L'opera lirica di Giulio Confalonieri.
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«L'opera lirica» di Giulio Confalonieri Intricatissima questione è quella di stabilire quando e come l'opera sorse, mentre non esistono difficoltà nel precisarne il luogo di nascita. Difatti l'opera, al pari del concerto, della cantata, dell'oratorio e di altri prototipi musicali, iniziò la sua lunga storia in Italia, anzi, come vedremo più precisamente, in Firenze e Roma. Dicemmo che è assai arduo stabilire come l'opera sorse. Possiamo però affermare che le sue origini si trovano connesse da un lato con l'uso antichissimo di intercalare canzoni, balli e cori durante la rappresentazione delle commedie e delle tragedie (per cui l'opera deriverebbe dalla decisione di fare in modo totale quello che sino a un certo momento s'era fatto solo in parte); da un altro lato col desiderio di compiere qualcosa di nuovo nel campo della musica vocale, ossia di impiegare la voce non più come parte di un tessuto contrappuntistico e polifonico, bensì come entità autonoma, per modo che anche il canto potesse risultare diretta, determinata espressione di un'affermazione umana al pari della parola. Per quanto riguarda la prima affermazione, dobbiamo ricordare che il genere letterario della «pastorale» (azione scenica di ambiente naturistico e boschereccio) comportava e quasi chiamava, per il suo particolare carattere, l'intercalazione di parti cantate o suonate da strumenti. Si ricorda come fin dal 1282 fosse stata data a Napoli una «pastorale» comica del «troviero» Adam de la Halle, dove, sotto il titolo di Jeu de Robin et de Marion, venivano narrate le vicende amorose di due contadinelli e si incontravano canzoni, piccoli duetti e balli. Altro esempio illustre di «pastorale» largamente fornita di musica è quello della Favola di Orfeo, che il Poliziano fece rappresentare a Mantova nel 1480. L'elenco potrebbe proseguire dimostrando come, prima che sorgesse l'opera vera e propria, musica e canto ebbero a che fare assai con la scena. Lo stesso va osservato in riguardo al così detto «dramma liturgico», e al «mistero», due generi di rappresentazioni sacre che, durante il Medio Evo, si tenevano nelle chiese e sui sagrati antistanti. Per quanto concerne la seconda affermazione va rilevato che, in seguito al diffondersi della polifonia, ossia dell'uso di cantare insieme tenendo ciascuno una linea melodica diversa e mescolando le diverse linee fino a trarne un tutto piacevole all'udito, la musica d'arte finì col giudicare questa pratica come la sola degna di esser presa in considerazione. Sia nel campo sacro sia nel campo profano, le preghiere e le effusioni amorose erano sempre intonate a più voci. Dalla fine del Duecento alla fine del Cinquecento un immenso patrimonio di testi liturgici, in latino, e di testi lirici, in volgare, venne intonato polifonicamente, creando da una parte i mottetti, le messe, i vespri ecc., da un' altra parte i madrigali, le canzoni, le villanelle e le specie affini. Nella seconda metà del Cinquecento cominciò a delinearsi una reazione contro l'assolutismo polifonico della musica dotta. Sotto la spinta di considerazioni realistiche, si criticò il fatto che l'esposizione di sentimenti individuali, pronunciata in prima persona (pensiamo a quel capolavoro d'individualismo che è il Canzoniere del Petrarca) dovesse esprimersi, attraverso la musica, a quattro, cinque, sei voci simultaneamente. Si criticò pure la circostanza che, attraverso il groviglio delle linee contrappuntistiche, le parole si sovrapponevano le une alle altre e finivano col diventare inintelligibili. Per un fenomeno di tardo umanesimo, senza avere peraltro alcuna idea precisa della loro musica, si proclamò che i Greci, quelli sì, dovevano aver praticato un tipo di musica capace di commuovere al massimo grado e di sposarsi con la parola. Un ampio dibattito si sviluppò a tale proposito e vi presero parte persone di diversa cultura, in diversi momenti, chi scrivendo saggi, chi proponendo e discutendo soluzioni. L'idea generale era quella di adottare, anche nella musica colta, il modo di cantare cosiddetto monodico, cioè per una sola linea melodica affidata a una sola persona, e di congiungere codesta singola linea di canto con il suono degli strumenti. Per tale maniera, tanto più quando si ricercassero melodie particolarmente adatte al senso delle parole e alla loro retta pronunzia, la poesia, ancorché modulata, si sarebbe potuta concepire con facilità e con chiarezza. Fra quelli che scrissero criticando le polifonia vocale e prospettando soluzioni «monodiche» ricordiamo l'ellenista Girolamo Mei per il suo Discorso sopra la musica antica e moderna, dettato nel 1577 ma pubblicato più tardi, e Vincenzo Galilei, padre di Galileo, autore di un famoso Dialogo