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ITINERARI - SPAZIO E TEMPO - LE UTOPIE

INTRODUZIONE

In ogni tempo gli uomini hanno immaginato società radicalmente diverse da quelle in cui vivevano, conformi ai loro ideali di razionalità e di giustizia. Qualcuno si è provato a descriverle nei particolari e a spiegarne il funzionamento. Opere di questo tipo sono numerose nella cultura occidentale, dalla Repubblica di Platone (428-347 a.C.) dove si immagina una città affidata al governo dei filosofi, a quella del filosofo e scienziato inglese Francesco Bacone (1561-1626), che ne La Nuova Atlantide descrive una società, il cui benessere e la cui crescita è affidata alla perfetta organizzazione della ricerca scientifica e tecnica.
A tutte queste costruzioni fantastiche diamo oggi il nome di utopie, lo stesso che l'inglese Tommaso Moro (1478-1535) ha usato per l'isola meravigliosa da lui descritta nel 1516, nella quale non c'erano né guerre, né persecuzioni religiose, né miseria, né forme di coercizione, e dove la gente viveva felice. L'unico guaio di Utopia è che non stava in nessun posto, come dice il suo stesso nome, che Tommaso Moro ha costruito con le parole greche ou = «non» e tòpos = «luogo»: «non-luogo».
In tutte le immaginazioni utopiche alla fantasia si mescola la realtà, nel senso che ognuna riflette i problemi del suo tempo e ne prospetta le soluzioni, proiettandole però in un tempo e in uno spazio indefiniti, e cioè esprimendole nella forma di modelli ideali. Le utopie si presentano dunque al tempo stesso come critica di ciò che esiste e come progetto (o speranza) di ciò che dovrebbe (e potrebbe) esistere.
Questo carattere progettuale (ossia non puramente teorico, né di semplice denuncia) delle utopie, spiega perché spesso i loro autori abbiano tentato di metterle in pratica. Platone pensava che il suo Stato ideale governato dai filosofi, non si sarebbe mai potuto realizzare, ma che come modello avrebbe potuto ispirare la costituzione degli Stati reali e orientare i comportamenti dei politici del suo tempo. Cercò anche di dimostrare l'efficacia della sue teorie approfittando dell'amicizia con il tiranno di Siracusa, ma dovette sperimentare a sue spese le difficoltà dell'impresa. Tommaso Campanella (1568-1639), autore anch'egli di un'utopia, La Città del Sole, cercò di realizzare la sua città ideale attraverso una congiura che gli costò un'interminabile carcerazione.
Nel linguaggio corrente il termine «utopia» è spesso usato in opposizione a «realtà» e come sinonimo di chimera o illusione: un sogno impossibile, una costruzione priva di senso. Uno dei significati della parola registrati dal Vocabolario della lingua italiana dello Zingarelli suona appunto così: «Concezione, idea, progetto, aspirazione e simili vanamente proposti in quanto fantastici e irrealizzabili». In ogni tempo però sono stati giudicati irrealizzabili e quindi inutili (o addirittura dannosi e perversi) i progetti che apparivano in contrasto con l'organizzazione sociale esistente e con gli interessi ad essa legati. In molti casi questi progetti hanno trovato più o meno piena attuazione.
Anche la democrazia è stata ripetutamente condannata nei secoli scorsi come un sistema di governo assurdo, impraticabile. Re, papi, filosofi l'hanno definita un'esecrabile utopia, una tentazione del demonio, un'illusione capace di distruggere la pace sociale corrompendo le masse e sottraendole al loro primo ed essenziale dovere: quello di obbedire. Ma la democrazia alla fine si è affermata in molte parti del mondo, esiste e probabilmente continuerà ad esistere, imperfetta, ma perfettibile. La pace sociale non solo non è stata distrutta, ma è sempre più chiaro che essa dipende proprio dalla capacità della democrazia di estendersi e di radicalizzarsi. è uno dei molti casi in cui gli «utopisti» hanno visto più lontano e più distintamente dei loro avversari, i sedicenti «realisti».
Chi esercita il potere o gode di privilegi a cui non vuole rinunciare, tende a credere e a far credere che la realtà esistente sia l'unica realtà possibile, e che non vi siano altri desideri ragionevoli se non quelli che la società così come è può soddisfare, mentre quelli che non può soddisfare (il desiderio di felicità e di pace per tutti, ad esempio) sarebbero irragionevoli. Questa opinione, oltre che evidentemente interessata, è del tutto infondata. La cosa più probabile che possa capitare a una qualsiasi organizzazione sociale dotata di una certa complessità è di cambiare, più o meno rapidamente e più o meno profondamente. La sola cosa che davvero non gli capiterà mai è di restare esattamente quella che è. Il problema allora è di fare in modo che cambi in meglio, ossia (se il valore in cui crediamo è la democrazia) nella direzione di una più ampia e più radicale giustizia. Non è una cosa faci le, ma non c'è ragione al mondo per pensare che cambiare in peggio sia più «realistico» che cambiare in meglio.
Oggi gli «utopisti», quelli cioè che coltivano ideali di trasformazione profonda della società, si dicono per lo più di sinistra, mentre quelli di destra ostentano il loro presunto «realismo», che molto spesso è solo un'apologia dell'egoismo, della competizione, dell'autorità e insomma, in una parola, della forza. Ciò non vuole affatto dire che le utopie siano sempre state o siano necessariamente «di sinistra» o «progressiste» (per usare termini del linguaggio politico corrente, che vanno presi con molta cautela quando si parla del passato). Ci sono utopie ispirate agli ideali di libertà e di uguaglianza, così come ce ne sono che si richiamano al principio di autorità ed all'idea della diseguaglianza (di questo genere è la Repubblica di Platone, un'utopia schiettamente aristocratica, intonata al disprezzo che il suo autore professava per il popolo). Ma anche le utopie «reazionarie» esprimono la richiesta che il potere, qualunque esso sia, si giustifichi in base a principi razionali, e costituiscono una condanna, implicita o esplicita, di una politica ispirata esclusivamente alla logica della forza (in tedesco Realpolitik = «politica realistica»).
Ogni utopia è il progetto di un mondo felice ed efficiente: è uno schema, che ha sempre in sé qualcosa di meccanico, di artificioso, di poco convincente. Qualche volta, a pensarci bene, le società perfette costruite dall'immaginazione utopica risultano francamente un po' noiose, se non addirittura scostanti, con i loro meccanismi perfettamente oliati, con la totale assenza di insuccessi personali o collettivi, con la gente eternamente contenta. Ma è anche conservando e sviluppando la capacità di progettare mondi perfetti che si può sperare di migliorare in qualche misura quello in cui viviamo. La felicità è un obbiettivo ragionevole e l'immaginazione non è mai troppa.

