INTRODUZIONE
In ogni tempo gli
uomini hanno immaginato società radicalmente diverse da quelle in cui
vivevano, conformi ai loro ideali di razionalità e di giustizia. Qualcuno
si è provato a descriverle nei particolari e a spiegarne il
funzionamento. Opere di questo tipo sono numerose nella cultura occidentale,
dalla Repubblica di Platone (428-347 a.C.) dove si immagina una città
affidata al governo dei filosofi, a quella del filosofo e scienziato inglese
Francesco Bacone (1561-1626), che ne La Nuova Atlantide descrive una
società, il cui benessere e la cui crescita è affidata alla
perfetta organizzazione della ricerca scientifica e tecnica.
A tutte queste
costruzioni fantastiche diamo oggi il nome di utopie, lo stesso che l'inglese
Tommaso Moro (1478-1535) ha usato per l'isola meravigliosa da lui descritta nel
1516, nella quale non c'erano né guerre, né persecuzioni
religiose, né miseria, né forme di coercizione, e dove la gente
viveva felice. L'unico guaio di Utopia è che non stava in nessun posto,
come dice il suo stesso nome, che Tommaso Moro ha costruito con le parole greche
ou = «non» e tòpos = «luogo»:
«non-luogo».
In tutte le immaginazioni utopiche alla fantasia si
mescola la realtà, nel senso che ognuna riflette i problemi del suo tempo
e ne prospetta le soluzioni, proiettandole però in un tempo e in uno
spazio indefiniti, e cioè esprimendole nella forma di modelli ideali. Le
utopie si presentano dunque al tempo stesso come critica di ciò che
esiste e come progetto (o speranza) di ciò che dovrebbe (e potrebbe)
esistere.
Questo carattere progettuale (ossia non puramente teorico,
né di semplice denuncia) delle utopie, spiega perché spesso i loro
autori abbiano tentato di metterle in pratica. Platone pensava che il suo Stato
ideale governato dai filosofi, non si sarebbe mai potuto realizzare, ma che come
modello avrebbe potuto ispirare la costituzione degli Stati reali e orientare i
comportamenti dei politici del suo tempo. Cercò anche di dimostrare
l'efficacia della sue teorie approfittando dell'amicizia con il tiranno di
Siracusa, ma dovette sperimentare a sue spese le difficoltà dell'impresa.
Tommaso Campanella (1568-1639), autore anch'egli di un'utopia, La Città
del Sole, cercò di realizzare la sua città ideale attraverso una
congiura che gli costò un'interminabile carcerazione.
Nel linguaggio
corrente il termine «utopia» è spesso usato in opposizione a
«realtà» e come sinonimo di chimera o illusione: un sogno
impossibile, una costruzione priva di senso. Uno dei significati della parola
registrati dal Vocabolario della lingua italiana dello Zingarelli suona appunto
così: «Concezione, idea, progetto, aspirazione e simili vanamente
proposti in quanto fantastici e irrealizzabili». In ogni tempo però
sono stati giudicati irrealizzabili e quindi inutili (o addirittura dannosi e
perversi) i progetti che apparivano in contrasto con l'organizzazione sociale
esistente e con gli interessi ad essa legati. In molti casi questi progetti
hanno trovato più o meno piena attuazione.
Anche la democrazia
è stata ripetutamente condannata nei secoli scorsi come un sistema di
governo assurdo, impraticabile. Re, papi, filosofi l'hanno definita
un'esecrabile utopia, una tentazione del demonio, un'illusione capace di
distruggere la pace sociale corrompendo le masse e sottraendole al loro primo ed
essenziale dovere: quello di obbedire. Ma la democrazia alla fine si è
affermata in molte parti del mondo, esiste e probabilmente continuerà ad
esistere, imperfetta, ma perfettibile. La pace sociale non solo non è
stata distrutta, ma è sempre più chiaro che essa dipende proprio
dalla capacità della democrazia di estendersi e di radicalizzarsi.
è uno dei molti casi in cui gli «utopisti» hanno visto
più lontano e più distintamente dei loro avversari, i sedicenti
«realisti».
Chi esercita il potere o gode di privilegi a cui non
vuole rinunciare, tende a credere e a far credere che la realtà esistente
sia l'unica realtà possibile, e che non vi siano altri desideri
ragionevoli se non quelli che la società così come è
può soddisfare, mentre quelli che non può soddisfare (il desiderio
di felicità e di pace per tutti, ad esempio) sarebbero irragionevoli.
Questa opinione, oltre che evidentemente interessata, è del tutto
infondata. La cosa più probabile che possa capitare a una qualsiasi
organizzazione sociale dotata di una certa complessità è di
cambiare, più o meno rapidamente e più o meno profondamente. La
sola cosa che davvero non gli capiterà mai è di restare
esattamente quella che è. Il problema allora è di fare in modo che
cambi in meglio, ossia (se il valore in cui crediamo è la democrazia)
nella direzione di una più ampia e più radicale giustizia. Non
è una cosa faci le, ma non c'è ragione al mondo per pensare che
cambiare in peggio sia più «realistico» che cambiare in
meglio.