della musica antica e della moderna (1581). Fra coloro che promossero e sviscerarono il problema, nominiamo il conte Giovanni de' Bardi presso cui quei valentuomini si riunivano a disputare (d'onde il titolo complessivo di Camerata de' Bardi), e poi Pietro Strozzi, Ottavio Rinuccini e altri ancora. Più tardi, trasferitosi il Bardi da Firenze a Roma, le riunioni si svolsero in casa di Jacopo Corsi. Ora i tempi apparivano maturi. La tradizione non mai interrotta della commedia, della tragedia e della «pastorale» inframmezzate di musica, la persistenza del cantare a solo, tutta propria della pratica popolare, le sagaci osservazioni del Mei, del Galilei e degli altri, l'ambizione di singoli cantori ammessi nella Camerata (come Giulio Caccini e Jacopo Peri), tutte queste forze confluirono in una. Dai concetti teorici alla realizzazione pratica il passo non poteva essere lungo; tanto più che agli occhi della Camerata, tutta compresa di aristotelismo, splendeva un modello insigne, ossia quello della tragedia greca, tanto poco nota quanto affascinante. Il progetto di creare un'azione teatrale in cui ogni personaggio si esprimesse cantando in proprio (ossia assumendo come sua regola la nuova «monodia») si delineò rapidamente e si concretò nella Dafne, poesia di Ottavio Rinuccini, musica di Jacopo Peri, rappresentata in casa Corsi a Firenze nel 1597. Essendo però questa Dafne andata smarrita, il primo melodramma di cui possiamo parlare con cognizione di causa è l'Euridice, dei medesimi autori, data a Palazzo Pitti il 6 ottobre 1600 in occasione delle nozze di Enrico IV con Maria de' Medici. Nello stesso anno Emilio de' Cavalieri, un romano che era vissuto a lungo in Firenze ed era stato in stretto contatto con la Camerata de' Bardi, faceva eseguire nella sua città natale, per conto dei Padri dell'Oratorio, la Rappresentazione di Anima e di Corpo, che può definirsi il primo saggio di melodramma allegorico a carattere spirituale. Com'erano questi primi tipi di opera? Essi consistevano in declamati un po' salmodianti, dove la linea canora non si plasmava mai in vere e proprie frasi melodiche, ma cercava piuttosto di seguire da vicino la modulazione delle parole, mantenendosi perennemente in un breve spazio di note. Gli strumenti, dal canto loro, sostenevano le linee vocali con molta parsimonia di armonie e di movimenti ritmici. I cori erano ammessi, ma si svolgevano in strutture assai più semplici di quanto non avvenisse nei madrigali, e cadevano soltanto quando il loro intervento poteva giudicarsi verosimile ossia quando, effettivamente, più persone dovevano esprimere, insieme, un medesimo pensiero. L'atmosfera generale di queste primissime opere era piuttosto ieratica, priva di grossi contrasti e tutta tenuta sopra un piano che oseremmo dire di stupefazione. Abbiamo così nominato la Favola di Orfeo, testo poetico di Alessandro Striggio e musica di Claudio Monteverdi, presentata a Mantova presso l'Accademia degli Invaghiti il 24 febbraio dell'anno suddetto. Con la Favola di Orfeo o (come correntemente si dice) con l'Orfeo, il carattere sperimentale dell'opera cessa di colpo e dà luogo a un'altra espressione umana. Monteverdi, che all'atto di comporre l'Orfeo era già illustre come autore di madrigali, scorge subito nella formula dei fiorentini un mezzo potente e immediato per rappresentare in musica i sentimenti o, come si diceva allora, gli «affetti» degii uomini. La struttura esterna del «recitativo» rimane, più o meno, invariata, ma all'interno di esso circola e vibra un palpito di vita del tutto nuovo; anche il commento orchestrale diventa più mordente e collabora più da vicino all' espressione generale. Nello stesso tempo i «caratteri», Orfeo disperato, Euridice innocente, Plutone pauroso e insieme generoso, si delineano e si vanno plasmando. Per queste sue doti, ancor oggi valevoli, l'Orfeo monteverdiano apre veramente la storia dell'opera. A Mantova il lavoro ebbe tale successo che l'anno seguente, dovendosi celebrare le nozze del principe Francesco Gonzaga con Margherita di Savoia, il duca regnante pensò che la presentazione di un nuovo melodramma avrebbe costituito il festeggiamento più degno. Monteverdi ne venne incaricato e così, il 28 maggio 1608, in un teatro appositamente costruito dentro il Palazzo Ducale, fu rappresentata l'Arianna, su testo poetico di Ottavio Rinuccini. Disgraziatamente la partitura di Arianna è andata perduta, a eccezione della scena del «lamento», piena di angoscia e di accorata implorazione. Mantova, in questo momento, ha tolto a Firenze lo scettro di capitale del melodramma. Non correranno però molti anni e, in ordine di tempo, Roma, Venezia, Napoli subiranno anch'esse il fascino della nuova forma teatrale. A Roma gli spettacoli si svolgeranno nell'ambito delle corti cardinalizie e