L'"UTOPIA" DI TOMMASO MORO

L'osservazione delle ingiustizie presenti è spesso la fonte più importante di escogitazioni utopistiche. è il caso di Tommaso Moro (nome italianizzato di Thomas More). Il suo Libretto sulla migliore forma di Stato e sulla nuova isola di Utopia, pubblicato nel 1516, è una durissima denuncia dei mali della società contemporanea. Tommaso Moro apparteneva alla classe dirigente: non era solo un grande letterato, ma anche e soprattutto un uomo di governo e fu anche Cancelliere del Regno d'Inghilterra. Può sembrare strano che proprio da un personaggio di questa fatta sia venuto uno dei più implacabili atti di accusa contro un sistema politico e sociale, quale quello dell'Europa del Cinquecento, dichiaratamente fondato sulla diseguaglianza.
Tra le storture di questo sistema Moro metteva specialmente in rilievo l'assurdità e la crudeltà della cosiddetta «giustizia» e in particolare della pena di morte, usata per contenere (così si diceva) la delinquenza dilagante. La delinquenza costituita effettivamente un gravissimo problema. Qual era però (si chiedeva Moro) l'origine della delinquenza? La cattiveria dell'uomo o l'ingiusta organizzazione della società? Moro si schierava per la seconda soluzione. I ricchi spogliavano e angariavano sistematicamente i poveri che con il loro lavoro mantenevano l'intera società, ma che erano costretti a vivere nella miseria e nell'abbrutimento; per i poveri il furto, l'assassinio, la delinquenza erano insieme una forma di difesa e l'espressione di una disperata mancanza di alternative. A questo proposito Moro metteva in rilievo la prima e più grave contraddizione del sistema giudiziario: «Voi - diceva ai ricchi e ai potenti - prima create i ladri, poi li punite». Le pene, per quanto spaventosamente crudeli, non servivano a niente: minacciare di morte i ladri non poteva spaventare coloro per i quali rubare era un modo di non morire di fame. Ma tutto il sistema di leggi e di governo era una truffa ai danni dei poveri:

... I ricchi inventano ogni mezzo e adoperano tutta la loro abilità per realizzare disonestamente grossi guadagni, per conservarseli senza alcun timore di perderli, e per sfruttare a proprio esclusivo beneficio, mantenendo salari più bassi possibile, il faticoso lavoro dei poveri. I ricchi, poi, decidono che questi sistemi truffaldini debbano essere rispettati e osservati da tutti in nome dello Stato, cioè in nome anche dei poveri, e per far ciò li chiamano leggi...

