Plutarchismo.

Cartina dell'Italia

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Plutarchismo.

Nella cultura cinquecentesca e settecentesca, la tendenza a celebrare, quali modelli di virtù e di eroismo, personaggi dell'antichità classica, come quelli presentati nelle Vite parallele di Plutarco. Celebre era il culto per gli antichi di Corneille e di Alfieri.

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Cultura.

Complesso delle conoscenze, dottrina, erudizione possedute da una persona. L'insieme delle tradizioni, usanze, nozioni, valori propri di un popolo; con tale significato è considerato sinonimo di civiltà.

║ Conoscenza specifica e approfondita in un particolare ramo del sapere, in una data materia o disciplina.

- Encicl.

- Il termine esprime in realtà un concetto molto complesso e di difficile definizione, a causa della vastità e varietà, a seconda di luoghi e periodi storici, dei fenomeni che comprende. Infatti, nonostante la sempre maggior importanza assunta dal concetto di c. nel corso del Novecento, in coincidenza con lo sviluppo delle scienze sociali e antropologiche, esso non è tuttavia usato sempre nella medesima accezione e si è ancora lontani da una sua precisa definizione. Diverso è pertanto l'uso che ne viene fatto non solo dagli studiosi che operano in campi diversi di ricerca (sociologi, antropologi, psicologi sociali), ma dagli stessi studiosi che, pur operando nello stesso campo di ricerca, appartengono a branche e correnti diverse. A ciò si deve inoltre aggiungere il diverso significato che il termine c. ha nelle varie lingue e l'uso che ne viene fatto da parte di studiosi di diversa nazionalità.

- St.

- Presso i Greci il termine, riferito alla singola persona, indicava il processo di formazione e di perfezionamento che conduceva l'uomo alla scoperta e alla realizzazione del proprio essere, all'affinamento del proprio spirito. La c. veniva identificata con la paidéia, l'educazione mediante l'esercizio delle buone arti (poesia, filosofia, eloquenza, ecc.) che realizzano l'uomo come tale, nella sua perfezione, e lo distinguono da qualsiasi altro animale. Caratteristica dell'idea di c. posseduta dai Greci fu l'importanza attribuita alla riflessione filosofica, forma suprema di conoscenza e di ricerca della verità, e alla vita associata della comunità, unica forma di vita che permette all'uomo una piena realizzazione. La stessa concezione passò ai Romani, che usarono il termine humanitas per indicare il complesso delle conoscenze e delle attività in grado di esprimere l'uomo nella sua interezza e nella sua forma perfetta. Il concetto classico di c., tanto presso i Greci quanto presso i Romani, escludeva evidentemente qualsiasi tipo di attività pratica, in quanto indirizzata a fini utilitaristici, e comunque non rivolta alla realizzazione dell'uomo nella vita terrena. Si trattava dunque di un concetto aristocratico e, nel suo profondo legame con la realtà terrena e concreta, naturalistico; esso prediligeva inoltre il metodo teorico-contemplativo. In epoca medioevale il concetto classico di c. fu in parte ripreso, soprattutto per la sua caratterizzazione aristocratica e contemplativa. Non venne accettata la sua limitazione al mondo terreno e naturale; l'educazione e la conoscenza furono invece interpretate come preparazione alla vita ultraterrena e la c., in particolare la riflessione filosofica, fu sentita come modo di fruizione e comprensione delle verità rivelate della religione. Il carattere concretamente naturalistico della c. fu recuperato dal Rinascimento, che ebbe una concezione della c. per molti aspetti simile a quella della civiltà classica: formazione dell'uomo perfetto, con una spiccata accentuazione del carattere attivo di qualsiasi conoscenza, finalizzata alla costruzione di un mondo e di una società perfetti. Solo l'Illuminismo, tuttavia, si sforzò di superare il carattere aristocratico che nel corso dei secoli aveva mantenuto il concetto di c.; uno dei principi fondamentali della critica illuministica fu, infatti, l'importanza della diffusione della c. presso tutte le classi sociali, esigenza alla quale tentò di rispondere l'ambizioso progetto dell'Encyclopédie di Diderot e D'Alembert. Nonostante il concetto di c. abbia conosciuto una nuova limitazione in senso aristocratico nel primo Ottocento, con il movimento romantico, l'epoca moderna ha comunque conservato il principio dell'universalità e della diffusione. Inoltre, a partire dal secondo Ottocento e durante tutto il XX sec., il campo della c. si è venuto ampliando, con la nascita di nuove branche del sapere e di nuove discipline scientifiche, tutte interpretate come fondamentali nella formazione di una perfetta vita umana. Una tale concezione, così aperta e vasta, che tendeva all'enciclopedismo, ha come limite la genericità e insieme l'estrema specializzazione del sapere; il problema della c. contemporanea si profila sempre più chiaramente come urgente necessità di conciliare specializzazione del sapere e formazione integrale dell'uomo.