rivestiranno un tono moraleggiante, come nel caso, ad esempio, del Sant'Alessio di Stefano Landi (1632). Ma intanto un fatto nuovo, gravido delle maggiori consuguenze, si verifica a Venezia. Qualcuno, sulle sponde della Laguna, ha idea di sfruttare su più larga scala la nascente passione per gli spettacoli melodrammatici e, favorito anche dalla costruzione relativamente democratica della Repubblica, decide di aprire un teatro dove non più unicamente gli invitati delle corti, i soliti principi, cardinali, ambasciatori ecc., possano accedere, bensì chiunque sia in grado di acquistare un bigliettto d'ingresso. Questo fatto, mentre cambia totalmente la specie, il tipo degli ascoltatori, esercita anche forti influenze sul contenuto delle opere. I nuovi pubblici, meno intellettuali e meno preparati dei pubblici cortigianeschi, ricercano le sensazioni del canto in se stesso, il piacere della lunga e bella linea melodica. Nel tempo stesso, amano vedere in palcoscenico complicati e meravigliosi meccanismi, dèi e dee che scendono volando dal cielo, palazzi che si incendiano e via discorrendo. Nasce così uno schema d'opera sempre più diverso da quello dei fiorentini, e del primo Monteverdi. Il «recitar cantando», ossia la solenne melopea, si modifica a poco a poco: da un lato s'irrigidisce ancor più e dà luogo a una sillabazione assai vicina al parlato, dall'altro si conglomera in episodi più ampiamente melodici, si articola in strofe musicali ben determinate, dove la poesia si rende serva docile della musica e dove, di conseguenza, le parole vengono ripetute quanto sia necessario per esaurire lo svolgimento propriamente musicale. Claudio Monteverdi, passato a Venezia da Mantova, interviene anche lui, con nuovi melodrammi, nella nuova vita musicale della città, e se sotto le sue vigorose mani l'insieme dell'opera mantiene una sua rigorosa unità, lo sgretolamento non tarda poi a svilupparsi. Dei melodrammi scritti da Monteverdi per Venezia non ci è rimasta che L' incoronazione di Poppea, superbo capolavoro dove l'individuazione dei caratteri, la verità e rapidità espressione, la trasfigurazione delle parole in suoni procedono verso mete sempre più alte. L'incoronazione propone anche una novità nel mondo dell'opera: l'argomento storico, più o meno romanzato, al posto dell'argomento mitologico che sino a quel momento era stato di prammatica. Poco dopo l'opera, prodotto squisitamente italiano, varca per la prima volta le frontiere e va a fondare vere e proprie colonie all'estero. Nel 1647, a Parigi, il pugliese Luigi Rossi, per incarico del cardinale Mazzarino, dà un Orfeo e suscita enorme entusiasmo. Nel 1666 Marco Antonio Cesti, un aretino di educazione veneziana, rappresenta per conto della Corte di Vienna Il pomo d'oro, melodramma in più di cinquanta scene, tutte realizzate con incredibile sfarzo visivo. Questo è un altro carattere dell'opera secentesca: la ricerca del «meraviglioso» in quanto concerne i macchinari, i dipinti, le architetture etc. Simile carattere, già delineatosi a Venezia al tempo di Monteverdi, si sviluppa e si enfatizza sempre più attraverso il lavoro dei suoi immediati successori: Francesco Cavalli, forse il più importante, attivo anche lui in Francia al pari del nominato Rossi, Francesco Paolo Sacrati, poco più tardi Giovanni Legrenzi e altri ancora. Insieme con questi compositori vanno ricordati i maestri della scenografia, arte che si affina sempre maggiormente e che culmina in nomi come quelli del Bernini, del Burnacini, del Torelli ecc. Intanto l'esempio italiano aveva destato uno spirito di forte emulazione presso gli stranieri. In Francia s'ebbe un primo melodramma nel 1655, Le triomphè de l'amour di De Guerre e Beys, seguìto nel 1659 dalla Pastorale d'Issy di Robert Cambert su testo di Pierre Perrin; in Germania, dopo una Dafne di Heinrich Schütz (1627), ch'è andata perduta, dobbiamo attendere la fine del secolo per incontrare le opere di Kusser e di Keiser, specialmente attivi ad Amburgo. Sia in Francia sia in Germania, i pochi lavori che vengono prodotti son tutti scritti nelle lingue nazionali. Senonché, mentre nella patria di Racine l'alto concetto del proprio idioma resiste a qualsiasi tentazione di adottare l'italiano come lingua teatrale, in Germania ben presto il melodramma locale sparisce e viene soppiantato dal melodramma in italiano, sia che ne stendano la musica maestri nostri, sia maestri stranieri. In Francia, dopo i primi tentativi alquanto modesti, sorge una figura notevole di operista, Jean Baptiste Lully (1632-1687), il quale in realtà era un fiorentino della più bell'acqua. Lully, o Lulli che dir si voglia, scrisse una quindicina di melodrammi, tutti di argomento mitologico o cavalleresco, attenendosi, in fondo, al «recitar cantando» dei fiorentini ad astenendosi dal