L'origine del male, dunque, andava cercato proprio nelle ingiustizie e nelle disuguaglianze sociali; e poiché il fondamento di ogni ingiustizia e di ogni disuguaglianza era la proprietà privata, Moro immaginava una società in cui non esistesse proprietà privata. Nella Repubblica di Utopia tutti lavoravano, ma proprio poiché lavoravano tutti, nessuno era costretto ad ammazzarsi di lavoro per produrre i beni necessari alla società. Sei ore di lavoro al giorno, secondo i calcoli di Moro, erano più che sufficienti a soddisfare i bisogni comuni e ciascuno era libero di dedicare il resto del suo tempo all'attività che più gli piaceva. Il lavoro era uguale per tutti e, poiché l'agricoltura costituiva di gran lunga la principale attività di Utopia, tutti cittadini si recavano a turno nei campi. Il commercio era accentrato in alcuni grandi mercati ed era regolato sui bisogni effettivi delle famiglie: ciascuno prendeva ciò che gli era necessario senza pagare nulla. Il denaro non esisteva: in una società dove ciascuno produce quello che può e consuma ciò di cui ha bisogno il denaro non serve.
Solo un piccolo numero di cittadini era esentato dal lavoro manuale: quelli che, a giudizio dei magistrati, avendo dimostrato spiccate attitudini allo studio, erano esclusivamente dediti a tale attività. La condizione di questi intellettuali era sicuramente privilegiata, ma tale privilegio era compensato dai servizi che erano tenuti a rendere al pubblico: tra di loro, ad esempio, erano scelti alcuni funzionari e magistrati della Repubblica.
Una società di eguali è anche una società di uomini liberi. In effetti in Utopia non esisteva violenza e coercizione statale. Per esempio, il popolo di Utopia aveva una sua religione, ma ogni altra religione vi era ammessa e anche l'ateismo era tollerato. Questa idea della tolleranza religiosa al tempo in cui fu espressa era considerata poco meno che un'eresia. Lo stesso Tommaso Moro doveva cadere vittima dell'intolleranza allora imperante in tutta Europa: il 7 luglio 1535 morì sul patibolo accusato di tradimento per essere rimasto fedele al papa di Roma e per non aver voluto accettare le innovazioni che in materia di religione erano state introdotte in Inghilterra dal re Enrico VIII.

LE UTOPIE POPOLARI

Le utopie di cui abbiamo parlato fin qui sono per lo più opera di letterati (come Tommaso Moro) o di filosofi (come Platone o Bacone o Campanella), e insomma di persone colte, qualche volta direttamente partecipi delle attività di governo (come Moro e Bacone). Ma anche nelle classi popolari esiste ed opera l'immaginazione utopica.
Nella fantasia popolare il mondo ideale è quello dove sono risolti per sempre i problemi della fatica, della fame, delle calamità naturali, degli ingiusti rapporti sociali. è nata così l'immagine del paese di Cuccagna (da un'antica radice germanica koka = «torta», da cui viene anche il tedesco Kuchen = «focaccia») o di Bengodi (composto di «bene» e di «godi») dove sugli alberi crescono i cibi già cotti, dove scorrono fiumi di vino, dove si pensa solo a mangiare e a divertirsi, dove la prigione esiste solo per chi lavora. A Bengodi (secondo Boccaccio, che ne parla nel Decamerone)

... si legavano le vigne con le salsicce, e avevasi un'oca a denajo e un papero per giunta. Et eravi una montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e ravioli, e cuocergli in brodo di capponi, e poi gettavan quindi giù, e chi più ne pigliava più se n'avea. E ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol di acqua...

Identica la descrizione di Cuccagna nella Storia di Campriano Contadino, un'operetta apparsa per la prima volta nel secolo XVI e continuamente ripubblicata, più o meno modificata, fino ai tempi nostri:

... Io andai giù e 'ntrai in un bel giardino;
Con salsicce le vigne son legate; Un fiume c'è; che è di perfetto vino; Io n'ho bevuto certe scorpacciate! E cappon cotti van per quel confino; Montagne v'è di cacio grattugiato, et una donna che fa maccheroni,
e favvisi laggiù di gran bocconi...

Gli ospiti del paese di Cuccagna potevano intrattenersi in piacevole compagnia:

... Et evvi ancora di molte zitelle,
che seco stanno sempre a sollazzare,
che non vedesti mai forse più belle!
Ì son che vi farian meravigliare
con loro acconciature, e con gonnelle
che in quel paese l'usan di portare,
con baci e gentilezze che ti fanno,
da non partirsi loro di quest'anno...

Nella fantasia popolare il paese di Cuccagna spesso si identifica e si confonde con altre immagini tradizionali, come quelle del Paradiso Terrestre e dell'Età dell'Oro. Nel secolo XVI in un anonimo Testamento Satirico si trova una descrizione del Paradiso simile ai paesi di Cuccagna. L'autore vorrebbe entrare

... nel santo Paradiso
là dove in canto e riso
triunfa infino ai cani
e cento marzapani
si dan per un quatrino,
e con un sol terlino
si compra un vitel cotto
con certo quel biscotto,
ch'è di pan mellato
e quando uno è affamato
li piove manna in bocca
e spesse volte fiocca
i sacchi di confetti
e son coperti i tetti
da zalde inzuccherate...