- Etn.

- Fu E.B. Tylor il primo a parlare di c. come di un insieme complesso di conoscenze, credenze, arte, morale, leggi, costumi e qualsiasi abitudine acquisita dall'uomo in quanto membro di una società. Tale definizione, contenuta nel volume Primitive Culture (1871), comprendeva tutti i tipi di comportamento appreso; essa non venne interamente accettata dall'antropologo B. Malinowski, che usò il termine in senso più restrittivo, insistendo in particolare sul carattere funzionale della c., concepita come uno strumento adottato dall'uomo per soddisfare i propri bisogni. Tema centrale di discussione e di studio negli studi di antropologi ed etnologi americani del Novecento, soprattutto a partire dal 1930 (Kroeber, Linton, Bidney, Herskovits), della c. venne sottolineata la continua evoluzione e rielaborazione, poiché essa risulta dall'eredità sociale accumulata nel corso dei secoli e passata in eredità da ogni generazione a quella seguente. La pubblicazione del saggio Patterns of Culture (1934) di Benedict segnò la nascita della corrente "Cultura e Personalità", che si contraddistinse per l'applicazione al settore etnologico di principi appartenenti alla psicologia. Gli studiosi che aderirono (oltre a Mead, Dubois, Linton, anche il linguista Sapir) ebbero il merito di studiare i processi educativi del singolo, specificando i legami con la c. alla quale egli appartiene. Essi stabilirono che la c. viene assunta gradualmente, a cominciare dalla nascita, attraverso l'assorbimento dei valori, conoscenze, norme sociali che regolano un determinato gruppo di appartenenza. Diversi, tuttavia, sono nei singoli individui i livelli di partecipazione culturale e di conoscenza dei valori propri della società: da un livello di base, che comprende i caratteri fondamentali del gruppo sociale e al quale partecipano quindi tutti gli individui appartenenti a quella società, si passa a livelli gradatamente più ristretti, che indicano il grado di integrazione sociale dell'individuo e la particolare c. del gruppo stesso. Fra i contributi più importanti del Novecento si ricordano in particolare gli studi di Lévi-Strauss, che introdusse nell'antropologia culturale i metodi dell'indagine strutturale elaborati in campo linguistico e che si soffermò in particolare sull'importanza dei fenomeni di parentela.

C. popolare: il complesso dei prodotti elaborati da un determinato popolo, in modo conscio o inconscio, e che comprende canzoni, poesie, racconti mitologici tramandati oralmente, valori ricevuti in eredità dalle generazioni precedenti. A causa del carattere prevalentemente orale della tradizione di queste popolazioni, viene attribuita grande importanza agli anziani del gruppo, detentori del patrimonio culturale del popolo.

C. di massa: complesso di conoscenze e di valori, recepiti dalla maggior parte dei componenti di una società mediante i moderni mezzi di comunicazione (mass media); questi ultimi sono quindi in grado di orientare il comportamento di grandi masse e di influire profondamente sulle scelte e sulla mentalità dei singoli individui, senza incontrare particolari resistenze psicologiche. La nascita di una c. di massa è conseguenza dei rapidi mutamenti sul piano sociale determinati dall'industrialismo e dall'importanza assunta dalla tecnologia, in seguito ai quali si è disgregata la vecchia c. tramandata per secoli da particolari classi sociali.

- Zool.

