«Faida di Toscana» di Indro Montanelli


La Toscana non è una regione soltanto, è una categoria dello spirito. Fatta di tanti elementi: asciuttezza, spregiudicato realismo alla Guicciardini (o alla Prezzolini) con idealità alla Machiavelli (o alla Berto Ricci, l'unico vero maestro di carattere ch'io abbia mai conosciuto). Prototipo resta però Machiavelli, il quale - come il sottoscritto - fa parte di quella razza d'uomini che ridono in "ih", ch'è un riso di testa, ilare e nervoso. Questa razza è poi magra come l'ulivo (cioè come Ardengo Soffici, ch'era fatto di buon legno), ama la cucina all'olio e, quando scrive, lascia scivolar giù dalla penna una prosa altrettanto magra, secca, tutta fatti e niente fronzoli, tirata all'osso. A questo punto devo, con tutto rispetto per gli altri Toscani, fare una precisazione: quella razza appartiene alla Toscana del Granducato. Cercherò di spiegarmi con l'esempio che più ho sott'occhio: con me stesso. Non sono mancate che poche decine di metri perché, invece che in quella Toscana granducale, cioè di Firenze, io nascessi nella Toscana del principato, cioè di Lucca. Eppure, quei metri hanno avuto conseguenze enormi sul mio carattere e sulla mia esistenza: via via che passa il tempo, sempre meglio me ne rendo conto. Io nacqui in Fucecchio, paese di Valdarno, sito a mezza strada fra Pisa e Firenze, il 22 aprile 1909. Il che, per me, continua a contare moltissimo. Forse solo in Toscana i confini fra una provincia e l'altra contano ancora qualcosa, pur quando siano una linea soltanto ideale, tesa sulla groppa d'una collinetta che non presenta differenza alcuna, né di flora né di fauna, fra l'uno e l'altro versante. E forse anche, anzi certamente, fu per questa ragione che i miei antenati granducali preferirono costruire la casa di campagna in cui vidi la luce in un avvallamento che le toglie ogni respiro e orizzonte, ma che tuttavia è ancora nel contado fiorentino; piuttosto che issarla sopra un monticello librato sulla vasta pineta tesa come un tappeto tra il palude di Fucecchio e quello di Bientina, ma che già appartiene alla Lucchesia. Potevano scegliere indifferentemente l'uno o l'altro, perché in quel punto le terre a cavallo della strada che mena a Altopascio appartenevano a loro, sia al di qua che al di là dei confine. Eppure vollero restare al di qua, anche a costo di rinunziare al panorama. La località si chiama Le Vedute, sebbene non ci sia da veder nulla. «Ma non importa», dicevano i miei vecchi: «Meglio affogare nel granducato che respirare nel principato». Di dove venga quest'avversione, sintomo e prova della faziosità delle parti mie, un'avversione che tuttora continua e che è reciproca, mi è difficile dire. Mi è facile soltanto comprendere, a cose fatte, che noi altri nati da quelle parti portiamo tutti nel sangue quest'eredità di gente di frontiera che ci pone, nei rispetti dei granducato, nella stessa posizione in cui i triestini stanno nei rispetti dell'Italia e i sudetti in quelli della Germania. A Firenze si parla di Lucca con un po' di condiscendenza, e magari anche di disprezzo, ma senza astio né animosità. Ma a Le Vedute si parla tutt'oggi del Galleno, ch'è la prima borgata che s'incontra di là del confine, con autentico odio. Forse, è proprio perché a Galleno son (quasi) tutti neri, che a Le Vedute son (quasi) tutti comunisti, e viceversa. La politica, in Toscana, è fatta soltanto di questo: di dispetti municipali, dinastici e di quartiere. Nessuno vota «per», da noi; ma soltanto «contro» qualcuno. Poiché avevamo in famiglia, come ho detto, le terre a cavallo delle due province, era giocoforza ai miei vecchi andare a visitare ogni tanto anche quelle di là. Lo facevano di rado e controvoglia, preferendo in genere affidare questo compito al fattore, e senza mai mancare di armarsi di schioppo. Era uno schioppo da caccia, e lo portavano scarico, con le canne rivolte in