Il paese di Cuccagna ha avuto larga fortuna nel campo delle arti figurative. Le stampe popolari che ne illustravano le delizie hanno avuto una enorme diffusione, e lo stesso tema è stato ripreso dalla pittura colta, come sta a testimoniare fra l'altro un noto quadro di Bruegel. La popolarità del mito di Cuccagna si è poi riflessa nei tradizionali giochi delle feste paesane, dove viene innalzato l'albero di Cuccagna con appesi prosciutti, mortadelle, polli. Anche nella letteratura infantile ha avuto echi illustri: il paese dei Balocchi nel Pinocchio di Collodi è un paese di Cuccagna ad uso dei bambini.
Di norma le utopie colte, come quella di Tommaso Moro, sono assai più ricche di indicazioni politiche e assai più polemiche nei confronti delle classi dominanti di quanto non lo siano le utopie popolari sul genere del Paese di Cuccagna. Talvolta però anche in queste affiora la protesta contro i ricchi e i potenti. Nel poemetto Capitolo di Cuccagna della fine del secolo XVI si dipinge un paese senza distinzioni di classe:

... Non c'è duca, né signore, né conte,
ognun ci vive con la sua libertade:
o che bello paese, o che bella fonte!...

Più esplicita è talvolta la polemica sociale in quell'altra espressione dell'immaginazione popolare che è rappresentata dal tema del Mondo alla Rovescia. Nel mondo alla rovescia il gioco consiste appunto nello scambio paradossale delle funzioni, ed era evidentemente molto facile raffigurare polemicamente rovesciate le gerarchie sociali. Eppure anche qui l'effetto comico era cercato per lo più non tanto nel capovolgimento dei rapporti sociali, quanto nella più innocua inversione dei ruoli tra uomini e animali o tra uomini e cose nell'ambito della quotidiana esperienza di lavoro (il bue che guida l'aratro trascinato da una coppia contadini, il cavallo che ferra il piede del maniscalco, ecc.) oppure nello stravolgimento del significato delle parole, nell'eloquio contraddittorio e nel non-sense.

L'ETÀ DELL'ORO

La fantasia dell'uomo ha di volta in volta proiettato in direzioni opposte, nel passato o nel futuro (o in un «altrove» indefinibile, nell'al di là, per esempio), l'immagine di un mondo perfetto dove la felicità regni senza ombre. L'aspirazione alla felicità si colora così da un lato di nostalgia, dall'altro di speranza: da un lato c'è il mito dell'età dell'oro, ossia di una perduta felicità originaria, che l'uomo avrebbe sperimentato obbedendo alle leggi della Natura; dall'altro c'è l'utopia, ossia il progetto di una società ben organizzata, ragionevole e pacifica oppure l'attesa del «Millennio», ossia la speranza nell'instaurazione finale di un Regno della Giustizia ad opera di Dio o di potenze soprannaturali.
L'immaginazione utopistica e la speranza millenaristica sono la polemica negazione della società esistente e suggeriscono la possibilità o la necessità (e talvolta l'urgenza) di cambiare in meglio leggi e istituzioni sociali: in un modo o nell'altro sono legate all'idea di progresso. Il mito dell'età dell'oro implica invece la convinzione che solo la Natura sia di per sé buona, e quindi l'idea che la storia, come progressivo allontanamento dalla semplicità originaria, sia fondamentalmente un processo di corruzione e degradazione.
In Occidente questa idea si trova già, nell'VIII secolo a.C., nel poema di Esiodo Le opere e i giorni. Esiodo costruiva anzi tutta una fantasiosa periodizzazione della storia umana, destinata poi a diventare un luogo comune della letteratura europea: all'età dell'oro, quando, sotto il governo del dio Saturno-Crono, gli uomini vivevano nell'abbondanza senza lavorare, godendo dei doni generosamente dispensati dalla Natura, sarebbe seguita un'età dell'argento, presieduta da uno dei figli di Crono, Giove-Zeus, durante la quale l'uomo avrebbe dovuto cominciare a lavorare per sostenersi; poi un'età del bronzo, durante la quale gli Dei avrebbero abbandonato il mondo per ritirarsi nei cieli e gli uomini sarebbero rimasti in balia del male; infine un'età del ferro, in cui si sarebbero scatenati i peggiori istinti dell'uomo, e la natura stessa sarebbe divenuta più avara dei suoi doni.
Il mito di un'età straordinariamente felice, che avrebbe preceduto i tempi storici, ricorre in molte altre tradizioni culturali. Anche in Asia orientale, per esempio, sono state immaginate società perfette, senza tensioni e senza ingiustizie, e in genere queste fantasie non erano proiettate nel futuro: il pensiero cinese classico, confuciano o taoista, guardava piuttosto al passato per collocare i suoi ideali di convivenza civile.
Il passato dei Confuciani era però ben diverso da quello dei taoisti. Per i Confuciani la perfezione del vivere sociale andava identificata negli anni dei primi sovrani della dinastia Chou (poco dopo il Mille a.C.). In quei tempi sovrano e sudditi, genitori e figli, sapevano tutti esattamente quali fossero i doveri connessi con il loro «nome», ossia con il loro posto nella società. La nostalgia di Confucio per questo passato nasconde l'aspirazione ad una organizzazione sociale nettamente gerarchica e di tipo feudale, ed è evidente che la perfezione attribuita a quei supposti tempi felici è del tutto immaginaria. Quella indicata da Confucio, però, non si può propriamente definire un'«età dell'oro» analoga a quella della tradizione occidentale, perché essa non rappresenta affatto un momento di primitiva innocenza, uno stato di natura, quanto piuttosto una cultura che faticosamente aveva raggiunto, grazie anche alla saggezza di alcuni personaggi, un meraviglioso equilibrio. L'atteggiamento di Confucio non è insomma diverso da quello di chi affermasse che solo nell'Italia dei Comuni o nell'Atene di Pericle l'uomo era felice.
Del tutto diverso era l'atteggiamento dei Taoisti. Anche costoro vedevano la perfezione nel passato; ma non in un determinato momento della storia, bensì prima ancora che la storia avesse inizio. Quello dei Taoisti, anzi, è l'atteggiamento di chi vede proprio nella storia la decadenza della società. All'inizio, essi dicono, non si parlava di virtù e di vizio e tutti erano naturalmente buoni; non si distinguevano sovrani e sudditi, padri e figli, e tutti conservavano naturalmente un sentimento d'amore per gli altri. Quella dei Taoisti, dunque, può essere a giusto titolo considerata un'età dell'oro, nel senso che questa espressione ha in Occidente.
Per gli Indiani l'età dell'oro era rappresentata dalla prima delle quattro ere in cui si divide il tradizionale sistema ciclico del tempo cosmico. Il suo nome è krta o satyuga e la sua durata è di 1.728.000 di anni. Come nelle analoghe raffigurazioni occidentali questa prima età ha visto la pace, la giustizia, la felicità regnare nel mondo, perché il dharma, cioè il principio morale per cui ognuno adempie al suo specifico compito nell'ordine perfetto dell'universo, era totalmente rispettato.
A differenza però del concetto occidentale di età dell'oro, per il quale quell'antico periodo di felicità è irrimediabilmente perduto, l'era krta, inserendosi in uno svolgimento ciclico, è destinata a ricrear si quando un nuovo mahayuga (= «grande era») prenderà il via dopo il tremendo mahapralaya (= «grande distruzione») con cui si concluderà quello attualmente in corso.

