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Pòpolo.

(dal latino populus). Insieme dei cittadini residenti in uno Stato, in quanto collettività unita e omogenea relativamente all'ambito dei diritti civili e politici. Il p. rappresenta, insieme al territorio e alla sovranità, uno dei tre elementi fondanti l'organizzazione statale. Nei moderni regimi democratici il p. è soggetto attivo della sovranità, arbitro delle proprie decisioni e depositario dei poteri politici, partecipando direttamente o, più spesso, indirettamente all'esercizio del Governo mediante gli organi di rappresentanza (V. DEMOCRAZIA). ║ Categoria che comprende la classe sociale più numerosa ma di condizione economica modesta e meno privilegiata rispetto, ad esempio, agli aristocratici. ║ P. grasso e p. minuto: rispettivamente la borghesia e i ceti meno abbienti. Da questa accezione discende anche il diminutivo con valore dispregiativo di popolino. ║ Per estens. - Nel Medioevo, il termine p. indicò forme di Governo o organismi pubblici di natura democratica, quali il primo e secondo p. di Firenze, in riferimento agli esperimenti repubblicani del 1250 e del 1266. ║ In senso generico, un aggregato omogeneo di persone, animali: i p. della Terra, il p. di Milano. ║ Per estens. - Insieme di animali, cose o esseri fantastici: il p. delle fate. • Rel. - L'insieme dei semplici fedeli, in quanto distinti dal clero. • St. del dir. - Nell'antica Roma, il termine indicava inizialmente l'esercito, come mostra il legame etimologico con il verbo populari: devastare, saccheggiare, che esprime attività di guerra. Tale accezione schiettamente militare emerge anche dal titolo ufficiale del dittatore (magister populi: capo dell'esercito) e dalla locuzione, indicante il complesso dei cittadini, populus plebesque, vale a dire i censi in grado di provvedere al proprio armamento, e il resto della moltitudine più indigente. In seguito il vocabolo passò a indicare l'insieme dei cittadini riuniti ufficialmente nelle assemblee, accezione rifluita nella formula Senatus populusque romanus, comprensivo dell'organo legislativo espressione dei patrizi quanto della totalità dei cittadini. Infine si affermò progressivamente l'accezione neutra di moltitudine. A partire da questo significato, il diritto moderno adotta il vocabolo per indicare il presupposto di ogni organismo statale, l'elemento personale necessario alla sua nascita, non potendosi dare uno Stato cui non preesista un corpo sociale. In questo senso p. è concetto giuridico che si distingue dal contiguo popolazione (V.), che ha invece valore puramente statistico, in quanto indica il dato numerico e strutturale del complesso di individui residenti e operanti in un dato territorio. P. è anche concetto distinto da quello di Nazione (V.), cui si connettono valenze di tipo etnico, religioso e storico-culturale, che possono anche travalicare gli ambiti strettamente giuridici (si pensi alla coscienza di unità etnico-culturale dei Curdi, che sopravvive a un secolare smembramento della loro terra e delle loro comunità tra Turchia, Iran e Iraq). Nei moderni ordinamenti democratici, il p. è costituito dai cittadini, cioè da soggetti giuridici che da tale condizione derivano diritti e doveri, cui è in primo luogo attribuito l'esercizio della sovranità all'interno dello Stato (prerogativa in parte mutuata, nel pensiero giuridico attuale, da istituti cittadini del mondo classico). L'assunzione del p. come soggetto della sovranità e non come oggetto di essa (vale a dire il passaggio dell'individuo dalla condizione di suddito a quella di cittadino) segna il discrimine fra Stato assoluto e democratico. Nel primo, infatti, il re incarnava la sovranità per diritto divino, cioè insindacabile, e a lui i sudditi dovevano sottomissione, come ai suoi provvedimenti legislativi e giudiziari: tale stato di cose aveva tuttavia limitazioni più o meno consistenti, fra cui le più significative furono quelle concretizzate in Inghilterra a partire dal XIII sec. Grazie ad esse il re vedeva i suoi poteri limitati in varia misura dal Parlamento, cui doveva rispondere del proprio operato. In tal modo il p. esercitava una parziale sovranità, eleggendo suoi rappresentanti attraverso i quali poteva porre dei limiti all'autocrazia del re. Analogamente, durante l'età