confronti dei gruppi di potere. Tuttavia, proprio la tendenza alla "globalizzazione" teorizzata da Marshall Herbert MacLuhan, non ha comportato in realtà una totale indifferenziazione bensì, accanto a fenomeni innegabili di appiattimento dell'opinione pubblica, il facile accesso alle informazioni ha favorito la crescita di precise identità culturali, tanto più incisive quanto maggiore è la coscienza del ruolo centrale e attivo che può essere assunto dai singoli o dai gruppi nel processo comunicativo.

MacLuhan, Marshall Herbert.

Saggista e sociologo canadese di lingua inglese. Direttore del centro di cultura e tecnologia dell'università di Toronto. Esperto delle tecniche dell'informazione di massa, ha elaborato una tesi sociologica sintetizzabile nello slogan "il medium è il messaggio": i mezzi di comunicazione, cioè, influenzano notevolmente il modo di pensare e d'agire della gente, fino a determinare, in tempi lunghi, un cambiamento radicale della cultura. Così alla civiltà tribale, incentrata sulla parola, è subentrata l'era della stampa, destinata a sua volta a venir soppiantata dalla civiltà televisiva. Opere principali: La galassia Gutenberg (1962); Voci della letteratura (1966); Dal cliché all'archetipo (1970) (Edmonton 1911 - Toronto 1981).

RAI.
RAI - RADIOTELEVISIONE ITALIANA.


RAI - Radiotelevisione Italiana.

Società per azioni di interesse nazionale con sede legale e direzione generale a Roma; il capitale sociale, di 120 miliardi, appartiene per il 99,55% all'Istituto per la Ricostruzione Industriale (IRI), che gestisce in regime di monopolio i servizi radiofonici e televisivi, e per il restante 0,45% alla SIAE (Società Italiana Autori Editori). Attualmente l'attività della RAI è regolata dalla L. 25-6-1993, n. 206 e dal contratto con il ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni del 4-4-1996, che ha rinnovato in esclusiva la «concessione ventennale di servizio pubblico» per la diffusione dei programmi radiotelevisivi. Infatti, oggetto sociale della RAI è l'esercizio del servizio pubblico di diffusione dei programmi televisivi e radiofonici sul territorio nazionale; la società può svolgere attività economiche connesse con lo sfruttamento commerciale delle proprie produzioni culturali. Il personale dirigente della RAI, formato da un presidente, due vicepresidenti, l'amministratore delegato e il direttore generale, è nominato dall'esecutivo con decreto del ministro delle Poste e Telecomunicazioni. L'obiettività e l'imparzialità delle trasmissioni radiotelevisive è garantita da un'apposita commissione di controllo parlamentare, formata da 40 membri nominati da tutti i gruppi di entrambe le Camere e la cui composizione rispecchia quella del Parlamento per quanto riguarda l'equilibrio fra le varie correnti politiche. Il controllo del potere legislativo si esplica anche nella visione dei bilanci, che vengono inviati al Parlamento per l'approvazione da parte della Corte dei Conti e del ministero delle Poste. È facoltà dello Stato, su decreto del presidente della Repubblica e per gravi motivi di ordine pubblico, sospendere senza preavviso il diritto della RAI di gestire direttamente i programmi. La sua attuale offerta è articolata in tre canali televisivi via etere (RAIUNO, RAIDUE, RAITRE), tre canali radio FM-AM (RADIOUNO, RADIODUE, RADIOTRE), un canale radio in isofrequenza (ISORADIO) che trasmette informazioni su traffico e viabilità, cinque canali di filodiffusione, un canale teletext (TELEVIDEO), tre canali tematici via satellite (RAISAT1, RAISAT2, RAISAT3); inoltre, i suoi programmi televisivi e radiofonici sono diffusi via satellite e/o via cavo attraverso un canale destinato all'estero (RAINTERNATIONAL). Origini: la nascita del servizio pubblico risale al 27 agosto 1924, data in cui fu costituita a Roma l'URI (Unione Radiofonica Italiana), derivata dalla fusione della Radiofono-Società Italiana per le Radiocomunicazioni Circolari con la SIRAC (Società Italiana Radio Audizioni Circolari). Il 6 ottobre dello stesso anno l'URI avviò un servizio quotidiano di trasmissioni radiofoniche e il 27 novembre il Governo accordò alla società, per la durata di sei anni, la concessione della gestione in esclusiva dei servizi di radioaudizioni circolari. Successivamente la convenzione del 1924 venne perfezionata da altre leggi promulgate nel 1927 e nel 1928: l'URI venne trasformata in EIAR (Ente Italiano di Audizioni Radiofoniche) e la concessione in esclusiva fu prorogata fino al 15 dicembre 1952. Negli anni fra il 1928 e il 1936 la società si sviluppò in modo assai rapido, con l'installazione sul territorio nazionale di numerose stazioni e di impianti trasmittenti radiofonici; inoltre, nel 1931 la SIP (Società Idroelettrica Piemontese) entrò in possesso della maggioranza assoluta delle azioni dell'EIAR. La convenzione fra questo ente e lo Stato fu definitivamente disciplinata dalla L. 27-2-1936, che fissò organicamente le norme di concessione. L'EIAR, che iniziò nel 1939 i primi esperimenti di trasmissione televisiva, mutò nel 1944 il suo nome in RAI (Radio Audizioni Italiane). Gli impianti di trasmissione, gravemente danneggiati durante il secondo conflitto mondiale, furono ricostruiti e notevolmente potenziati a partire dalla fine della guerra e in poco più di tre anni giunsero ad assicurare una copertura del territorio più ampia di quella prebellica. Il 26 gennaio 1952 fu stipulata una concessione che riservava all'ente il monopolio delle trasmissioni televisive in Italia fino all'11 agosto 1972. La legge stabiliva inoltre che la maggioranza assoluta delle azioni appartenesse all'IRI e che le azioni rimanenti fossero da intestare a persone fisiche e giuridiche esclusivamente italiane. Il 3 gennaio 1954 ebbe inizio il servizio regolare di trasmissione televisiva; le trasmissioni erano irradiate da una rete di trasmettitori in VHF destinata a raggiungere il 36% della popolazione. Il 10 aprile del medesimo anno la società modificava ancora la propria denominazione ufficiale in quella attuale di RAI - Radiotelevisione Italiana. Fra gli eventi significativi della storia della RAI fino al 1972 si ricordano inoltre: la prima telecronaca diretta dal Parlamento per l'elezione del presidente della Repubblica (28 aprile 1955); l'esordio della pubblicità televisiva (3 febbraio 1957); l'inaugurazione del centro di produzione TV di via Teulada a Roma (19 dicembre 1957); l'inizio delle trasmissioni televisive di «Telescuola» (25 novembre 1958), di «Tribuna elettorale» (11 ottobre 1960), di «Tribuna politica» (26 aprile 1961); l'installazione di una seconda rete televisiva in UHF (4 novembre 1961); la partecipazione al primo collegamento in rete eurovisione fra l'Europa e gli Stati Uniti d'America (23 luglio 1962); i primi esperimenti di trasmissione in collegamento con satelliti artificiali (3 agosto 1964); la cessione alla STET, da parte della SIP, della sua quota di partecipazione al capitale della RAI (9 febbraio 1965). La RAI e il sistema radiotelevisivo dal 1974 al 1998: nel dicembre 1972, alla scadenza della concessione ventennale alla RAI dei servizi radiotelevisivi, fu promulgata una convenzione aggiuntiva che prorogava di un anno la validità della concessione, che fu poi ulteriormente estesa, con decreto legge, all'aprile 1974 e quindi al novembre dello stesso anno. Nell'ambito del dibattito suscitato dalla presenza di un monopolio radiotelevisivo e dalla sottomissione della sua gestione al controllo governativo, particolarmente importante fu la sentenza della Corte Costituzionale del 10 luglio 1974, che delineava i principi ai quali doveva attenersi la nuova disciplina del servizio radiotelevisivo. In base a tale sentenza, la Corte riconosceva la legittimità del monopolio statale, purché i servizi offerti al pubblico fossero «caratterizzati da obiettività e completezza di informazione», fossero contraddistinti da un'ampia apertura a tutte le correnti culturali e da una rappresentazione imparziale delle idee espresse dalla società, e purché fosse favorito e reso effettivo «il