processo, sempre più incalzante, di quella differenziazione fra recitativo propriamente detto ed aria che si afferma invece nelle opere degli italiani. Lully, Kusser, Keiser e gli altri stranieri accolgono anche nelle loro opere elementi specifici della musica dei loro rispettivi paesi (Lulli le movenze del ballet de Court, i due germanici movenze del Lied o canzone popolareggiante); ma l'impianto è ancora quello stabilito da Monteverdi e dai suoi seguaci. Lulli, in particolare, si preoccupa molto della chiarezza della declamarazione e ad essa sacrifica la plastica, l'individuazione della vera e propria frase musicale. Composta in queste sue linee generali, l'opera, fino alla seconda metà del Settecento, non conosce variazioni rilevanti. I recitativi scorrono noiosi e privi di autentico interesse; ma le arie e gli altri pezzi propriamente musicali si adornano di splendide invenzioni melodiche. E' tutto un fiorire di invenzioni incantevoli ed è tutto un giardino di grandi maestri fra cui, in Italia, ricorderemo: Alessandro Scarlatti (1660- 1725), Antonio Caldara (1670-1735), Leonardo Leo (1694-1744), Giambattista Pergolesi (1710-1736), Antonio Vivaldi (1678-1741), Baldassare Galuppi (1706-1785) ecc. L'influsso della maniera operistica italiana è così forte e producente, che in tutta Europa i maestri italiani vengono scritturati per scrivere e produrre i loro lavori, mentre i maestri stranieri non scrivono più opere se non nella nostra lingua e su libretti di nostri poeti. Annoveriamo fra quest'ultimi lo spagnolo Martin (1754-1806), i tedeschi Haendel (1685-1759), Hasse (1699-1733), Gassmann (1729-1774) e altri ancora. La stretta alternativa dell'opera fra recitativi e arie fu però criticata da molti pensatori e uomini di cultura come avversa allo sviluppo logico del dramma e colpevole di continui sbalzi e fratture. Incominciò a delinearsi un processo di revisione e, già per tempo, compositori come Jommelli (1714-1774), Traetta (1727-1779), De Majo (1732-1770) presero a ridurre le estensioni del «recitativo secco» e a sostituirlo, almeno in parte, con un recitativo accompagnato dall'orchestra, in modo da assicurare una maggior continuità e una maggiore verosimiglianza. Anche autori di gran peso come Piccinni (1728-1800), Paisiello (1740-1816), Cimarosa (1749-1801), pur attenendosi alla vecchia maniera, risentivano della nuova corrente d'idee. Quello che affrontò la questione direttamente e la risolse secondo le proprie vedute fu però un tedesco: Christoph Willibald Gluck (1714-1787). Dopo aver composto anche lui molti melodrammi nel modo italiano, Gluck, in collaborazione col poeta italiano Ranieri de' Calzabigi, diede a Vienna un Orfeo ed Euridice (1762) ove pose in atto i termini della sua cosiddetta «riforma»: bandì totalmente l'uso del «recitativo secco» (sostenuto dal solo clavicembalo), e al suo posto introdusse un «recitativo accompagnato» di grande forza drammatica; accorciò le dimensioni delle arie, badando a non ripeter più le parole per semplice comodità musicale; si preoccupò di unificare il discorso musicale in modo da non ritardare il discorso poetico: cercò, insomma, di attuare nell'opera una maggior verità e credibilità. Dopo avere dato, ancora in Vienna, l'Alcesti (1767), Gluck fu a Parigi e là scrisse, in francese, altri tre melodrammi secondo il suo nuovo sistema: Ifigenia in Aulide, Armida e Ifigenia in Tauride. In Francia i lavori di Gluck destarono grande impressione, anche perché, in quel paese, l'opera non aveva seguito l'evoluzione italiana e s'era conservata più fedele ai concetti del «recitar cantando» e del «balletto» nazionale, come dimostrano i saggi di Jean Rameau (1683-1764), massimo esponente del teatro lirico d'Oltralpe nel periodo di cui stiamo parlando. Giunti a questo punto, occorre esaminare anche un altro fenomeno verificatosi nel secolo XVII e soprattutto nel secolo XVIII: la nascita dell'opera comica italiana. Già nei primi anni dopo la nascita del melodramma, a Roma e poi subito a Venezia, si erano introdotti personaggi ridicoli a fianco degli eroi e delle eroine. Col volger degli anni tali personaggi, introdotti sul principio con funzioni secondarie, vennero acquistando interesse e importanza sempre maggiori; uscirono, per così dire, dall'opera seria e ne andarono a fondare una propria. Alla fondazione contribuì anche lo spirito dialettale, soprattutto vivo e producente in due città animatissime come Napoli e Venezia. Qui infatti, sul principio del Settecento, dopo qualche saggio isolato del secolo precedente, incominciò una fioritura eccezionale di melodrammi buffi. Caratteri essenziali di questo nuovo genere furono la sostituzione di figure mitologiche o storiche con figure tratte dalla vita attuale e da ogni classe di persone: qualche conte, qualche marchese e molti