comunale in Italia, il p. poté godere di un certo potere, se pur mediato dalla ferrea organizzazione delle corporazioni delle arti e dei mestieri: queste ultime emanavano leggi, concorrevano fra loro nel controllo del Governo cittadino, organizzavano milizie, spesso dandosi un unico capo, detto capitano del p. L'evoluzione del Comune a Signoria, tuttavia, ridusse enormemente tale spazio di attiva partecipazione popolare, che fu del tutto vanificato nei principati veri e propri. Il momento storico che operò una reale e stabile rottura sia politica sia culturale con l'assolutismo della forma statale fu quello della Rivoluzione francese, in cui venne affermata la sovranità del p., in quanto comunità di individui dotati di perfetta uguaglianza giuridica fra loro. Una volta acquisito che i poteri dello Stato provenivano direttamente dal p., conseguì che le leggi dovevano essere espressione della volontà generale e che i governanti non dovevano essere che mandatari del p. stesso. Nonostante la parziale e momentanea cesura operata dalla Restaurazione in Europa, l'impianto giuridico rivoluzionario declinato con forme istituzionali mutuate dal modello inglese costituì la base del moderno Stato democratico. Nel tempo, in Europa come in America, l'introduzione del suffragio universale corresse il più vistoso e contraddittorio ostacolo all'effettivo esercizio della sovranità da parte del p., e cioè la base elettorale ristretta e calcolata sul censo. Allo stesso fine furono studiati anche gli istituti di democrazia diretta quali referendum e plebisciti. ║ La Costituzione della Repubblica italiana è espressione compiuta della generale volontà popolare, essendo stata emanata nel 1948 da un'Assemblea Costituente eletta a suffragio universale nel 1946. Essa nel suo primo articolo recita: "L'Italia è una Repubblica democratica... La sovranità appartiene al p. che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione". Tale sovranità popolare si esprime concretamente: 1) nel suffragio universale come strumento elettorale per eleggere i membri degli organi che esercitino il potere legislativo sia a livello nazionale (Parlamento) sia a livello amministrativo (Consiglio regionale, provinciale, comunale); 2) nell'istituto referendario, che consente al p. di partecipare direttamente, in alcune occasioni e secondo precise modalità, alla medesima funzione legislativa; 3) nella partecipazione all'amministrazione della giustizia attraverso l'istituto dei giudici popolari nei giudizi di Corte d'Assise. La sovranità popolare garantita e istituita dalla Costituzione, inoltre, si pone come bene proprio di ogni individuo in quanto cittadino, e non solo del corpo elettorale nel suo complesso (V. anche STATO e COSTITUZIONE). • St. delle Rel. - Nell'Ebraismo, il concetto di p. è inscindibile da quello di elezione. L'Alleanza stabilita da Yahvé con Israele sul Monte Sinai è il momento costitutivo, la fondazione del p. stesso che esiste solo in quanto prescelto dal Signore: di qui la locuzione p. eletto. La teologia cristiana, una volta che il Cristianesimo ebbe conseguita la condizione di religione ufficiale nell'Impero, considerò decaduto Israele dallo status di p. eletto, sostituendo tale concetto con quello di p. di Dio, espressione già attestata nell'Antico Testamento a indicare la comunità dei fedeli. L'ecclesiologia più recente, a partire dal Concilio Vaticano II, intese questa definizione comprensiva tanto di Israele (affermando il suo permanere come oggetto di elezione) quanto della Chiesa. Ancora il pontificato di Pio XII aveva propugnato una visione della Chiesa in chiave verticistica e dirigistica, incarnata essenzialmente nella gerarchia e nel clero. La teologia più recente, invece, identifica la Chiesa nel complesso del p. di Dio, composto cioè da tutti i battezzati, dal clero come dai laici, e riconosce nell'assemblea dei fedeli (ekklesía) il vero soggetto attivo della Chiesa. ║ Nell'Islamismo, come già nell'Ebraismo, il concetto di p. (ummah) ha valenza contemporaneamente politica e religiosa. Elemento fondante dell'unità del p. islamico (che può raccogliere infiniti p.) non è l'etnia, ma la comune fede nell'Islam e la sua caratteristica teologica è l'infallibilità, dal momento che, recita una sura, "il mio p. non si accorderà mai su un errore".