diritto di accesso nella misura massima consentita dai mezzi tecnici». A tale sentenza era aggiunta un'altra che deliberava la legittimità dell'esercizio privato dei servizi radiotelevisivi locali via cavo, dando in questo modo inizio sia alla libera iniziativa, sia alla possibilità da parte dei cittadini di ricevere le trasmissioni di altri Paesi. Sulla base delle sentenze emesse dalla Corte Costituzionale, il 14 aprile 1975 venne promulgata la legge n. 103, che dettava «nuove norme in materia di diffusione radiofonica e televisiva» e costituiva l'inizio della riforma della RAI. Essa si articolava in alcuni punti essenziali: 1) dichiarazione che le trasmissioni radiofoniche e televisive costituiscono «un servizio pubblico essenziale e a carattere di preminente interesse generale, in quanto volto ad ampliare la partecipazione dei cittadini, a concorrere allo sviluppo sociale e culturale del Paese», e definizione della composizione della Commissione parlamentare di vigilanza, formata da 40 membri designati, dai presidenti delle due Camere del Parlamento, fra i rappresentanti di tutti i gruppi parlamentari; 2) concessione alla RAI della gestione dei servizi per sei anni, rinnovabile per altri sei e definizione della composizione del Consiglio di amministrazione, in carica per tre anni, competente per l'elezione del presidente e del direttore generale della RAI e composto da 16 membri, dei quali 10 eletti dalla suddetta Commissione parlamentare, e 6 eletti dall'Assemblea dei soci; 3) regolamentazione dei programmi pubblicitari che non potevano superare il 5% delle trasmissioni complessive; 4) legislazione in materia di televisioni via cavo. Infatti, con la legge dell'aprile 1975, l'installazione di impianti via cavo venne ammessa in ragione di zone geografiche con popolazione non superiore ai 150.000 abitanti. Il quadro della disciplina posta da tale legge fu sostanzialmente modificato con la sentenza (n. 202 del 28-7-1976) della Corte Costituzionale, che dichiarò illegittima la norma che impediva al privato di installare stazioni via etere a portata non superiore un territorio circoscritto. Ciò determinò un incremento considerevole di emittenti televisive in ambito locale e iniziarono a crearsi collegamenti fra varie emittenti, che - all'inizio degli anni Ottanta - portarono alla creazione di reti su scala nazionale. Nel frattempo, il 1° febbraio 1977, con decreto ministeriale veniva introdotta la televisione a colori; inoltre, il 15 dicembre 1979 era inaugurata la terza rete televisiva RAI a diffusione sia nazionale sia regionale. Ciò nonostante, gli anni 1979-80 furono alquanto difficili per la RAI, sia per le critiche mosse all'ingombrante interferenza politica e partitica all'interno della gestione dell'ente, accusato di manipolare l'informazione, sia per le difficoltà economiche, che esplosero nel 1980 con un bilancio per la prima volta negativo, sia infine per la spietata concorrenza delle emittenti private. Infatti, alla rottura del monopolio televisivo pubblico non fece seguito la necessaria disciplina legislativa volta a riorganizzare il sistema dei servizi radiotelevisivi: pertanto, in una prima fase (1976-79) si verificò la proliferazione di radio e televisioni a carattere locale, senza che si realizzasse alcuna concreta proposta di regolamentazione, mentre in una seconda fase (1980-84) si assistette al prevalere di un gruppo privato, la Fininvest di S. Berlusconi. Infatti, mentre la RAI procedeva al suo riassetto - reso possibile dal rinnovo della convenzione con cui nell'agosto del 1981 il ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni le concedeva l'esclusiva per sei anni - la mancanza della regolamentazione nel campo della libera iniziativa aveva determinato l'affermazione di alcune reti commerciali a livello nazionale, quali Canale 5 della Fininvest, Italia 1 di Rusconi e Retequattro del gruppo Mondadori: in breve queste raggiunsero livelli di professionalità tali da sottrarre alla RAI sia notevoli settori di pubblico, sia dirigenti qualificati, tecnici e artisti televisivi. Tuttavia, in questo contesto il mercato italiano si dimostrò insufficiente ad alimentare un tale numero di reti commerciali nazionali in aperta concorrenza fra loro: per questo, l'abilità della Fininvest nel gestire la raccolta pubblicitaria - attraverso la creazione della società Publitalia, al fine di acquisire e di incanalare tali risorse - fu determinante nel consentirle di affermare la propria supremazia. Infatti, la Fininvest acquisì nel 1982 la rete Italia 1 e nel 1984 Retequattro, dando luogo di fatto al regime di duopolio che ha caratterizzato il sistema televisivo italiano. Nell'ottobre 1984, continuando a mancare una legislazione in materia, alcuni pretori oscurarono le reti Fininvest; in conseguenza di ciò, il Governo emanò un decreto legge, poi prorogato e trasformato in legge il 4 febbraio 1985 (n. 10), che consentiva la prosecuzione delle trasmissioni Fininvest, purché basate su programmi preregistrati; tale legge, pur ponendosi come provvisoria, sanciva in pratica la situazione di monopolio privato delle reti di Berlusconi; inoltre, essa modificava anche alcune norme riguardanti la RAI, limitando i poteri del Consiglio di amministrazione a beneficio del direttore generale. Nonostante problemi sorti a livello dirigenziale, negli anni 1986 e 1987 la RAI riuscì a far fronte alla concorrenza delle televisioni private; a ogni modo si rese sempre più evidente la necessità impellente di una regolamentazione del sistema radiotelevisivo, come sottolineò nel 1988 una sentenza della Corte Costituzionale (n. 826), che richiamò all'ordine il legislatore affinché si pervenisse a una normativa fondata sulla libera concorrenza, sulla trasparenza e sul pluralismo. Nello stesso anno 1988 venne approvata la nuova convenzione, valida per sei anni e rinnovabile, fra il Governo e la RAI per la concessione in esclusiva del servizio pubblico, così come fu approvato un disegno di legge di regolamentazione del servizio radiotelevisivo, presentato dal ministro delle Poste e Telecomunicazioni O. Mammì, che fu trasformato in legge il 6 agosto 1990 (n. 223). La nuova legislazione ribadiva il carattere di preminente interesse nazionale della diffusione dei programmi, individuando quali principi basilari del sistema radiotelevisivo - realizzato con il concorso di soggetti pubblici e privati - il pluralismo, la completezza, l'obiettività e l'imparzialità dell'informazione; inoltre, istituiva la figura del garante della radiodiffusione e dell'editoria, prevedeva limiti per la diffusione dei messaggi pubblicitari, limitava a tre il numero delle reti nazionali possedute dal medesimo soggetto; infine, vietava a chi possedesse imprese editrici di quotidiani con una tiratura superiore a limiti prefissati di essere titolare di più di una rete televisiva nazionale, e consentiva alle reti private la diffusione di telegiornali in diretta. Nel frattempo, numerose continuavano a essere le critiche relative all'amministrazione economica della RAI, per molti anni in deficit; proposte di nuove formule organizzative, come la strutturazione per genere di ogni singola rete, furono concomitanti all'elezione a nuovo direttore generale di G. Pasquarelli in sostituzione di B. Agnes. Con la L. 25-6-1993, n. 206 fu delineato il nuovo assetto della RAI, stabilendone la natura di società per azioni di interesse nazionale: essa è retta da un Consiglio di amministrazione - composto da cinque membri nominati dai presidenti delle Camere, in carica per non più di due esercizi sociali - che elegge il presidente e designa il direttore generale, responsabile della gestione aziendale. Tali criteri sono considerati validi fino all'entrata in vigore di una nuova disciplina del servizio pubblico, nel quadro di una rinnovata definizione del sistema radiotelevisivo. Ulteriori interventi normativi vennero attuati nel 1994, con numerosi decreti legge - mai convertiti in legge, ma sempre reiterati - i quali hanno previsto che il Consiglio di amministrazione