capitani di ventura, vecchi avari e vanamente innamorati, balbuzienti, finti tonti ecc. La struttura dell'opera seria, con la distribuzione fra recitativi ed arie, venne mantenuta; le arie, però, si fecero più brevi e stringate; i duetti, i terzetti, i pezzi in cui cantavano contemporaneamente più persone (pezzi rarissimi nel melodramma mitologico e storico) diventarono frequenti e ben sviluppati, costituendo, anzi, la maggiore attrazione di ogni atto. Infine la voce di basso, bandita dal mondo dell'opera seria, fu ospite dell'opera comica e servì splendidamente a caratterizzare i personaggi più risibili, più goffi e bizzarri. Per molto tempo melodramma serio e melodramma buffo vissero due vite rigorosamente separate, avendo ciascuno di essi i propri teatri riservati e le proprie compagnie specializzate. Basti dire che i «sopranisti» o «evirati», protagonisti dell'opera seria ove impersonavano anche le parti di donne, si trovavano assolutamente esclusi dalle scene dell'opera comica. Ma con l'andar degli anni quest'ultima riversò molti suoi spiriti sulla sorella maggiore, le insegnò a sfruttare la voce di basso e la suggestione dei grandi pezzi d'assieme. Per finirla con il teatro giocoso del '700 italiano, ricordiamo almeno tre suoi saggi che ancor oggi brillano per la genialità e la freschezza: La serva padrona di Pergolesi, data per la prima volta nel 1733; La buona figliola di Piccinni, del 1760, e Il matrimonio segreto di Cimarosa, del 1792. A questo punto occorre tener presente l'intervento in campo operistico di colui che molti considerano il più grande musicista di tutte le epoche, vale a dire Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791), il quale, pure attenendosi alle formule esteriori del melodramma giocoso all'italiana ovvero a quelle del Singspiel tedesco (spettacolo misto di pezzi in musica e brani recitativi), riuscì ad elevarsi in zone altissime di immaginazione, sviluppando in modo insospettato il contenuto poetico e drammatico, raggiungendo con l'orchestra gradi di vero e profondo sinfonismo applicato alla scena. Le cinque maggiori produzioni di Mozart in campo teatrale furono Il ratto dal serraglio (1782) su libretto tedesco, Le nozze di Figaro (1786), Don Giovanni (1787), Così fan tutte (1790) su libretti italiani e Il flauto magico (1791) ancora su testo tedesco. Le conseguenze della «riforma» di Gluck non appaiono molto profonde in Italia, mentre in Francia esse mettono radici e condizionano, se pur in modo spesso volte indiretto, il teatro di Cherubini (1760-1842), di Méhul (1763-1817) e di Spontini (1774-1851). Nelle opere di questi tre maestri le vaghezze del canto vengono sacrificate alla preoccupazione di tener sempre vivo e acceso il fuoco drammatico. In Italia il predominio vocale continuò a manifestarsi obbedendo, in fondo, alla natura spontanea della musicalità nazionale, ma si evolve in forme nuove anche se legate a quelle del Settecento. Il «recitativo secco» resistette ancora per pochi anni; l'aria si fece più concentrata, ridusse progressivamente l'impiego delle «agilità» e «abbellimenti», confinandoli a poco a poco e condensandoli nella chiusa finale; modificò alquanto il tipo della melodia sostituendo ad andamenti quasi decantati e gentilmente patetici un fraseggiare più nervoso, interotto, a scatti, da un tono infuocato ed acuito sino all'invettiva. E' da tener presente come tra la fine del Settecento e la prima decade dell'Ottocento il movimento romantico, già fortissimo nel campo della letteratura, si fosse comunicato anche all'opera, trovando anzi in questa un mezzo di espressione ideale per la sua facilità di comunicare con grandi masse di pubblico e quasi persuadere come dall'alto di una tribuna. Non per niente l'opera, attraverso facili allegorie e anacronismi, diventerà in Italia il manifesto dello spirito d'indipendenza e di riscatto dalla dominazione straniera, in Germania, l'interprete di una rinnovata coscienza nazionale. Qui da noi il primo, in ordine di tempo, a porre i princìpi di un melodramma radicalmente diverso da quello settecentesco fu Gioacchino Rossini (1792-1868), che muovendo dal Tancredi del 1813, dall'Otello del 1816, dal Mosè del 1818 e da molti altri lavori, toccò nel 1829 il culmine con Guglielmo Tell, ossia realizzò un'ampia struttura, saggiamente equilibrata fra espansioni del canto in scena e sostengo strumentale in orchestra, fra elementi spettacolari ed elementi più propriamente poetici, fra singolarità e coralità di espressione. Nel contempo anche lo stile vocale si andò modificando e acquistò un'incisività, un'energia declamatoria che ancora non si conoscevano. Ne rimasero così condizionati la natura stessa dell'invenzione melodica e l'accento generale della frase. Rossini fu grandissimo anche nel genere comico: possiamo anzi