Oggi gli «utopisti», quelli cioè che coltivano
ideali di trasformazione profonda della società, si dicono per lo
più di sinistra, mentre quelli di destra ostentano il loro presunto
«realismo», che molto spesso è solo un'apologia dell'egoismo,
della competizione, dell'autorità e insomma, in una parola, della forza.
Ciò non vuole affatto dire che le utopie siano sempre state o siano
necessariamente «di sinistra» o «progressiste» (per usare
termini del linguaggio politico corrente, che vanno presi con molta cautela
quando si parla del passato). Ci sono utopie ispirate agli ideali di
libertà e di uguaglianza, così come ce ne sono che si richiamano
al principio di autorità ed all'idea della diseguaglianza (di questo
genere è la Repubblica di Platone, un'utopia schiettamente aristocratica,
intonata al disprezzo che il suo autore professava per il popolo). Ma anche le
utopie «reazionarie» esprimono la richiesta che il potere, qualunque
esso sia, si giustifichi in base a principi razionali, e costituiscono una
condanna, implicita o esplicita, di una politica ispirata esclusivamente alla
logica della forza (in tedesco Realpolitik = «politica
realistica»).
Ogni utopia è il progetto di un mondo felice ed
efficiente: è uno schema, che ha sempre in sé qualcosa di
meccanico, di artificioso, di poco convincente. Qualche volta, a pensarci bene,
le società perfette costruite dall'immaginazione utopica risultano
francamente un po' noiose, se non addirittura scostanti, con i loro meccanismi
perfettamente oliati, con la totale assenza di insuccessi personali o
collettivi, con la gente eternamente contenta. Ma è anche conservando e
sviluppando la capacità di progettare mondi perfetti che si può
sperare di migliorare in qualche misura quello in cui viviamo. La
felicità è un obbiettivo ragionevole e l'immaginazione non
è mai troppa.
L'"UTOPIA" DI TOMMASO MORO
L'osservazione delle ingiustizie presenti
è spesso la fonte più importante di escogitazioni utopistiche.
è il caso di Tommaso Moro (nome italianizzato di Thomas More). Il suo
Libretto sulla migliore forma di Stato e sulla nuova isola di Utopia, pubblicato
nel 1516, è una durissima denuncia dei mali della società
contemporanea. Tommaso Moro apparteneva alla classe dirigente: non era solo un
grande letterato, ma anche e soprattutto un uomo di governo e fu anche
Cancelliere del Regno d'Inghilterra. Può sembrare strano che proprio da
un personaggio di questa fatta sia venuto uno dei più implacabili atti di
accusa contro un sistema politico e sociale, quale quello dell'Europa del
Cinquecento, dichiaratamente fondato sulla diseguaglianza.
Tra le storture
di questo sistema Moro metteva specialmente in rilievo l'assurdità e la
crudeltà della cosiddetta «giustizia» e in particolare della
pena di morte, usata per contenere (così si diceva) la delinquenza
dilagante. La delinquenza costituita effettivamente un gravissimo problema. Qual
era però (si chiedeva Moro) l'origine della delinquenza? La cattiveria
dell'uomo o l'ingiusta organizzazione della società? Moro si schierava
per la seconda soluzione. I ricchi spogliavano e angariavano sistematicamente i
poveri che con il loro lavoro mantenevano l'intera società, ma che erano
costretti a vivere nella miseria e nell'abbrutimento; per i poveri il furto,
l'assassinio, la delinquenza erano insieme una forma di difesa e l'espressione
di una disperata mancanza di alternative. A questo proposito Moro metteva in
rilievo la prima e più grave contraddizione del sistema giudiziario:
«Voi - diceva ai ricchi e ai potenti - prima create i ladri, poi li
punite». Le pene, per quanto spaventosamente crudeli, non servivano a
niente: minacciare di morte i ladri non poteva spaventare coloro per i quali
rubare era un modo di non morire di fame. Ma tutto il sistema di leggi e di
governo era una truffa ai danni dei poveri:
... I ricchi inventano
ogni mezzo e adoperano tutta la loro abilità per realizzare
disonestamente grossi guadagni, per conservarseli senza alcun timore di
perderli, e per sfruttare a proprio esclusivo beneficio, mantenendo salari
più bassi possibile, il faticoso lavoro dei poveri. I ricchi, poi,
decidono che questi sistemi truffaldini debbano essere rispettati e osservati da
tutti in nome dello Stato, cioè in nome anche dei poveri, e per far
ciò li chiamano leggi...
L'origine del male, dunque, andava
cercato proprio nelle ingiustizie e nelle disuguaglianze sociali; e
poiché il fondamento di ogni ingiustizia e di ogni disuguaglianza era la
proprietà privata, Moro immaginava una società in cui non
esistesse proprietà privata. Nella Repubblica di Utopia tutti lavoravano,
ma proprio poiché lavoravano tutti, nessuno era costretto ad ammazzarsi
di lavoro per produrre i beni necessari alla società. Sei ore di lavoro
al giorno, secondo i calcoli di Moro, erano più che sufficienti a
soddisfare i bisogni comuni e ciascuno era libero di dedicare il resto del suo
tempo all'attività che più gli piaceva. Il lavoro era uguale per
tutti e, poiché l'agricoltura costituiva di gran lunga la principale
attività di Utopia, tutti cittadini si recavano a turno nei campi. Il
commercio era accentrato in alcuni grandi mercati ed era regolato sui bisogni
effettivi delle famiglie: ciascuno prendeva ciò che gli era necessario
senza pagare nulla. Il denaro non esisteva: in una società dove ciascuno
produce quello che può e consuma ciò di cui ha bisogno il denaro
non serve.