L'ERA DEL SOGNO

Nella cultura occidentale, sebbene esistano modi diversi di considerare la storia, l'idea del cambiamento è familiare a tutti. Altrettanto familiare è quella dello sviluppo, che pone nel passato le condizioni del futuro. Questo atteggiamento non è sempre condiviso dalle altre culture. Molte società «primitive», per esempio, non conservano in maniera organizzata la memoria dei fatti accaduti e cercano di ignorare i mutamenti avvenuti o che possono avvenire. Queste società non negano lo scorrere del tempo, e non ignorano che c'è un prima e un poi, ma tendono a regolare la propria vita secondo un modello il più possibile stabile e vogliono che il poi ricalchi il prima. Sono consapevoli di avere un passato, ma il solo passato che abbia per loro un valore è l'età mitica delle origini. è su questo passato antichissimo che ogni generazione deve modellare i suoi atti, ripetendo incessantemente ciò che le è stato trasmesso dagli antenati. In questo senso le azioni degli uomini non producono cambiamenti, non fanno storia, ma perpetuano un modello tradizionale.
Un esempio di questo atteggiamento si trova presso le popolazioni indigene australiane: la cosiddetta «era del sogno», l'unica epoca veramente creativa, quando le mitiche gesta degli antenati hanno foggiato il mondo, rappresenta un'età lontana, indefinibile, fuori del tempo. Da allora non è più avvenuto nulla di nuovo, nulla che non fosse la ripetizione delle azioni degli antenati. Da un lato l'era del sogno non ha alcuna continuità con il presente; dall'altro, invece, vive inalterabile nel presente. Così, quando un giovane viene iniziato, diventando a tutti gli effetti membro del gruppo degli uomini, viene ammesso alla conoscenza del passato; ma durante il rito egli impersona gli antichi eroi e diviene compartecipe di quel passato. Una sorta di testimonianza fisica dell'era del sogno e un segno della sua persistenza nel presente sono i churinga, pezzi di legno o di pietra a forma approssimativamente ovale, che rappresentano il corpo degli antenati. Vengono custoditi religiosamente e trasmessi di generazione in generazione anche se, in caso di necessità, c'è la possibilità di costruirne anche di nuovi.

