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ITINERARI - LE ORIGINI - ECOLOGIA - L'UOMO E L'AMBIENTE

LA PESCA

La pesca è la forma più diretta di sfruttamento degli ecosistemi acquatici da parte dell'uomo. Le nostre relazioni con queste sorgenti di alimento, benché coinvolgano di anno in anno sempre più grandi quantità di energia, sono però ancora estremamente primitive. L'uomo infatti si comporta nei confronti degli ecosistemi acquatici come un enorme carnivoro predatore delle altre popolazioni: un carnivoro che distrugge intere popolazioni senza altro controllo che la richiesta del mercato.
Il prodotto del mare può essere raccolto anche in grandi quantità sulla riva stessa del mare. La pesca tuttavia si esercita specialmente in mare aperto; non a caso il problema della pesca si lega strettamente a quello delle imbarcazioni necessarie. Da quando l'uomo va alla pesca egli deve disporre di mezzi di trasporto adatti. È l'imbarcazione che determina la possibilità di accesso a certi tipi di pesca, la qualità e il numero delle prede. La possibilità di disporre di imbarcazioni sempre più capaci, maneggevoli, rapide e di attrezzature per la conservazione del pesce, ha fatto passare la pesca da attività personale o familiare e quindi artigiana, ad impresa industriale. Più la pesca è praticata da bastimenti potenti, da equipaggi numerosi ed addestrati, più i suoi costi sono elevati e maggiori sono gli investimenti richiesti: più alti naturalmente sono anche i profitti.
Le barche a remi o a vela, che ancora vediamo sulle nostre coste, e quelle a motore non superiori a 20 m di lunghezza e a 10 tonnellate di portata sono imbarcazioni destinate all'artigianato familiare o alla piccola impresa.
Pescare o cacciare in mare non è un semplice problema di attrezzature come reti, barche ecc. È solo la profonda conoscenza della preda che si intende cacciare e pescare, del suo ambiente, dei periodi più adatti alla pesca che permette di riuscire nell'intento.
Non tutte le civiltà e gli aggregati sociali hanno dimostrato una uguale attitudine a vivere in simbiosi col mare. Pochissime sono riuscite ad assicurarsi una evoluzione continua capace di accrescere la conoscenza del mare e quindi la capacità di sfruttarlo. Così, ad esempio, sulle coste dell'Africa nera dal Senegal al Congo è sviluppatissima la pesca da parte degli indigeni; egualmente i pescatori malesi spaziano nel golfo del Bengala a quello del Siam fino all'Insulindia e alle Filippine. Ma queste civiltà, che hanno colonizzato migliaia di chilometri di costa, sono da secoli statiche. In possesso di tecniche eccezionali per abilità e intelligenza, esse non hanno mai affrontato l'alto mare e son rimaste collegate alla loro terra o comunque ad un ambiente biologico e fisico simile a quello da dove erano partiti.
Circa un secolo fa quasi tutti erano convinti, compresi molti scienziati, che le risorse del mare e degli ecosistemi acquatici fossero inesauribili. Ma allora non si era ancora organizzata la pesca con sistemi industriali, con vere e proprie flotte di pescherecci dotati di grandi periodi di autonomia, che dai primi decenni del nostro secolo hanno sistematicamente «saccheggiato» le popolazioni di pesci commestibili. Oggi tutti sanno che diminuiscono le riserve di pesce nei mari: l'intenso sfruttamento delle risorse dovuto ai metodi di pesca industriale non permette la ricostituzione delle biomasse che vengono continuamente sottratte.
Lasciato a se stesso, l'ecosistema tenderebbe irresistibilmente a ricostruire le sue riserve animali e vegetali. Che la causa sia proprio la continua attività delle flotte di pescherecci è stato dimostrato dall'aumento del prodotto pescato che si è verificato dopo i forzati periodi di riposo delle due guerre mondiali.
L'intensità della pesca non dovrebbe superare determinati limiti sia nei mari e tanto più nei laghi e stagni; dovrebbero esistere controlli come accade per la caccia e lo sfruttamento dei campi coltivati. Invece la quantità di pesce pescato aumenta di anno in anno: nel 1948 si erano pescate meno di 20 milioni di tonnellate, nel 1965 si erano superati i 50 milioni di tonnellate e nel 1988 i 100 milioni di tonnellate.
Gli ecosistemi acquatici, comparati con quelli terrestri, sono produttori di proteine molto più efficienti. E soprattutto tale produzione è estremamente più rapida. Molti scienziati guardano a questa sorgente come ad una possibile soluzione dei problemi alimentari posti dall'accrescimento vertiginoso della popolazione umana. Tecniche più raffinate che non quelle della semplice cattura casuale del pesce erano già state messe a punto nell'Europa medioevale e nell'antico Oriente. Laghi e stagni artificiali (gore di mulini nel Medio Evo europeo o risaie nell'antico Oriente) venivano già sfruttati per una sorta di piscicoltura che coinvolgeva anche un controllo dell'ambiente acquatico. Una volta formato il bacino artificiale ed insediatosi l'ecosistema, ci si attende che la sua produttività aumenti col passare del tempo. Quando l'ecosistema è invecchiato, tale produttività scende rapidamente, allora si svuota lo stagno e si inizia una nuova successione di stadi giovani, produttivi. Una specie di «rotazione» come quella applicata in agricoltura.
Le moderne tecniche di acquacoltura, sfruttando anche l'enorme fecondità delle popolazioni di pesci, potrebbero dare elevatissime rese: uno stagno di 100 are di superficie in un anno può produrre sino a 4-5 q di pesce commestibile.
L'importanza data all'acquacoltura oggi è comunque confermata dalla presenza di piani di sviluppo e di incentivazione messe a punto dalla FAO.

LA PESCA DEL TONNO

I tonni hanno un grande valore commerciale perché le loro carni sono assai pregiate, in particolare quelle della parte addominale note col nome di ventresca. La carne di questo pesce viene consumata fresca, salata o sott'olio. Quest'ultima utilizzazione è più frequente e dà vita ad un'importante industria per l'inscatolamento.
La cattura dei tonni può avvenire con ami o con trappole fisse caratteristiche chiamate tonnare. Una tonnara è formata da una serie di compartimenti comunicanti, ma all'occorrenza chiudibili, che terminano nella "camera della morte", un vano che ha anche il fondo formato da rete. La tonnara è ancorata al fondo ed è collegata a terra con una rete trasversale lunga circa 1 km. Questo attrezzo collocato nei punti di passaggio dei tonni, li obbliga ad entrare nei diversi scomparti e ad introdursi nella camera della morte; quando qui si è raccolto un buon numero di pesci viene sollevato il fondo finché i tonni non affiorano. Allora ha inizio la mattanza, cioè l'arpionamento degli animali che vengono tratti sulle imbarcazioni.

LA PESCA DEL PESCESPADA

Il pescespada è un grosso sgombroide (come il tonno) che può raggiungere la lunghezza di 4 m e il peso di 3 quintali. Possiede una caratteristica mascella superiore prolungata che assomiglia ad una lama rigida e robusta, che giustifica il nome attribuito a questo pesce. È un veloce nuotatore; si avvicina alle coste verso la primavera per la riproduzione.
Le carni del pescespada sono assai apprezzate e consumate fresche. La pesca si pratica con barche di particolare struttura che hanno un altissimo albero su cui sta di vedetta un pescatore e una stretta e lunga passerella a prua. Quando il pesce viene avvistato l'imbarcazione lo segue finché il fiociniere collocato sulla cima della passerella non lo colpisce con una fiocina apposita, la draffiniera. Questo strumento ha alette apribili come il rampone, ma è più maneggevole; è munito di sagola. La pesca si può praticare anche con la lenza.
In Italia la pesca al pescespada è comune lungo le coste calabresi e siciliane dello stretto di Messina.

L'ISOLA DI PASQUA

L'isola di Pasqua è un'isola del Pacifico meridionale, a oriente dell'arcipelago polinesiano, ma distante da questo e solitaria.
La vita dei suoi abitanti, oggi quasi completamente estinti, era perciò molto legata all'ambiente marino che li circondava. Sulla superficie dell'isola, di origine vulcanica, non cresceva un solo albero. Vi si trovavano solo arbusti dai quali era possibile ricavare statuette, spiedi per la caccia e asce, ma che non erano adatti per costruire manufatti di grandi dimensioni. Qualche grosso tronco poteva arrivare solo trasportato dalle correnti marine e naturalmente era una grande fortuna per chi riusciva ad impossessarsene. Ma questi casi non erano molto comuni e così il legno era considerato un materiale prezioso; se ne consumava il minimo indispensabile e quello che avanzava veniva usato per ornamenti e tavolette da scolpire con disegni. A causa della scarsità del legno le imbarcazioni oltre che piccole erano anche piuttosto fragili e ciò costituiva una grave limitazione per la pesca.
I primi colonizzatori dell'isola furono i Polinesiani, abilissimi navigatori che vi giunsero nella loro continua espansione verso oriente; benché abituati a costruire lunghe canoe, una volta sbarcati a Rapanui (isola di Pasqua) dovettero accontentarsi di imbarcazioni molto più piccole e rozze proprio per la mancanza del materiale.
I navigatori europei che videro la civiltà dell'isola nel periodo del suo splendore raccontarono che le canoe erano formate da tante tavolette di legno cucite insieme. Perfino le pagaie dovevano essere costruite in due pezzi per mancanza di legni abbastanza lunghi. Questo fatto spiega in parte perché presso gli abitanti dell'isola la pesca non avesse quell'importanza che aveva invece presso gli altri Polinesiani.
Nonostante tutto la pesca costituiva sempre la principale attività degli uomini nel periodo estivo; che questo fosse un momento molto importante è testimoniato dal fatto che quasi tutta la mitologia dell'isola di Pasqua parla di viaggi per mare ed è costituita da leggende e racconti che hanno come protagonisti i pescatori. Un'altra testimonianza delle abitudini di pesca è rimasta anche nelle numerose raffigurazioni di pesci scolpite nella roccia.
La pesca del tonno era praticata al largo, mentre dagli scogli si pescavano con ami di pietra o di osso numerose specie di cui le acque intorno all'isola erano ricche. Dovevano essere praticate anche forme di pesca collettive; si spiega così la presenza di grandi reti in fibra di gelso e la conoscenza delle tecniche necessarie per la costruzione di canestri. Per manovrare questi strumenti occorrevano senza dubbio gruppi numerosi di individui.
Una notevole importanza aveva la raccolta di crostacei e di molluschi; questa attività era svolta prevalentemente dalle donne e dai bambini che non temevano di avventurarsi sulle scogliere anche di notte per catturare i pesci abbagliandoli con le luci delle torce. Un altro alimento tratto dal mare era costituito dalla carne delle testuggini che nuotano al largo dell'isola. Così gli indigeni, nuotando dietro di esse, potevano spingerle verso le reti.
Ma nessun popolo, per quanto viva a contatto del mare, può sostentarsi solo coi prodotti della pesca. Nell'economia degli abitanti dell'isola anche la coltivazione di giardini e orti era fondamentale. Quando i Polinesiani arrivarono sull'isola di Pasqua, avevano molto probabilmente con sé germogli dell'albero del pane e noci di cocco che nei paesi di origine costituivano l'elemento essenziale dell'alimentazione. A causa del clima più freddo però questi alberi non resistettero e gli abitanti dell'isola di Pasqua dovettero accontentarsi di utilizzare i vegetali che erano sopravvissuti alla traversata o che già esistevano nell'isola: banani, tari, patate dolci, gelsi da carta, canna da zucchero.
La coltivazione di queste piante era molto laboriosa perché il terreno di origine vulcanica diventava molto fertile solo a prezzo di continui lavori. Si dovevano togliere dal campo le pietre superflue, rincalzare le zolle di terreno intorno ad ogni piantina per proteggerla dal caldo e combattere contro il propagarsi continuo delle gramigne. Tutti questi lavori erano fatti con il solo aiuto di un palo o di una pietra acuminata.
Un grosso problema era dato dalla mancanza di acqua. Poiché nell'isola non esistevano fiumi o ruscelli si era sempre in lotta per impedire al sole di seccare i raccolti. Così si coprivano i campi con un sottile strato di erba o si scavano solchi per trattenere le acque piovane. Un altro metodo consisteva nel coltivare le piante più sensibili, come i banani o i gelsi, in pozzi scavati vicino alla capanna o in cavità di rocce ricche di detriti vegetali e quindi di humus.
Naturalmente la mancanza di fiumi o ruscelli creava anche un grosso problema per l'approvvigionamento idrico dei villaggi: esistevano nelle cavità vulcaniche sulle montagne alcuni laghetti ma erano quasi inaccessibili. Per questo gli abitanti preferivano utilizzare l'acqua piovana in recipienti di zucca o quella delle sorgenti che sgorgavano in diversi punti della costa. Queste acque però affioravano così vicino al mare da risultare salmastre.