Solo un piccolo numero di cittadini era esentato dal lavoro
manuale: quelli che, a giudizio dei magistrati, avendo dimostrato spiccate
attitudini allo studio, erano esclusivamente dediti a tale attività. La
condizione di questi intellettuali era sicuramente privilegiata, ma tale
privilegio era compensato dai servizi che erano tenuti a rendere al pubblico:
tra di loro, ad esempio, erano scelti alcuni funzionari e magistrati della
Repubblica.
Una società di eguali è anche una società
di uomini liberi. In effetti in Utopia non esisteva violenza e coercizione
statale. Per esempio, il popolo di Utopia aveva una sua religione, ma ogni altra
religione vi era ammessa e anche l'ateismo era tollerato. Questa idea della
tolleranza religiosa al tempo in cui fu espressa era considerata poco meno che
un'eresia. Lo stesso Tommaso Moro doveva cadere vittima dell'intolleranza allora
imperante in tutta Europa: il 7 luglio 1535 morì sul patibolo accusato di
tradimento per essere rimasto fedele al papa di Roma e per non aver voluto
accettare le innovazioni che in materia di religione erano state introdotte in
Inghilterra dal re Enrico VIII.
LE UTOPIE POPOLARI
Le utopie di cui abbiamo parlato fin qui
sono per lo più opera di letterati (come Tommaso Moro) o di filosofi
(come Platone o Bacone o Campanella), e insomma di persone colte, qualche volta
direttamente partecipi delle attività di governo (come Moro e Bacone). Ma
anche nelle classi popolari esiste ed opera l'immaginazione utopica.
Nella
fantasia popolare il mondo ideale è quello dove sono risolti per sempre i
problemi della fatica, della fame, delle calamità naturali, degli
ingiusti rapporti sociali. è nata così l'immagine del paese di
Cuccagna (da un'antica radice germanica koka = «torta», da cui viene
anche il tedesco Kuchen = «focaccia») o di Bengodi (composto di
«bene» e di «godi») dove sugli alberi crescono i cibi
già cotti, dove scorrono fiumi di vino, dove si pensa solo a mangiare e a
divertirsi, dove la prigione esiste solo per chi lavora. A Bengodi (secondo
Boccaccio, che ne parla nel Decamerone)
... si legavano le vigne con
le salsicce, e avevasi un'oca a denajo e un papero per giunta. Et eravi una
montagna tutta di formaggio parmigiano grattugiato, sopra la quale stavan genti
che niuna altra cosa facevano che far maccheroni e ravioli, e cuocergli in brodo
di capponi, e poi gettavan quindi giù, e chi più ne pigliava
più se n'avea. E ivi presso correva un fiumicel di vernaccia, della
migliore che mai si bevve, senza avervi entro gocciol di
acqua...
Identica la descrizione di Cuccagna nella Storia di
Campriano Contadino, un'operetta apparsa per la prima volta nel secolo XVI e
continuamente ripubblicata, più o meno modificata, fino ai tempi
nostri:
... Io andai giù e 'ntrai in un bel giardino;
Con
salsicce le vigne son legate; Un fiume c'è; che è di perfetto
vino; Io n'ho bevuto certe scorpacciate! E cappon cotti van per quel confino;
Montagne v'è di cacio grattugiato, et una donna che fa maccheroni,
e
favvisi laggiù di gran bocconi...
Gli ospiti del paese di
Cuccagna potevano intrattenersi in piacevole compagnia:
... Et evvi
ancora di molte zitelle,
che seco stanno sempre a sollazzare,
che non
vedesti mai forse più belle!
Ì son che vi farian
meravigliare
con loro acconciature, e con gonnelle
che in quel paese
l'usan di portare,
con baci e gentilezze che ti fanno,
da non partirsi
loro di quest'anno...
Nella fantasia popolare il paese di Cuccagna
spesso si identifica e si confonde con altre immagini tradizionali, come quelle
del Paradiso Terrestre e dell'Età dell'Oro. Nel secolo XVI in un anonimo
Testamento Satirico si trova una descrizione del Paradiso simile ai paesi di
Cuccagna. L'autore vorrebbe entrare
... nel santo
Paradiso
là dove in canto e riso
triunfa infino ai cani
e
cento marzapani
si dan per un quatrino,
e con un sol terlino
si
compra un vitel cotto
con certo quel biscotto,
ch'è di pan
mellato
e quando uno è affamato
li piove manna in bocca
e
spesse volte fiocca
i sacchi di confetti
e son coperti i tetti
da
zalde inzuccherate...