della RAI trasmetta al ministero delle Poste e delle Telecomunicazioni, che lo approva di concerto con il ministero del Tesoro, un piano triennale di ristrutturazione aziendale che definisca in dettaglio gli obiettivi di razionalizzazione attinenti al personale e agli assetti industriali e finanziari. Tale normativa prevede inoltre che, qualora il piano non dovesse essere approvato, i presidenti delle Camere possano nominare nuovi componenti del Consiglio di amministrazione. I permanenti problemi gestionali della RAI, determinati dalla difficoltà di pervenire al risanamento economico dell'azienda, sono testimoniati dal continuo cambio ai vertici dirigenziali: dal 1994 al 1998 si sono succeduti ben quattro consigli di amministrazione, presieduti rispettivamente da C. Demattè, da L. Moratti, da E. Siciliano e da R. Zaccaria. Impianti e strutture tecniche: per ciò che concerne il settore dei trasmettitori radiofonici, al 31 dicembre 1994 risultavano installati complessivamente 2.701 impianti, di cui 128 a onda media, 10 a onda corta, 1 a onda lunga e 2.562 a onda metrica a modulazione di frequenza; fra questi ultimi, alcuni trasmettono programmi in lingua tedesca (per l'Alto Adige) e in lingua slovena (per il Friuli-Venezia Giulia), mentre altri 197 trasmettono in isofrequenza sulle autostrade. Per quanto riguarda invece gli impianti di trasmissione televisiva, al 31 dicembre 1994 erano in funzione 5.127 apparati - operanti con il sistema standard PAL - collegati alle sedi e ai centri di produzione dei programmi, mediante una rete di ponti radio a più vie, lunga complessivamente 30.000 km. In seguito all'evoluzione delle tecnologie, nel 1977, nel 1985 e nel 1988 si sono svolte a Ginevra le Conferenze mondiali relative all'utilizzazione delle orbite dei satelliti geostazionari e alla pianificazione dei servizi spaziali utilizzanti tali orbite; in virtù della disponibilità degli strumenti internazionali, la RAI ha impiegato, per irradiare programmi televisivi da satellite, dapprima (1989) il satellite Olympus, e quindi i satelliti Hot Bird 1 e 2. Società collegate alla RAI: attualmente la RAI è strettamente connessa, tramite la partecipazione azionaria, alla gestione di numerose società: Telecom Italia S.p.A. (installazione ed esercizio con qualunque tecnica dei servizi di telecomunicazioni); Auditel S.r.l. (rilevamento dei dati sull'ascolto televisivo); Nuova ERI - Edizioni RAI Radiotelevisione Italiana S.p.A. (industrie editrici, giornalistiche, librarie, tipografiche, musicali, audiovisive e discografiche); Nuova Fonit Cetra S.p.A. (acquisto, produzione e vendita di registrazioni video e fonografiche); SACIS (iniziative attinenti alle attività dello spettacolo in generale); SIPRA (assunzione e sfruttamento di ogni tipo di pubblicità); Euronews Editorial (diffusione di telegiornali via satellite); RAI Corporation - Italian Radio TV System (produzione, distribuzione e commercializzazione di programmi radiotelevisivi nel continente americano); Labia Services S.p.A. (immobiliare); TV I - TV Internazionale S.p.A. (acquisto, gestione, locazione e manutenzione sul territorio nazionale e all'estero di tutti i sistemi tecnici di trasmissione e diffusione audiovisiva).

Scuola.

(dal greco scholé: il tempo libero da impegni di lavoro; più precisamente il tempo dedicato a piacevoli occupazioni intellettuali, quali la conversazione o lo studio, indipendentemente da ogni bisogno pratico. Passato al latino classico, il sostantivo schola fu impiegato per definire la trattazione dotta di un argomento, quindi le lezioni e più tardi lo stesso luogo nel quale si attende allo studio in relazione a un'attività di insegnamento svolta da docenti. Nel latino medioevale, a questi usi del termine si aggiunse quello di designare l'insieme dei discepoli di un maestro. Durante l'età carolingia il sostantivo schola assunse forma definitiva, conservando il complesso dei significati precedenti, ma caratterizzandosi soprattutto come ambiente specializzato per l'insegnamento, distinto - se non proprio separato - dal contesto economico-produttivo). Istituzione di carattere sociale organizzata sistematicamente, che, attraverso un'attività didattica strutturata, ha il compito di trasmettere alle giovani generazioni gli elementi fondamentali di una civiltà, di una cultura o di avviare al possesso di una data disciplina o alla pratica di una determinata professione. In quest'accezione (la più comune) s. è in genere accompagnata da specificazioni che ne chiariscono l'esatto valore: s. pubblica; s. elementare. Per estens. - Corso di istruzione relativo a un ambito specifico; insegnamento metodico di una disciplina, di un mestiere o di un'arte: s. di sci. L'insieme degli individui (insegnanti, studenti, personale non docente) che fanno parte di un determinato istituto scolastico: sono andato in gita con la s. L'edificio in cui si svolgono le lezioni e dove è impartito l'insegnamento, vale a dire l'edificio o il complesso di edifici sede di un istituto scolastico: la s. ha sede in un palazzo moderno. Per estens. - L'insieme di pensatori, letterati, scienziati e artisti, uniti dai medesimi principi ideologici o metodologici, che sviluppano un comune indirizzo e la cui produzione appare pertanto omogenea: la s. impressionista. L'insieme di allievi e seguaci di un grande maestro: la s. di Raffaello; in ambito artistico, il concetto di s. può risultare talora riduttivo, se applicato alle opere, eseguite dagli allievi di un maestro, prive di originalità. Nel linguaggio degli Ebrei italiani, sinagoga. Ant. - Nome dato, a Venezia, ad alcune confraternite a carattere sociale e religioso e alle loro sedi, spesso impreziosite da dipinti di grandi artisti. Nave s.: unità navale adibita all'addestramento pratico di ufficiali ed equipaggi. S. attiva: denominazione data alla corrente di rinnovamento dei metodi d'insegnamento e dell'organizzazione scolastica sviluppatasi nel mondo occidentale a partire dalla fine del XIX sec. per iniziative sia pubbliche, sia private. Tale movimento, pur con metodologie differenti, tende a promuovere nella pratica educativa, attraverso l'importanza conferita al gioco e al lavoro, la libertà e la spontaneità del singolo alunno favorendone la partecipazione e la creatività. S. europea: fondata nel 1953 nel Principato del Lussemburgo, fu creata dalla CECA per dar modo ai figli dei dipendenti, provenienti da diversi Paesi europei, di continuare gli studi senza allontanarsi dalla famiglia. In pochi anni la s. europea acquisì un grande numero di iscritti, non più solo figli di dipendenti delle istituzioni comunitarie, poiché il diploma di tale s. consente di accedere alle università di diversi Paesi europei. Le s. europee, controllate insieme dai governi degli Stati membri dell'Unione europea, sono governate da un protocollo intergovernativo che include lo Statuto della s. europea, firmato dai sei Stati membri originari a Lussemburgo il 12 aprile 1957. Il loro compito è di fornire una formazione multi-culturale, multi-lingue e multi-sociale per gli alunni dei cicli materno, primario e secondario. Nel corso degli anni sorsero diverse s. europee: a Bruxelles (Belgio) nel 1958, nel 1964 e nel 1999; a Ispra (Italia) nel 1960; a Mol-Geel (Belgio) nel 1960; a Karlsruhe (Germania) nel 1962; a Bergen (Olanda) nel 1963; a Monaco (Germania) nel 1977; a Culham (Gran Bretagna) nel 1978; ad Alicante (Spagna) nel 2002; a Francoforte (Germania) nel 2002. I cicli di insegnamento sono suddivisi in: ciclo primario di 5 anni e ciclo secondario di 7 anni. Ogni alunno segue il corso nella sua lingua madre, ma deve impararne un'altra, detta lingua veicolare. S. superiore della pubblica amministrazione: organo della presidenza del Consiglio dei ministri, istituito nel 1957 per curare la qualificazione e l'aggiornamento professionale dei dipendenti statali. Dal 1993 svolge attività di formazione e ricerca sulla base di direttive emanate dal presidente del Consiglio ed esprime pareri sui piani formativi degli enti pubblici non economici.