LA SCOPERTA DELL'ISOLA DI PASQUA

L'isola di Pasqua ebbe questo nome perché fu avvistata per la prima volta da un navigatore europeo la domenica di Pasqua del 1722. A quei tempi l'isola era abitata da una popolazione di ceppo e di lingua polinesiana che probabilmente comprendeva 3 o 4 mila individui. Gli antenati di questo popolo dovevano essere giunti sull'isola nel corso del XII secolo e l'avevano chiamata Rapanui.
Dopo la scoperta altri viaggiatori europei fecero sosta nell'isola introducendovi malattie che a poco a poco decimarono gli indigeni; con le successive spedizioni dei mercanti di schiavi, che prelevavano gli abitanti per portarli a lavorare nell'estrazione del guano in Perù, la popolazione dell'isola scomparve. Cento cinquant'anni dopo la scoperta europea non vi erano più che un centinaio di indigeni. Gli attuali abitanti dell'isola non hanno più alcun legame con la civiltà polinesiana.

LE STATUE DELL'ISOLA DI PASQUA


Per molto tempo le grandi statue di pietra dell'isola di Pasqua costituirono un enigma perché sembrava impossibile che potessero essere state scolpite e trasportate da indigeni che non avevano a disposizione né attrezzi in ferro né sistemi adatti al trasporto. La maggior parte delle statue è stata scolpita nel tufo, materiale facile da lavorare, e poiché è stata ritrovata la cava dove venivano preparate, è anche possibile rendersi conto dei vari momenti del lavoro. Nella cava infatti vi sono ancora decine di statue incomplete: sembra anzi che per qualche motivo i lavori siano stati interrotti improvvisamente.
Non si sa quale potesse essere il significato di queste statue. Anche la disposizione non era casuale dal momento che molte di esse erano state collocate lungo tutto il perimetro dell'isola con il dorso rivolto verso il mare. Con il crollo della cultura dell'isola il significato delle statue è andato perduto.
Esplorazioni: il mistero delle grandi statue dell'isola di Pasqua

BALENE E CAPODOGLI

Le balene sono grossi mammiferi che si sono adattati all'ambiente acquatico. Gli zoologi li classificano nell'ordine dei cetacei. Questi a loro volta sono divisi in due gruppi: gli Odontoceti che sono dotati di denti e i Misticeti che ne sono privi. Agli Odontoceti appartengono i capodogli; ai misticeti appartengono le balene propriamente dette (balene franche) e le balenottere. Comunemente con il termine di «balena» si indicano indifferentemente gli uni e le altre. Le differenze tuttavia sono notevoli.
Le balene sono animali socievoli che vivono prevalentemente nelle regioni settentrionali dell'Antartico e del Pacifico da cui migrano periodicamente, allo sciogliersi dei ghiacci. Questi mammiferi generano un solo individuo per volta, solo raramente due, che allattano per circa sette mesi, proiettando il latte direttamente in bocca ai balenotteri. Alla nascita un balenottero misura circa 6 m e pesa 6 t. Poiché respirano aria questi animali sono costretti ad emergere periodicamente (ogni 15, talvolta 30 minuti), ed emettono in questa occasione un getto di aria calda e umida che a contatto con l'aria fredda esterna assume l'aspetto di uno zampillo d'acqua. Le balene si nutrono riempendo d'acqua l'enorme bocca ed espellendola attraverso i fanoni (lamine ossee che pendono dal palato) che funzionano come un filtro e trattengono piccoli pesci, molluschi, crostacei.
La balena franca, nonostante la sua mole (può superare i venti metri di lunghezza e le cento tonnellate di peso), è una bestia paurosa. È la balena cacciata con maggior accanimento nei secoli passati: dalla fine dell'Ottocento la specie è quasi estinta ed infatti oggi si cacciano in prevalenza le balenottere.
Le balenottere hanno un corpo più snello, ma alcune varietà (per esempio la balenottera azzurra, che è il più grande di tutti gli animali) superano in lunghezza e in peso le balene franche; le superano in ogni caso in combattività e coraggio. Proprio in forza della loro maggiore pericolosità, la caccia alle balenottere si è sviluppata in grande stile solo quando l'invenzione del cannone sparafiocine ha consentito di attaccarle da una maggiore distanza e in condizioni di sicurezza.
Il capodoglio è un grande cetaceo carnivoro; ha una grande testa ottusa che si sporge notevolmente innanzi alla mandibola. Il getto di vapore invece di essere diretto verso l'alto è proiettato in avanti. Questo mammifero, lungo 13-25 m se maschio, 9-12 se femmina e pesante fino a 50 t, è provvisto di grossi denti (20-30 per ciascuna mandibola). È privo di pinna dorsale, ma dotato di una fila di prominenze. Ha colore che varia dal grigio-bluastro al nero, a volte più o meno chiaro sui fianchi e sul ventre. Vive in gruppi di 15-20 individui. I capodogli sono ancora più pericolosi delle balenottere: nel romanzo di Melville, Moby Dick, la terribile Balena Bianca simbolo della violenza e del male, a cui la nave del capitano Achab dà la caccia, è un capodoglio. A differenza delle balene e delle balenottere, che preferiscono i mari freddi i capodogli frequentano soprattutto; mari caldi e temperati ove abbondano i molluschi di cui si nutrono: anche per questo la caccia al capodoglio ha assunto, nel Settecento e nell'Ottocento, i caratteri di una caccia specializzata, distinta da quella alla balena.