Il paese di Cuccagna ha avuto larga fortuna nel
campo delle arti figurative. Le stampe popolari che ne illustravano le delizie
hanno avuto una enorme diffusione, e lo stesso tema è stato ripreso dalla
pittura colta, come sta a testimoniare fra l'altro un noto quadro di Bruegel. La
popolarità del mito di Cuccagna si è poi riflessa nei tradizionali
giochi delle feste paesane, dove viene innalzato l'albero di Cuccagna con appesi
prosciutti, mortadelle, polli. Anche nella letteratura infantile ha avuto echi
illustri: il paese dei Balocchi nel Pinocchio di Collodi è un paese di
Cuccagna ad uso dei bambini.
Di norma le utopie colte, come quella di
Tommaso Moro, sono assai più ricche di indicazioni politiche e assai
più polemiche nei confronti delle classi dominanti di quanto non lo siano
le utopie popolari sul genere del Paese di Cuccagna. Talvolta però anche
in queste affiora la protesta contro i ricchi e i potenti. Nel poemetto Capitolo
di Cuccagna della fine del secolo XVI si dipinge un paese senza distinzioni di
classe:
... Non c'è duca, né signore, né
conte,
ognun ci vive con la sua libertade:
o che bello paese, o che
bella fonte!...
Più esplicita è talvolta la polemica
sociale in quell'altra espressione dell'immaginazione popolare che è
rappresentata dal tema del Mondo alla Rovescia. Nel mondo alla rovescia il gioco
consiste appunto nello scambio paradossale delle funzioni, ed era evidentemente
molto facile raffigurare polemicamente rovesciate le gerarchie sociali. Eppure
anche qui l'effetto comico era cercato per lo più non tanto nel
capovolgimento dei rapporti sociali, quanto nella più innocua inversione
dei ruoli tra uomini e animali o tra uomini e cose nell'ambito della quotidiana
esperienza di lavoro (il bue che guida l'aratro trascinato da una coppia
contadini, il cavallo che ferra il piede del maniscalco, ecc.) oppure nello
stravolgimento del significato delle parole, nell'eloquio contraddittorio e nel
non-sense.
L'ETÀ DELL'ORO
La fantasia dell'uomo ha di volta in volta
proiettato in direzioni opposte, nel passato o nel futuro (o in un
«altrove» indefinibile, nell'al di là, per esempio), l'immagine
di un mondo perfetto dove la felicità regni senza ombre. L'aspirazione
alla felicità si colora così da un lato di nostalgia, dall'altro
di speranza: da un lato c'è il mito dell'età dell'oro, ossia di
una perduta felicità originaria, che l'uomo avrebbe sperimentato
obbedendo alle leggi della Natura; dall'altro c'è l'utopia, ossia il
progetto di una società ben organizzata, ragionevole e pacifica oppure
l'attesa del «Millennio», ossia la speranza nell'instaurazione finale
di un Regno della Giustizia ad opera di Dio o di potenze
soprannaturali.
L'immaginazione utopistica e la speranza millenaristica
sono la polemica negazione della società esistente e suggeriscono la
possibilità o la necessità (e talvolta l'urgenza) di cambiare in
meglio leggi e istituzioni sociali: in un modo o nell'altro sono legate all'idea
di progresso. Il mito dell'età dell'oro implica invece la convinzione che
solo la Natura sia di per sé buona, e quindi l'idea che la storia, come
progressivo allontanamento dalla semplicità originaria, sia
fondamentalmente un processo di corruzione e degradazione.
In Occidente
questa idea si trova già, nell'VIII secolo a.C., nel poema di Esiodo Le
opere e i giorni. Esiodo costruiva anzi tutta una fantasiosa periodizzazione
della storia umana, destinata poi a diventare un luogo comune della letteratura
europea: all'età dell'oro, quando, sotto il governo del dio
Saturno-Crono, gli uomini vivevano nell'abbondanza senza lavorare, godendo dei
doni generosamente dispensati dalla Natura, sarebbe seguita un'età
dell'argento, presieduta da uno dei figli di Crono, Giove-Zeus, durante la quale
l'uomo avrebbe dovuto cominciare a lavorare per sostenersi; poi un'età
del bronzo, durante la quale gli Dei avrebbero abbandonato il mondo per
ritirarsi nei cieli e gli uomini sarebbero rimasti in balia del male; infine
un'età del ferro, in cui si sarebbero scatenati i peggiori istinti
dell'uomo, e la natura stessa sarebbe divenuta più avara dei suoi
doni.
Il mito di un'età straordinariamente felice, che avrebbe
preceduto i tempi storici, ricorre in molte altre tradizioni culturali. Anche in
Asia orientale, per esempio, sono state immaginate società perfette,
senza tensioni e senza ingiustizie, e in genere queste fantasie non erano
proiettate nel futuro: il pensiero cinese classico, confuciano o taoista,
guardava piuttosto al passato per collocare i suoi ideali di convivenza
civile.