- Fenomeno di trasmissione di determinati comportamenti, acquisiti dagli animali non per via genetica ma per apprendimento e costituenti un'abitudine. Il modo più caratteristico di trasmissione è dato dall'imitazione, secondo la quale un individuo animale si rende in grado di compiere determinati movimenti o azioni solo tramite l'osservazione, saltando la fase dell'esperienza diretta. Studi recenti hanno appurato che la trasmissione culturale è più frequente e più diffusa nelle specie organizzate secondo una precisa struttura gerarchica e nelle quali le cure parentali abbiano una durata piuttosto lunga.

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Virtù.

Disposizione a perseguire il bene come fine a sé stesso, fuggendo il male; abito, coscientemente acquisito, di comportarsi secondo la legge imposta dalla morale vigente: uomo di grandi v.

║ Per estens. - Di qualsiasi buona disposizione a osservare determinati doveri o a compiere determinate azioni: v. civili.

║ Qualità, pregio, dote: possedere molte v.

║ Proprietà attiva di erbe, acque, altri corpi o sostanze: un fiore con v. medicinali.

In v. di, per v. di: in forza di, grazie a.

Fare di necessità v.: adattarsi alle circostanze.

║ Ant.

- Forza per cui l'individuo, in modo consapevole e perseverante, persegue il fine che si è posto, superando ogni avversità; valore, coraggio: combattere con grande v.; potenza, capacità, riferita soprattutto a singole facoltà psichiche o intellettuali: v. visiva.

- Teol.

- Abito operativo per cui si vive rettamente: praticare, amare la v.

║ La teologia cattolica distingue le v. secondo l'oggetto a cui sono rivolte: v. intellettuali, che perfezionano l'intelletto, e v. morali, che orientano la volontà al bene; v. naturali, acquisite con l'esercizio di atti buoni, e v. infuse, effetto della Grazia divina. Comunemente i teologi ritengono che nelle v. infuse rientrino sia le v. teologali (fede, speranza e carità), che hanno Dio per oggetto formale, sia le v. morali, che hanno per oggetto formale qualcosa di diverso da Dio. Le principali v. morali sono quelle cardinali: prudenza, giustizia, fortezza, temperanza.

- Filos.

- Il termine v., tanto in greco (aretè) quanto in latino (virtus), aveva in origine il significato di eccellenza di qualche qualità, non limitata all'agire umano. Nella concezione classica della vita la v. umana era soprattutto la forza d'animo in quanto disprezzo della morte e del dolore, non disgiunta dalla vigoria fisica, dal valore militare. Con Socrate la v. diviene oggetto di indagine filosofica e si identifica con la conoscenza. Seguendo questa impostazione, Platone fa dipendere le v. proprie dell'anima umana dal dominio della parte razionale di essa sulle parti irrazionali. Nella Repubblica le v. principali (la temperanza, la fortezza, la prudenza e la giustizia, denominate poi dal pensiero cristiano v. cardinali), sono poste alla base dell'ottimo Stato politico. Aristotele concepisce la v. come abito, inteso come disposizione stabile dell'anima, che l'uomo non possiede per natura ma che acquisisce attraverso l'esercizio. Aristotele distingue inoltre le v. dianoetiche, legate alla parte razionale dell'anima e relative alla conoscenza filosofica, dalle v. etiche, derivanti dal dominio dell'impulso sensibile secondo il criterio del "giusto mezzo" fra gli estremi. La saggezza, o prudenza, diventa l'unica v. tanto nella concezione epicurea quanto in quella stoica. Gli epicurei la intendono come calcolo razionale dei piaceri; gli stoici la contrappongono alla forza irrazionale e incontrollabile delle passioni in una prospettiva ascetica. Il Cristianesimo introduce l'idea di v. soprannaturali (abiti infusi nell'uomo da Dio), comunemente dette v. teologali, in contrapposizione a quelle puramente umane considerate dall'etica antica. Nel pensiero moderno la v. viene intesa da un lato come sacrificio di sé e dall'altro come spontaneità, impulso naturale. Kant afferma il concetto di v. come sacrificio, tensione, sforzo per conformarsi alla legge morale contrastando le inclinazioni sensibili e gli interessi individuali. La v. è pertanto la sottomissione della volontà a ciò che è comandato dall'"imperativo categorico" (forma che la legge morale assume nell'uomo e in genere in ogni ente razionale finito). Hegel e Marx, superando il livello delle "virtù private", affermano che la piena realizzazione dell'uomo è possibile nell'ordine oggettivo della società e dello Stato. La filosofia contemporanea ha posto in primo piano l'esigenza di una fondazione oggettiva della morale, spostando l'analisi dall'indagine delle v. allo studio dei fondamenti e dell'ordine dei valori.