LA CACCIA ALLA BALENA

I disagi e i pericoli della caccia alla balena sono sempre stati largamente compensati dal valore della preda. I principali prodotti che si possono ottenere dalle balene franche e dalle balenottere sono l'olio e i fanoni. L'olio era usato in passato soprattutto per l'illuminazione; oggi viene impiegato principalmente nella fabbricazione del sapone. I fanoni servono a fare stecche elastiche adatte a vari usi (ombrelli, busti, ecc.). Per capire il valore di una balena basterà dire che dal grasso di un solo esemplare si possono ricavare fino a trentamila litri di olio.
I capodogli costituiscono una preda ancora più ricca. La qualità del loro olio è nettamente migliore, e due prodotti, lo spermaceti o bianco di balena e l'ambra grigia, sono forniti esclusivamente da questi animali. Lo spermaceti è un grasso liquido contenuto in grandi cavità della testa: un capodoglio può fornirne da 1 a 5 tonnellate. Un tempo era ricercatissimo per la fabbricazione di candele di lusso ed oggi è impiegato principalmente nella fabbricazione di cosmetici e di pomate. Preziosa è l'ambra grigia, una sostanza solida che si trova negli intestini, tra gli escrementi e che sembra provenga dai resti dei molluschi (polipi e seppie) di cui il capodoglio si nutre. L'ambra grigia ha la proprietà di rendere persistenti gli odori ai quali viene mescolata, sicché è largamente utilizzata nell'industria dei profumi. Ancora oggi è una sostanza piuttosto rara, ma in certi periodi, nel passato, il suo valore ha eguagliato o addirittura superato quello dell'oro.
In Europa la caccia alla balena non pare che sia iniziata prima di sei o sette secoli fa. In precedenza si utilizzavano soltanto i corpi di quegli animali che casualmente venivano ad arenarsi sulla spiaggia. I primi a fare della caccia alla balena un'attività organizzata furono i Baschi, un interessante popolo del Sud-Ovest della Francia con una lingua ed una cultura completamente diverse da quelle delle popolazioni vicine. All'inizio, nel golfo di Biscaglia erano frequenti le balene franche (dette anche basche); con il passare del tempo fu necessario spingersi più a Nord, verso la Groenlandia e il Mar Glaciale Artico. Qui i Baschi incontrarono dei concorrenti: Olandesi e Inglesi avevano imparato le tecniche della caccia e dalla fine del Cinquecento in poi si sviluppò una feroce gara di supremazia tra le nazioni interessate. Così, ai rischi propri della caccia si aggiunsero quelli della rivalità reciproca: per alcuni decenni si succedettero senza interruzioni scontri armati, atti di pirateria, vere e proprie imprese di guerra. Alla fine gli Olandesi riuscirono a prevalere: verso il 1680 le duecento navi baleniere dell'Olanda, che rappresentavano i due terzi di tutti i battelli europei impegnati nella caccia alla balena, catturavano circa mille bestie ogni anno.
Nel Settecento altri popoli si misero in gara: Tedeschi, Svedesi, Russi. Ma i più intraprendenti tra i nuovi arrivati furono gli Americani del Nord, in particolare i coloni della Nuova Inghilterra. Al largo della Nuova Inghilterra, a quel tempo, le balene abbondavano e spesso i loro corpi venivano gettati dal mare sulle coste. Non era dunque difficile che sorgessero in quelle zone centri attrezzati per la caccia alla balena; tra tutti si affermò Nantucket, una piccola città di pescatori situata in un'isola sabbiosa ad oriente di Boston, dove non nasceva un filo d'erba, ma dove, - come scrisse Melville - «l'uomo arava con le navi il mare come fosse un campo». La flotta baleniera della Nuova Inghilterra crebbe rapidamente sino a contare, nel 1775, 350 bastimenti per lo più specializzati nella caccia al capodoglio. Nel 1846 le navi baleniere erano salite a 780.
Proprio intorno alla metà dell'Ottocento tuttavia si aprì in America come in Europa un lungo periodo di crisi nella caccia alla balena. Da un lato le stragi di cetacei fatte nei secoli precedenti avevano reso più rare e difficili le prede; dall'altro l'uso del petrolio e del gas nell'illuminazione aveva provocato un sensibile ribasso dei prezzi dell'olio di balena. Per recuperare i profitti di un tempo bisogna attendere l'introduzione di alcune importanti innovazioni tecniche, come il cannone sparafiocine, che diminuirono e poi cancellarono del tutto i tradizionali rischi della caccia. Con quelle innovazioni però finì l'epoca eroica dei cacciatori di balene.
Con il cannone sparafiocine la pesca alla balena diventò meno pericolosa e meno faticosa. Era però ancora incerta perché non sempre si era sicuri di incontrare e uccidere una balena. L'introduzione del radar e l'uso di aerei di ricognizione agevolano ai nostri giorni la ricerca. Ora si fanno vere e proprie spedizioni con una grossa nave officina su cui si trovano gli impianti per la lavorazione delle materie fornite dalla balena e vicino alla quale navigano le baleniere da caccia.
All'arpione esplosivo è stato sostituito quello elettrico collegato con una fonte di elettricità; appena questo penetra nel corpo dell'animale, scarica una corrente ad alta tensione che lo fulmina. Si evita così la penosa e crudele agonia. Le navi da caccia rimorchiano fino alle navi officina le balene uccise, legate con un cavo per la coda e gonfiate d'aria perché il corpo non affondi. Uno speciale piano inclinato permette di issare a bordo il mastodontico animale.
Oggi le balene sono in via di estinzione. Prima si sono impoveriti i mari del Nord e quindi tutti i cacciatori si sono rivolti ai mari antartici. Anche qui ci fu un grande massacro di balene tanto che ad un certo punto gli scienziati di tutti i paesi manifestarono la loro preoccupazione.
Dopo lunghe discussioni e polemiche fu stabilito (Washington 1946) che la caccia può essere praticata solo dal 15 dicembre al 1 aprile e soltanto in certi mari stabiliti e che gli animali giovani, le balene gravide e i soggetti più piccoli di una certa misura non possono essere cacciati. Ogni balena catturata viene misurata da un ispettore che si trova a bordo della nave officina. Se è inferiore alla misura c'è una grossa multa. Inoltre è stabilito il numero massimo di animali che si possono cacciare ogni anno per ciascuna specie. La Commissione baleniera internazionale (IWC) dal 1946 stabilisce la quota annuale di balene cacciabili e cerca di monitorare costantemente l'uccisione dei grossi cetacei. Le specie protette dall'IWC sono cinque: la balenottera azzurra, di cui rimangono solo un migliaio di esemplari, la balena glaciale, la balena boreale, la balena australe e la balenottera comune.
Ma il lavoro della Commissione è continuamente ostacolato da quanti hanno interesse a continuare una caccia senza limitazione alcuna, come il Giappone, la Norvegia e l'Islanda.
Sfruttando la scappatoia giuridica della finalità scientifica, per esempio, il Giappone continua a catturare ogni anno oltre 500 esemplari in più di quanti previsti dalla legge.
Una delle motivazioni di fondo della carneficina giapponese risiede nel fatto che la carne di balena è una prelibatezza per i palati nipponici e con essa vengono preparati alcuni dei piatti più ricercati presentati dai costosi ristoranti di Tokyo. La moratoria faticosamente rinnovata nel luglio 2000 a Londra dalle nazioni aderenti all'IWC, che prevede la messa al bando dell'uccisione dei cetacei per scopi commerciali, non sembra spaventare troppo i cacciatori giapponesi e islandesi che continuano imperterriti a cacciare i più grandi mammiferi della Terra per ricavarne carne e grasso.
Numerose organizzazioni ecologiste cercano di arginare questo disastro ambientale, dai pacifici attivisti di Greenpeace, che si limitano a fare azioni di disturbo nei confronti delle baleniere “pirata”, agli estremisti di “Sea Shepherd Conservation Society”, che attaccano le imbarcazioni dei cacciatori di frodo arrivando a speronarle.
Nel frattempo, il numero degli esemplari è in continua diminuzione e il rischio più immediato è che le poche grandi balene sopravvissute al massacro dell'ultimo secolo non riescano a trovare, nell'immensità dell'oceano, un compagno con cui accoppiarsi per poter perpetuare la specie.
Il salto di una balena


ANTICHE TECNICHE GIAPPONESI DI CACCIA ALLA BALENA
Gli Europei non sono stati i soli a cacciare le balene. Questo genere di caccia è molto antico, per esempio, in Giappone. Un testo giapponese della metà del Settecento così descrive le tecniche allora in uso:
«I cacciatori di balene costruiscono piccole case sulle cime delle colline, da cui le vedette scrutano il mare. Quando viene scorto il soffio di vapore lanciato da una balena, si dà l'allarme e le barche prendono il mare armate di arpioni. Le punte degli arpioni hanno un lato più grande dell'altro. L'arpione è lanciato in aria in modo che ricada verticalmente sul corpo della balena. Quando è colpita, la balena sembra sorpresa e i suoi movimenti pieni d'inquietudine fanno affondare sempre più profondamente l'arpione nella carne. Di solito le barche sono sedici e ciascuna ha quattordici uomini. Il fiociniere è a prua; un uomo a poppa manovra il remo di direzione; gli altri dodici sono ai remi, sei per parte. Se l'arpione penetra bene, si issa una specie di bandiera sulla barca capitana. La balena ferita nuota ancora per due o tre chilometri, ma alla fine si stanca e torna a morire nel luogo stesso in cui è stata colpita. Allora la si prende a traino per mezzo di una grossa corda e con l'aiuto di un verricello collocato sulla spiaggia si tira in terra. Qui la balena viene fatta a pezzi per ricavarne l'olio; anche la pelle può essere venduta e i fanoni servono a diversi usi. Quando si cattura una balena, ce n'è abbastanza per far felici i pescatori di sette villaggi».
Pare che i giapponesi conoscessero anche un modo di catturare le balene per mezzo di reti.

MELVILLE E MOBY DICK
Herman Melville (1819-1891), uno dei più grandi scrittori nord-americani dell'Ottocento, prima di iniziare a scrivere fu impiegato di banca, agricoltore, maestro di scuola. Ma le sue esperienze più significative, dal ricordo delle quali dovevano nascere le sue opere migliori, furono quelle di uomo di mare. Nel 1837 infatti, a diciotto anni, era imbarcato come semplice mozzo su una nave diretta in Inghilterra. Dopo un breve intervallo a terra, nel 1841 riprese la via del mare, a bordo, questa volta, di una baleniera. Dieci anni più tardi Melville pubblicava il suo capolavoro, Moby Dick, dedicato appunto al mondo dei cacciatori di balene.
Da quest'opera è tratto il brano che qui pubblichiamo. I personaggi che in esso compaiono sono: il capitano Achab, comandante della baleniera Pequod di Nantucket; Stubb, secondo ufficiale e capo di una delle tre lance da caccia del Poquod; Tashtego, un pellerossa, ramponiere della lancia di Stubb.

«STUBB UCCIDE UNA BALENA»
Poco distante da noi, a quaranta tese a sottovento, un capodoglio gigantesco andava rollando nell'acqua come lo scafo capovolto di una fregata, col grande dorso lucido di un bel colore scuro che scintillava come uno specchio ai raggi del sole. E mentre fluttuava pigra nel mare, e di tanto in tanto sfiatava tranquilla il suo zampillo di vapori, la balena somigliava a un solenne borghese che si fa una pipata in un pomeriggio caldo.
Quella pipata, povera balena, fu l'ultima. Come toccati dalla bacchetta di un mago, la nave sonnolenta e tutti quelli che vi dormivano si svegliarono di soprassalto; da ogni parte più di una ventina di voci lanciarono il grido ben noto, nell'attimo stesso in cui giungevano dall'alto le urla delle vedette, mentre lento e regolare il gran pesce sfiatava nell'aria il suo spruzzo di sale scintillante.
«Sciogli le lance! Forza» gridò Achab. E obbedendo al suo stesso ordine, sbatte la barra sottovento prima che il timoniere potesse mettere mano alle caviglie.
Il grido improvviso dell'equipaggio doveva avere allarmato la balena e, prima che le lance toccassero il pelo dell'acqua, con una svolta maestosa essa nuotò via a sottovento, ma con tale tranquilla sicurezza e increspando l'acqua così poco nel nuotare, che Achab pensò che dopotutto la balena poteva non essersi accorta di niente e ordinò di non usare i remi e di parlare solo sottovoce. Così, seduti sui bordi delle lance come Indiani dell'Ontario, avanzammo a forza di pagaie, visto che la bonaccia non ci permetteva di usare le vele silenziose. Ad un tratto, mentre scivolavamo all'inseguimento, il mostro sventagliò verticalmente la coda nell'aria, e andò giù come una torre inghiottita.
«Laggiù, cosa!» si gridò, e subito Stubb tirò fuori un fiammifero e si accese la pipa, perché ora c'era un momento di riposo. Quando il tempo del tuffo fu passato, la balena riemerse. Adesso era davanti alla barca di Stubb il fumatore e molto più vicina ad essa che a tutte le altre barche: sicché Stubb contò sull'onore della cattura. Era evidente, ormai, che la balena si era accorta degli inseguitori. Non era più necessario procedere in silenzio. Gettammo le pagaie e mettemmo rumorosamente in azione i remi. E continuando a tirare dalla pipa, Stubb incitava con grida la sua ciurma all'assalto.
Nel pesce si era prodotto, un gran mutamento. Cosciente del pericolo, correva «a testa in fuori» e la testa emergeva obliqua dal pazzo rimescolio che faceva.
«Forza, forza ragazzi! Senza fretta. Prendetevela con calma, ma fate forza! Spingete come tuoni, mi spiego!» gridava Stubb sputacchiando fumo. «Forza ora. Palata lunga e forte, Tashtego. Forza Tash, figlio mio, forza bello, forza tutti! Ma freddi, freddi come tanti cocomeri, ecco! Calmi, state calmi, solo spingete come la morte e come i diavoli dell'inferno! Fate saltare i morti dalle fosse a testa in su, ragazzi! Nient'altro, forza!» «Uhuu! Uahii!» strillava in risposta Tashtego, alzando al cielo qualche suo antico grido di guerra mentre ogni rematore della lancia sforzata sbalzava involontariamente in avanti col suo tremendo colpo di guida che infieriva l'avido indiano.
Ai suoi urli selvaggi rispondevano urli altrettanto selvaggi dalle altre lance. E così a forza di remi e di urli le chiglie fendevano il mare.
Stubb, che era sempre in testa, continuava ad incoraggiare i suoi uomini lanciando boccate di fumo. E quelli arrancavano, si sforzavano come disperati; finché si udì il grido così atteso: «In piedi, Tashtego! Daglielo!». E il rampone partì. «Tutto indietro!». I rematori vogarono a ritroso mentre qualcosa filò caldo e sibilante sui polsi di ciascuno. Era la magica lenza. Un momento prima Stubb, svelto, le aveva dato due giri attorno al ceppo: e da questo per il vorticare sempre più rapido, si levò un fumo azzurro di canapa e si mescolò col fumo che usciva. dalla pipa. Prima di raggiungere il ceppo e girarvi rapida attorno, la lenza passava a scorticapelle tra le mani di Stubb, dalle quali nella confusione erano caduti i guanti di tela imbottita che si usano in questi casi. Era come tenere per la lama la spada a due tagli di un nemico, mentre quello si sforza intanto di strapparla alla vostra presa.
«Bagna la lenza! Bagna la lenza!» gridò Stubb al rematore seduto accanto al castello. L'uomo afferrò il berretto e cominciò a riempirlo di acqua di mare. Si diedero altri giri alla lenza, che cominciò a tenere. E ora la barca volava in mezzo all'acqua ribollente, come un pescecane tutto pinne. Stubb e Tashtego si scambiarono i posti, da prua a poppa: un'operazione da non riuscire a tenersi in piedi in mezzo a tante scosse e tanta agitazione. Dalle vibrazioni della lenza che scorreva lungo tutto il filo della lancia, e dal fatto che era divenuta più tesa di una corda d'arpa, si sarebbe detto che il legno avesse due chiglie: una che tagliava il mare e l'altra l'aria, mentre la barca sfrigolava simultaneamente tagliando i due elementi contrari.
Così volavano, ciascuno aggrappato al banco con tutta la sua forza per evitare di essere scaraventato nella schiuma; e l'alta figura di Tashtego si piegava quasi in due sul remo di governo, per abbassare il proprio centro di gravità. Parve loro di attraversare interi Atlantici e Pacifici, finché la balena rallentò un poco la fuga.
«Ricupera! Ricupera!» gridò Stubb al prodiere, e volando la prua verso la balena, tutti cominciarono a spingere verso di essa mentre ancora la barca ne veniva rimorchiata. E appena le furono a fianco Stubb piantò fermo il ginocchio di prua e cominciò a vibrare colpi su colpi alla bestiaccia in fuga. Ai suoi comandi la lancia ora rinculava fuori portata delle orribili contorsioni della balena ora si faceva sotto per colpire di nuovo.
Adesso fiotti rossi grondavano dai fianchi dell'animale come ruscelli da un colle. Il suo corpo tormentato non si voltava più nell'acqua ma nel sangue, che gorgogliava e ribolliva per centinaia di metri nella scia. Il sole basso, che danzava su questo stagno vermiglio nel mare, ne gettava i riflessi su ogni faccia e ciascuno vedeva l'altro avvampato come un pellirossa. E nel frattempo getti di fumo bianco uscivano nell'agonia dallo sfiatatoio della balena, e violenti sbuffi di fumo dalla pipa dell'eccitato capobarca: ad ogni colpo Stubb ricuperava per mezzo della lenza la sua lancia e la ricacciava nel corpo della balena.
«Ala! Ala!» gridò ora al prodiere, mentre la balena esausta diminuiva la furia. «Ala! Sotto!» e la barca si affiancò al pesce. Sporgendosi tutto dalla prua, Stubb cominciò allora ad agitare la lunga lancia aguzza nella carne della vittima, pian piano, con cura, come se cercasse un orologio d'oro inghiottito dalla balena e temesse di romperlo prima di riuscire ad agganciarlo.
Quell'orologio d'oro che cercava era la vita profonda del pesce.
E improvvisamente la toccò: perché scattando dal suo torpore in indescrivibili convulsioni, il mostro si agitò terribilmente nel suo sangue si rotolò come un pazzo in una schiuma torbida e ribollente e la barca fu di colpo pericolosamente ricacciata all'indietro, e faticò molto a liberarsi, alla cieca, da quel crepuscolo frenetico e ad uscire nell'aria calda del giorno.
E ora indebolendosi le convulsioni, ancora una volta vedemmo la balena che si agitava da fianco a fianco, dilatando e contraendo spasmodicamente lo sfiatatoio, col respiro secco e crepitante dell'agonia. Alla fine fiotti di sangue rosso e grumoso, come feccia purpurea di vino rosso, schizzarono nell'aria e ricadendo sgocciolarono in mare lungo i suoi fianchi immobili. Il cuore le era scoppiato.
«È morta, signor Stubb», disse Daggoo.
«Sì. Tutte e due le pipe si sono spente» e cavandosi dalla bocca la sua, Stubb sparse le ceneri fredde sull'acqua, e per un momento stette a guardare pensieroso il gran cadavere che aveva fatto.