Il passato dei Confuciani era però ben diverso da quello dei
taoisti. Per i Confuciani la perfezione del vivere sociale andava identificata
negli anni dei primi sovrani della dinastia Chou (poco dopo il Mille a.C.). In
quei tempi sovrano e sudditi, genitori e figli, sapevano tutti esattamente quali
fossero i doveri connessi con il loro «nome», ossia con il loro posto
nella società. La nostalgia di Confucio per questo passato nasconde
l'aspirazione ad una organizzazione sociale nettamente gerarchica e di tipo
feudale, ed è evidente che la perfezione attribuita a quei supposti tempi
felici è del tutto immaginaria. Quella indicata da Confucio, però,
non si può propriamente definire un'«età dell'oro»
analoga a quella della tradizione occidentale, perché essa non
rappresenta affatto un momento di primitiva innocenza, uno stato di natura,
quanto piuttosto una cultura che faticosamente aveva raggiunto, grazie anche
alla saggezza di alcuni personaggi, un meraviglioso equilibrio. L'atteggiamento
di Confucio non è insomma diverso da quello di chi affermasse che solo
nell'Italia dei Comuni o nell'Atene di Pericle l'uomo era felice.
Del tutto
diverso era l'atteggiamento dei Taoisti. Anche costoro vedevano la perfezione
nel passato; ma non in un determinato momento della storia, bensì prima
ancora che la storia avesse inizio. Quello dei Taoisti, anzi, è
l'atteggiamento di chi vede proprio nella storia la decadenza della
società. All'inizio, essi dicono, non si parlava di virtù e di
vizio e tutti erano naturalmente buoni; non si distinguevano sovrani e sudditi,
padri e figli, e tutti conservavano naturalmente un sentimento d'amore per gli
altri. Quella dei Taoisti, dunque, può essere a giusto titolo considerata
un'età dell'oro, nel senso che questa espressione ha in
Occidente.
Per gli Indiani l'età dell'oro era rappresentata dalla
prima delle quattro ere in cui si divide il tradizionale sistema ciclico del
tempo cosmico. Il suo nome è krta o satyuga e la sua durata è di
1.728.000 di anni. Come nelle analoghe raffigurazioni occidentali questa prima
età ha visto la pace, la giustizia, la felicità regnare nel mondo,
perché il dharma, cioè il principio morale per cui ognuno adempie
al suo specifico compito nell'ordine perfetto dell'universo, era totalmente
rispettato.
A differenza però del concetto occidentale di età
dell'oro, per il quale quell'antico periodo di felicità è
irrimediabilmente perduto, l'era krta, inserendosi in uno svolgimento ciclico,
è destinata a ricrear si quando un nuovo mahayuga (= «grande
era») prenderà il via dopo il tremendo mahapralaya (= «grande
distruzione») con cui si concluderà quello attualmente in
corso.
L'ERA DEL SOGNO
Nella cultura occidentale, sebbene esistano
modi diversi di considerare la storia, l'idea del cambiamento è familiare
a tutti. Altrettanto familiare è quella dello sviluppo, che pone nel
passato le condizioni del futuro. Questo atteggiamento non è sempre
condiviso dalle altre culture. Molte società «primitive», per
esempio, non conservano in maniera organizzata la memoria dei fatti accaduti e
cercano di ignorare i mutamenti avvenuti o che possono avvenire. Queste
società non negano lo scorrere del tempo, e non ignorano che c'è
un prima e un poi, ma tendono a regolare la propria vita secondo un modello il
più possibile stabile e vogliono che il poi ricalchi il prima. Sono
consapevoli di avere un passato, ma il solo passato che abbia per loro un valore
è l'età mitica delle origini. è su questo passato
antichissimo che ogni generazione deve modellare i suoi atti, ripetendo
incessantemente ciò che le è stato trasmesso dagli antenati. In
questo senso le azioni degli uomini non producono cambiamenti, non fanno storia,
ma perpetuano un modello tradizionale.
Un esempio di questo atteggiamento
si trova presso le popolazioni indigene australiane: la cosiddetta «era del
sogno», l'unica epoca veramente creativa, quando le mitiche gesta degli
antenati hanno foggiato il mondo, rappresenta un'età lontana,
indefinibile, fuori del tempo. Da allora non è più avvenuto nulla
di nuovo, nulla che non fosse la ripetizione delle azioni degli antenati. Da un
lato l'era del sogno non ha alcuna continuità con il presente;
dall'altro, invece, vive inalterabile nel presente. Così, quando un
giovane viene iniziato, diventando a tutti gli effetti membro del gruppo degli
uomini, viene ammesso alla conoscenza del passato; ma durante il rito egli
impersona gli antichi eroi e diviene compartecipe di quel passato. Una sorta di
testimonianza fisica dell'era del sogno e un segno della sua persistenza nel
presente sono i churinga, pezzi di legno o di pietra a forma approssimativamente
ovale, che rappresentano il corpo degli antenati. Vengono custoditi
religiosamente e trasmessi di generazione in generazione anche se, in caso di
necessità, c'è la possibilità di costruirne anche di
nuovi.