giù, solo per affermazione di principio, perché debbo riconoscere che pericoli non ne corse mai nessuno, né da questa né da quella parte; ma, caso mai, sarebbe stato più facile incontrarne fra i contadini del granducato che fra quelli della Lucchesia. Non meno ladri i secondi dei primi, intendiamoci; ma anche più quieti e rispettosi dell'autorità padronale. Era però proprio quest'atteggiamento remissivo che mandava in bestia mio nonno e i miei zii, i quali credo che, pur di subire un attentato dei lucchesi, su cui fondare un po' meglio la loro avversione e diffidenza, ci avrebbero volentieri rimesso anche una mano o un braccio. Ma i lucchesi questa soddisfazione non gliela diedero mai. Perfino nel '10 e nel '20 si tennero tranquilli e aderirono in massa alle Leghe bianche, invece che a quelle rosse, cui al contrario i granducali si erano totalitariamente iscritti. Non erano comode, per i padroni, le Leghe rosse. E quella cui facevan capo i contadini di Le Vedute era resa particolarmente minacciosa dalle simpatie di cui godeva presso il prete, che comunemente si chiamava «prete diavolo» e in un certo senso, pace all'anima sua, lo era. Costui non aveva nessuna tenerezza, alla La Pira (qualcuno ricorderà certo, almeno, il nome del sindaco di Firenze, un sei lustri fa), nessuna tenerezza, dicevo, per le «istanze sociali», come si diceva allora e oggi non si dice più. Ma era un forsennato cacciatore e il capolega, per tenerselo buono e assicurarsene l'appoggio, gli aveva dato in gratuito appalto un paretaio (ovvero un «ròccolo») dove i tordi, d'ottobre, incappavano a grappoli dentro le pénere. «L'anima si vedrà in punto di morte», diceva Prete Diavolo di quegli eretici, «ma i tordi intanto me li danno». E non accennava mai, dal pulpito, a lanciare qualche ammonimento contro le loro intemperanze. Eppure, era a lui che ci si rivolgeva la domenica, perché venisse a officiare nella cappella di famiglia, invece che a don Angelo, il suo collega del Galleno, che stava più vicino, ed era dolce, remissivo e rispettoso, ma «lucchese»: perché, evidentemente, nella teogonia di casa, era sempre meglio un diavolo del granducato che un angelo del principato. «Lucchesi» si chiamavano e tuttora si chiamano da noi certi pruni di bosco, i più insidiosi e traditori, di cui ho sempre ignorato il nome vero; e la minaccia più grossa e di più sicuro effetto era, se non me ne stavo buono, di portarmi a Lucca a baciare il sedere (ma loro lo chiamavano in altro modo) «a una pantera». «... E poi zuppa di fagioli col beuccellato al posto del pane...» aggiungevano per rendere la prospettiva ancora più agghiacciante. Quando, per venire a capo di quest'odio di razza, che da bambino mi rimase oscuro, riuscivo con le mie domande a metterli alle strette, rispondevano seccati: «Perché noialtri siam toscanacci, mentre loro son toscanucci!». E «toscanacci» lo pronunciavano come una bestemmia, su un tono compiaciuto di spavalda jattanza; mentre «toscanucci» lo dicevano come un insulto, su un tono schifato di basso spregio. Per lungo tempo, da ragazzo, mi ribellai a questa distinzione sommaria che tendeva a creare una cortina di ferro fra gli uni e gli altri poderi della stessa fattoria e respinsi con sdegno la finzione di un confine che esisteva solo nel ricordo dei vecchi. Anzi, per lo spirito di contraddizione che mi ha sempre animato, di nascosto ogni giorno quel confine lo varcavo per andare a solidarizzare con quei poveri trascurati contadini di là. Essi parlavano, è vero, una lingua un po' diversa dalla nostra, condita di un accento più dolce e allungato. Quelli, per esempio, che sino all'ultimo casolare granducale si chiamavano «viottoli», nel primo casolare del principato, che distava un tiro di schioppo, si chiamavono «resolini»; e quel che da noi si diceva «brocca», da loro si diceva «mezzina». Ma era buona gente, laboriosa e servizievole, che mi accoglieva sempre