L'UOMO AGRICOLTORE

Le comunità umane si potrebbero classificare, per quanto riguarda i loro rapporti con l'ambiente naturale, in base al tipo prevalente di economia che nel corso della loro storia ha permesso il sostentamento alimentare.
Una delle più antiche e profonde trasformazioni degli ambienti naturali è quella attuata dalle popolazioni dedite all'agricoltura ed alla pastorizia. Da un punto ecologico un gruppo di agricoltori può essere considerato come una comunità eterotrofa dedita alla continua manipolazione del territorio in cui è insediato con l'obiettivo di ottenere la più alta produzione possibile da quei particolari ecosistemi che possono essere considerati i campi coltivati. Sottoposto a questo trattamento, di generazione in generazione il territorio viene così a configurarsi come «campagna» o per essere più precisi, come «paesaggio agricolo», una specie di ambiente naturale secondario, che necessita della continua presenza e del costante lavoro dell'agricoltore per essere conservato.
Nella formazione di un paesaggio agrario sono coinvolti moltissimi fattori oltre quelli ecologici. La presenza dell'uomo è decisiva e quindi risultano molto importanti proprio quei fattori legati alla sua cultura, alla sua società, al numero dei componenti la comunità rurale, alle sue abitudini.
L'uomo, in quei particolari ecosistemi che sono i campi coltivati, è il più importante consumatore dell'energia primaria prodotta sotto il suo controllo dalla vegetazione. Tale energia deve essere restituita in qualche maniera all'ambiente che l'ha prodotta, pena lo squilibrio e la scomparsa dell'ecosistema instaurato. L'agricoltore è quindi costretto, con il suo lavoro e con particolari accorgimenti (tecniche agricole), a mantenere costantemente le colture in uno stadio di superproduzione: può, per esempio aumentare la fertilità del terreno concimandolo, falciando e potando in maniera da mantenere sempre giovane e produttiva quella piccola porzione della natura primaria che ha preso sotto il suo controllo.
Seguendo tali esigenze fondamentali, diversi tipi di società rurali in diversi ambienti geografici hanno prodotto una grandissima varietà di paesaggi agrari sovrapponendoli agli ecosistemi primari e spesso sostituendoli completamente dall'avvento della Rivoluzione Neolitica ai giorni nostri. È accaduto poi spesso nel corso della storia che ad un tipo di paesaggio agrario predominante in una regione se ne siano sovrapposti per diverse cause altri. Risulta così una classificazione piuttosto complessa di questi particolari ambienti.

L'AGRICOLTURA IN EUROPA

In tutti i diversi tipi di paesaggio agrario che si ritrovano nel Vecchio Continente si possono riscontrare alcuni tratti fondamentali comuni che permettono di raggrupparli assieme nonostante le notevoli diversità ambientali e geografiche che presenta l'Europa.
A partire dai primi gruppi di agricoltori neolitici, giunti in Europa attorno al IV millennio avanti Cristo, già si riscontrano aspetti fondamentali che si sono in parte conservati sino ai giorni nostri. Nel caso dell'agricoltura europea un tratto caratteristico è dato dalla cerealicoltura associata all'allevamento del bestiame e accompagnata dalla coltura di piante tessili e di qualche verdura.
La civiltà greco romana diffuse alberi da frutta di origine orientale e la vite. Sino al XVIII secolo, in cui si ebbe un incremento notevole della popolazione da nutrire, le tecniche agrarie rimasero ferme ai sistemi di coltivazione che si erano perfezionati durante il Medioevo (sistema della rotazione in tre campi, ad esempio). Tra il XVIII e il XIX secolo divenne comune in tutta Europa la soppressione del riposo annuale dei campi coltivati a cereali, grazie all'introduzione di specie come la patata e la barbabietola e al perfezionamento delle pratiche artificiali. Nel secolo scorso l'agricoltura europea poteva essere considerata una forma migliorata delle coltivazioni antiche, che riusciva bene o male a nutrire una popolazione che aveva raggiunto attorno al 1850 la più alta densità mai registrata.
Alla fine del secolo scorso e con i primi anni del nuovo secolo si assiste ad una trasformazione profonda sia dei sistemi di coltivazione sia soprattutto del paesaggio agrario: le tradizionali culture diversificate erano sufficienti a nutrire la piccola comunità rurale che dedicava tutto il suo lavoro alla conduzione della terra, ma non erano più in grado di far fronte alla crescente richiesta delle città in espansione sotto la spinta della Rivoluzione Industriale. Così mentre cominciavano a diminuire rapidamente coloro che si dedicavano al lavoro nei campi, l'agricoltore europeo si specializzò nella produzione del vino, dell'olio, delle piante tessili, dei fiori ecc. rispondendo di volta in volta alle richieste che provenivano dalle città e cercando di adattare questa specializzazione alle condizioni umane e naturali delle diverse regioni.
Oggi in Europa è largamente diffusa la meccanizzazione del lavoro agricolo e, pur con le differenze dovute alla specializzazione le tecniche fondamentali, i sistemi di coltivazione si sono piuttosto uniformati. Tuttora molto variato è invece l'aspetto del paesaggio vero e proprio: nel centro e Nord dell'Europa ritroviamo un paesaggio di campi aperti (champagne in francese, openfield in inglese), nudi non cintati, campi coltivati che si presentano enormemente lunghi rispetto alla larghezza, con assenza o quasi di alberi; gli insediamenti della comunità rurale sono raggruppati in grandi borghi.
Lungo le coste atlantiche sino alla Scandinavia e alla Finlandia si ritrova il paesaggio agrario cosiddetto a campi chiusi (bocage o enclos in francese, Heckenlandschaft in tedesco). Ciascuna proprietà in questo tipo di paesaggio è rigorosamente delimitata, cintata da difese e barriere, i campi hanno una forma quadrata e le abitazioni dei coltivatori appaiono disperse, distribuite su tutto il territorio oppure raggruppate in piccoli centri di poche famiglie. Sono spesso presenti resti di primitivi ecosistemi forestali, che appaiono ritagliati e suddivisi. A questo paesaggio rurale, che si spinge al massimo con le sue vette sino ai 400-600 m sul livello del mare, segue la prateria adibita al pascolo comune, se la regione è montana.
Il mondo agrario mediterraneo presenta il terzo grande tipo di paesaggio in Europa. In realtà non si può parlare di un unico tipo di paesaggio esteso su tutte le coste mediterranee; alle diversità geografiche e storiche, che sono numerosissime, corrisponde una «discontinuità» anche nel paesaggio agrario.
Nel mondo mediterraneo un'agricoltura del tipo che si è sviluppato nel centro e Nord dell'Europa non sarebbe possibile per i caratteri geografici stessi di questa regione.
Ancor più generalmente le possibilità agricole del mondo mediterraneo sono estremamente contrastate dalla forma del territorio e dalla secchezza del clima. L'arboricoltura è diffusa (olivo, vite, alberi da frutta) e, dove l'agricoltore è riuscito a organizzare un qualche sistema di irrigazione, queste zone aride sono capaci d'una produzione notevole.
La montagna e le brevi pianure contrastano drammaticamente: l'agricoltore ha saputo con pazienza ritagliare le pendici delle colline in terrazze conquistando terreno coltivo alla montagna altrimenti destinata al pascolo di poveri greggi di ovini e di caprini. È una lunga storia con fasi alterne: ora l'agricoltore saliva alla montagna ora il pastore riconquistava lo spazio prima perduto. Queste vicende si possono leggere nel paesaggio estremamente vario delle regioni mediterranee: campi piccoli e grandi di forme irregolari e regolari, ora cintati da interminabili muretti di pietra, ora aperti.
Forse l'aspetto più tipico della coltivazione di questa regione europea così diversa e frammentata è data dal paesaggio delle «ville» in Italia e delle huertas in Spagna. In esse la cultura intensiva è praticata all'estremo limite (coltura promiscua) e pur essendo un tipo di paesaggio agrario estremamente limitato nello spazio è in grado di soddisfare i bisogni di una famiglia che può vivere coltivando solo 30-40 are di terreno. Si utilizzano praticamente due piani di uno stesso appezzamento: gli alberi sopra ed ai loro piedi gli ortaggi e le colture erbacee.
I paesaggi agrari in Europa


