Portatore del fuoco è una delle più grandi immagini che siano scaturite dalla
profondità del mito e ha una tradizione letteraria e artistica che dalla più
lontana antichità classica si estende ininterrotta fino ai nostri giorni.
Nume del fuoco in origine, poeti e mitografi lo rivestirono dei più complessi
significati filosofici e morali facendone un simbolo dello spirito umano nel suo
anelito verso la luce e la libertà.
Nelle Opere e i giorni di Esiodo, il primo poeta che s'ispiri al mito, Promèteo
si staglia con le dimensioni di un titano benefico anelante alla liberazione
degli uomini cui dona il fuoco e le arti contro il volere di Giove; il quale
manda sulla terra Pandora, principio di tutti i mali, e punisce Promèteo
facendolo legare a un palo sul Caucaso dove un'aquila gli rode il fegato sempre
rinascente.
Platone, nel Protagora accoglie una varietà del mito che indica in Promèteo il
creatore della stirpe; e riferimenti all'eroe si trovano nelle opere di Sofocle.
Euripide, fino ad Aristofane e alla commedia attica che lo volge ormai in chiave
d'ironia.
Ma è nel Promèteo incatenato che il mito si presenta in tutta la ricchezza dei
suoi motivi. È la più facile delle tragedie di Eschilo (525-456 a. C.) e la più
difficile: la più facile per l'interpretazione letterale, la più difficile per
una interpretazione critica. Fu parte di una trilogia: ma non avendo
testimonianze dirette come la trilogia fosse costituita, di certo possiamo dire
solo questo, che il Prométeo liberato seguiva l'Incatenato; se poi il Prométeo
portatore del fuoco aprisse la trilogia o la chiudesse, l'una e l'altra sono
ipotesi ugualmente congetturabili. Né sappiamo niente della data: diremmo tra i
Persiani e i Sette a Tebe. Personaggi della tragedia sono tutte divinità: Cratos
e Bia (Bia è personaggio muto), Efesto, Promèteo, Coro delle figlie di Oceano,
Oceano, lo figlia di Inaco, Ermes. La scena è in una regione deserta della
Scizia, su un dirupo montano; non lungi dal mare. Promèteo, colpevole di aver
tolto il fuoco agli dèi e di averne insegnato l'uso ai mortali, è tratto da
Cratos e Bia, due satelliti agli ordini diretti di Efesto e quindi di Zeus, su
codesto dirupo, e quivi lo incatenano. Durante l'incatenamento Promèteo non
proferisce parola. Partiti i tre, c'è la grande e famosissima monodia di
Promèteo, "O luminoso etere, o venti dalle rapide ali, o sorgenti dei fiumi,
sorriso innumerevole delle acque del mare". Odono dal mare il lamento le
Oceanidi, e accorrono. Siamo ai primissimi tempi del regno di Zeus, poco dopo
che Zeus, aiutato dallo stesso Promèteo, rovesciò dal regno Crono e i Titani
alleati. Alle Oceànidi Promèteo narra le proprie colpe, sopra tutto come dette
agli uomini il beneficio del fuoco. Viene in scena Oceano. Viene per consigliare
Promèteo a dimettere tracotanza, a dimostrare remissione e saviezza, a
promettergli aiuto. Promèteo risponde ironico, respinge lui e i suoi consigli. E
séguita a narrare alle Oceànidi di che altri benefici sollevò, di quali altri
insegnamenti istruì la infelice stirpe degli uomini mortali. - Ma tu, Promèteo,
perché non provvedi a te stesso? - Giorno verrà che anche Zeus dovrà cedere al
destino. - Qui Promèteo, oscuramente accenna a un suo segreto che sarà l'arma
della sua liberazione. A questo punto entra in scena, correndo e agitandosi
scompigliatamente, una giovinetta che ha due brevi corna su la fronte: è Io, la
lontana ava di Èracle, il liberatore. Ella percorre la terra inseguita e morsa
da un assillo che è la vendetta della gelosia di Era contro di lei e contro
Zeus. Càpita per caso dinanzi all'incatenato. Non sa chi è. Più stupisce di