• Mil. - S. militari: in passato tale denominazione era riservata ai soli istituti per la formazione dei quadri militari (ufficiali e sottufficiali) e di alcune categorie di specializzati. Con il tempo il concetto si è esteso notevolmente, giungendo a designare il complesso di istituzioni organizzate per l'educazione e la formazione dei quadri di ogni grado e categoria e per la specializzazione della truppa, nonché per l'addestramento dei contingenti militari di leva e per l'aggiornamento dei richiamati. Quasi tutti i Paesi hanno questo tipo di s.; in genere sono coordinate dai rispettivi ministeri della Guerra o della Difesa e sono comandate da ufficiali; ufficiali sono anche gli istruttori. Nei secoli scorsi potevano frequentare le s. militari solo i nobili; oggi vengono accolti giovani di qualsiasi classe sociale purché idonei fisicamente, moralmente e intellettualmente. I giovani che vogliono entrare nella s. militare non devono avere superato il 17° anno di età al momento dell'ammissione. In Italia, le s. militari possono essere distinte in: istituti superiori; s. interforze; s. dell'esercito; s. dell'aeronautica militare; s. della marina militare. Istituti superiori: comprendono il Centro Studi Alta Difesa, a sua volta ripartito in Istituto Alti Studi Difesa (per ufficiali superiori e alti dirigenti di polizia) e Istituto Superiore Stato Maggiore Interforze (per alti ufficiali in ambito interforze); l'Istituto Stati Maggiori combinati, per la qualificazione degli ufficiali in campo interforze; la S. di guerra (Esercito), che prepara gli ufficiali di Stato Maggiore; l'Istituto di guerra marittima, istituito nell'anno 1921 con il compito di formare personale in grado di affrontare problemi di applicazione strategica e di tattica militare, sotto la direzione di un ammiraglio; la S. di guerra aerea, destinata a ufficiali che, mediante un corso di due anni, ottengono la promozione al grado di maggiore colonnello o comandante di squadriglia o di gruppo; inoltre, essa impartisce nozioni sui piani di guerra ai tenenti colonnelli. S. interforze: comprendono ufficiali delle tre forze armate. Sono l'Accademia di sanità militare interforze, la S. telecomunicazioni, la S. per la difesa nucleare, biologica e chimica e la S. di aerocomunicazione. S. dell'esercito: comprendono le s. di reclutamento e di applicazione (accademie militari; s. di applicazione; s. allievi ufficiali di complemento e allievi sottufficiali; s. militare preparatoria della Nunziatella); le s. d'arma o di servizio, con funzioni addestrative o di servizio (per esempio, s. carabinieri, di fanteria, artiglieria, sanità, trasmissione, commissariato); le s. di specializzazione, per tutte le categorie di quadri o truppa (per esempio, s. militare di paracadutismo, s. militare alpina, s. di educazione fisica); i centri di addestramento, prima detti Centri di Addestramento Reclute (CAR) e ora denominati Reggimenti di Addestramento Reclute (RAR), per l'addestramento preliminare degli scaglioni di leva. Le accademie, già ricordate, sono l'Accademia di artiglieria e genio e l'Accademia di cavalleria e fanteria, l'ammissione alle quali è regolata da un concorso bandito annualmente dal ministero della Difesa. S. dell'Aeronautica militare: comprendono le s. di reclutamento e applicazione (Accademia aeronautica, s. di applicazione per sottotenenti piloti); le s. di volo, per piloti anche delle altre forze armate; le s. specialisti, per la preparazione di specialisti in varie categorie; le s. di specializzazione; i centri tecnici addestrativi, volti in particolare all'ambito delle telecomunicazioni e della difesa aerea. Quanto all'Accademia aeronautica, essa ha il compito di istruire il personale ufficiale del ruolo piloti e del ruolo servizi mediante corsi regolari di uno, due o tre anni e inserisce i candidati nei diversi gradi militari. A queste s. sono da aggiungere le s. postmilitari dell'Aeronautica, che riguardano il reparto di turismo aereo; vi ricorrono tuttavia per periodi di addestramento anche gli ufficiali in servizio non effettivo e i piloti della riserva. S. della Marina militare: si suddividono in: s. di reclutamento e di applicazione (Accademia navale, per la preparazione di ufficiali effettivi e di complemento; l'istituto di elettrocomunicazioni; la s. di sanità militare marittima); s. sottufficiali; centri di addestramento, per la preparazione specialistica di alcune categorie (per esempio, gruppo aeromobili imbarcati; antisommergibilisti; servizio subacqueo; radar; arditi incursori; servizio sicurezza). L'Accademia navale, nata nel 1881, ha sede a Livorno; è il maggiore organo d'istruzione militare navale e da essa escono i futuri ufficiali della Marina da guerra.
"La scuola militare alpina" di Umberto Pelazza
• Econ. - S. storica dell'economia: corrente di pensiero sviluppatasi in Germania negli ultimi decenni del XIX sec. e nota anche come nuova o seconda s. storica dell'economia. Lo Storicismo economico tedesco affonda le proprie radici nel Romanticismo economico affermatosi in Germania nella prima metà del XIX sec. con A.H. Muller. Costui, di contro ai fondamenti filosofici della s. classica inglese e in particolare alla teoria di A. Smith, rivalutò le componenti non razionali del comportamento umano, quali le abitudini, le credenze religiose, i sentimenti nazionali. Le dottrine di Muller furono alla base degli studi di J. Rodbertus e F. List e influirono sull'analisi di autori quali W. Rocher, B. Hildebrand e K. Knies, che però non formarono una s. vera e propria. Assai più preciso fu invece l'indirizzo della corrente di pensiero economico che di fatto rappresenta l'autentica s., associata soprattutto al nome di G. Schmoller (1838-1917). Altri importanti esponenti furono L. Brentano, K. Bücher, A. Held, G.F. Knapp, C. Engel, A. Wagner. Tutti costoro si opposero costantemente a quella che essi definivano un'analisi isolante dei fenomeni economici, affermando che, se studiati isolatamente, tali fenomeni perdevano ogni valore. Infatti, l'economia schmolleriana tendeva a non trascurare nessuno degli elementi costituenti il cosmo sociale, per cui a rigore dovrebbe essere definita una sociologia storicistica nel più ampio significato del termine; del resto, lo stesso Schmoller chiamò la sua s. non solo storica, bensì storico-etica. L'opera della s. di Schmoller fu continuata, in senso ancor più spiccatamente sociologico, da altri studiosi, fra cui A. Spiethoff, W. Sombart e M. Weber, che costituirono la terza o giovanissima s. storica. Sotto l'influenza dello Storicismo romantico, la s. storica si contrappose all'economia classica inglese, rimproverandole di essere dogmaticamente astratta, così da estraniare l'indagine economica dalla realtà e dall'esperienza concreta. Rifiutando ogni concetto di “leggi” economiche valide in ogni tempo e in ogni luogo, gli economisti storici osservavano che non si potevano trascurare differenze macroscopiche come quella tra il mercato medioevale e quello moderno, o la diversa formazione del prezzo in un'economia curtense e in un'economia di libero scambio, o ancora il divario fra l'impresa agricola in uno Stato fortemente popolato e in uno Stato di nuova colonizzazione. Preoccupati di ricostruire i fatti economici delle varie epoche, gli economisti della s. storica si limitarono però a stendere ottime monografie descrittive o di storia economica, senza giungere all'elaborazione di una nuova teoria. Nel 1883, la polemica fra Schmoller e Menger si concluse con il successo di quest'ultimo, il quale difendeva i diritti del pensiero teorico. Nonostante la sconfitta metodologica, l'esigenza storicistica rimase viva, accompagnata dalla critica al Naturalismo economico, vale a dire all'ipotesi dell'esistenza - prima e al di fuori dello Stato - di una società economica regolata da leggi naturali. Alla s. storica appartennero anche gli economisti tedeschi noti come socialisti accademici, capeggiati dallo stesso Schmoller: riunitisi nella Società per la politica sociale diedero un notevole impulso all'avanzata del fronte socialista in Germania. Movimenti paralleli si svilupparono anche altrove e la stessa s. tedesca ebbe ripercussioni in altri Paesi.