offrendomi «du' fagioli», di cui c'era in permanenza una gran pentola a bollire sul fuoco di legna nel camino; e quando accettavo, si astenevano anche, certo per non offendermi, dal farmi constatare che l'olio, da loro, era più verde e magro che da noi. Sì, eran proprio buona gente, e io non ho che gradevoli ricordi delle ore trascorse in mezzo a loro. Ma, a cose fatte, devo riconoscere che il confine fra granducato e principato c'è, nonostante che principi e granduchi siano andati via da tanti anni, e che i toscanacci di qua non solo hanno ben poco a che fare con i toscanucci di là, ma ne costituiscono addirittura la vivente contraddizione. Ciò mi pare che non accada in nessun'altra regione italiana, salvo, forse, la Romagna, dove gli acci alla Mussolini, alla Oriani, alla Beltramelli, eccetera, convivono anche lì con una specie di ucci alla Pascoli, alla Serra, alla Moretti. Ma in Lombardia i lombardacci e i lombarducci non ci sono; e, nemmeno in Piemonte, fo per dire, non ci sono i piemontesacci e i piemontesucci (caso a sé è forse la Liguria: dove - me lo raccontò Giovanni Ansaldo e lo ribadisce oggi Marcello Staglieno - i genovesi sono quasi tutti acci, e ucci nella restante regione). Ma, per tornare alla Toscana: qui non ci sono che acci e ucci, e a non tener presente questa distinzione, non si capisce nulla. Come si faccia a distinguere se un toscano è accio o uccio (distinzione che corrisponde a quella, di Leo Longanesi, tra nardones e leccobardi), così su due piedi non so dirlo. Li distinguo d'istinto, e tanto basti. Per esempio: Soffici era accio, e accio era Ottone Rosai, e accio era Prezzolini; uccio era invece Malaparte (ma di lui, dirò alla fine di questa mia nota). Però, attenzione; il fatto d'essere nato a Firenze (Malaparte, tuttavia, era di Prato) non basta a catalogare uno nella prima categoria, come il fatto d'essere nato a Lucca non basta a catalogarlo nella seconda. Il povero Pietro Pancrazi, per esempio, era uccio pur venendo dall'Aretino, che è granducale e fra i più acci (accio era Pietro Aretino, e accio, accissimo è Fanfani). Ma fra di noi, ve l'ho detto, ci si riconosce a fiuto, solo annusandoci. E debbo aggiungere che, pur vergognandomene come un ladro e mentalmente respingendo questa discriminazione come indegna del buon senso e del più elementare spirito di giustizia e di lealtà, io, che sono accio fino alle estreme conseguenze per eredità di sangue, ho finito, non so come, per condividere verso gli ucci la medesima allergia e diffidenza e avversione che da ragazzo rimproveravo ai miei vecchi. Ho torto, non c'è dubbio, e tutte le esperienze accumulate nel mio passato di granducale dissidente, quando disertavo la causa per intelligenza col nemico e andavo a mangiar «dù fagioli» in casa sua, lo provano. Oh, eran buona gente, e il loro olio era davvero più magro e verde e pimentato del nostro. E don Angelo, che parlava sempre sorridente a bassa voce per predicare a tutti la concordia e l'obbedienza, vorreste metterlo con Prete Diavolo che, solo ad avvicinarsi al suo paretaio, usciva fuori dal capacco urlante e gesticoloso a minacciarti con anatemi e scomuniche? Sì sì, eran proprio buona gente, gli ucci; erano, e continuano a essere, di gran lunga migliori degli acci. Ancora, quando torno da quelle parti, l'accoglienza che trovo è ben diversa, di qua e di là dall'ideale confine. Gli uni e gli altri hanno fatto a gara nel derubare il padrone fino a obbligarlo a vendere i poderi ai rispettivi mezzadri, che ormai son tutti proprietari. Ma gli ucci almeno non hanno serbato odio verso la vittima, mentre gli acci la guardano come rimpiangendo di averle lasciato addosso la pelle e i vestiti. Son sicuro che se mi presentassi con una macchina americana, quelli si feliciterebbero di vedermici a bordo; questi mi metterebbero i chiodi sotto le gomme. Eppure, non so com'è, ma io mi trovo a mio agio solo fra