L'AGRICOLTURA AI TROPICI

Le comunità agricole delle regioni tropicali hanno dovuto affrontare un problema di base estremamente grave: l'estrema fragilità del terreno agrario rispetto a quello della regione europea. Nella fascia tropicale, dove sono insediati ecosistemi tra i più produttivi della biosfera, la vita delle comunità agricole è estremamente stentata proprio a causa delle condizioni del substrato. Le piogge, se si hanno, sono sempre a carattere torrenziale e concentrate in una stagione più o meno lunga.
Questo dilavamento e le alte temperature impediscono la formazione di humus sfruttabile da un punto di vista agricolo. D'altra parte dove prevale il clima arido secco la coltivazione è possibile solo se esiste una qualche forma di irrigazione. Questa deve però essere molto controllata.
Nonostante queste difficoltà ambientali, le comunità umane sono riuscite nel corso dei secoli a modificare parzialmente o a sostituire completamente gli ecosistemi originari creando dei paesaggi agrari estremamente diversi.
L'agricoltura itinerante ancora domina gran parte dell'Africa Nera.
Ad essa sono dovute importanti modificazioni dell'ambiente forestale primario che ha dato origine a un tipo di paesaggio agrario pochissimo differenziato: i territori in cui viene praticata l'agricoltura itinerante sono poco organizzati dal lavoro delle popolazioni locali che d'altra parte non formano vere e proprie comunità rurali.
Poiché non si pratica alcuna forma di allevamento del bestiame, gli agricoltori itineranti non sono in grado di reintegrare la già bassa fertilità dei terreni che strappano alla foresta tropicale. Dopo cicli assai brevi di sfruttamento (dopo circa due o tre anni al massimo) sono costretti ad abbandonare il territorio dove, nei casi più fortunati, si riforma la foresta tropicale diradata dai coltivatori. Negli appezzamenti, molto irregolari perché ricavati col fuoco, si pratica la coltivazione della manioca, una cultura che mantiene un aspetto semiforestale, o del sorgo o del miglio quando la coltura è fatta ai margini della savana.
È un tipo di agricoltura che richiede grandissimi spazi e popolazioni agricole assai poco dense. Un villaggio di coltivatori itineranti richiede una media di 300 ettari di terreno per sopravvivere. Di questi poi la coltivazione vera e propria è ridotta a circa 25 ettari mentre sul resto del territorio si pratica l'antichissima economia di raccolta.
Nell'Africa Nera normalmente le società rurali ignorano l'allevamento del bestiame ma quando, per ragioni storiche, taluni gruppi etnici vengono in contatto con popolazioni pastorali, come ad esempio nell'Africa Orientale, si può sviluppare una sorta di agricoltura sedentaria. Lo stesso accade nel Centro e nel Sud America dove dopo l'introduzione di bovini da parte degli Spagnoli le popolazioni che prima praticavano l'agricoltura itinerante sono divenute sedentarie. Con il concime animale disponevano infatti di un potente mezzo per reintegrare la fertilità degli appezzamenti coltivati. Prende forma allora un vero e proprio paesaggio agrario minuziosamente organizzato, coi suoi percorsi ed i suoi campi dai confini definiti. Viene sempre sfruttata però una vasta zona, in maniera concentrica, con il sistema itinerante (per raggio di 5-6 Km).
Molto importanti in questo tipo di paesaggio divengono i pozzi per le irrigazioni. Spesso ciascun gruppo familiare coltiva nei pressi delle abitazioni orti o giardini che concima con i rifiuti giornalieri, perché i preziosi escrementi animali sono riservati ai campi coltivati a miglio o ad altri grani che sono alla base dell'alimentazione. In molte montagne africane, nel Camerum ad esempio e nel Madagascar, alcune società rurali che praticano l'agricoltura sedentaria hanno organizzato il loro territorio secondo un paesaggio che ricorda molto quello del bocage europeo; esso si presenta come uno scacchiere abbastanza regolare di campi cintati.
L'allevamento del bestiame e la coltivazione dei campi sono condotti sullo stesso territorio in parti diverse e separate dai recinti. Ciascun agricoltore è anche allevatore e non dipende dalla collettività per la provenienza del letame come accade nel primo caso. Inoltre le abitazioni dei coltivatori sono disperse su tutto il territorio, mentre nel primo caso descritto si aveva un tipo di insediamento a villaggio abbastanza concentrato. Sembra quasi ripetersi lo schema europeo dei campi aperti e dei campi chiusi.
Nei paesi tropicali l'agricoltura irrigata permette di nutrire una popolazione rurale estremamente densa. Mentre nell'agricoltura sedentaria africana e sud-americana di tipo secco ha grande importanza la concimazione, nell'agricoltura irrigata diffusa in tutto il Sud e l'Est dell'Asia il ruolo principale è assunto dalla disponibilità d'acqua. L'acqua è indispensabile per permettere la crescita di piante acquatiche alimentari, come nella risicoltura, che avendo la caratteristica di un ecosistema palustre è estremamente produttiva. Nelle regioni più aride l'acqua serve per prolungare e accrescere il periodo vegetativo delle colture evitando che l'avvento della stagione secca interrompa il ciclo del normale sviluppo delle piante.
Questa differenza sostanziale nell'uso dell'irrigazione crea due tipi di paesaggio agrario diversi. La civiltà del riso ha creato il singolare, minuzioso paesaggio agrario sulle piane o le zone con basse colline fratturando in due settori netti il territorio delle regioni tra l'India e la Corea: le alture, montagne o colline dove si trovano indisturbati gli ecosistemi forestali originari, disabitati e pochissimo frequentati dall'uomo, e le pianure dove il paesaggio naturale è scomparso per lasciare luogo alla piana risicola ed ai suoi complicati sistemi di canalizzazione e di raccolta delle acque dovuti al lavoro incessante di una popolazione rurale che è la più densa del mondo (da 600 a 1500 abitanti per chilometro quadrato).
Nel caso delle risaie asiatiche l'unità di insediamento umano è il tipico villaggio accentrato, circondato da una cortina d'alberi; ogni abitazione è provvista di un giardino cintato dove sono coltivati agrumi (aranci, pompelmi). A parte questa poca vegetazione la risaia è l'unico aspetto di questo paesaggio agrario; mancano completamente pascoli o boschi e d'altronde il bestiame è usato assai poco per il lavoro in risaia. Il valore alimentare di una coltura così condotta è altissimo: un ettaro di risaia produce 7 milioni e mezzo di calorie. Lo stesso territorio sfruttato a pascolo e trasformato in latte non ne produrrebbe che mezzo milione.
Infine il paesaggio agrario determinato dai sistemi di irrigazione nelle zone tropicali con meno di 500 mm all'anno di pioggia è localizzato ai piedi di zone montagnose ed è noto anche col nome di paesaggio dell'oasi. Lo si ritrova nelle regioni asiatiche occidentali, più aride, ma si spinge anche nelle zone steppiche e desertiche del Sahara africano. In realtà esistono vari tipi di paesaggio d'oasi, ma questo insediamento rurale presenta una caratteristica comune a tutti: una zona coltivata ristretta e la necessità di rendere l'irrigazione (e quindi la disponibilità d'acqua) continua durante tutto l'anno. La scarsità dello spazio coltivabile obbliga il coltivatore a sovrapporre le colture, sfruttando in tal modo l'ombra prodotta da quelle di tipo arboreo per coltivare ai loro piedi orzo, fagioli, cipolle e qualche altra verdura poco esigente.

GLI EQUILIBRI AMBIENTALI

Alla conclusione del lungo processo evolutivo dell'ominazione apparve sulla Terra un organismo che, a differenza di tutti gli altri esseri viventi, fu sempre più in grado di adattare l'ambiente circostante al proprio patrimonio genetico. L'uomo da quando riuscì a creare le prime forme di cultura che gli permisero di accumulare le esperienze e le scoperte tecnologiche e di trasmetterle alle generazioni successive per mezzo dell'educazione, divenne il più numeroso tra i mammiferi. Egli si diffuse su tutta la biosfera integrandosi ai diversi tipi di ecosistemi, sfruttando ora l'una ora l'altra possibilità che l'ambiente naturale offriva.
L'umanità che viveva di raccolta e di caccia non possedeva strumenti capaci di alterare gli equilibri dei grandi cicli biologici, geologici e chimici che collegano tutte le parti di un ecosistema. Le comunità umane agivano all'interno di ciascun ecosistema in cui erano insediate (bosco, prateria, palude, lago, ecc.) con gli stessi meccanismi propri delle altre comunità eterotrofe. Poi, già durante la preistoria, gli uomini hanno rapidamente imparato a spostare a loro favore i flussi di energie e di scambi che si operano negli ecosistemi. Il taglio delle piante, l'incendio (cioè l'uso controllato del fattore ambientale fuoco), il pascolo delle greggi cioè il controllo e la selezione su determinate specie di consumatori primari (il che ha importanti riflessi anche sui vegetali dell'ecosistema), i vari tipi di agricoltura, la pesca, la caccia hanno certamente modificato nel passato l'ambiente naturale primitivo.
Fino a quando l'uomo è intervenuto sui diversi ecosistemi solo con lo scopo di soddisfare i bisogni del proprio gruppo, poco numeroso, che viveva in diretto contatto con la natura, l'equilibrio generale dell'ambiente era rispettato. A volte insufficienze tecniche hanno provocato squilibri ambientali irreversibili come la cattiva irrigazione dell'antica Arabia Felice, trasformata in un ambiente steppico e desertico. Ma è soprattutto negli ultimi secoli che le società umane sono diventate pericolose predatrici della natura e l'importanza dell'uomo come fattore ambientale ha superato quella dei fattori geografici. Così, ad esempio le popolazioni dei Paesi Bassi sono riuscite nel corso della loro storia medioevale ma soprattutto moderna a coltivare aree occupate in un primo tempo da ecosistemi marini; la coltivazione in serre permette di ottenere oggi su scala industriale prodotti orticoli al di fuori delle influenze stagionali.
A questo punto è avvenuta la frattura tra le società umane con tecnologia avanzata e la natura. Nella storia naturale del Vecchio Continente questa crisi biologica ha il suo inizio tra il XV ed il XVI secolo. La popolazione delle città rinascimentali europee, aumentata di numero, ma soprattutto concentrata in maniera innaturale rispetto alle fonti di sostentamento, si è gettata all'assalto delle riserve naturali in gran parte ancora intatte. Grazie ai mezzi tecnici a disposizione, alla diversa mentalità di queste popolazioni urbane e mercantili si passò dalla modificazione lenta, graduale, rispettosa delle fondamentali leggi ecologiche, alla conquista rapida, brutale, di rapina dello spazio naturale.
Questo processo distruttivo ha raggiunto il culmine con l'avvento della Rivoluzione Industriale. Si è calcolato, ad esempio, che da duemila anni a questa parte si sono estinte sul nostro pianeta cento specie di uccelli e oltre cento specie di mammiferi. Di tutte queste ben il 70 per cento sono scomparse nel secolo scorso a causa delle attività umane.