• Encicl. - Al fine di comprendere meglio il fenomeno s. attraverso la sua evoluzione nel tempo, nell'ambito delle diverse civiltà, si devono tenere presenti due caratteri fondamentali: da un lato, il rapporto che si instaura tra chi insegna e chi apprende e, dall'altro, l'istituzionalizzazione sociale di questo rapporto, che lo rende un'attività formalmente predisposta con propri fini e proprie tecniche; per questo, più che per i suoi contenuti, la s. si distingue dagli altri fattori e dagli altri aspetti della vita sociale e culturale. Per altro, sia il carattere trasmissivo sia il carattere istituzionale, pur costitutivi della s., non furono sempre manifesti né pienamente intenzionali; inoltre, essi sono apparsi e appaiono ancora, a certe correnti pedagogiche, una minaccia per la spontaneità e per l'autonomia del processo di formazione della personalità, nonché un rischio grave per la cultura, la quale risulta prodotta in un ambiente protetto, avulsa dai momenti essenziali e fecondi della vita individuale e sociale. Ciò nonostante, i due caratteri menzionati rappresentano un valido punto di riferimento in sede sia storica, sia critica. La Grecia antica: nelle società arcaiche il fattore unificante nel processo di acculturazione fu la religione, o più esattamente la dimensione del sacro: le più antiche civiltà orientali conobbero una s. sacerdotale, finalizzata a trasmettere la dottrina e le norme del culto, ma talora - come nell'antico Egitto - destinata anche a preparare i più alti funzionari pubblici. Nonostante la specializzazione di alcune funzioni, non si delineò però una realtà scolastica a sé stante: era infatti la società stessa a educare, attraverso la promozione, la gestione e il controllo dell'integrazione dell'individuo secondo fasi successive, che richiedevano una certa diversificazione di mansioni educative. I tratti comuni, pur nella varietà di esperienze, delle società più arcaiche possono dunque essere individuati nell'unitarietà del gruppo fondata su premesse religiose e nel graduale differenziarsi di funzioni che non portano però all'istituzione formale di una realtà educativa distinta. Con il progredire della civiltà, che rende più complessa e articolata la vita sociale, si assiste a esperienze più concrete e diversificate, connesse con le caratteristiche peculiari dei vari popoli. Così, presso gli antichi Fenici fu avvertita l'esigenza di una specializzazione della funzione educativa in ciò che concerneva le attività pratiche di tipo artigianale, finalizzate alla vita commerciale, asse fondamentale dello sviluppo economico e culturale fenicio. Diversamente, gli Ebrei, pur non trascurando altri insegnamenti, diedero particolare rilevanza all'istituzionalizzazione dell'insegnamento religioso. Gelosi custodi delle proprie tradizioni, vissute come espressione di un patto di alleanza con la divinità, gli Ebrei avvertirono l'esigenza di affidare l'interpretazione e l'insegnamento della legge (Thorà) a una classe sacerdotale (tribù di Levi) e in particolare agli Scribi. Conseguentemente, il momento dello studio delle tradizioni religiose diveniva per tutti un aspetto essenziale dell'esistenza, strutturandosi in procedure specifiche e ben definite. Tuttavia, è con l'antica Grecia che l'istituzione s. assunse un'organizzazione complessa, disponendo di materie, di programmi, di sedi e di insegnanti specifici. E non si trattò soltanto della creazione di centri di cultura, sorti per iniziativa di sapienti (filosofi) desiderosi di indagare la natura delle cose al di là dei modelli tratti dalla mitologia tradizionale; infatti, oltre a queste s. si determinò per la prima volta la reale formazione di un sistema scolastico generalizzato, destinato agli appartenenti alle classi sociali che godevano dei diritti civili e politici. Gli individui appartenenti a queste classi venivano precocemente inseriti in un meccanismo ben articolato che provvedeva, secondo la concezione greca dell'uomo, alla formazione integrale della personalità sul piano fisico, sul piano dell'apprendimento di un sistema codificato di conoscenze, sul piano sociale. Era assente da tale processo educativo la dimensione pratico-operativa: ad essa infatti erano avviati gli appartenenti alle classi sociali inferiori, secondo i tradizionali metodi di addestramento nell'ambiente di lavoro. Da tale concezione ebbe origine e si caratterizzò il concetto di scholé, inteso come attività libera da incombenze lavorative in ambito produttivo e commerciale. A Sparta l'educazione era riservata al ristretto gruppo degli Spartiati, cioè ai membri delle nobili e antiche famiglie che detenevano il potere politico e la proprietà dei grandi latifondi. Ne erano invece esclusi sia gli iloti (schiavi di Stato destinati ai lavoratori manuali), sia i perieci, individui di condizione libera dediti alle attività artigianali più evolute e al commercio. I bambini rimanevano all'interno della famiglia, affidati alla cura delle donne, fino al compimento del 7° anno; erano quindi presi in consegna dallo Stato, il quale provvedeva a impartire una completa educazione fino al compimento del 20° anno, che segnava l'inizio della vita militare vera e propria. I contenuti e i metodi dell'educazione scolastica spartana (detta agogé) erano finalizzati alla formazione del cittadino-guerriero. La direzione dell'insegnamento era affidata a un magistrato speciale, il pedonomo; i fanciulli venivano istruiti nella ginnastica, nel canto e nella danza, e apprendevano alcuni testi storico-letterari, nei quali era esaltato il tema della gloria militare: si trattava infatti di un'educazione mirata, in quanto tutte queste discipline tendevano essenzialmente a educare i giovani spartani all'arte della guerra. Perciò era assai importante l'inquadramento in reparti, detti agele, distinti per età e suddivisi in squadre, organizzati con sistema strettamente militaristico; i giovani vi si abituavano alla vita in comune, si esercitavano nell'agonismo fisico e imparavano (anche attraverso prove iniziatiche, come le spedizioni punitive nei confronti degli iloti) a essere coraggiosi e a disprezzare la morte. A ciò si aggiunga che nella società spartana anche le donne erano parzialmente coinvolte in questo meccanismo educativo-militare; esse partecipavano infatti per qualche tempo all'educazione, condividendo i disagi e la disciplina durissima degli uomini: tale formazione era necessaria, nell'ottica spartana, perché, divenute adulte, generassero figli sani, robusti e di carattere forte. Assai differente era invece l'impostazione educativa ad Atene, dove la musica, la lettura e la scrittura non erano strumentali, bensì costituivano valori in sé, destinati alla formazione di una personalità equilibrata e completa. C'erano insegnanti specializzati, quali il pedotriba (ginnastica), il citarista (musica), il grammatista (lettura e scrittura) e il pedagogo, una sorta di assistente che accompagnava i fanciulli. Anche ad Atene la prima educazione era affidata alla famiglia, e in particolare alla madre e alle altre donne di casa riunite nel gineceo. Dal compimento del 7° anno tutti i fanciulli liberi, anche quelli appartenenti alle classi più elevate, che potevano disporre di servitù e di mezzi, frequentavano la s. fino a 14 anni. La città non organizzava direttamente il sistema scolastico, ma ne promuoveva lo sviluppo e ne coordinava l'attività. Fra i 14 e i 18 anni il ragazzo ateniese frequentava il ginnasio, una palestra dove alle attività fisiche si associavano esperienze di vita culturale e sociale, sotto la guida di un funzionario statale, il ginnasiarca. Nei successivi due anni si attuava la preparazione militare, detta efebato. Oltre agli schiavi e ai meteci (stranieri residenti), erano escluse dalla s., nella democrazia ateniese, anche le donne. Nella seconda metà del V sec. a.C. si sviluppò, ad opera dei sofisti, fondatori della pedagogia teoretica, il concetto di paideia, cioè di formazione attraverso la cultura; si generarono quindi due orientamenti educativi diversi, l'uno rivolto alla formazione filosofica e politica (l'Accademia di Platone), l'altro alla retorica (la s. di Isocrate); da tali esperienze discese poi, in epoca ellenistica, la creazione di istituti di altissimo livello scientifico e culturale come il Liceo di Aristotele. Nell'età