udire ella da lui il proprio nome. Io racconta al Coro le sventure patite;
Promèteo predice a Io quel che tuttavia le rimane da patire. Ma anche le predice
la fine del regno di Zeus, se egli, Promèteo, non sarà prima liberato: che è il
segreto rivelatogli un giorno da Tèmide-Gea, sua madre. - E chi libererà te? -
chiede Io. - Un nato dalla tua tredicesima generazione (di fatti Èracle discende
da Io dopo dodici generazioni). Così il velo un poco si dischiude e il dramma
volge alla fine; e prepara il dramma seguente. Zeus manda Ermes da Promèteo,
perché vuol sapere che cos'è questo segreto che così orgogliosamente egli dice
di conoscere. Promèteo rifiuta. E allora una enorme ruina della terra e del
cielo lo travolge; la roccia a cui Promèteo è legato si squarcia, ed egli cade
giù nel vuoto e scompare. Ricomparirà sul Caucaso, nel dramma successivo; e
allora rivelerà il segreto, e Èracle lo scioglierà dalle catene. Il Prométeo
incatenato fu dramma di maggior fortuna, più che gli altri di Eschilo, mezzo
secolo fa, in un ambiente spirituale specialmente inclinato a negazioni e
ribellioni antiautoritarie; segnatamente a negazioni e ribellioni
antichiesastiche. Inutile dire che, di tutte le interpretazioni, questa è la più
aliena dallo spirito di Eschilo in generale e dal significato della tragedia in
particolare.
Eschilo è un modello eterno di aspra grandezza e di un entusiasmo non raffinato.
(F. Schlegel).
Trapiantato a Roma col teatro greco, il mito ebbe molte trascrizioni poetiche e
teatrali tra cui la tragedia Prometheus di Lucio Accio (n. 170 a. C.) imitata da
Eschilo e perduta con molte altre.
Luciano di Samosata (circa 125-185 d. C.), trasse dalla tragedia eschilea uno
dei suoi dialoghi argutamente satirici e drammatici, Promèteo o Il Caucaso. Lo
scrittore, che già coi Dialoghi marini e coi Dialoghi degli dèi aveva rivolto la
sua satira alle credenze mitiche primitive, dimostrando quanto vane, stolte, e
spesso immorali esse apparissero se presentate prive della poesia con la quale
le avevano rivestite Pindaro o Eschilo, addenta qui col suo sarcasmo il
principio dell'"eterna giustizia". La scena del dialogo è nel Caucaso, come nel
Promèteo di Eschilo; l'aquila che per volere di Zeus deve rodere il fegato di
Proèteo non è ancora giunta e il titano ne approfitta per svolgere alla presenza
di Ermes ed Efesto, gli esecutori degli ordini divini, un'apologia sagace e
arguta delle colpe che gli sono attribuite - spartizione dolosa delle carni a un
banchetto di Zeus; creazione degli uomini; furto del fuoco -; apologia
abilissima e condotta secondo tutte le regole della retorica, veramente degna di
un grande oratore. Zeus, il quale dai rimproveri che Promèteo gli rivolgeva
nella tragedia di Eschilo appariva quasi ingrandito, potente e terribile nella
sua ira, non è qui che un essere ingiusto e irragionevole, privo di qualsiasi
grandezza e dignità, dal quale Promèteo potrà comperare la liberazione dalla
terribile pena mediante una profezia che, benché pregato da Ermes impietosito di
lui, non vuole svelare appunto perché sta oramai sopraggiungendo l'aquila e
perché sarà il prezzo del riscatto. L'ironia in questo dialogo è più forte che
non nei Dialoghi marini e in quelli degli dèi perché non è dissimulata: abbiamo
dinnanzi un vero eroe che, difendendo se stesso, non solo fa un aperto e
terribile capo d'accusa contro la divinità, ma convince della sua ingiustizia i
suoi stessi ministri. Lo stile è, come sempre in Luciano, limpido ed elegante,
atto a mettere in rilievo argomenti semplici e inconfutabili quali quelli di
Promèteo; la lingua è per lo più attica.