L'ATTESA DEL MILLENNIO
... E vidi un angelo scender dal cielo, che
aveva le chiavi dell'abisso e una gran catena nella sua mano. E afferrò
il drago, l'antico serpente che è il diavolo e Satana, e lo legò
per mille anni, e lo gettò nell'abisso, e serrò e sigillò
l'abisso sopra di lui, affinché non seducesse più i popoli, fino a
che fossero compiuti i mille anni [...] E vidi le anime di coloro che erano
stati decapitati per la propria fede in Gesù [...] rivivere e regnare con
Cristo mille anni. Gli altri morti non sarebbero tornati a vivere finché
non fossero compiuti i mille anni. E questa è la prima risurrezione.
Beato e santo chi ha parte nella prima risurrezione! Su loro la morte seconda
non ha potere, e saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui mille
anni...
Da questo brano dell'Apocalisse di Giovanni (20, 1-6)
è nata la credenza di un ritorno di Gesù Cristo prima della fine
del mondo, e non dopo. Prima della definitiva instaurazione del Regno di Dio
(secondo tale credenza), Gesù tornerebbe sulla Terra per regnarvi mille
anni con tutti i santi risorti. Questo regno di Gesù, però, ossia
«Il Millennio» per antonomasia, non è (è bene ripeterlo)
il Regno di Dio che deve venire alla fine dei tempi; è un regno vero, non
metaforico, un regno instaurato su questa Terra, e quindi nel tempo, nella
storia, non nell'al di là. Il Millennio, insomma, è l'epoca della
storia in cui i giusti, i perseguitati, i vinti di tutte le epoche avranno
finalmente la loro rivincita, e potranno vedere il loro ideale di giustizia,
sempre deriso, finalmente realizzato.
La credenza nel Millennio, ossia la
speranza di poter costruire prima o poi sulla Terra una società di
giusti, è emersa più volte nella storia del Cristianesimo e ha
ispirato diversi movimenti a sfondo profetico, detti appunto
«millenaristici». Di solito questi movimenti, per lo più
combattuti e repressi come ereticali, erano caratterizzati da una forte
componente di protesta sociale: predicavano la povertà e condannavano la
ricchezza (specialmente la ricchezza accumulata e ostentata dalla Chiesa) e si
richiamavano a forme di vita comunitaria quali si riteneva che esistessero nella
Chiesa delle origini.
Per estensione, col termine «millenarismo»
può essere indicato qualsiasi movimento, dentro o fuori il Cristianesimo,
basato sulla credenza nel futuro avvento di un'era di giustizia che liberi gli
uomini dal dolore, dall'oppressione e dal bisogno. Tra gli Indiani del Nord
America, per esempio, gli ultimi tentativi di resistere alla penetrazione e al
dominio dei bianchi si sono nutriti appunto di credenze millenaristiche. Il
più noto dei movimenti millenaristici indiani è forse quello della
Danza degli Spettri, così chiamato perché i suoi seguaci
immaginavano che la danza potesse avvicinare l'avvento della nuova era, segnata
dal ritorno dei morti. Già alla fine del secolo XVIII un profeta delaware
aveva predicato qualcosa del genere, invocando tra l'altro la cessazione delle
guerre tra le tribù e invitando gli Indiani a rinunciare agli alcoolici e
in genere agli usi e costumi acquisiti dai bianchi.
Un culto millenaristico
dei pellerossa, invece, è rappresentato dalla religione del Peyote (un
fungo contenente sostanze allucinogene, consumato durante le cerimonie sacre):
si tratta di una forma di sincretismo religioso che mescolava alla tradizione
elementi tratti dal cristianesimo. Anche qui oggetto dell'attesa era un
rinnovamento del mondo e il ritorno alle forme di vita precedenti l'arrivo dei
bianchi. Mentre nella Danza degli Spettri il ritorno a forme di vita
tradizionali era immaginato come rottura violenta con il mondo dei bianchi, la
religione del Peyote prediceva l'avvento pacifico della nuova era.
Intorno
al 1890 un altro profeta, Wowoka, cominciò a predire che con il ritorno
dei morti i bianchi sarebbero stati spazzati via da un vento violentissimo, che
sarebbero scomparse le malattie, la miseria e la morte, e che le praterie si
sarebbero nuovamente riempite di bisonti. Wowoka non pensava affatto a predicare
una guerra contro i bianchi, ma le sue profezie furono intese come un invito
alla rivolta. E la rivolta finì in un massacro.
Millenaristici sono
anche i Cargo cult o culti delle merci (l'inglese cargo significa
«carico» di merci, ma anche il mezzo che lo trasporta, nave o aereo)
diffusi in alcune isole della Melanesia.
Anche i Cargo cult sono legati
all'idea che il ritorno dei morti possa spazzare via il dominio dei bianchi.
Secondo una credenza precedente all'arrivo degli Europei, gli spiriti degli
antenati erano soliti tornare di quando in quando dall'isola dei morti a bordo
di una imbarcazione per visitare e beneficare i discendenti.
Questi spiriti
erano bianchi d'aspetto, come gli Europei, ma soprattutto come i marinai delle
navi che, da quando gli Europei si erano stanziati nelle isole della Melanesia,
portavano regolarmente merci di ogni sorta.