ellenistica, l'incontro tra esperienze e tradizioni di popoli diversi accentuò il fenomeno della “professionalizzazione” della cultura, già iniziato dai sofisti. Tuttavia, in questo caso non si trattò di un fatto soggettivo, ma dell'esigenza oggettiva di codificare e di conservare il sapere, di cui fu segno la grande biblioteca di Alessandria, contenente oltre mezzo milione di volumi. Lo studio divenne quindi un fatto pubblico e tecnico: si delineò un primo ciclo scolastico, tra i 7 e i 14 anni, durante il quale i fanciulli apprendevano a leggere, a scrivere e a far di conto, dedicandosi inoltre alla ginnastica, alla musica e al disegno. Tra i 14 e i 18 anni lo studio si allargava alla totalità del sapere, con insegnamenti di letteratura, matematica, astronomia, biologia, fisica: si trattava infatti di una vera s. secondaria superiore polivalente, alla quale faceva seguito un biennio di specializzazione nel campo della filosofia, della retorica, della medicina. A tale sviluppo si accompagnò, da parte dello Stato, un interesse sempre più intenso per l'educazione, che assunse in numerosi casi l'aspetto della diretta istituzione di s., con la predisposizione di strutture, di programmi, di personale qualificato. L'antica Roma: l'incontro fra la civiltà greco-ellenistica e Roma produsse un rilevante mutamento nel sistema educativo romano, che fino a quell'epoca, a causa del prevalere degli interessi pratici e politici, si era disinteressato degli studi liberali ed era rimasto affidato all'ambito esclusivamente familiare: sotto l'influsso greco e in seguito al formarsi di una letteratura romana si giunse in Roma a una più organica impostazione, avente il carattere di s. pubblica (nel senso di collettiva), ma gestita da privati, cioè ancora da nuclei familiari accordatisi tra loro. Se nell'epoca arcaica il fanciullo, compiuti i 7 anni, passava sotto la cura del padre, il quale lo avviava alla conoscenza della vita dei campi e soprattutto dei criteri di un'oculata amministrazione, a partire dal I sec. a.C. la s. assunse tutte le sue caratteristiche strutturali: comprendeva infatti un luogo dove si recavano i fanciulli (non di rado anche le bambine) e aveva insegnanti specifici e programmi dettagliati. La s. primaria era detta ludus, cioè ancora attività libera non lavorativa, come per i Greci: l'insegnante era detto litterator e impartiva nozioni elementari di scrittura, lettura, conto. Fra i 13 e i 16 anni si frequentava la s. secondaria, dove dominava la figura del grammaticus, non di rado proveniente dalla Grecia, dal quale gli allievi apprendevano le opere letterarie latine e greche. Seguivano quindi, conformemente alla mentalità pratica dei Romani, indirizzi specialistici come le s. di diritto e di retorica. Nell'epoca imperiale si ebbe un più diretto intervento dello Stato nella s. secondaria e di livello superiore, con istituzione di s. imperiali, mentre l'istruzione primaria ritornò a essere competenza delle singole famiglie. Medioevo: la fine dell'Impero romano d'Occidente pose termine all'esperienza delle s. imperiali. La cultura classica entrò allora in crisi per effetto di due fattori concomitanti, le invasioni barbariche e l'avvento del Cristianesimo. Tesa a promuovere l'affermarsi di valori spirituali, la Chiesa avocò a sé la funzione di provvedere all'insegnamento, organizzando s. parrocchiali che impartivano un insegnamento religioso comprendente gli elementi essenziali della lettura e della scrittura. L'istruzione secondaria assunse la caratteristica dell'avviamento al sacerdozio: si svolgeva all'interno dei monasteri e comprendeva anche elementi delle arti dette liberali (in virtù della tradizionale distinzione tra studio e lavoro) quali l'aritmetica, la geometria, l'astronomia, la musica, la grammatica, la dialettica, la retorica. Grazie all'opera di studiosi come S. Boezio, Cassiodoro, M. Capella, i programmi si arricchirono di contenuti della cultura classica, sulla base di traduzioni e di adattamenti, talvolta incompleti o infedeli ma pur sempre importanti. Dopo la s. secondaria i candidati al sacerdozio passavano alle s. cattedrali o vescovili, dove si perfezionavano nello studio della filosofia e della teologia. Tra l'VIII e il IX sec., il sistema d'insegnamento venne globalmente riorganizzato ad opera di Carlo Magno, il cui disegno era quello di creare una rete omogenea di s., con un programma di studi ben definito, adatto alla formazione delle classi dirigenti intellettuali, dove predominavano le figure degli ecclesiastici. Per iniziativa di Alcuino e dei suoi collaboratori, artefici di quella che comunemente viene indicata come “rinascita carolingia”, vennero riordinate le s. monastiche e vescovili, sulla base della distinzione delle arti liberali in trivio (grammatica, dialettica, retorica) e quadrivio (aritmetica, geometria, astronomia, musica), intese come propedeutiche agli studi teologici. Dopo il Mille si verificò un'importante trasformazione degli studi superiori, che sfociò nella nascita delle università, in seguito al formarsi di corporazioni di studenti e di insegnanti. Tra la fine dell'XI e l'inizio del XII sec. sorse l'università di Parigi, nata dall'antica s. cattedrale di Notre-Dame, specializzata in studi di teologia e successivamente ordinata in quattro facoltà: Arti, Diritto canonico, Medicina e Teologia. Alla prima metà del XII sec. risale anche l'università di Bologna, che si specializzò negli studi di diritto e fornì a Federico Barbarossa gli strumenti teorici di legittimazione della sua autorità. Da una scissione in seno all'università di Parigi ebbe origine l'università di Oxford e da un'ulteriore scissione quella di Cambridge, entrambe specializzate nello studio delle scienze. Nella prima metà del XIII sec., per opera di Federico II, venne fondata l'università di Napoli, che si affiancò alla s. medica di Salerno, e nello stesso periodo fu fondata l'università di Padova. Fra i numerosi problemi che caratterizzarono questa trasformazione della cultura superiore, va ricordata la tendenza dell'autorità imperiale a intaccare il monopolio ecclesiastico, al fine di formare intellettuali e funzionari laici e non necessariamente religiosi, in grado di svolgere con competenza mansioni amministrative complesse e culturalmente impegnative. Età moderna: il processo di laicizzazione della cultura divenne rilevante solo nell'epoca umanistica e rinascimentale, in conseguenza dell'arricchirsi del materiale culturale. In questo periodo particolare rilevanza ebbero le s. che si ispiravano al modello dei convitti (s.-convitto o s.-famiglia) creati dagli umanisti Vittorino da Feltre e Guarino Veronese; inoltre, si affermarono da un lato le s. primarie municipali, che svolgevano un insegnamento non più finalizzato allo studio dottrinale, dall'altro le università e altri istituti superiori (come le accademie), dove insegnanti laici approfondivano argomenti scientifici, letterari, giuridici e filosofici non più connessi con l'ambito religioso. Per quanto riguarda l'istruzione secondaria, pur non mancando iniziative municipali, continuò a prevalere l'insegnamento impartito dagli ecclesiastici, al quale si affiancava sempre l'educazione data all'interno della famiglia. Gelosa delle sue prerogative tradizionali, l'autorità religiosa non si rassegnava infatti alla perdita del controllo della cultura. Il problema si complicò con l'avvento del movimento della Riforma protestante, iniziata nel 1517 da Martin Lutero e affermatasi rapidamente in vari Paesi europei; infatti, in conseguenza sia della Riforma, sia della Controriforma cattolica, la ricerca educativa e l'organizzazione scolastica conobbero un ulteriore sviluppo ed estensione. Direttamente discendente dalla Riforma, secondo la quale ogni individuo ha il diritto di realizzare un proprio rapporto vitale con il testo delle sacre scritture, fu l'istanza di una generale estensione della cultura, senza limitazioni di censo o di sesso. Lutero e i suoi collaboratori si fecero promotori dell'istituzione di s. popolari ad opera dello Stato e in questo modo fu avviato in molti Paesi europei, e in particolare in Germania, il superamento del fenomeno dell'analfabetismo. Dal canto suo la Controriforma mise in atto un'intensa ricerca di soluzioni educative teoriche e pratiche che consentirono