Il mito di Promèteo doveva trovare nuove fortune in un'epoca di virilità
prorompente come il Rinascimento e l'età barocca. Ma più che nella poesia e
nella tragedia trova raffigurazioni e apologie nella pittura. Tuttavia è celebre
nel Seicento spagnolo la commedia mitologica La estatua de Prometeo di Pedro
Calderón de la Barca (1600-1681), composta nel 1669, pubblicata nella Quinta
Parte de comedias, ecc. (Barcellona, 1677). Il poeta spagnolo traduce il mito in
un simbolismo filosofico di una concettosità piena di riferimenti teologici, ma
illuminato spesso da una abbagliante poesia.
Il Romanticismo interpretò Promèteo come il ribelle indomito e ne fece uno dei
suoi eroi. Celebre è il frammento drammatico in versi di Wolfgang Goethe
(1749-1832), Prometheus, steso nel 1773, pubblicato postumo nel 1878. Nel
discorso commemorativo di Shakespeare, che il Goethe pronunciò nel 1771,
cominciò a disegnarsi il personaggio prometeico quale fondatore dell'uman genere
e nel 1772 nell'Architettura tedesca, quale mediatore fra il cielo e la terra.
Il Discours sur le rétablissement des sciences et des arts (1750) del Rousseau,
l'influsso del Herder e infine lo scritto del Wieland, il Dialogo in sogno con
Promèteo contribuirono in parte alla concezione di quest'opera, i cui principali
ispiratori furono però Eschilo e Voltaire. Il vecchio mito, così rivissuto
nell'atmosfera del tempo, accese la fantasia creatrice del giovane poeta, che
gli diede nuova forma e nuova vita. Il frammento consta di due atti. Nel primo,
Promèteo, in un dialogo con Mercurio, si ribella alla soggezione degli dèi e,
riconoscendo solo la superiorità del Fato, rifiuta la proposta del fratello
Epimeteo di sedere pari agli dèi sull'Olimpo. "Voglion spartire con me, e io
penso di non avere nulla da spartir con loro. Ciò ch'io posseggo non possono
togliermelo e ciò ch'essi posseggono se lo custodiscano". Epimeteo gli
rimprovera il suo isolamento: "Il tuo orgoglio ignora la voluttà di sentirti
intimo nel tutto con gli dèi, con te stesso, coi tuoi, con l'universo e il
cielo". Ma Promèteo non riconosce altra totalità all'infuori della propria
potente forza creatrice e si sente uno con le proprie creature. Nella scena
successiva con Minerva, la ribellione s'afferma positivamente come conquista di
libertà; s'egli finora s'era piegato a portare il peso impostogli dai celesti,
la dea riconosce che codesto suo servaggio servì solo a renderlo degno di quella
libertà ch'egli proclama altamente per sé e per gli altri uomini. E allora ella
gli apre il mistero della sorgente di vita conosciuta solo dagli dèi. Nel
secondo atto, "Giove, a Mercurio che gli annunzia, quasi per muoverlo a vendetta
e castigo, l'alto tradimento di Minerva e la brulicante e giubilante genìa umana
che si agita sulla terra, risponde che gli uomini sono e debbono essere, e che
essi accrescono il numero dei suoi servi, e bene per loro se seguiranno la sua
paterna guida, male se contrasteranno al suo braccio di principe. E poiché il
fido messaggero vorrebbe affrettarsi a riportare alle nuove creature quella
parola di bontà, egli dice saggiamente e bonariamente con mitezza sorridente:
"Non ancora! Nella fresca letizia giovanile l'anima loro si finge pari agli dèi.
Non ti daranno ascolto, fin tanto che non avranno bisogno di te. Abbandonali
alla loro vita!". C'era rischio che, svolgendo questo motivo, il fremente
consenso con Promèteo si convertisse nella riverenza per Giove, per la saggezza
e l'armonia; e perciò forse il dramma incagliò, e si arrestò ai frammenti che
possediamo, nei quali è, tra l'altro, bellissima la prima sensazione della morte
sulla terra - Pandora che vede morire la figlia Mira -, e l'idea della morte
come supremo ribollimento di vita e palingenesi, espressa da Promèteo.
Dallo schizzo abbandonato il Goethe trasse fuori una breve e vigorosa lirica,
che è il suo vero Promèteo giovanile, non quello che sarà moderato da Giove e
con lui si concilierà, ma quello che afferma l'inutilità degli dèi, e la
possanza, pienezza e autonomia della vita umana" (B. Croce).