- Icon.

- Dal Medioevo le sette v. sono rappresentate da figure femminili contraddistinte da specifici attributi simbolici: la bilancia e la spada per la Giustizia, uno specchio e un serpente per la Prudenza, due vasi o brocche per la Temperanza, ecc. Le raffigurazioni della lotta tra le V. e i Vizi, in cui le prime sono armate, traggono la loro origine letteraria dalla Psychomachia di Prudenzio (i rilievi del portale della cattedrale di Aulnay risalgono al XII sec., quelli di Notre-Dame a Parigi sono del XIII sec.).

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Antichità.

Lo stato, la condizione di ciò che è antico.

║ Età antica, in particolare in quanto contrapposta a quelle medioevale e moderna.

║ Al plurale, insieme di oggetti antichi, di un certo valore storico e artistico, o anche ruderi e resti archeologici.

║ Al plurale, complesso delle istituzioni, dei costumi, e degli usi antichi. Convenzionalmente si indicano con questo termine anche le discipline, sussidiarie alla storia antica, che hanno come oggetto lo studio di quelle stesse istituzioni pubbliche e sacrali, mentre gli aspetti archeologici, epigrafici e numismatici, hanno ormai assunto indipendenza e fisionomia propria rispetto alla storia.

Clàssico.

Detto di lavoro d'arte, o di pensiero in genere nel quale spicchi l'ordine, l'armonia, la bellezza; tale da essere modello del genere.

Civiltà c.: la greca e la latina dei tempi aurei.

Arte c., edificio c.: coi caratteri dell'epoca classica.

Libro c.: che fa testo in una determinata materia.

Vite parallele.

Opera dello scrittore greco Plutarco, composta da 50 biografie di uomini illustri, 42 delle quali accoppiate e comprendenti un personaggio greco e uno romano, quattro raccolte in un'unica narrazione (Tiberio e Caio Gracco, Agide e Cleomene) e quattro trattate singolarmente (Arato, Artaserse - caso d'eccezione poiché non facente parte del mondo greco e romano -, Galba e Otone). La struttura delle V. si delinea come confronto tra personaggi, cui segue generalmente una comparazione conclusiva (sýnkrisis) che ne evidenzia le affinità e le differenze. Tale organizzazione soggiace a un'intima convinzione plutarchea sulla sostanziale unità del mondo classico, di cui ellenismo e romanità costituiscono due aspetti complementari. Gli uomini citati d Plutarco sono solitamente accostati in base ad affinità di imprese (Temistocle e Camillo, liberatori della patria, Teseo e Romolo, fondatori della civiltà greca e romana, ecc.), d'attività (Demostene e Cicerone entrambi oratori), tratteggiati secondo i caratteri e comportamenti che più delle grandi gesta, già descritte da altri, denunciano la moralità, la grandezza e la nobiltà degli uomini.

Plutarco.