L'ATTESA DEL MILLENNIO

... E vidi un angelo scender dal cielo, che aveva le chiavi dell'abisso e una gran catena nella sua mano. E afferrò il drago, l'antico serpente che è il diavolo e Satana, e lo legò per mille anni, e lo gettò nell'abisso, e serrò e sigillò l'abisso sopra di lui, affinché non seducesse più i popoli, fino a che fossero compiuti i mille anni [...] E vidi le anime di coloro che erano stati decapitati per la propria fede in Gesù [...] rivivere e regnare con Cristo mille anni. Gli altri morti non sarebbero tornati a vivere finché non fossero compiuti i mille anni. E questa è la prima risurrezione. Beato e santo chi ha parte nella prima risurrezione! Su loro la morte seconda non ha potere, e saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui mille anni...

Da questo brano dell'Apocalisse di Giovanni (20, 1-6) è nata la credenza di un ritorno di Gesù Cristo prima della fine del mondo, e non dopo. Prima della definitiva instaurazione del Regno di Dio (secondo tale credenza), Gesù tornerebbe sulla Terra per regnarvi mille anni con tutti i santi risorti. Questo regno di Gesù, però, ossia «Il Millennio» per antonomasia, non è (è bene ripeterlo) il Regno di Dio che deve venire alla fine dei tempi; è un regno vero, non metaforico, un regno instaurato su questa Terra, e quindi nel tempo, nella storia, non nell'al di là. Il Millennio, insomma, è l'epoca della storia in cui i giusti, i perseguitati, i vinti di tutte le epoche avranno finalmente la loro rivincita, e potranno vedere il loro ideale di giustizia, sempre deriso, finalmente realizzato.
La credenza nel Millennio, ossia la speranza di poter costruire prima o poi sulla Terra una società di giusti, è emersa più volte nella storia del Cristianesimo e ha ispirato diversi movimenti a sfondo profetico, detti appunto «millenaristici». Di solito questi movimenti, per lo più combattuti e repressi come ereticali, erano caratterizzati da una forte componente di protesta sociale: predicavano la povertà e condannavano la ricchezza (specialmente la ricchezza accumulata e ostentata dalla Chiesa) e si richiamavano a forme di vita comunitaria quali si riteneva che esistessero nella Chiesa delle origini.
Per estensione, col termine «millenarismo» può essere indicato qualsiasi movimento, dentro o fuori il Cristianesimo, basato sulla credenza nel futuro avvento di un'era di giustizia che liberi gli uomini dal dolore, dall'oppressione e dal bisogno. Tra gli Indiani del Nord America, per esempio, gli ultimi tentativi di resistere alla penetrazione e al dominio dei bianchi si sono nutriti appunto di credenze millenaristiche. Il più noto dei movimenti millenaristici indiani è forse quello della Danza degli Spettri, così chiamato perché i suoi seguaci immaginavano che la danza potesse avvicinare l'avvento della nuova era, segnata dal ritorno dei morti. Già alla fine del secolo XVIII un profeta delaware aveva predicato qualcosa del genere, invocando tra l'altro la cessazione delle guerre tra le tribù e invitando gli Indiani a rinunciare agli alcoolici e in genere agli usi e costumi acquisiti dai bianchi.
Un culto millenaristico dei pellerossa, invece, è rappresentato dalla religione del Peyote (un fungo contenente sostanze allucinogene, consumato durante le cerimonie sacre): si tratta di una forma di sincretismo religioso che mescolava alla tradizione elementi tratti dal cristianesimo. Anche qui oggetto dell'attesa era un rinnovamento del mondo e il ritorno alle forme di vita precedenti l'arrivo dei bianchi. Mentre nella Danza degli Spettri il ritorno a forme di vita tradizionali era immaginato come rottura violenta con il mondo dei bianchi, la religione del Peyote prediceva l'avvento pacifico della nuova era.
Intorno al 1890 un altro profeta, Wowoka, cominciò a predire che con il ritorno dei morti i bianchi sarebbero stati spazzati via da un vento violentissimo, che sarebbero scomparse le malattie, la miseria e la morte, e che le praterie si sarebbero nuovamente riempite di bisonti. Wowoka non pensava affatto a predicare una guerra contro i bianchi, ma le sue profezie furono intese come un invito alla rivolta. E la rivolta finì in un massacro.
Millenaristici sono anche i Cargo cult o culti delle merci (l'inglese cargo significa «carico» di merci, ma anche il mezzo che lo trasporta, nave o aereo) diffusi in alcune isole della Melanesia.
Anche i Cargo cult sono legati all'idea che il ritorno dei morti possa spazzare via il dominio dei bianchi. Secondo una credenza precedente all'arrivo degli Europei, gli spiriti degli antenati erano soliti tornare di quando in quando dall'isola dei morti a bordo di una imbarcazione per visitare e beneficare i discendenti.
Questi spiriti erano bianchi d'aspetto, come gli Europei, ma soprattutto come i marinai delle navi che, da quando gli Europei si erano stanziati nelle isole della Melanesia, portavano regolarmente merci di ogni sorta.
Da dove venivano le merci?
Gli indigeni non ne avevano la minima idea, ma cominciarono a sospettare che venissero proprio dall'isola dei morti, dove gli antenati le avrebbero fabbricate per loro.
Ma allora, gli Europei, che si appropriavano sistematicamente di tutti i carichi in arrivo, li stavano derubando.
Prima o poi sarebbe arrivato il cargo giusto, gli spiriti degli antenati sarebbero finalmente riusciti a consegnare i loro doni ai discendenti, e per i bianchi sarebbero stati guai...
Le prime manifestazioni dei Cargo cult sono apparse agli europei stupefacenti. Quasi all'improvviso gli indigeni smettevano di lavorare, davano fondo alle riserve di denaro e consumavano nel giro di pochi giorni le provviste alimentari. Poi rimanevano in attesa dell'arrivo del cargo, che, secondo la profezia, avrebbe dovuto portare loro merci in tale quantità da renderli ricchi. Cosi, quando un piroscafo arrivava davvero, gli indigeni esigevano la consegna del carico. All'ovvio rifiuto delle autorità, prendevano ad agitarsi e a protestare, sino a quando non si convincevano che quello non era il cargo giusto e che bisognava aspettarne un altro.