"Copri il tuo cielo, Giove, di nubilosi vapori ed esercitati su le querce e le
cime dei monti, pari a fanciullo che decapiti cardi: ma lasciarmi tu devi la mia
terra e la mia capanna, che non tu costruisti, e il focolare, la cui fiamma
m'invidi! - Nulla conosco io sotto il sole più povero di voi dèi! Di sacrifici e
d'incensi a stento nutrite la vostra maestà e languireste se non ci fossero,
speranzosi pazzi, mendicanti e bambini... - Io onorarti? Perché? Hai forse tu
mai alleviato il dolor dell'oppresso? Hai forse tu mai asciugato le lacrime
dell'afflitto? E me non han forse fatto uomo il Tempo onnipotente e il Fato
eterno, signori miei e tuoi? - Vaneggeresti forse ch'io dovessi odiare la vita,
nel deserto fuggirmene perché non tutti i sogni diedero frutti? - Qui fermo io
sto, formo a mia immagine uomini, una stirpe a me simile, destinata a soffrire
piangere godere e gioire, e a non curarsi di te, come fo io!"
A una tragedia La liberazione di Promèteo lavorava il Goethe nel 1795. Ce ne
avanzano tre brevi frammenti di 23 versi complessivi, dei quali il più ampio,
d'ispirazione potente e solenne, fu pubblicato nel 1888.
Questo titanismo del traboccante sentimento creatore, scatenato o legittimato da
Herder, educatosi stilisticamente su Pindaro, che dopo il tentativo drammatico
si condensa in una concentrata forma lirica e prende la forma dell'inno,
significa nella lirica di Goethe, e nella tedesca in generale, l'inizio del
grande stile che le Odi del Klopstock avevano soltanto avvertito e preparato. La
grandezza e forza, il volo sublime, lo slancio universale che nel Klopstock
appaiono soltanto come tendenza, sono qui realizzate per la prima volta.
(Gundolf).
Il Promèteo... mi sembra degno di stare accanto alle opere maggiori del Maestro.
(F. Schlegel).
Mi sembra che nessuna scalpellata nello sbozzare la mia personalità interiore è
andata tanto in profondità... quanto questi mirabili versi del Promèteo. Nulla
di ciò che lessi di Goethe in seguito poté modificare questa prima impressione
decisiva, ma solo compierla, o meglio addolcirla. (A. Gide).
Rivolta titanica del Promèteo - indubbiamente l'unica opera di rivolta in cui
nessuna declamazione, nessun'eloquenza, nessuna tenebra appesantiscono o
ritardano lo slancio del movimento. (Du Bos).
Nello stesso spirito di protesta è concepito il Promèteo liberato [Prometheus
Unbound] di Percy Bysshe Shelley (1792-1822), dramma lirico in quattro atti, in
versi, pubblicato nel 1820. Seguendo in parte la tradizione classica, Shelley in
questo dramma impersona la Giove il principio del Male e in Promèteo il
rigeneratore dell'umanità, che, usando il sapere come un'arma contro il male,
riconduce gli uomini alla virtù attraverso la saggezza. Per punire la temerità
del Titano, campione degli uomini, Giove lo condanna a essere incatenato a una
roccia del Caucaso, dove un avvoltoio divora il suo fegato continuamente
rinnovato. Promèteo sopporta coraggiosamente tutti i tormenti che Giove gli
infligge, aspettando serenamente l'ora in cui, secondo una profezia, Giove sarà
detronizzato e lo spirito del Bene trionferà. Il compiersi del fato potrebbe
essere evitato solo se Promèteo rivelasse il segreto di cui è l'unico custode, e
che Giove non riesce a carpirgli nemmeno promettendogli l'immediata liberazione
da tutte le sue torture. L'ora fatale arriva: Giove sparisce, detronizzato da
Demogorgon, il Potere Primitivo del Mondo; mentre Ercole, che rappresenta la
forza, libera Promèteo (l'Umanità) dalle torture generate dal Male. Asia, una
delle Oceanidi, che personifica la Natura, riacquista allora tutta la sua
primitiva bellezza e si riunisce felicemente al suo sposo Promèteo. Si inizia
così il regno dell'Amore e del Bene. Una viva esigenza filosofica forma nello