Scrittore greco. Le notizie sulla sua vita si ricavano principalmente dalle sue opere. Figlio di Autobulo e appartenente a una nobile famiglia della Beozia, studiò ad Atene, come discepolo del filosofo platonico Ammonio nel 66; viaggiò in Egitto, in Asia Minore, in Italia meridionale e a Roma, dove soggiornò a più riprese, tenendo lezioni di argomento filosofico e politico e stringendo amicizia con importanti personaggi, fra cui il console Q. Sosio Senecione, cui sono dedicati alcuni suoi scritti. Dopo aver ricoperto la carica di procuratore d'Acaia sotto Adriano, esercitò nella sua patria, Cheronea, i più alti uffici pubblici. Dal 95 venne eletto sacerdote del santuario di Apollo a Delfi; rimase nel collegio sacerdotale per 20 anni. A Cheronea fondò una scuola privata, dedicandosi all'educazione dei propri figli e di altri giovani. Alla sua morte i suoi concittadini gli eressero un monumento, come testimonianza dei meriti che lo scrittore si era guadagnato in patria. Vastissima è la produzione di P., e la grande fama che egli acquisì presso i suoi contemporanei fece sì che ben poche delle sue opere andassero perdute. Il corpus plutarcheo, come riportato dal cosiddetto Catalogo di Lampria (III-IV sec.) è costituito da 227 scritti, a cui vanno aggiunti altri pervenuti o testimoniati da frammenti, per un totale di 260 titoli, compresi alcuni scritti apocrifi. Già dal Medioevo essi vennero divisi in due grandi sezioni: Moralia, 78 opere di carattere filosofico-morale, su argomenti molto diversi, in forma di dialogo o di dissertazione; Vite parallele, 50 biografie di famosi personaggi storici e politici. Il titolo Moralia appare riduttivo, in quanto solo alcuni scritti riguardano problemi di ordine etico-filosofico. Altri si occupano di pedagogia e di storia. Le opere di carattere filosofico in particolare rivelano la formazione platonica del pensiero di P.; significativo è il suo atteggiamento polemico verso gli stoici e soprattutto gli epicurei. Le Vite, dette "parallele" perché 46 biografie sono ordinate in coppie comprendenti un personaggio greco e uno romano (quattro sono raccolte in un'unica narrazione), riguardano eroi e personaggi storici del mondo greco e romano dall'età mitica fino all'epoca immediatamente precedente quella di P. (V. VITE PARALLELE). Un giudizio comparativo, che intende sottolineare affinità e differenze fra i due personaggi, segue di norma le biografie. Talora la somiglianza fra i due è evidente, altre volte l'accostamento risulta piuttosto artificioso; lo schema comparativo risponde comunque alla convinzione di una profonda unità del mondo classico, di cui ellenismo e romanità rappresentano due aspetti complementari. La novità di P., rispetto, ad esempio, alle Vite di C. Nepote, consiste nell'accentuare, attraverso la giustapposizione dei due personaggi, l'integrazione delle due culture nell'Impero romano. L'opera, per la sua ampiezza, finisce per essere una sorta di storia universale, anche se non organicamente sviluppata, il cui intento, però, come sottolinea lo stesso P., dicendo di voler scrivere "vite", non "storie", è retorico-moralista: mostrare l'esemplarità di queste vite in quanto suscitatrici di imitazione ed emulazione. Le vicende storiche altro non sono se non lo sfondo su cui campeggia l'individualità dell'uomo, mostrato attraverso le sue virtù, l'amor di patria, la devozione al dovere, la lealtà, il coraggio, ma anche attraverso le sue debolezze che lo rivelano nella sua umanità, e lo fanno meritevole di ammirazione perché capace di elevarsi a una ideale grandezza. Rinnovando la tradizione biografica, P. presenta la vita come conquista di una perfezione, secondo le possibilità di ciascuno. La sua concezione della storia, che rivela anche l'influsso della tragedia, si evidenzia continuamente in un drammatico confronto fra la necessità del destino che sta per compiersi e l'eroe che, pur intuendolo, non può sottrarvisi. Idealizzando i caratteri e le passioni umane secondo le categorie tradizionali dei filosofi e dei retori, P. insiste nella drammatica rappresentazione di eroi abbattuti dalla fortuna, ma indomiti nell'animo sino alla morte, privilegiando la rappresentazione di tratti umani e personali più che il racconto delle azioni e delle gesta da loro compiute. La fortuna di P., che sovrappone alle sue fonti (Sallustio, Livio, Polibio, Dionigi di Alicarnasso per le vite romane, Erodoto, Tucidide, Senofonte, Teopompo, per quelle greche) la propria concezione storico-filosofica, è testimoniata a partire dall'età umanistica, quando fu considerato maestro di vita e di virtù civili, per la sua esaltazione dell'etica dell'onore e della magnanimità. Ai grandi eroi plutarchei si ispirarono Shakespeare, Montaigne, Rousseau, Alfieri, Schiller (Cheronea 46 circa - 127 circa).

Culto.

(dal latino cultus, der. di colere: venerare). L'insieme degli atti esteriori e delle usanze con cui si manifesta il sentimento religioso.