MORTE, SOPRAVVIVENZA E RESURREZIONE

Sebbene ogni uomo sia dotato di un istinto di conservazione che in ogni circostanza lo spinge (se può) a scegliere la vita, all'idea della morte (della propria morte, non di quella degli altri o di una generica «fine del mondo») ciascuno reagisce in modi diversi: talvolta essa appare come un evento inconcepibile o intollerabile; altre volte, invece, è accettata serenamente come naturale e opportuna conclusione del proprio ciclo vitale, o addirittura è desiderata come liberazione dalle sofferenze e dalle umiliazioni di questa vita. Ma, oltre che oggetto di esperienza personale, la morte costituisce un tema fondamentale sia della riflessione scientifica e filosofica, sia dell'immaginazione religiosa: l'atteggiamento nei confronti della morte è uno dei tratti più significativi di qualsiasi tradizione culturale.
Non sempre la morte è stata considerata una componente ineliminabile della nostra esistenza biologica. Nelle religioni ebraico-cristiane, per esempio, è intesa come conseguenza del peccato originale, e cioè come una condizione acquisita, non originaria, dell'uomo. Questa idea della perdita dell'immortalità a causa di una colpa compiuta da un qualche antenato è presente in molte culture. Diversi miti degli indigeni sudamericani attribuiscono la vecchiaia e la morte alla violazione di un tabù, e cioè all'aver udito o visto o toccato qualcosa di proibito. O, viceversa, l'impossibilità di recuperare la vita o la giovinezza perdute è spiegata con il fatto di non aver udito o visto o toccato qualcosa che avrebbe avuto il potere di restituirle.
In alcune culture l'idea della morte sembra sempre presente. In diversi gruppi di Eschimesi i malati facevano ben poco per guarire, limitandosi per lo più ad attendere la morte: - è il nostro destino -, dicevano - non può essere altrimenti -. La morte era dappertutto: poteva sorprenderli durante la caccia, per un incidente, o durante una prolungata bufera di vento e di neve, per l'impossibilità di andare alla ricerca di cibo. Facile a perdersi, la vita sembrava cosa di poco conto.
Tra gli Indiani delle praterie nordamericane la morte era considerata come l'estrema occasione offerta al guerriero per dar prova del proprio coraggio: perciò una morte in battaglia era considerata un privilegio. Si dice che un capo degli Ojibway, ferito a morte in uno scontro, abbia intonato un canto:

... L'odore della morte sento l'odore della morte davanti al mio corpo...