dire che, in primissimo luogo col Barbiere di Siviglia (1816), quindi con L'Italiana in Algeri (1813), Cenerentola (1817) e altre ancora, impresse al teatro buffo un'energia, un grado di vitalità, una spavalderia, un gettito di fantasia torrentizio, tali da restare, in quel genere, insuperati. Ma il secolo XIX fu, per l'Italia, la stagione più fulgida del melodramma, Mentre Rossini si chiudeva in un lungo e inesplicabile silenzio, Vincenzo Bellini (1801-1835) e Gaetano Donizetti (1797-1848) ne seguivano l'eccelsa lezione e ne assimilavano tutti gli spiriti, imprimendo ad essi il fuoco delle loro personalità eccezionali, Bellini con lo straordinario afflato lirico e con l'innato senso drammatico, Donizetti con l'accesa fantasia melodica e con l'innato senso delle ambientazioni sceniche. Pochi anni prima che Donizetti morisse era apparsa intanto sull'orizzonte del teatro lirico italiano la stella fulgida di Giuseppe Verdi (1813-1901). Verdi partì, lui pure, dalle posizioni rossiniane, ma ben presto, già con Nabucco nel 1842, andò affermando un suo stile particolare e una sua accesa, veemente eloquenza, ricca di contenuti umani e ben capace di fissare i caratteri dei personaggi in scena. Sino alla Forza del destino (1862), attraverso Macbeth, Rigoletto, Il trovatore, Traviata e Un ballo in maschera, Verdi non si allontana molto dagli schemi esteriori di Rossini e dei suoi immediati seguaci. Vale a dire, procede ancora per «pezzi chiusi», arie, duetti, terzetti, concertati che presentano un'individualità loro propria, con un inizio e una fine ben determinati, collegati fra di loro da «ponti» in recitativo ormai sempre accompagnati dall'orchestra. Ma a incominciare da Don Carlo (1867) e poi via via con Aida (1871), Otello (1887) e Falstaff (1893), il maestro di Busseto tende progressivamente a eliminare il distacco fra un pezzo e l'altro, subendo, in tal modo, le conseguenze di un movimento generalizzato in tutta Europa, propagandato innanzi tutto da Wagner, e inteso a conferire all'azione drammatico-musicale una più stretta unità, una più logica conseguenza e una più forte coerenza discorsiva. Anche in quei punti dove l'aria si solidifica ancora, un intervento dell'orchestra più complesso e variato toglie alla linea del canto la sua assoluta supremazia e tende a convogliare i due elementi verso un termine di totalità espressiva. Nel frattempo, che cos'era successo in Germania e in Francia? In Germania l'esempio di Gluck s'era incontrato con quell'aspetto delle teorie romantiche, soprattutto divulgate nei paesi tedeschi, per cui la fonte prima dell'arte si doveva ricercare nelle tradizioni nazionali e popolari. In base a questo principio, un musicista di grande talento, Carl Maria von Weber (1786-1826), compose tre melodrammi importanti, ossia Il franco cacciatore nel 1821, Euriante nel 1823 e Oberon nel 1826. Lo stile weberiano dovette molto a Gluck, nonché a Cherubini e a Spontini, ma si personalizzò attraverso l'accoglimento di movenze popolaresche fra cui quelle del Lied, ossia della vecchia, caratteristica canzone germanica. Se questa di Weber fu una timida innovazione, la sommossa totale e radicale era ormai alle porte. Un uomo straordinario, di mentalità universale, prese a esercitare una serrata critica contro l'indole e la forma del melodramma. Quest'uomo, Richard Wagner (1813-1883), incominciò con l'avvertire una specie di frattura nell'atto creativo dell'opera: una frattura iniziale e fondamentale dovuta al fatto che il testo poetico nasceva per ispirazione di un determinato individuo, mentre la musica nasceva per ispirazione di un secondo individuo, quando l'ispirazione del primo era ormai cessata e spenta. Di qui un'inevitabile scompenso fra l'atto poetico e l'atto musicale, ossia fra i due elementi paritetici di cui è composto il melodramma. Per quanto riguardava la struttura musicale, Wagner trovò che le effusioni canore dei personaggi in palcoscenico finivano col ricercare e col produrre un piacere esclusivamente sensuale, una specie di voluttà fonica avversa alla percezione chiara del dramma, mentre la parte orchestrale non sfruttava mai a sufficienza l'enorme potere espressivo ed evocativo degli strumenti. Nello stesso tempo troppi erano, nel melodramma, gli episodi decorativi, le deviazioni dal retto cammino dell'azione scenica, messi lì esclusivamente per far cantare i coristi o muovere i danzatori, senza una vera necessità sostanziata di ragioni drammatiche. In conseguenza di simili considerazioni sulla forma e il contenuto dell'opera europea intorno alla metà dell'Ottocento, Wagner decise di scrivere egli stesso i suoi libretti, in modo che poesia e musica risultassero, come effettivamente sono, due momenti del medesimo impulso immaginativo. Decise inoltre di abolire ogni arresto del