ANIMALI CHE SCOMPAIONO

La caccia rappresenta una forma di sterminio diretto che avviene soprattutto per il desiderio di guadagno e la passione di uccidere. Gli animali vengono cacciati e spesso uccisi per la carne come nel caso del bisonte, della foca, della colomba migratrice; per le uova, come nel caso dell'albatros e delle procellarie, dello storione dal quale si ricava il caviale; per la pelle, le pellicce, le penne e le piume come nel caso della lontra, della foca, dello struzzo. Altri animali vengono uccisi per ricavarne souvenir, cioè oggetti ricordo: in Africa si vendono lampade, stuzzicadenti soprammobili e manici d'ombrello d'avorio, cestini per la carta ottenuti dalle zampe di elefanti, scacciamosche fatti di code di gnu, portachiavi con piccoli corni dei dik-dik, ecc.
Il desiderio di avere un trofeo di caccia e la passione di uccidere hanno ridotto a pochi esemplari specie un tempo numerose. Il leone indiano o asiatico ad esempio è stato quasi completamente distrutto dai colonizzatori inglesi che volevano portare in patria almeno una sua pelle; oggi il leone indiano è ridotto a pochi esemplari. In altri casi intere specie sono state distrutte perché l'uomo le riteneva pericolose per gli animali domestici e d'allevamento o perché pensava che trasmettessero malattie.
Si ha sterminio indiretto quando una specie animale scompare perché l'uomo ha prodotto delle variazioni nell'ambiente naturale. Ciò è tanto più dannoso in quanto difficilmente questi mutamenti possono essere controllati o annullati. Il danno viene subito da tutti gli esseri viventi in quel territorio e quindi anche dall'uomo.
La distribuzione della vegetazione spontanea, la diffusione di sostanze antiparassitarie e di insetticidi, il prosciugamento delle paludi, l'inquinamento delle acque e dell'atmosfera, la deviazione di corsi d'acqua e la costruzione di dighe e sbarramenti, l'irradiazione radioattiva sono tutte cause della distruzione, già avvenuta o attualmente in corso, di numerose specie di animali. Gli animali, infatti, subiscono i danni provocati all'ecosistema in cui vivono, e spesso la modificazione del suolo o dell'acqua o delle piante o di qualsiasi altra parte dell'ecosistema porta anche alla distruzione di un intero ambiente animale.

Di solito si proteggono le specie che si stanno estinguendo istituendo zone di ripopolamento e predisponendo forme di aiuto come depositi di cibo, sorgenti d'acqua, tane per la prole, nidi artificiali, boschetti, ecc.
Ma il problema è di proteggere non tanto le singole specie quanto gli interi ecosistemi.
Occorre soprattutto impedire che le attività umane possano distruggere o apportare modifiche irreversibili agli ambienti naturali.
Tra le specie in via di estinzione nel mondo ricordiamo: gli elefanti africano e indiano, i rinoceronti bianco, nero, di Sumatra, di Giava e indiano; alcune specie di tartarughe; l'orangotango; il gorilla; il panda gigante; lo scimpanzé; l'orso bruno; la tigre; la balena;l'aquila di mare.

L'UOMO E L'AMBIENTE

Oggi l'uomo ha raggiunto uno stadio di controllo tecnico dell'ambiente naturale elevatissimo. È il padrone assoluto con diritto di vita e di morte su gli altri viventi del pianeta; questo suo potere spesso non è usato in maniera razionale e raramente è bilanciato da un'adeguata politica di difesa della natura.
La rapidità dell'evoluzione tecnologica ha diffuso un'idea completamente errata della natura. Si crede che l'umanità sia finalmente libera dagli antichissimi legami che aveva con il mondo vivente che l'ha circondata sin dalla sua apparizione sul nostro pianeta e si dimentica che le comunità umane continuano a dipendere, come un milione di anni fa, dalla produzione primaria degli ecosistemi e cioè dalla fotosintesi clorofilliana.
Un ecosistema è il risultato di un insieme dinamico di infiniti equilibri; l'uomo a poco a poco ha imparato a conoscerli, ma non sempre li sfrutta rispettandoli. Spesso la civiltà tecnologica sembra aver acutizzato i processi di rapina e di distruzione dell'ambiente naturale. Questa distruzione non è più diretta, come ai tempi delle grandi colonizzazioni, quando si modificavano interi ecosistemi per sottrarre materie prime pregiate o si impiantavano colture senza tener conto degli equilibri tra le diverse specie; ancora oggi tuttavia si compiono gravi alterazioni sullo spazio naturale. Produzione di sostanze pericolose e inquinanti, speculazione edilizia, distruzione dolosa di boschi, creazione di quantità enormi di rifiuti che non si riescono o non si possono distruggere mettono in continuo pericolo la sopravvivenza delle specie e gli equilibri degli ecosistemi. Al massimo della sua potenza tecnologica l'umanità commette gravissimi errori proprio di ordine tecnico: fatti come l'inquinamento degli ambienti naturali sono tollerati, spesso giustificati dall'interesse immediato e dal profitto.
Dal punto di vista legale, si è cercato, sia in ambito nazionale sia internazionale, di controllare e migliorare la situazione ambientale, con delibere e provvedimenti amministrativi e giuridici mirati. A livello internazionale, nel 1997, il cosiddetto Protocollo di Kyoto sull'ambiente – e in particolare sui danni provocati dal cosiddetto “effetto serra'' – ha stabilito una serie di limitazioni e di direttive da tradurre, a livello nazionale, in misure attuative, ma ha trovato la volontà contraria di Paesi quali gli Stati Uniti che, nel 2001, si sono rifiutati di ratificarlo, rendendo difficile il percorso della difesa ambientale.
Cause e conseguenze del progressivo intensificarsi dell'effetto serra

Il buco dell'ozono

Il surriscaldamento della Terra

IL PROTOCOLLO DI KYOTO

Il Protocollo di Kyoto è un documento redatto e approvato nel corso della Convenzione Quadro sui Cambiamenti climatici tenutasi in Giappone nel 1997. Nel Protocollo sono indicati per tutti i Paesi gli impegni di riduzione e di limitazione quantificata delle emissioni di gas serra (anidride carbonica, gas metano, protossido di azoto, esafloruro di zolfo, idrofluorocarburi e perfluorocarburi). Con più precisione le Parti dovranno, individualmente o congiuntamente, assicurare che le emissioni globali siano ridotte di almeno il 5% rispetto ai livelli del 1990 nel periodo di adempimento 2008-2012. Per il raggiungimento di questi obiettivi, i Paesi possono servirsi di diversi strumenti che intervengono sui livelli di emissioni di gas a livello locale-nazionale oppure transnazionale. Il Protocollo di Kyoto entrerà in vigore solo nel momento in cui "verrà ratificato, accettato, approvato o che vi abbiano aderito non meno di 55 Parti responsabili per almeno il 55% delle emissioni di biossido di carbonio (emissioni quantificate in base ai dati relativi al 1990)."

AVVELENAMENTO DA DDT

Un esempio che si presenta molto bene a dimostrare come l'uomo sia in grado di turbare indirettamente un equilibrio biologico è rappresentato dall'uso indiscriminato degli insetticidi sintetici durante gli ultimi quarant'anni. I danni delle prime irrorazioni di DDT non apparvero immediatamente; anzi gli effetti dell'insetticida furono accolti con soddisfazione: gli animali nocivi venivano uccisi e con essi pochi altri. Gli effetti terribili furono quelli ritardati: l'insetticida, anche se sparso a dosi misurate, giudicate non nocive per le forme di vita superiori, provocava una rottura gravissima degli equilibri biologici in un tempo successivo, anche ad anni di distanza perché nei vari paesaggi si concentrava in dosi pericolose. Accadeva cioè che la dose inizialmente non pericolosa per gli animali superiori finiva per diventare mortale man mano che l'animale mangiava cibi contenenti DDT che non potendo essere eliminato si accumulava negli organi. La concentrazione progressiva delle sostanze pericolose lungo le catene alimentari degli ecosistemi è stata messa in evidenza anche per gli inquinamenti provenienti dall'impiego pacifico o meno dell'energia nucleare. Nonostante le minime dosi in cui tali sostanze sono disperse nelle acque e sul terreno, i viventi ne incorporano concentrazioni 20.000-30.000 volte superiori a quelle presenti negli ambienti esterni. Quando accadde l'incidente alla centrale atomica di Cernobyl in Ucraina nell'aprile del 1986, le particelle radioattive, trasportate dai venti ricaddero soprattutto per opera della pioggia su molti paesi dell'Europa tra cui l'Italia. Per qualche mese la popolazione visse sotto l'incubo della radioattività: il consumo di latte venne vietato ai bambini, fu proibita la vendita di verdura fresca a foglia larga, la popolazione fu invitata a lavare accuratamente i vegetali commestibili. Fu riscontrata un'elevata radioattività negli organismi di animali erbivori domestici e selvatici tanto che in molti casi fu necessario procedere alla loro eliminazione come per interi branchi di renne in Finlandia.

UN CASO ESEMPLARE

Nel 1949 si provvide alla disinfestazione delle larve di zanzara nell'ecosistema lacustre californiano di Clear Lake cospargendo del DDT in misura di una parte su 70 milioni, quindi estremamente diluito.
Passando dal mezzo liquido al plancton che lo assume con il nutrimento, l'insetticida si concentrò nelle dosi di 5 parti per milione: una concentrazione già molto elevata ma non ancora pericolosa per gli animali.
Nei successivi anelli della catena trofica il DDT si concentrò sempre più: nei pesci vegetariani si concentrò sino a 40-1000 parti su un milione; nei pesci carnivori che predavano queste popolazioni già avvelenate si concentrò ulteriormente sino a 2500 parti su di un milione. Gli anatidi (anatre e altri uccelli) carnivori che predavano questa popolazione subirono così una elevatissima mortalità per avvelenamento da DDT.