║ Per estens. - Sinonimo di religione.

║ Fig. - Devozione sincera a un'idea morale o a una persona; venerazione profonda.

║ Ricerca attenta, cura eccessiva.

- Rel.

- Nei popoli primitivi e nelle civiltà meno evolute il c. rivolto verso esseri demoniaci, verso le anime dei defunti, o verso potenze sovrumane non personificate, assume più propriamente i caratteri della magia; ma la religione, a differenza del mago, compie i suoi riti e sacrifici in funzione della collettività. Le diverse religioni hanno particolari prescrizioni per il c.: determinano i luoghi sacri (foreste, grotte, colline, cime di monti, oracoli; più tardi templi e altari); il tempo del c. (feste); i procedimenti del c. (sacrificio, prima, poi rito simbolico, purificazioni, canti e musica, immagini divine). Una manifestazione di c. più mediata e interna è la preghiera che caratterizza e accomuna anche le grandi religioni monoteiste (per le cui manifestazioni cultuali: V. CATTOLICESIMO, PROTESTANTESIMO, EBRAISMO, ISLAMISMO).

- Dir.

- Reati contro la libertà di c.: sono considerati tali il turbamento delle funzioni religiose; il pubblico vilipendio di chi professa un c. o di cose destinate al c.; l'offesa arrecata a un ministro del c. nell'esercizio delle sue funzioni; i guasti a cose appartenenti al c.; il vilipendio di un sepolcro o di un cadavere.

- St.

- C. imperiale: il primo imperatore romano, Augusto, senza arrivare ad ammettere pubblicamente la propria divinità come i sovrani ellenistici, accettò le manifestazioni di c. indirizzategli dai provinciali. In genere, infatti, gli onori divini erano accordati solo agli imperatori defunti (ad esempio, il c. di Cesare); anche successivamente, il Senato decretava l'apoteosi per gli imperatori che avessero lasciato un buon ricordo. Fu a partire da Caligola che il c. imperiale andò modificandosi: lo stesso Caligola fece sfoggio di attributi tipici delle divinità tradizionali; Nerone si fece rappresentare sulle monete con la corona raggiata simbolo del Sole; Domiziano volle essere chiamato deus, oltre che dominus; con Commodiano si iniziò a definire sacer (sacro) tutto ciò che avesse attinenza con la persona dell'imperatore, ecc. Tale situazione continuò ancora con i Severi e, in modo particolare, con Aureliano. Il c. imperiale comportava giochi e feste in tutte le province, e veniva praticato da un clero locale costituito da membri delle classi più elevate.

C. della personalità: espressione entrata nel linguaggio politico-ideologico dopo il XX Congresso del PCUS (1956), nel corso del quale fu usata per indicare l'ossequio acritico alle direttive politiche di Stalin. Da allora è riferito, per estensione, al c. tributato a uomini dotati di poteri carismatici e posti in una sfera inaccessibile alla critica.

Corneille, Pierre.