gli acci; e appena sento attorno puzzo di uccio, mi vien fatto d'appoggiarmi alla parete per mettermi al coperto le spalle. Sarà illogico, sarà irrazionale, sarà tutto quel che voi volete; ma quando entro in un caffé di scaricatori del porto livornesi, che sono acci all'ennesima potenza, e incontro con i miei gli occhi di quei malviventi facili alla rissa e alla coltellata, che subito, vedendomi vestito di panni diversi dai loro, cercano un pretesto per cazzottarmi, cosa volete che vi dica, mi ci sento a casa mia, e di mettere al coperto le spalle non mi passa nemmeno per la testa. Per la stessa ragione, ogni poco ho piacere di tornare a Firenze, sebbene i discorsi dei miei compaesani, quando mi vedon passare per strada, me li senta chiaramente rifischiare nell'orecchio: «Rieccolo, guarda, il milanese!... Come se un ci se n'avesse abbastanza, di citrulli, in questa città!...» Gli ucci no, non lo direbbero; e chissà, forse nemmeno lo penserebbero, sebbene nessuno sia mai riuscito a capire cosa pensano gli ucci, quando pensano. Ecco: forse qui, in questo non sapere mai cosa pensano, quando pensano, o si crede che pensino, sta il motivo per cui dopo essermici mentalmente ribellato per tanti anni, ho finito anch'io, come i miei vecchi, per discriminare gli ucci. E se mi toccasse in sorte di costruire una viila laggiù in quella marca di frontiera fra Le Vedute e il Galleno, credo proprio che tornerei a fare la scelta che fece il mio antenato e preferirei come lui affogarla nei granducato, piuttosto che issarla sul contiguo monticolo del principato. Ripeto: sarà irrazionale e ingiusto, anzi certamente lo è. Ma, visto che per noi toscani non c'è alternativa che fra una razzaccia e una razzuccia, ambedue mefitiche, preferisco la razzaccia. E' brutta, lo so: proterva, faziosa e crudele. Ma si può affrontarla senza bisogno d'addossar le spalle al muro né di compiere grandi sforzi per sapere cosa pensa di voi e quanto vi odia, visto che di amare non è neanche il caso di parlarne. Per cui, tutto sommato, benedico quei pochi metri che mi hanno consentito di nascere di qua, invece che di là dal confine: di quà, dove di uccio ci sono i più insidiosi e traditori pruni di bosco: quelli che, appunto perciò, si chiamano lucchesi. E ora, al fondo, due parole - ve l'ho promesse - su Curzio Malaparte. Molti crederanno che si tratti d'un accio, e per un pezzo l'ho creduto anch'io. Vi faccio un esempio: quando un trent'anni fa, suggerii a Leo Longanesi di pubblicare un pamphlet, a mia firma (ma dovevo ancora scriverlo), intitolato Maledetti toscani, Leo non resistette alla tentazione di darne notizia in un catalogo, tra i volumi in preparazione. Cominciai a scriverlo, tra un libro e l'altro, e tra un viaggio e l'altro per il mondo, quand'ecco che - presso Vallecchi - ecco saltar fuori un pamphlet con lo stesso mio titolo (a volte un titolo «fa» un libro). Proprio così, Maledetti toscani, a firma di Curzio Malaparte. Anni dopo, ne parlai con Leo, il quale, di malumore, si limitò a scrollare le spalle: era un accio come me, e probabilmente la sua risposta era quella che doveva seguir la mia domanda: «Malaparte non è un accio...». Tant'è vero che, quando morì Malaparte, impartì ad Ansaldo i seguenti consigli, per il Dizionario degli italiani illustri e meschini: «Quando scriverà la voce Malaparte per il Dizionario ricordi che non fu nemmeno un grande stilista: era soltanto un grosso manierista, ed un fiero bugiardo. Malato di narcisismo, visse senza affetti, senza passioni, sempre davanti allo specchio. Finto toscano (si chiamava Sucken), credette di fare il becero: era invece un lanzichenecco, uno schiavone con segrete tendenze omosessuali. A leggere i suoi libri, ci si trova di fronte non a un volteriano, come lui amava dipingersi, ma a un crepuscolare: amava la mamma e i grand hotels». Chiaro?
 

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