Shelley il forte substrato ideologico e intellettuale che spesso sostiene, ma
non di rado anche inceppa, la sua ispirazione il suo affiato lirico. Seguace in
un primo tempo del pensiero di William Godwin (1756-1836), di cui sposò in
seconde nozze la figlia Mary, lo Shelley elaborò in seguito un pensiero
personale, di cui sono permeate quasi tutte le sue opere e segnatamente il
Promèteo liberato. Al centro delle sue idee sul destino dell'umanità, sta la
convinzione che il male non sta inerente alla natura umana, ma sia invece
accidentale e possa quindi venire eliminato. Il principio su cui egli torna più
spesso nelle sue opere, è che l'uomo deve tendere a perfezionarsi sempre più
sino a riuscire a eliminare il male dalla sua natura. Il Promèteo liberato è la
trasposizione di una visione filosofica sul piano di una vicenda lirica che
chiede una risonanza più profonda, quasi sacra, all'antichità del mito da cui è
tratta. Tale concezione si può sommariamente riassumere nella convinzione che
l'uomo giungerà a prevalere sulle forze del male attraverso la sofferenza e con
l'aiuto dell'amore. Si ritrovano in quest'opera taluni dei caratteri più tipici
dell'arte e del mondo poetico di Shelley: la concezione platonica dell'amore
(non per nulla il poeta scelse per la sua trasposizione lirica un mito greco),
deformata e nello stesso tempo esaltata da una romantica fede nell'onnipotenza
di questo sentimento cui non rimane estraneo il suo lato più fisico e umano. Si
trova anche nel Promèteo un sovraccarico di simboli che rende le figure spesso
astratte, non solo come personaggi di un dramma, ma anche come creazioni
liriche, giacché la lussureggiante ricchezza della fantasia shelleyana tende
talora ad accumulare le immagini col risultato di un intenso barbaglio più che
di una resa concreta. La bellezza dell'opera, oltre che alla generosa concezione
spirituale che la anima, resta affidata alla straordinaria potenza e altezza
lirica di molti brani che sono tra le più splendide creazioni poetiche dello
Shelley. Il dramma constava inizialmente di tre soli atti; solo alcuni mesi dopo
che esso era compiuto, Shelley vi aggiunse il quarto atto, quasi un inno di
gioia per la vittoria di Promèteo.
Esso [il Promèteo] è senza dubbio la più grande e la più prodiga esibizione del
potere di Shelley, lo stupendo mondo lirico, dove chiarità immortali passano
sospirando accanto ai profumi dei fiori, popolano gli aliti delle brezze,
s'accalcano e sfavillano nelle foglie che brillano sui rami; dove l'erba stessa
è tutta frusciante di amabili creature spirituali e una plorante nebbia di
musica riempie l'aria. (Thompson).
Il suo obiettivo fondamentale, che senza dubbio non a più che semi-cosciente,
sta in un'impalpabile tunica sonora che diviene come il rivestimento
dell'espressione e la sua musica è ben dello stesso ordine di quei grandi
fenomeni naturali che egli ha tanto amato: il vento, l'incantatore che spazza
davanti a lui le foglie morte. (Du Bos).
Anche l'illuminismo volle mettere a contributo il mito, e significativo di
questa tendenza è il poemetto in endecasillabi sciolti di Vincenzo Monti
(1754-1828), Il Promèteo, cominciato nel 1797, continuato nel 1821 e uscito
postumo in tre canti nel 1832. Nella "Prefazione non inutile al poema" l'autore
accenna agli scopi dell'opera, che sono due principalmente: promuovere l'amore
dei latini e dei greci e ben meritare della patria libera, scrivendo da uomo
libero. Il primo intento non è del tutto raggiunto e il secondo non s'intona con
l'elogio servile rivolto dal Monti a Napoleone. Il poema avrebbe dovuto narrare,
secondo la prefazione montiana, che gli uomini, usciti dallo stato di bruti,
appresero da Promèteo la fisica e l'astronomia e da Giove ebbero la giovinezza.