L'INQUINAMENTO DELLE ACQUE

Il termine inquinamento di per sé è piuttosto vago, indica genericamente l'introduzione nell'ambiente da parte dell'uomo di sostanze potenzialmente dannose (generalmente rifiuti). Queste possono essere suddivise in due tipi fondamentali: quelle che portano un aumento del volume e della concentrazione di sostanze già esistenti negli ecosistemi naturali e quelle costituite da veleni e da sostanze sintetiche che normalmente non sono presenti in natura.
Nel primo caso sono preesistenti nell'ambiente organismi e comunità già adatte che possono utilizzare e decomporre il materiale immesso. Così le acque delle fognature che contengono materiali organici, cioè rifiuti biodegradabili (trasformabili ad opera di microorganismi), non costituiscono un grave problema sino a che gli ecosistemi che le ricevono (laghi, fiumi stagni) non ne sono sovraccarichi.
Nel caso di veleni invece, come insetticidi, erbicidi ed altre sostanze chimiche derivate dall'industria può capitare che non esistano organismi capaci di utilizzarli o di degradarli; così queste sostanze si accumulano e si concentrano contaminando l'ambiente naturale in maniera irreversibile.
Le acque correnti in natura contengono generalmente in soluzione materiali inquinanti organici ed inorganici, che però tranne in rari casi sono presenti in deboli concentrazioni e quindi non costituiscono un pericolo. Accade però che industrie e città riversino le loro acque inquinate nei corsi d'acqua, cosicché la concentrazione delle sostanze disciolte aumenta considerevolmente. I danni derivanti da ciò sono notevoli e spesso portano alla rottura delle catene trofiche degli ecosistemi acquatici, con conseguente scomparsa della flora e della fauna naturale.
L'inquinamento prodotto da sostanze organiche non tossiche, come gli scarichi domestici, è il meno grave, poiché è soggetto ad autoepurazione. Questo processo viene attuato in due fasi: una anaerobica, ed una aerobica. La prima avviene al di fuori della presenza della luce e dell'ossigeno atmosferico ad opera di batteri, funghi ed alghe microscopiche. Questi organismi se si trovano in un giusto rapporto con la massa dei liquami provenienti dalle fogne, portano alla formazione oltre che di anidride carbonica, di metano, idrogeno solforato ed ammoniaca che sono prodotti gassosi nocivi. Su questi avviene la fermentazione aerobica ad opera di batteri ossidanti che convertono tutte le sostanze precedenti in anidride carbonica, ossigeno e nitrati, sostanze utili agli ecosistemi. Se questo ciclo di autoepurazione non ha avuto modo di effettuarsi completamente perché i rifiuti erano troppo concentrati nell'acqua, o perché le comunità batteriche erano scarse o avvelenate, anche gli scarichi domestici diventano nocivi agli ecosistemi in quanto ricchi di quelle sostanze tossiche prodotte nella prima fase della fermentazione.
Molto più gravi ed irreversibili sono i danni provocati da sostanze di per sé tossiche per gli organismi viventi, come acidi e basi forti scaricati dalle industrie metallurgiche che provocano variazioni sensibili del fosforo degli ecosistemi acquatici. Altre volte i veleni sono costituiti da sali come il cloruro di calcio presente nelle acque di scarico delle cartiere o dai sali di cromo scaricati dalle industrie di pellami. Talora i danni sono provocati da scarichi e rifiuti delle industrie; questi anche se non contengono sostanze tossiche, come accade per esempio con i residui di fibre sintetiche che non sono velenose per gli organismi viventi, non essendo biodegradabili si accumulano sul fondo e impediscono lo sviluppo della fauna saprofita o intorbidano le acque. Il passaggio della luce viene limitato e conseguentemente si arresta la fotosintesi delle piante acquatiche. Poiché non esistono organismi capaci di aggredire e demolire queste sostanze, è evidente che l'inquinamento delle acque tende ad aumentare col tempo.
Un'alterazione simile si verifica negli ecosistemi acquatici che ricevano acque di scarico perfettamente depurate, ma ad alte temperature. Si parla in questo caso di inquinamento termico; un aumento di soli 10° C della temperatura delle acque provoca un raddoppiamento della velocità dei processi metabolici con un grave dispendio di energie e affaticamento (stress energetico) per le popolazioni acquatiche.
Tra i casi più eclatanti di avvelenamento delle acque ricordiamo quello relativo ai fiumi Tisza e Szamos, affluenti del Danubio, nei quali, nel febbraio 2000, si riversarono massicce quantità di cianuro proveniente da una miniera aurifera di Oradea, in Romania.
Un corso d'acqua inquinato dalla schiuma dei detersivi


LO SMOG

Le modificazioni più o meno profonde che le attività umane causano nella composizione dell'atmosfera sono spesso indicate con il nome complessivo di smog, termine che proviene dalla fusione di due parole inglesi smoke = «fumo» e fog = «nebbia». È quell'aspetto particolare che assume l'inquinamento atmosferico nelle città industriali delle zone con clima freddo, dove appunto il fumo delle attività industriali si mescola con la nebbia.
Lo scarico incontrollato di sostanze gassose o liquide finemente polverizzate (gli aerosoli) e le polveri solide, producono una vera e propria cappa di atmosfera velenosa per molte specie e assai pericolosa anche per l'uomo. Nell'ottobre del 1948 nei pressi di Pittsburgh negli Usa, una densa nube di smog sostò per qualche tempo sulle abitazioni. Le conseguenze di questo ristagno di atmosfera furono disastrose: quasi la metà dei 12.000 abitanti ebbe disturbi più o meno gravi al cuore e all'apparato respiratorio. A Londra, nel 1952, una nube velenosa uccise in una settimana quasi 4000 persone. Questi terribili episodi sono stati i primi campanelli d'allarme circa il deterioramento prodotto sulla nostra specie dall'aria che si respira nelle città industriali.
Mille automobili immettono quotidianamente nell'aria che respiriamo una media di 3,2 t del pericolosissimo ossido di carbonio, mentre il limite tollerabile per la sicurezza della nostra specie è di sole cinquanta parti su un milione. Questo scarico è continuamente diluito dallo spostamento delle masse d'aria, ma è sempre presente il rischio che si formi, per motivi meteorologici, una cappa al di sopra di località ristrette e mal ventilate dove il gas intrappolato può concentrarsi e produrre anche la morte per soffocamento. L'ossido di carbonio si combina in maniera molto più rapida dell'ossigeno con l'emoglobina dei globuli rossi del sangue e forma con essa un legame stabile sottraendola per sempre alla sua funzione di trasportare l'ossigeno dall'ambiente esterno ai vari tessuti. Le prime ad essere colpite sono in questo caso le cellule del sistema nervoso che per assenza di ossigeno muoiono in brevissimo tempo.
Auto alimentate ad idrogeno

Oltre ai danni diretti che i gas tossici determinano nelle popolazioni animali e vegetali, c'è anche da considerare il cosiddetto "effetto serra". Con questa espressione si indica il fenomeno per cui l'atmosfera carica di pulviscolo si comporta come il vetro di una serra non permettendo al calore rifratto della superficie terrestre di disperdersi. Ne risulta un aumento costante della temperatura che potrebbe causare gravi conseguenze, favorendo ad esempio lo scioglimento dei ghiacci polari. Variazioni anche modeste di temperatura hanno in passato prodotto forti modificazioni degli ambienti naturali.
Il continuo aumento della popolazione mondiale, il progressivo deterioramento degli ambienti primari provocato dall'intenso sfruttamento, il cattivo uso delle terre coltivabili e la loro ripartizione sperequata, l'ignoranza ed il disinteresse per la conservazione delle residue risorse naturali rendono questo problema attuale e non facilmente risolvibile. In particolare occorre tener presente che l'inquinamento dell'aria è solo uno degli aspetti del più vasto problema dell'inquinamento. Questo non si affronta né si può risolvere con misure che mirano al salvataggio di una determinata specie o di un limitato ambiente. Occorre ripensare al modo con cui negli ultimi decenni si è organizzato il mondo industriale. È finito il tempo di soccorrere la natura solo perché è bella o è fonte di svago. Inutile preoccuparsi per la conservazione delle singole specie perché ormai rare o economicamente importanti; inutile ed estremamente rischioso perché una politica di questo tipo conduce a squilibri biologici, favorendo innaturalmente una specie rispetto alle altre presenti nel particolare ambiente naturale. Rischioso risulta soprattutto affidarsi alla sopravvivenza di una sola varietà. Operazione che evidentemente non è in grado di mantenere i delicati rapporti che legano la catena trofica.
Verso questo programma di più ampio respiro si stanno orientando ormai tutte le forze che negli ultimi anni hanno preso a cuore il problema della conservazione delle risorse naturali; le Nazioni Unite ed altri organismi internazionali a livello mondiale attraverso le organizzazioni specializzate (Fao, Unesco, ecc.), il World Wildlife Found (Wwf), fondazione mondiale per la salvaguardia della Natura.
Un caso tipico di inquinamento atmosferico

Un tipo del tutto particolare di smog è il cosiddetto elettrosmog, o inquinamento elettromagnetico. Distinguibile in elettrosmog in bassa frequenza (ELF), prodotto dai tralicci di elettrodotti, e in elettrosmog in alta frequenza (EHF), prodotto da antenne, telefonini, radar e ripetitori, è regolamentato da una serie di leggi e decreti che ne limitano l'intensità, pericolosa per la salute (un disegno di legge del 1999 stabiliva il livello di attenzione in 0,5 μtesla, mentre il decreto Ronchi del 1998 fissava in 0,2 μtesla il limite di qualità per i nuovi centri e per le aree dedicate all'infanzia). Nel 2000 il governo inglese chiese all'epidemiologo R. Doll di effettuare uno studio approfondito sui danni dell'inquinamento elettromagnetico e lo studioso rilevò la possibile esistenza del legame fra tralicci dell'alta tensione e leucemia infantile. In Italia, nel 2001, fece scalpore l'iniziativa presa da un gruppo di abitanti di Cesano, un centro alle porte di Roma, che iniziarono una dura lotta contro i trasmettitori di Radio Vaticana, posizionati in prossimità delle loro abitazioni, riuscendo ad ottenere dall'emittente vaticana l'abbassamento della potenza di emissione in onda media dell'impianto di trasmissione in questione.