discorso scenico, cosa che succedeva durante l'intervento delle arie e delle romanze o dei «pezzi chiusi», e di procedere, vocalmente, per linee melodiche mai schiave di rigorosi stroficismi bensì snodate e articolate in modo da seguire la più giusta accentuazione e prosodia, in modo da permettere l'intelligibilità di ogni parola e rifletterla precisa nello specchio dell'orchestra. La quale orchestra, mediante la mobilità e ricchezza sinfonica, veniva messa in grado di esprimere l'al di lá delle parole, ossia il complicato giuoco psicologico di cui la parola è un semplice riassunto e indizio. Per meglio esprimere codesto giuoco psicologico, Wagner pensò di basare i suoi sviluppi sinfonici sopra «temi conduttori», vale a dire brevi e caratteristici incisi, melodici e ritmici, i quali, ricorrendo in mille forme diverse, sovrapponendosi e scomponendosi, stessero appunto a rappresentare e quasi a riprodurre l'incessante lavorio della nostra coscienza e delle idee basilari contenute nelle nostra coscienza. Le opere fondamentali di Wagner, quelle ove i suoi concetti risultano meglio attuati, sono i quattro capitoli della Tetralogia intitolata L'anello del Nibelungo, cioè L'oro del Reno, La Walkiria, Sigfrido, e Il crepuscolo degli dei (concepiti e compiuti fra il 1851 e il 1872); Tristano e Isotta, dato per la prima volta nel 1865; I maestri cantori di Norimberga (1863) e Parsifal, il canto del cigno, che vide la luce nel 1882. Tranne i Maestri cantori, le altre opere di Wagner derivano tutte i loro testi poetici da antiche leggende dei popoli nordici, in quanto il nostro poeta-musicista riteneva che fatti troppo reali e troppo ben determinati nel tempo non potessero raggiungere un grado di credibilità effettivo attraverso la rappresentazione un poco assurda, e, comunque, irreale del teatro lirico. Quella attuata da Wagner fu una delle più profonde innovazioni verificatesi nella storia del melodramma, sicché, per un verso o per l'altro, tutti i compositori d'opera venuti dopo di lui dovettero tenerne conto. In Francia, durante la prima metà del secolo XIX, l'influsso di Rossini andò a congiungersi con gli splendori del melodramma napoleonico a tinte eroiche, che aveva reso celebre, a suo tempo, lo Spontini, e produsse il grand opéra, uno spettacolo musicale di enormi proporzioni, animato da balli più o meno giustificati dall'azione scenica, una rappresentazione fastosa e strettamente legata alla bravura dei cantanti, soprattutto dei tenori. Massimo rappresentante di questo genere eminentemente francese fu, strano a dirsi, un tedesco: Giacomo Meyerbeer (1791-1864); mentre Charles Gounod (1818-1893), col suo Faust del 1859, cercò di vincere la superficialità del grand opéra con un maggior buon gusto e una più seria moderazione. E' solo più tardi, nel 1875, che la Francia produce in campo lirico un capolavoro immortale con Carmen di Georges Bizet (1838-1875). La grandezza di Carmen, ch'è tuttavia composta di pezzi rigidamente «chiusi», consiste nella sua carica di verità umana, nella sua decisione di confrontare l'uomo reale con l'uomo teatrale, di adeguare il ritmo della vita al ritmo della musica, di rappresentare con potente evocazione la visione immaginaria di un paese lontano, nella fattispecie la Spagna. Intanto s'era verificato in Europa un fenomeno importantissimo. Presso alcune nazioni periferiche, come la Boemia e la Russia, s'era avuto un risveglio dello spirito nazionale e s'era affermata l'idea che l'arte in genere, quindi anche la musica, avesse l'obbligo di accogliere certe aspirazioni e anche certe manifestazioni della coscienza popolare. Tale convinzione si propagò anche nel campo dell'opera e nacquero così lavori dove, con intenzione ben più decisa che non quella di Weber, vennero accolti numerosi frammenti di melodie popolari o almeno l'accento generale si sforzò di arieggiare le maniere e assumere gli atteggiamenti del patrimonio musicale del popolo. In Cecoslovacchia apparve La sposa venduta, deliziato quadro della vita dei contadini boemi, che Bedrich Smetana (1824-1884) fece rappresentare a Praga nel 1866. In Russia gli ideali nazionalistici di cui abbiamo parlato diedero luogo al sorgere di un vero e proprio movimento organico, quasi una scuola, di cui il più alto rappresentante fu Modest Mussorgskij (1839-1881). La sua opera Boris Godunoff resta fra le massime vette della musica teatrale d'ogni tempo. In essa l'anima del popolo russo trova una voce autentica e possente, mentre sullo sfondo di una coralità tanto impressionante quanto semplice e precisa, si svolge il dramma eschileo del protagonista, il conflitto delle sue crudeltà e dei suoi rimorsi. La fine del secolo è caratterizzata in Italia dal sorgere del verismo musicale, ossia da una tendenza a rappresentare in modo vivo e diretto le vicende