all'istruzione di organizzarsi in modo efficiente. Esempio eccellente fu la ratio studiorum dei Gesuiti, relativa alla s. secondaria: tale schema di studi comprendeva un quinquennio formato da tre anni di grammatica, uno di umanità e uno di retorica, al quale faceva seguito un triennio, detto filosofico, con insegnamento di logica, metafisica, psicologia, etica, fisica, filosofia, matematica. Significativa fu anche l'istituzione di s. popolari gratuite da parte degli Scolopi, in sostituzione delle s. municipali ormai in grave crisi e in alternativa alle s. parrocchiali, povere di contenuti, di metodi e di personale capace. Nell'età moderna i sistemi scolastici divennero stabilmente un elemento integrato nella realtà interna dei singoli Stati. Alla progressiva organizzazione della s. in struttura, con programmi ben definiti e con l'autorità di rilasciare titoli di studio riconosciuti, seguì l'adattamento, da parte degli stessi ordini religiosi, del proprio insegnamento alle differenti situazioni. Tra il XVII e il XVIII sec., nella maggioranza dei Paesi europei si assistette ancora alla preponderanza dell'educazione impartita a livello primario e secondario nell'ambito delle istituzioni ecclesiastiche, mentre l'insegnamento universitario acquisì piena indipendenza e autonomia. Nei Paesi riformati, accanto alla s. privata si affermò quella promossa in vari modi dallo Stato, il quale favoriva, finanziava parzialmente e coordinava le iniziative locali delle comunità. Si configura in questo periodo il modello, definito anglosassone, di una s. non statale ma garantita dallo Stato, il quale esercita il controllo sui contenuti, sui metodi e sulla scelta dei docenti. In Gran Bretagna iniziò allora a diffondersi la Grammar School, la quale rappresentava un modello di s. secondaria in cui l'impostazione umanistica classica era associata all'interesse per la realtà concreta dell'esperienza. L'insegnamento era impartito a tempo pieno nei colleges, convitti frutto della collaborazione tra Stato e associazioni private, e ben presto tale sistema di formazione delle classi dirigenti si riprodusse anche nelle colonie americane. Nella s. anglosassone era ed è tuttora elemento caratteristico l'organizzazione di forme di autogoverno degli studenti, riuniti in vari circoli (club) culturali, ricreativi, scientifici e sportivi. Con l'avvento dell'età dell'Illuminismo si verificò una svolta decisiva nella storia della s.: infatti, all'esempio della s. anglosassone fu contrapposto un altro modello scolastico che, recuperando le esperienze del passato, concepiva l'educazione come un preciso obbligo dello Stato. In questa concezione, sono compiti esclusivi dello Stato l'istituzione diretta delle s., la definizione dei programmi, la formazione e il reclutamento degli insegnanti, i quali divengono veri e propri funzionari statali. A tale impostazione educativa si richiamarono i sovrani illuminati Federico II di Prussia e Maria Teresa d'Austria, i quali si impegnarono non soltanto a combattere l'ignoranza, ma anche a contenere e a sopravanzare l'educazione scolastica impartita dagli enti religiosi. L'idea di una s. di Stato rigidamente strutturata e centralizzata venne portata a definitivo compimento da Napoleone, nella cui concezione il liceo diveniva strumento politico di formazione di un ceto dirigente omogeneo. Il modello burocratico della s. napoleonica fu adottato in Italia nel 1859 con la legge Casati che rappresentava per il Piemonte, vittorioso con l'aiuto francese nella seconda guerra di indipendenza, un efficace mezzo di unificazione linguistica e culturale delle popolazioni delle varie regioni italiane progressivamente annesse al neonato Stato italiano. Inoltre, nel XIX sec., accanto alla presenza dei due differenti modelli scolastici, anglosassone e napoleonico, ebbe luogo la contrapposizione e la separazione effettiva tra due concezioni della cultura e dell'educazione: da un lato quella ispirata alla tradizione classica e umanistica, alimentata dall'esaltazione fattane dal Romanticismo e dal pensiero idealistico, dall'altra quella riferita principalmente al sapere scientifico, polemicamente affermata dal Positivismo in contrasto con l'Idealismo. La tendenza ad abbandonare l'impostazione prettamente umanistica a favore di quella tecnico-scientifica (o “realista”) si era già sviluppata nei secc. XVII-XVIII soprattutto in Germania e nel mondo anglosassone, con l'introduzione nei programmi d'insegnamento di discipline quali la geografia, le scienze naturali, la fisica, le lingue moderne; nel corso del XIX sec. portò alla creazione di istituti, quali la Realschule prussiana, in cui l'esigenza di cultura era associata a un'accurata preparazione tecnico-specialistica. Di conseguenza, la cultura tecnologica iniziò a rivendicare pari o superiore dignità nei confronti della formazione umanistica, tradizionalmente considerata come condizione necessaria per l'accesso agli studi universitari. A livello di s. secondaria, l'orientamento scientifico passò gradualmente dall'avere un carattere eminentemente pratico e professionale all'acquisizione di un carattere più teorico e generale, tale cioè da costituire la premessa non tanto a una diretta immissione nel lavoro quanto a un'ulteriore formazione a livello superiore. Del resto, il problema della professionalità degli studi secondari, se essi debbano cioè avviare a una specifica professione o se debbano avere carattere polivalente e costituire una preparazione di base in vista di una successiva acquisizione di professionalità, è un argomento di discussione ancora attuale e dibattuto nei vari Paesi. Età contemporanea: in Italia, fra la fine del XIX sec. e il primo ventennio del XX sec. le istituzioni nazionali diedero vita a un ampio progetto di rinnovamento della s., la cui riforma fu poi attuata nel 1923-24 dal filosofo G. Gentile. Tale riordinamento prevedeva un'organica disciplina sullo stato giuridico e sul trattamento economico dei maestri, degli insegnanti e dei presidi, al fine di riqualificare la figura dell'insegnante e conferire autorità e disciplina morale a quella del capo d'istituto. Alla capillare riorganizzazione dell'amministrazione della s. si accompagnò la fondamentale riforma degli ordinamenti e dei programmi scolastici. Il ciclo di studi primario fu suddiviso in un triennio di grado preparatorio (di carattere prescolare, analogo alla s. materna) e in un quinquennio di s. elementare, diviso a sua volta in un triennio di grado inferiore e in un biennio superiore; a questo primo ciclo poteva far seguito o un corso integrativo di avviamento professionale, con cui si completava l'obbligo scolastico, oppure il passaggio al ciclo di studi secondario. Quest'ultimo venne differenziato secondo le diverse finalità formative attribuite ai vari istituti: oltre al ginnasio-liceo, di impostazione umanistica, unica s. a consentire l'accesso a tutte le facoltà universitarie e perciò destinata a formare i futuri dirigenti, fu istituito il liceo scientifico, che permetteva l'accesso alle facoltà scientifiche; fu creato inoltre l'istituto magistrale, per la preparazione degli insegnanti del ciclo primario, fu riorganizzato l'istituto tecnico, ripartito in due indirizzi (commerciale e di agrimensura) e fu inaugurata la s. complementare destinata ai ceti più modesti della popolazione. In questa riforma fu conferita grande importanza alla s. privata, fu introdotto l'esame finale di Stato, furono adottati nuovi programmi d'esame al posto dei tradizionali programmi d'insegnamento, fu inserito nelle s. l'insegnamento della religione cattolica. Nonostante i suoi limiti - l'accentuata separazione fra s. destinate alla preparazione delle classi dirigenti e s. professionali, il predominio degli studi classici su quelli tecnici e scientifici, l'assenza di collegamenti fra s. e mondo del lavoro - questa riforma rivela senza dubbio una concezione elevata e moderna della s. e dell'unità del sapere di cui essa deve farsi tramite. Negli anni successivi, tale riorganizzazione fu parzialmente modificata, in seguito alle vicende storiche e politiche dell'Italia, ma rimase sostanzialmente in vigore: una nuova riforma, preannunciata dalla “Carta della s.” del 1939, non fu portata a compimento a causa dell'entrata in guerra dell'Italia e delle successive vicende