Da dove venivano le
merci?
Gli indigeni non ne avevano la minima idea, ma cominciarono a
sospettare che venissero proprio dall'isola dei morti, dove gli antenati le
avrebbero fabbricate per loro.
Ma allora, gli Europei, che si appropriavano
sistematicamente di tutti i carichi in arrivo, li stavano derubando.
Prima
o poi sarebbe arrivato il cargo giusto, gli spiriti degli antenati sarebbero
finalmente riusciti a consegnare i loro doni ai discendenti, e per i bianchi
sarebbero stati guai...
Le prime manifestazioni dei Cargo cult sono apparse
agli europei stupefacenti. Quasi all'improvviso gli indigeni smettevano di
lavorare, davano fondo alle riserve di denaro e consumavano nel giro di pochi
giorni le provviste alimentari. Poi rimanevano in attesa dell'arrivo del cargo,
che, secondo la profezia, avrebbe dovuto portare loro merci in tale
quantità da renderli ricchi. Cosi, quando un piroscafo arrivava davvero,
gli indigeni esigevano la consegna del carico. All'ovvio rifiuto delle
autorità, prendevano ad agitarsi e a protestare, sino a quando non si
convincevano che quello non era il cargo giusto e che bisognava aspettarne un
altro.
MORTE, SOPRAVVIVENZA E RESURREZIONE
Sebbene ogni uomo sia dotato di un istinto
di conservazione che in ogni circostanza lo spinge (se può) a scegliere
la vita, all'idea della morte (della propria morte, non di quella degli altri o
di una generica «fine del mondo») ciascuno reagisce in modi diversi:
talvolta essa appare come un evento inconcepibile o intollerabile; altre volte,
invece, è accettata serenamente come naturale e opportuna conclusione del
proprio ciclo vitale, o addirittura è desiderata come liberazione dalle
sofferenze e dalle umiliazioni di questa vita. Ma, oltre che oggetto di
esperienza personale, la morte costituisce un tema fondamentale sia della
riflessione scientifica e filosofica, sia dell'immaginazione religiosa:
l'atteggiamento nei confronti della morte è uno dei tratti più
significativi di qualsiasi tradizione culturale.
Non sempre la morte
è stata considerata una componente ineliminabile della nostra esistenza
biologica. Nelle religioni ebraico-cristiane, per esempio, è intesa come
conseguenza del peccato originale, e cioè come una condizione acquisita,
non originaria, dell'uomo. Questa idea della perdita dell'immortalità a
causa di una colpa compiuta da un qualche antenato è presente in molte
culture. Diversi miti degli indigeni sudamericani attribuiscono la vecchiaia e
la morte alla violazione di un tabù, e cioè all'aver udito o visto
o toccato qualcosa di proibito. O, viceversa, l'impossibilità di
recuperare la vita o la giovinezza perdute è spiegata con il fatto di non
aver udito o visto o toccato qualcosa che avrebbe avuto il potere di
restituirle.
In alcune culture l'idea della morte sembra sempre presente.
In diversi gruppi di Eschimesi i malati facevano ben poco per guarire,
limitandosi per lo più ad attendere la morte: - è il nostro
destino -, dicevano - non può essere altrimenti -. La morte era
dappertutto: poteva sorprenderli durante la caccia, per un incidente, o durante
una prolungata bufera di vento e di neve, per l'impossibilità di andare
alla ricerca di cibo. Facile a perdersi, la vita sembrava cosa di poco
conto.
Tra gli Indiani delle praterie nordamericane la morte era
considerata come l'estrema occasione offerta al guerriero per dar prova del
proprio coraggio: perciò una morte in battaglia era considerata un
privilegio. Si dice che un capo degli Ojibway, ferito a morte in uno scontro,
abbia intonato un canto:
... L'odore della morte sento l'odore della
morte davanti al mio corpo...
Poi, rivolto ai compagni, avrebbe
detto: - Quando tornerete, intonate questo canto: che le donne danzino e voi
dite loro come sono morto -.
Gli Zuñi (un ramo dei Pueblo) cercano
invece, per quanto possono, di allontanare l'idea della morte. I morti vengono
invitati ad abbandonare il villaggio e i sopravvissuti a controllare il proprio
dolore, a dimenticare, a tornare al più presto possibile alla vita
normale. Quelli che non riescono a consolarsi vengono sottoposti ad appositi
riti di purificazione.
Naturalmente l'atteggiamento nei confronti della
morte dipende anche da ciò che si immagina che avvenga dopo la morte. In
molte culture la morte è considerata come un momento di crisi nella
storia della persona, ma niente di più: la morte, in sostanza, sarebbe il
momento in cui l'anima (o spirito) si separa dal corpo, continuando però
a vivere per suo conto. La credenza nella sopravvivenza dell'anima è una
delle possibili manifestazioni del comune desiderio di autoconservazione, a cui
ripugna l'idea dell'annientamento di sé e che trova conforto nel
figurarsi una seconda vita oltre quella naturale, e un altro mondo oltre quello
di cui abbiamo esperienza.