I PARCHI NAZIONALI

I parchi nazionali sono territori in cui si cerca di conservare l'ambiente naturale con apposite leggi. Il primo parco nazionale fu istituito nel 1872 negli Usa (parco di Yellowstone dove sopravvivono esemplari di bisonte), ma fino ad epoca recente non si pensava che occorresse proteggere e conservare una natura che pareva avere riserve inesauribili. I parchi erano usati con l'intenzione di dare una protezione completa su un'area dove non si dovevano compiere interventi di alcun tipo. A poco a poco ci si rese conto che non era sufficiente preservare lo stato naturale ma occorrevano un controllo e un intervento diretto nell'ambiente seguendo i principi dei meccanismi studiati dall'ecologia.
In Italia il primo parco nazionale ad essere istituito fu quello del Gran Paradiso nel 1922. All'inizio del terzo millennio, il numero dei parchi nazionali è salito a venti. Complessivamente, le zone protette coprono oltre un milione e mezzo di ettari, pari al 5% circa del territorio nazionale.
I parchi nazionali hanno lo scopo di preservare non solo la flora, ma anche la fauna. Insieme a paesaggi suggestivi e unici, nei parchi nazionali si possono trovare specie animali altrove scomparse o in via d'estinzione.
I parchi nazionali, che dipendono direttamente dal Ministero dell'Ambiente, integrano e completano la salvaguardia operata dai parchi regionali in quanto gestiscono un territorio ampio e variegato, con una significativa presenza umana. Oltre alla vigilanza sull'ambiente e alla pianificazione atta a proteggere animali e piante, i parchi nazionali devono quindi assumere un ulteriore compito, diventando strumento di collegamento e valorizzazione delle realtà locali, che devono trovare, nella salvaguardia del territorio in cui operano, l'elemento di coesione tra le culture locali e la risorsa chiave del loro sviluppo.
Un ruolo importante nell'intervento statale di tutela stanno assumendo i parchi marini, spesso formati da isole o interi arcipelaghi, destinati a proteggere in modo integrato tratti di mare e di costa che presentano componenti ambientali e paesaggistiche ad un tempo eccezionali e caratteristiche del Mediterraneo.
L'ostilità che di solito i progetti di parco incontrano tra gli agricoltori non può essere compresa davvero se non si tiene presente anche l'esperienza dei contadini di un'epoca più lontana.
Pensiamo al Medioevo: in Europa il villaggio ha come orizzonte inquietante la foresta, così come nel mondo islamico l'orizzonte, altrettanto inquietante, della civiltà è il deserto.
La foresta rappresenta in Europa il deserto. I pericoli di questo deserto sono rappresentati da un lato dalla presenza di animali come orsi e soprattutto lupi, che negli inverni più rigidi arrivano ad attaccare l'uomo anche in prossimità dei villaggi, e dall'altro dal fatto che il bosco è il rifugio di ladroni, banditi e malfattori d'ogni sorta. Ma il bosco è anche una quasi inesauribile risorsa di materiali (legname), di combustibili (legna da ardere), di alimenti (la selvaggina e i frutti del sottobosco); nei boschi si portano a pascolare i maiali. Con i banditi e i ribelli i contadini possono avere anche ottime relazioni, ma la foresta è un ambiente infido, che nell'immaginazione popolare rimane a lungo associata alle tenebre, al pericolo di smarrirsi, alla minaccia di forze misteriose e di esseri mostruosi.
Non per tutti, però, è così: principi e signori, bene armati e scortati, si avventurano nelle foreste più tenebrose per esercitare quella che è, oltre che la loro passione preferita, uno dei loro più importanti privilegi economici: la caccia. La selvaggina infatti è riservata a loro, e se i contadini ne mangiano è perché l'hanno cacciata di frodo. Per dare spazio ai loro privilegi di caccia, le classi dominanti non esitano a ricorrere all'espulsione forzata dei contadini: per dare un habitat al cervo mettono a ferro e fuoco i villaggi.
La caccia è insieme un'attività economica (procura carne e pelli, difende le colture dai danni delle fiere), una forma di addestramento alla guerra, un divertimento. L'uno o l'altro di questi aspetti può di volta in volta prevalere.
In Europa, con l'incremento della popolazione e con il rarefarsi della selvaggina, la caccia invertì le sue funzioni: dalla difesa delle coltivazioni si passò alla difesa della selvaggina; da attività utile si trasformò progressivamente in attività ricreativa. La foresta, prima minacciosa e inquietante, divenne così natura selvaggia che doveva essere difesa per collocarvi l'esercizio della caccia come privilegio sociale; di conseguenza venne organizzato lo spazio a fini di divertimento con divieti, riserve, ecc.: una natura da difendere contro l'intrusione dell'uomo, di certi uomini.
E il principio della riserva non mancò di essere giustificato, già in antico, col bene di coloro stessi che venivano esclusi:
«Essendo la caccia un servizio proprio a distogliere i contadini e gli artigiani dal loro lavoro e i mercanti dal loro commercio - diceva un'ordinanza del re di Francia del XVI secolo - è utile per il loro interesse e per l'interesse pubblico di proibirla loro».
È qui che vanno cercate le premesse ideologiche, neppure tanto lontane, dell'attuale politica dei parchi. Anche il più grande parco nazionale italiano - quello del Gran Paradiso - ha la sua origine nella Riserva Reale di caccia istituita da Vittorio Emanuele II nel 1856.
I parchi faunistici del Sudafrica

Parchi nazionali italiani

Ad oggi nel nostro Paese sono stati istituiti 21 parchi nazionali e 3 sono in attesa dei provvedimenti attuativi. Complessivamente coprono oltre un milione e mezzo di ettari, pari al 5 % circa del territorio nazionale.
I parchi nazionali sono costituiti da aree terrestri, fluviali, lacuali o marine che contengono uno o più ecosistemi intatti o anche parzialmente alterati da interventi antropici, una o più formazioni fisiche, geologiche, geomorfologiche, biologiche, di rilievo internazionale o nazionale per valori naturalistici, scientifici, estetici, culturali, educativi e ricreativi tali da richiedere l'intervento dello Stato ai fini della loro conservazione per le generazioni presenti e future.
Il parco nazionale integra e completa la salvaguardia operata dai parchi regionali occupandosi di territori alquanto vasti e coinvolgendo diverse decine di Comuni. Oltre alla pianificazione e alla vigilanza, il parco nazionale deve esaltare la sua missione di strumento di collegamento e valorizzazione delle realtà locali che devono trovare nella bellezza del territorio su cui abitano l'elemento di coesione, la risorsa chiave del loro sviluppo.
Un ruolo importante nell'intervento statale di tutela stanno assumendo i parchi marini, destinati a proteggere in modo integrato tratti di mare e di costa (spesso intere isole o arcipelaghi) che presentano componenti ambientali e paesaggistiche ad un tempo eccezionali e caratteristiche del Mediterraneo. Elenchiamo di seguito il 21 parchi nazionali presenti nel nostro Paese nel 2005:

Parco nazionale d'Abruzzo
Parco nazionale dell'Appennino Tosco-emiliano
Parco nazionale dell'Arcipelago di La Maddalena
Parco nazionale dell'Arcipelago Toscano
Parco nazionale dell'Asinara
Parco nazionale dell'Aspromonte
Parco nazionale della Calabria
Parco nazionale del Circeo
Parco nazionale del Cilento e Vallo di Diano
Parco nazionale Dolomiti Bellunesi
Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona, Campigna
Parco nazionale del Gargano
Parco nazionale del Gennargentu e del Golfo di Orosei
Parco nazionale del Gran Paradiso
Parco nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga
Parco nazionale della Maiella
Parco nazionale dei Monti Sibillini
Parco nazionale del Pollino
Parco nazionale dello Stelvio
Parco nazionale della Val Grande
Parco nazionale del Vesuvio

Parchi nazionali in attesa dei provvedimenti attuativi

Parco Nazionale dell'Alta Murgia
Parco Nazionale della Val d'Agri e Lagonegrese
Parco Nazionale delle Cinque Terre
Parco Nazionale della Sila

Parchi regionali italiani

I parchi naturali regionali oltre ad aumentare sensibilmente la complessiva superficie di territorio nazionale protetto, hanno dato l'avvio a una stagione di dibattito e di innovazione concettuale sui temi della forma, del ruolo e della gestione delle aree protette. I parchi si sono così proposti come terreno di sperimentazione ecologica permanente, dove si riesca a definire un modello di gestione territoriale da estendere al resto del Paese. Le aree protette regionali coprono oggi una superficie di più di un milione di ettari.

NATURA E CULTURA

Occorre esser cauti nell'attribuire al termine natura un significato sempre e comunque positivo, come è venuto in uso da quando l'ecologia è diventata una scienza di moda. La natura in sé rappresenta un ambiente inabitabile per l'uomo: è esattamente l'opposto dell'immagine sdolcinata che una certa ideologia cara ai mass media ha diffuso in questi ultimi anni.
La contrapposizione tra natura e cultura (o società) tende sovente a collocare sul primo termine tutti i significati positivi e sul secondo quelli spiacevoli e negativi. Da una parte ci sarebbe una natura definita «vergine», «originaria», «primigenia»; dall'altra l'uomo con la sua storia e soprattutto con la sua attività devastatrice.
Accettando questa contrapposizione il paesaggio umanizzato, ossia costruito e modellato dall'uomo finisce con essere definito «alterato», che è una connotazione negativa rispetto all'età dell'oro della foresta primigenia.
I terreni coltivati, le strade e i paesi, rappresenterebbero dunque l'ambiente naturale rovinato; al contrario l'ambiente genuino sopravviverebbe nei residui della natura, cioè nelle siepi, nei boschetti, ecc.
È una concezione falsa; le siepi, i boschetti sono il prodotto dell'uomo: non costituiscono affatto i frammenti di una natura originaria, relitti o reliquie naturali di un mitico e lontanissimo passato, ma una creazione storica ben datata che ha richiesto all'agricoltura le stesse cure e le stesse fatiche dei campi coltivati.
Prendiamo quel tipo di paesaggio agrario, che è detto del bocage e che è caratterizzato, appunto, dalla frequenza di boschetti e di siepi arboree, che segnano i limiti dei campi. Ebbene, queste siepi, associate a terrapieni e fossati, richiedevano cure costanti: si procedeva regolarmente a tagliare il bosco (per ottenere legname da costruzione e legna da ardere), l'erba e i cespugli (per la stalla); si doveva poi provvedere al periodico espurgo dei fossi e alla ricostruzione degli argini e delle scarpate erose dall'acqua. Il bocage, insomma, è un paesaggio giardino. La siepe è così poco una formazione naturale, che richiede una coltura ad alta intensità di lavoro; è una formazione vegetale inglobata nel modo di produzione agricola.
Proprio qui, nell'alta intensità di lavoro richiesta da questo tipo di paesaggio, stanno le ragioni della sua attuale decadenza. Che cosa è accaduto infatti negli ultimi anni? È accaduto che, mentre il legname perdeva valore e aumentava il costo del lavoro necessario a curare le siepi, la loro manutenzione è stata trascurata, le piante sono diventate selvatiche: i rami si sono allungati, i cespugli e le erbe hanno invaso i campi, i fossi si sono riempiti, i terrapieni si sono disgregati lentamente. La siepe, alterata dal suo mancato uso produttivo, è diventata matura per il bulldozer. Altro che residui della natura!
Si rischia spesso di confondere una campagna abbandonata per un ambiente naturale incontaminato. È un errore alimentato da chi trova conveniente sbarazzarsi dei contadini, che spesso sono gli unici o i principali ostacoli al progetto di utilizzare il territorio per scopi esclusivamente o prevalentemente turistici.
Alla stessa logica sembra ispirarsi talvolta anche la proposta di generalizzazione dei parchi naturali; si dice di voler proteggere la natura, mentre in realtà vietando (talvolta in modo veramente dissennato) interventi anche minimi che potrebbero migliorare sensibilmente le condizioni dei contadini che nell'ambiente vivono e lavorano, si attua una delle forme con cui continua la loro secolare espropriazione, la loro cacciata dalla terra. Si dimentica così che proprio a loro, al loro lavoro, i cittadini devono la possibilità di fruire di un ambiente ospitale: la campagna, un antico e complicato manufatto.