belliche, che determinarono il crollo del regime fascista. Nel dopoguerra, in Italia come in numerosi altri Paesi si è verificato un rilevante sviluppo dei processi d'istruzione, il quale ha richiesto una politica d'intervento più ampia e approfondita che nel passato. Il primo problema da risolvere a livello mondiale è apparso quello dell'analfabetismo. Nelle aree geografiche più avanzate (Europa, America Settentrionale, Giappone) tale problema era piuttosto limitato e riguardava solo frange della popolazione adulta, in particolare delle zone rurali e delle periferie urbane; infatti, nel corso di pochi decenni si è riusciti, attraverso una politica scolastica di interventi capillari e di forme differenziate di recupero, a eliminare in gran parte il fenomeno dell'analfabetismo: in Italia, attraverso la creazione di s. popolari e di altre iniziative analoghe, la percentuale degli analfabeti di età superiore a sei anni è calata dal 13% nel 1951 al 2,1% nel 1991, per scomparire quasi completamente nel 2001. Per contro, la piaga dell'analfabetismo continua a costituire un grave problema nei Paesi in via di sviluppo (colpisce circa un terzo di questi abitanti), soprattutto a causa della povertà e del basso reddito, anche se sussistono differenze talora considerevoli fra Paese e Paese, in conseguenza delle differenti tradizioni e politiche nazionali: in Cina e in India, per esempio, negli ultimi decenni sono stati messi in atto programmi di alfabetizzazione di grande impegno e dimensioni. Nel complesso, grazie al contributo dei singoli Governi e all'impegno di organismi internazionali, fra cui in particolare l'UNESCO, il tasso di analfabetismo nel mondo è calato dal 32,9% (1970) al 27,7% (1985). Nonostante i progressi compiuti, il fenomeno è ancora lungi dall'essere risolto, come dimostrano le continue iniziative e gli sforzi finanziari e organizzativi attuati dall'ONU e da altri organismi a livello internazionale. Un altro problema che ha investito la s. a partire dal dopoguerra, in particolare in Italia, è stato quello della scolarizzazione di massa. Infatti, le strutture scolastiche tradizionali, che prima della seconda guerra mondiale erano limitate, si sono rivelate del tutto inadeguate ad affrontare l'ingente incremento della popolazione scolastica, dipendente da diversi fattori concomitanti, quali l'aumento demografico, l'accrescersi del tenore di vita, lo sviluppo dei settori produttivi dell'industria e del commercio con le conseguenti migrazioni interne, l'inurbamento e la necessità sempre maggiore di qualificazione culturale e professionale. Per rispondere a questo fenomeno, che ha caratterizzato dapprima soprattutto la s. primaria, quindi gradualmente quella secondaria e postsecondaria, lo Stato ha dovuto affrontare numerosi problemi, quali l'adeguamento delle strutture scolastiche e formative, il reperimento del personale necessario, la destinazione alla s. di notevoli contributi finanziari. Perciò, a partire dagli anni Cinquanta, il Governo italiano è intervenuto per diffondere capillarmente sul territorio le istituzioni educative, a partire da quelle di base, attraverso piani di edilizia scolastica; tuttavia, lo sforzo finanziario, anche se notevole e prolungato, non sempre è riuscito a corrispondere alle necessità e ai bisogni, in quanto si sono verificati talvolta ritardi e carenze. Inoltre, dagli anni Settanta i primi segnali di crisi economica hanno indotto lo Stato a diminuire la spesa finanziaria per l'istruzione. L'altro importante settore influenzato dalla crescita della scolarizzazione concerne il corpo insegnante, e in questo caso la risposta statale alle esigenze della s. si è rivelata spesso intempestiva e inefficace. Infatti, l'aumento della popolazione scolastica ha indotto, in una prima fase, le autorità competenti a reclutare i docenti anche fra il personale non qualificato ed esperto; solo nel 1974 si è giunti in Italia alla creazione degli Istituti regionali di ricerca, sperimentazione e aggiornamento educativi (IRRSAE) destinati a diffondere e promuovere la formazione tecnico-didattica degli insegnanti. Proprio nella fase di massima espansione dei sistemi di istruzione si è innescato, non solo in Italia, ma in molti Paesi occidentali, un processo di crisi che ha coinvolto tutte le componenti della s. e che di essa ha messo in dubbio la stessa funzione educativa. La contestazione studentesca, diffusasi negli anni Sessanta dagli Stati Uniti all'Europa e al Giappone, ha infatti evidenziato lo stato di disagio giovanile che si è riflesso principalmente nelle istituzioni scolastiche, ritenute inadeguate a far fronte alle nuove problematiche realtà della società contemporanea. Quantunque fortemente connotata in senso ideologico, la contestazione studentesca ha contribuito a rendere indispensabile la necessità di una riforma generale dell'intero sistema educativo. Inoltre, manifestazioni di protesta degli studenti hanno continuato a verificarsi periodicamente dagli anni Ottanta in avanti, traendo spunto da problemi concreti quali le mancate riforme, l'insufficienza di sbocchi professionali per diplomati e laureati, il calo drastico degli investimenti statali per la s. Motivi di protesta si sono verificati anche da parte del corpo insegnante, in seguito al progressivo calo di prestigio sociale del loro ruolo. A tale ampia crisi d'identità della s. si va tentando di porre rimedio attraverso una riforma in profondità delle strutture scolastiche tradizionali, al fine di rivalutare il compito precipuo della s., cioè la promozione e lo sviluppo delle capacità intellettive, della formazione culturale, morale e civile e delle competenze scientifiche e tecniche dei giovani. Quanto alla specifica situazione italiana, si ricordano qui le principali innovazioni introdotte nel sistema scolastico a partire dagli anni Sessanta. Nel 1962, in sostituzione del doppio canale di s. media e s. di avviamento professionale, venne istituita la nuova s. media inferiore unitaria, ulteriormente disciplinata nel 1977 con adattamenti (l'insegnamento del latino, divenuto facoltativo dal 1962, fu definitivamente abolito); nel 1968 fu creata la s. materna statale; nel 1969 l'esame di maturità delle s. superiori venne regolato da una nuova legge, provvisoria nelle intenzioni, ma di fatto in vigore per quasi 30 anni, fino all'anno scolastico 1997-98; nel 1974, attraverso la decretazione delegata, vennero riordinati gli organi collegiali della s., aperti alle differenti componenti scolastiche, con l'intenzione di permettere una gestione democratica della s.; la s. elementare, disciplinata nel 1957, fu riorganizzata dapprima nel 1985 con l'introduzione di nuovi programmi d'insegnamento, e quindi nel 1990, con l'attuazione di nuovi moduli didattici e organizzativi. Per quanto riguarda l'insegnamento della religione nelle s., con il nuovo Concordato del 1989 si stabilì che le famiglie degli studenti potessero scegliere di fruirne in relazione alle proprie convinzioni. Nel 1996 furono aboliti gli esami di riparazione e nel 1998 fu introdotta una nuova disciplina degli esami di maturità, che mutarono il nome in esami di Stato (V. ESAME). Con la riforma promossa dal ministro Moratti, dall'anno scolastico 2003-04 entrarono in vigore numerose innovazioni, tra cui: l'innalzamento dell'obbligo scolastico fino a 18 anni, con 12 anni complessivi di studio; l'abbassamento dell'età di ingresso dei bambini alla s. materna (possono essere iscritti bambini che compiano 3 anni entro il 28 febbraio successivo all'inizio dell'anno scolastico - la scelta è facoltativa) e alla s. elementare (possono essere iscritti bambini che compiano 6 anni entro il 28 febbraio successivo all'inizio dell'anno scolastico); l'obbligatorietà dell'insegnamento di una lingua straniera a partire dai 6 anni e di una seconda lingua dagli 11 anni; l'ampio spazio concesso all'insegnamento delle tecnologie informatiche; l'abolizione dell'esame di quinta elementare (viene mantenuto l'esame di Stato alla fine dei tre anni di medie); la possibilità di passare dal liceo (quinquennale) alla s. professionale (quattro anni) per tutta la durata degli studi; la creazione di nuovi licei (economico, musicale, tecnologico, delle scienze umane) accanto a quelli tradizionali.


   
 
 

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