Credere nell'anima quale principio vitale
distinto dal corpo e quale sede delle attività psichiche non vuol dire
credere necessariamente nella sua sopravvivenza o, ancor meno, credere nella
sopravvivenza di tutte le anime. Ad esempio gli antichi Egizi (che attribuivano
agli uomini non una, ma tre anime o principi vitali) consideravano
l'immortalità una semplice possibilità, che solo adeguate
cerimonie magiche potevano assicurare, e poiché tali cerimonie
richiedevano sacerdoti e mausolei, solo i ricchi e i potenti potevano aspirarvi.
Analogamente i Nambikwara (una tribù di cacciatori nomadi del Brasile)
credono che solo i maschi adulti possano sopravvivere alla morte (trasformandosi
in giaguari), mentre le anime delle donne e dei bambini sono destinate a
dissolversi nel vento.
Anche la credenza nella sopravvivenza dell'anima non
sempre coincide con la credenza nella sua immortalità. La sopravvivenza,
infatti, può essere temporanea. Frequentemente la vita dopo la morte
è immaginata come una trasfigurazione o metamorfosi: abbiamo visto come,
secondo i Nambikwara, i maschi da morti si trasformino in giaguari, ma (per
restare agli esempi già fatti) anche gli antichi Egizi immaginavano che i
morti potessero tramutarsi (ma solo di giorno) in falchi, gigli, caproni, e
così via. Un tipo particolare di metamorfosi (dal greco
metamòrphosis = «trasformazione» composto di metà =
«dopo», «oltre» e di morphé = «forma»)
è la metempsicosi (da metempsychousthai = «passare da uno spirito
all'altro», composto di metà e di psyché = «anima»,
«spirito»), che si potrebbe definire una metamorfosi a scopo di
purificazione: al momento della morte del corpo in cui è ospitata,
l'anima passa in un altro corpo, e da questo in un altro ancora, e così
via fino a quando non si sia definitivamente liberata di ogni macchia e di ogni
compromissione con la materia.
è abbastanza frequente l'idea che le
anime dei morti stiano in qualche posto, sulla terra, sotto terra, o in cielo,
ma comunque al di là del mondo conosciuto. Nel tentativo di individuare
la sede di quest'altro mondo e di definirne i caratteri la fantasia religiosa si
è esercitata senza freni in ogni epoca. Talvolta l'altro mondo è
stato immaginato del tutto simile al mondo in cui viviamo, talvolta, invece,
radicalmente diverso. Ci sono religioni che considerano il destino dei morti
legato alle azioni da loro compiute in vita. L'attesa del giudizio divino e
l'idea di un premio o di una punizione dopo la morte sono particolarmente
importanti nelle religioni del ceppo ebraico-cristiano-islamico. La presunzione
di graduare le condizioni dell'oltretomba alla disparità dei meriti e
delle colpe degli uomini, porta a sdoppiare l'altro mondo in Paradiso e Inferno,
e poi a generare una quantità di altri luoghi immaginari, il Purgatorio,
il Limbo, ecc., intermedi tra i due o complementari ad essi. La maggioranza
delle religioni dette «primitive» ignora invece il problema delle
ricompense e non si aspetta alcuna giustizia dalla
divinità.
L'ALDILÀ DI TIKOPIA
Tikopia è un'isola della Melanesia,
nel Pacifico meridionale. Gli indigeni hanno un interessante complesso di
credenze relativo all'al di là e al destino delle anime. Secondo loro
ogni persona è dotata di un'anima detta ora, che è una specie di
immagine immateriale del corpo. Dopo la morte l'anima diventa un'entità
indipendente dal corpo, detta atua. L'anima rimane vicina al corpo fino al
momento della sepoltura, poi viene presa in consegna dalle anime degli antenati,
che la conducono in una palude. Qui viene immersa nell'acqua e due spiriti la
masticano facendone colare la sostanza di cui è fatta. Questa sostanza
viene poi raccolta in una zucca e plasmata nuovamente in forma umana. Solo
adesso l'anima diventa uno spirito capace di partecipare alla vita dell'al di
là, di viaggiare nel cielo e di stabilirsi in una sua sede.
Le sedi
possibili sono molte: alcune nell'Oceano, altre in terre lontane, altre ancora
(la maggior parte) nei cieli. I cieli sono costituiti da dieci strati. Negli
strati più alti stanno gli antenati più importanti, in quelli
più bassi la gente comune. Alcuni di questi cieli hanno strane
particolarità o sono destinati da speciali categorie di persone: vi sono
cieli instabili, altri che pendono, c'è un cielo per gli spiriti zoppi,
uno per le donne nubili, uno per le sposate. Gli spiriti si distribuiscono nelle
diverse sedi secondo precisi criteri: la condizione sociale, il sesso, i legami
di parentela, ecc. Nel complesso l'al di là di Tikopia riproduce il mondo
di qua, con tutte le sue distinzioni e le sue gerarchie: sembra che la sua
funzione sia di rassicurare gli indigeni circa la sopravvivenza non solo delle
loro anime individuali, ma anche dell'organizzazione sociale in cui sono
abituati a vivere.