della vita quotidiana, escludendo dalla considerazione i personaggi storici, gli eroi e le eroine, i grandi sentimenti collettivi, le allusioni politiche e via discorrendo. Ne deriva un tipo d'opera che ricerca la più scoperta immediatezza di espressione, che si risolve in un modo di cantare mordente, quasi convulso e fortemente espressivo. Modello della maniera verista rimane Cavalleria rusticana di Pietro Mascagni (1863-1945), ammirata in tutto il mondo per la sicura violenza e per la tensione della sua parabola. In Cavalleria rusticana quello che potremmo definire un fatto di cronaca nera assume le dimensioni e il tono dell'epica. Altri veristi italiani furono Ruggero Leoncavallo (1858-1919), Umberto Giordano (1867-1948), Francesco Cilea (1866-1950) e altri ancora, laddove Giacomo Puccini (1858-1924), partito da posizioni consimili a quelle dei suoi colleghi ed alieno, anche lui, dai soggetti a sfondo grandioso, indusse nelle sue opere una più suggestiva trasfigurazione poetica e con Bohème, del 1896, creò un gioiello di perfezione, superando, a nostro parere, sia Manon Lescaut, sia le successive Tosca, Butterfly, La fanciulla del West, Il taballo, Suor Angelica, Gianni Schicchi e Turandot. Sul principio dei 1900 si manifesta, da un lato, la volontà di portare a estreme conseguenze la maniera di Wagner; da un altro lato la volontà di negarla e di superarla. Com'è naturale, l'esesperazione del wagnerismo si verificò soprattutto in Germania, la reazione in Francia e, fino a un certo punto, in Italia. In Germania Richard Strauss (1864-1949) portò alle massime conseguenze la parte più sensuale dell'arte di Wagner e il suo lato più decisamente complesso. Vennero così in luce Salomé nel 1905, ed Elektra nel 1909, dove l'isteria femminile trova una dipintura musicale di straordinario effetto. Quasi per negarsi o smentirsi, Strauss compose pure un'opera comico-sentimentale di grande importanza, divenuta popolare in tutto il mondo, ossia Il cavaliere dalla rosa (1911). In Francia, Claude Debussy (1802-1918) volle opporre alle grandi sonorità e alle categoriche affermazioni dell'eroismo wagneriano un tono operistico estremamente contenuto, sostituendo alla vera e propria convinzione l'allusione e il suggerimento, rifuggendo da ogni forma di canto spiegato e realizzando così con Pelléas et Mélisande (1902), l'unico melodramma da lui scritto, un saggio originalissimo di sognante rappresentazione scenica. In Italia tenteranno di superare il verismo, seguendo vie differenti, Riccardo Zandonai, Italo Montemezzi, Alfredo Casella, Gian Francesco Malipiero, Ildebrando Pizzetti, Ottorino Respighi, Adriano Lualdi e altri ancora. In Cecoslovacchia sorse una personalità fortissima, quella di Leós Janácek (1854-1923), che con i melodrammi Jenufa, Káta Kabanová, L'affare Makropulos, Da una casa di morti ecc., fuse in risultati del tutto personali elementi veristici, elementi del folklore boemo e derivazioni sinfoniche. Gli ultimissimi sconvolgimenti avvenuti nel campo della tecnica musicale, l'introduzione dei sistemi atonali, politonali, dodecafonici ecc., mentre andarono eliminando dal melodramma ogni residuo di discorso tradizionaie, non valsero, tuttavia, a produrre rapporti fra parola e suono, a creare strutture veramente nuove molto differenti da quelle affermatesi sul declinare del secolo XIX. Delle opere apparse negli ultimi anni e scritte secondo i più attuali e avanguardistici accorgimenti, emerge, per innegabile ragione di vitalità scenica e musicale, Wozzech del viennese Alban Berg (1885-1935), data per la prima volta a Berlino nel 1925. L'opera, nella sua lunga storia di quasi quattro secoli, condizionò tutto un mondo speciale. Si pensi ai cantanti, protagonisti spesse volte più importanti degli autori stessi, elevati a simboli di funzionalità da una parte, di virilità e di eroismo da un'altra. Si pensi a quanto l'opera ha provocato come sue conseguenze dirette o indirette, la poesia dei cosiddetti librettisti, l'attività degli scenografi e dei costumisti, la ricerca dell'illuminazione teatrale, passate dalle candele e dai lumi ad olio del Seicento e Settecento al gas dell'Ottocento e ai grandi impianti d'oggi basati su cellule fotoelettriche. Si pensi ancora alla straordinaria evoluzione economica per cui, da spettacolo d'eccezione riservato ai grandi signori, si passò all'ammissione di folle paganti e da una gestione impresariale, cioè condotta da privati con scopo di lucro, si arrivò alla situazione attuale, dove l'enorme rincaro dei costi ha costretto gli Stati a intervenire in veste di finanziatori, nella persuasione che il testo d'opera costituisca una sorta di servizio pubblico non altrimenti dei musei, delle biblioteche e delle grandi gallerie d'arte. 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