Poi, rivolto ai compagni, avrebbe detto: - Quando tornerete, intonate questo canto: che le donne danzino e voi dite loro come sono morto -.
Gli Zuñi (un ramo dei Pueblo) cercano invece, per quanto possono, di allontanare l'idea della morte. I morti vengono invitati ad abbandonare il villaggio e i sopravvissuti a controllare il proprio dolore, a dimenticare, a tornare al più presto possibile alla vita normale. Quelli che non riescono a consolarsi vengono sottoposti ad appositi riti di purificazione.
Naturalmente l'atteggiamento nei confronti della morte dipende anche da ciò che si immagina che avvenga dopo la morte. In molte culture la morte è considerata come un momento di crisi nella storia della persona, ma niente di più: la morte, in sostanza, sarebbe il momento in cui l'anima (o spirito) si separa dal corpo, continuando però a vivere per suo conto. La credenza nella sopravvivenza dell'anima è una delle possibili manifestazioni del comune desiderio di autoconservazione, a cui ripugna l'idea dell'annientamento di sé e che trova conforto nel figurarsi una seconda vita oltre quella naturale, e un altro mondo oltre quello di cui abbiamo esperienza.
Credere nell'anima quale principio vitale distinto dal corpo e quale sede delle attività psichiche non vuol dire credere necessariamente nella sua sopravvivenza o, ancor meno, credere nella sopravvivenza di tutte le anime. Ad esempio gli antichi Egizi (che attribuivano agli uomini non una, ma tre anime o principi vitali) consideravano l'immortalità una semplice possibilità, che solo adeguate cerimonie magiche potevano assicurare, e poiché tali cerimonie richiedevano sacerdoti e mausolei, solo i ricchi e i potenti potevano aspirarvi. Analogamente i Nambikwara (una tribù di cacciatori nomadi del Brasile) credono che solo i maschi adulti possano sopravvivere alla morte (trasformandosi in giaguari), mentre le anime delle donne e dei bambini sono destinate a dissolversi nel vento.
Anche la credenza nella sopravvivenza dell'anima non sempre coincide con la credenza nella sua immortalità. La sopravvivenza, infatti, può essere temporanea. Frequentemente la vita dopo la morte è immaginata come una trasfigurazione o metamorfosi: abbiamo visto come, secondo i Nambikwara, i maschi da morti si trasformino in giaguari, ma (per restare agli esempi già fatti) anche gli antichi Egizi immaginavano che i morti potessero tramutarsi (ma solo di giorno) in falchi, gigli, caproni, e così via. Un tipo particolare di metamorfosi (dal greco metamòrphosis = «trasformazione» composto di metà = «dopo», «oltre» e di morphé = «forma») è la metempsicosi (da metempsychousthai = «passare da uno spirito all'altro», composto di metà e di psyché = «anima», «spirito»), che si potrebbe definire una metamorfosi a scopo di purificazione: al momento della morte del corpo in cui è ospitata, l'anima passa in un altro corpo, e da questo in un altro ancora, e così via fino a quando non si sia definitivamente liberata di ogni macchia e di ogni compromissione con la materia.
è abbastanza frequente l'idea che le anime dei morti stiano in qualche posto, sulla terra, sotto terra, o in cielo, ma comunque al di là del mondo conosciuto. Nel tentativo di individuare la sede di quest'altro mondo e di definirne i caratteri la fantasia religiosa si è esercitata senza freni in ogni epoca. Talvolta l'altro mondo è stato immaginato del tutto simile al mondo in cui viviamo, talvolta, invece, radicalmente diverso. Ci sono religioni che considerano il destino dei morti legato alle azioni da loro compiute in vita. L'attesa del giudizio divino e l'idea di un premio o di una punizione dopo la morte sono particolarmente importanti nelle religioni del ceppo ebraico-cristiano-islamico. La presunzione di graduare le condizioni dell'oltretomba alla disparità dei meriti e delle colpe degli uomini, porta a sdoppiare l'altro mondo in Paradiso e Inferno, e poi a generare una quantità di altri luoghi immaginari, il Purgatorio, il Limbo, ecc., intermedi tra i due o complementari ad essi. La maggioranza delle religioni dette «primitive» ignora invece il problema delle ricompense e non si aspetta alcuna giustizia dalla divinità.

L'ALDILÀ DI TIKOPIA

Tikopia è un'isola della Melanesia, nel Pacifico meridionale. Gli indigeni hanno un interessante complesso di credenze relativo all'al di là e al destino delle anime. Secondo loro ogni persona è dotata di un'anima detta ora, che è una specie di immagine immateriale del corpo. Dopo la morte l'anima diventa un'entità indipendente dal corpo, detta atua. L'anima rimane vicina al corpo fino al momento della sepoltura, poi viene presa in consegna dalle anime degli antenati, che la conducono in una palude. Qui viene immersa nell'acqua e due spiriti la masticano facendone colare la sostanza di cui è fatta. Questa sostanza viene poi raccolta in una zucca e plasmata nuovamente in forma umana. Solo adesso l'anima diventa uno spirito capace di partecipare alla vita dell'al di là, di viaggiare nel cielo e di stabilirsi in una sua sede.
Le sedi possibili sono molte: alcune nell'Oceano, altre in terre lontane, altre ancora (la maggior parte) nei cieli. I cieli sono costituiti da dieci strati. Negli strati più alti stanno gli antenati più importanti, in quelli più bassi la gente comune. Alcuni di questi cieli hanno strane particolarità o sono destinati da speciali categorie di persone: vi sono cieli instabili, altri che pendono, c'è un cielo per gli spiriti zoppi, uno per le donne nubili, uno per le sposate. Gli spiriti si distribuiscono nelle diverse sedi secondo precisi criteri: la condizione sociale, il sesso, i legami di parentela, ecc. Nel complesso l'al di là di Tikopia riproduce il mondo di qua, con tutte le sue distinzioni e le sue gerarchie: sembra che la sua funzione sia di rassicurare gli indigeni circa la sopravvivenza non solo delle loro anime individuali, ma anche dell'organizzazione sociale in cui sono abituati a vivere.