Drammaturgo francese. Compiuti gli studi al Collegio dei Gesuiti di Rouen, nel 1624 divenne avvocato presso il tribunale della stessa città; in seguito si dedicò, prevalentemente, all'attività poetica. Dal 1633 al 1638 fu uno dei cinque autori incaricati da Richelieu di scrivere per il teatro. Nel 1640 sposò Marie de Lampérière e nel 1647 fu accolto all'Accademia francese, dopo due precedenti rifiuti dovuti all'inimicizia di Richelieu. Negli ultimi anni della sua vita il pubblico e la corte lo abbandonarono per Racine. Insieme al successo perse pure l'agiatezza economica, nonostante la pensione ottenuta dal re dal 1663. Negli ultimi anni della sua vita si chiuse in una solitudine scontrosa e taciturna. Nel decennio 1630-40 il grande drammaturgo francese precorse con le sue commedie (Melito, 1630; Clitandro, 1630; La vedova, 1631; La cameriera, 1632-33; La Place Royale, 1633-34; L'illusione comica, 1636) Molière, attingendo, al di là della commedia antica, alla vita di tutti i giorni. Nel 1636, con la tragicommedia Cid, aprì una nuova strada al teatro francese, mostrando come un dramma potesse trarre il suo interesse non da avvenimenti straordinari disposti ad effetto, ma da un solo episodio (in questo caso, l'amore e il matrimonio di don Rodrigo). C. proseguì nella sua riforma del teatro francese, vincendo le resistenze dei vecchi autori e l'ostilità della critica, con le successive tragedie: Orazio (1640), Cinna (1641), La morte di Pompeo (1642-43), Teodora, vergine e martire (1645-46), Eraclio, imperatore d'Oriente (1647), Andromeda (1650). Pur essendo considerato il più grande drammaturgo dell'epoca, dopo l'insuccesso del Pertarito (1651), abbandonò temporaneamente il teatro, dedicandosi alla traduzione in versi dell'Imitazione di Cristo (1656). Nel 1659 si ripresentò nella sua veste di drammaturgo con Edipo, seguito da Il vello d'oro (1661), Sertorio (1662), Sofonisba (1663), Agesilao (1666), Attila (1667). Non riuscì, però, a ottenere il successo riscosso negli anni passati, poiché il pubblico gli preferiva ormai il rivale e più giovane Racine. In contrapposizione alla Berenice di Racine, C. presentò nel 1670 Tito e Berenice, che riscosse scarso plauso. Tra le sue ultime opere citiamo Amore e psiche (1670), Pulcheria (1672), Surena (1674); nel 1682 curò un'edizione completa di tutte le sue opere teatrali. C. fu il cantore di un'atmosfera eroica, che già al suo tempo pochi intendevano. Il suo teatro segna il trionfo del pensiero sulla passione, dell'alta e dignitosa morale sul sentimento d'amore, dell'eloquenza sulla lirica (Rouen 1606 - Parigi 1684).

Alfieri, Vittorio.

Scrittore italiano. Di nobile famiglia piemontese, compì gli studi presso la Reale Accademia di Torino, uscendone con il grado di portainsegna nel reggimento provinciale di Asti (1766). Viaggiò a lungo attraverso l'Europa visitando la Francia, l'Inghilterra, la Germania, l'Olanda, il Portogallo; si dedicò inoltre alla lettura degli illuministi francesi, di Machiavelli e Plutarco. Nel 1775 scoprì quasi per caso la sua vocazione poetica, quando si mise a comporre alcuni versi, che avrebbero costituito la sua prima tragedia, Cleopatra. L'opera venne rappresentata al teatro Carignano di Torino e riscosse un notevole successo. Tra il 1775 e il 1789 A. scrisse altre venti tragedie: Filippo, Polinice, Antigone, Virginia, Agamennone, Oreste, La congiura de' Pazzi, Don Garzia, Maria Stuarda, Rosmunda, Ottavia, Timoleone, Merope, Saul, Agide, Sofonisba, Mirra, Bruto I, Bruto II, Alceste II. Visto che in Piemonte a quei tempi si parlava quasi soltanto il francese e il dialetto, lo scrittore si trasferì in Toscana per approfondire lo studio della lingua italiana. A Firenze nel 1777 conobbe Luisa Stolberg, moglie di Carlo Edoardo Stuart, conte di Albany. Quando lei si separò dal marito A. abbandonò definitivamente il Piemonte e i due soggiornarono insieme tra Firenze, Roma e Pisa. Dopo il 1785 fu in Alsazia, a Colmar e a Parigi, da cui scappò nel 1792 per timore dei rivoluzionari. Morì a Firenze l'8 ottobre 1803. Fu sepolto in Santa Croce e Canova scolpì il suo monumento funebre per desiderio della contessa d'Albany. ║ Opere: la prima opera di A. fu l'Esquisse de jugement universal composta fra il 1773 e il 1775. Seguirono i Giornali redatti in francese tra il 1774 e il 1775 e poi ripresi in italiano nel 1777, una sorta di diario che testimonia l'evoluzione dell'autore. Accingendosi a scrivere le opere teatrali A. si trovò di fronte da un lato alla produzione melodrammatica di Metastasio, dall'altro alla tradizione del teatro francese di indagine psicologica, modelli che egli rifiutò in nome di una nuova tragedia, incentrata su pochi protagonisti, con l'eliminazione di tutti i personaggi secondari. Una tragedia nuova per la quale adottò uno stile molto personale e creò, con l'impiego dell'endecasillabo, ritmi intensi e spezzati spesso di difficile lettura, contrapposti alla facile musicalità arcadica. Della tragedia classica mantenne però la partizione in cinque atti e la fedeltà alle unità aristoteliche. Le tragedie hanno al centro personaggi del mito e della storia; in esse il dramma è svolto soprattutto nell'animo dei personaggi. La libertà che essi cercano non corrisponde a nessuna istituzione politica ma è libertà interiore. Nell'opera Filippo (1775) viene analizzato lo stato di isolamento del principe derivante dalle leggi della politica, le quali impongono ai potenti un tragico distacco da ogni dolcezza terrena. In Polinice (1775), viene posto in primo piano il prezzo da pagare per la conquista del potere, mentre in Antigone (1776) A. riflette sul rapporto tra oppressore e oppresso e sull'impossibilità per quest'ultimo di ribellarsi se non pagando con la vita. Le tragedie Virginia (1777), La congiura de' pazzi (1777), Timoleone (1779) trattano ancora il problema della libertà. Nella prima, ispirata a Livio, l'aristocrazia, arrendevole nei confronti della tirannide, si contrappone alla plebe, animata da nobili ideali di libertà; nella seconda, il rapporto eroe-tiranno è analizzato come un conflitto di personalità di pari forza; la terza è ispirata a Seneca. Le opere Merope e Saul fanno registrare una maggiore attenzione per lo scavo psicologico dei personaggi. Dopo il Saul A. si dedicò a una riflessione sulla funzione del poeta e del letterato e a un'indagine sulle ragioni della infelicità umana. A. affrontò questi temi nei trattati Della Tirannide (1777) in due libri, opera poi riveduta nel 1786-1789 e pubblicata nel 1789 e Del principe e delle lettere scritto fra il 1778 e il 1786 e pubblicato nel 1789. Le successive esperienze dolorose dell'A., lo scandalo suscitato dalla sua relazione con la contessa d'Albany, e il lungo peregrinare per l'Italia e l'Europa fino al ricongiungimento con la donna amata, dopo il divorzio dal marito, indussero lo scrittore a nuove forme poetiche. Si dedicò ancora alla produzione tragica (Agide, 1784; Sofonisba, 1784; Mirra, 1786) ma, soprattutto nella Mirra, abbandonò l'esame delle passioni politiche a favore di una maggiore riflessione sulla tragica condizione. A questo periodo risalgono inoltre i trattati Della virtù sconosciuta (1786) e Panegirico ad Adriano e la sistemazione delle Rime (raccolta di sonetti, canzoni, epigrammi, odi, stanze composte tra il 1776 e il 1779) che costituiscono uno dei canzonieri più completi del Settecento. Rifugiatosi a Parigi con la contessa d'Albany esaltò in un primo momento la Rivoluzione nell'ode A Parigi sbastigliato (1789); successivamente deluso dagli eccessi della rivoluzione si trasferì a Firenze dove si dedicò alla composizione del Misogallo (1790-98), di alcune satire e di sei commedie (L'uno, I pochi, I troppi, L'antidoto, La finestrina, Il divorzio) oltre che alla redazione della sua autobiografia la Vita (iniziata a Parigi nel 1790). Tra le sue opere vanno inoltre ricordate due tragedie pubblicate postume: Antonio e Cleopatra (scritta nel 1774-75), Alceste seconda (scritta nel 1798); una tramelogedia, Abele (scritta nel 1790); una sorta di tetralogia politica, articolata in quattro opere dedicate all'esame di altrettanti regimi istituzionali - L'una, I pochi, I troppi, L'antidoto (composte tra il 1801 e il 1802) - dove A. pone l'accento sui difetti dell'assolutismo, dell'oligarchia e della demagogia, affermando in conclusione il primato della Monarchia costituzionale (Asti 1749 - Firenze 1803).

Vittorio Alfieri ritratto da F.X. Fabre (Firenze, Galleria degli Uffizi)

Vittorio Alfieri ritratto da F.X. Fabre (Firenze, Galleria degli Uffizi)

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