Ma, essendosi insuperbiti gli uomini di questi doni, Giove mandò a Promèteo
Pandora con un vaso contenente tutti i mali. Promèteo lo rifiutò, ma l'accettò
il fratello di lui Epimeteo; tutti i mali uscirono dal vaso e caddero sugli
uomini, rimanendo al fondo soltanto la speranza. Essendo Promèteo superbo e
ribelle a Giove, fu da Giove precipitato nel Tartaro, da cui sarebbe uscito
soltanto se un immortale avesse per lui accettato di farsi mortale. Questi fu
Chirone. Avendo poi Promèteo udito dalle Parche che Giove era minacciato dal
figlio, e conoscendo il vaticinio al riguardo, propose a Giove la rivelazione,
in cambio della propria liberazione dal carcere della rupe caucasica. Liberato,
Promèteo insegnò agli uomini l'arte, la politica, la libertà. Questo avrebbe
dovuto essere l'argomento; ma esso al contrario si arresta ai lamenti dello
stolto Epimeteo e al viaggio di Promèteo in Grecia, dove egli va a chieder
consiglio a Temide. I precedenti del soggetto li troviamo in Esiodo, in Eschilo,
in Voltaire, in Goethe, che però trattarono il mito come esaltazione della mente
umana, invano affaticata dietro il supremo perché delle cose. Il Promèteo di
Monti è un simbolo di Napoleone, apportatore al mondo di pace, e quindi di
civiltà. Le fonti dirette sono le profezie del Paradiso perduto di Milton, del V
libro dell'Eneide e del III canto dell'Orlando furioso. Il valore dell'opera è
quasi esclusivamente formale, mancandole vera ispirazione e un'organica unità.
…tutto quello che spetta all'anima, al fuoco, all'affetto, all'impeto vero e
profondo, sia sublime, sia massimamente tenero gli manca affatto. (Leopardi).
Ciò che nei versi del Monti ci riesce gradevole è l'abito leggero di poesia, che
vi soffia intorno e li muove; e sia pure di poesia letteraria, di poesia sulla
poesia. (B. Croce).
Chi leggerà con animo sollecito di aderire veramente allo spirito montiano,
sentirà quanta lirica commozione sia in questo canto che il lettore disattento
potrebbe giudicare un freddo motivo di vecchia letteratura, ed è invece motivo
che l'animo del Monti rinnova e rinfresca con quella passione dell'immaginoso e
del sonoro che sono gli elementi essenziali della sua arte. (F. Flora).
Celebre è pure la traduzione della tragedia eschilea pubblicata nel 1833 da
Elisabetta Barrett Browning (1806-1861).
Nel 1880 il poeta tedesco Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) pubblicò il poema in
due volumi Prometheus und Epimetheus che segue la tradizione.
Una interpretazione moderna del mito diede lo scrittore svizzero di lingua
tedesca Carl Spitteler (1845-1924) nel poema in prosa Promèteo ed Epimeteo
[Prometheus und Epimetheus], pubblicato nel 1881. Il mito ellenico viene
completamente rielaborato e integrato da elementi biblici gnostici e cristiani.
Nella figura di Promèteo non s'incarna tanto, come di consueto, il titanismo
romantico, che aveva animato l'evocazione goethiana ma piuttosto la fedeltà alla
propria anima, al proprio demone. Epimeteo ha un rilievo uguale al fratello e
vien proclamato re del mondo dall'angelo di Dio, proprio perché rinuncia alla
sua anima e si affida soltanto alla sua coscienza ("Gewissen"), dove però
l'accento è posto più sul lato intellettuale che morale. Poiché a lui manca
quella conoscenza più profonda che viene direttamente dall'anima, avviene a
Epimeteo di compiere due errori fatali: quando Pandora, figlia del signore
dell'Universo, vuole sollevare il destino umano con un dono miracoloso, questo
non vien riconosciuto, ma anzi disprezzato, tanto da finir per cadere nelle mani
di un mercante ebreo. Quando poi Behemot, personificazione del Maligno tolta dal
libro di Giobbe, circuisce coll'astuzia il debole re del mondo, questi non
riesce a riconoscere in lui il Nemico e così due dei tre figli dell'angelo
divino, diretti eredi del suo potere, e cioè Mito e Gerone (si badi ai nomi)
vengono perduti e anche l'ultimo, Messia, seguirebbe la loro sorte se non
intervenisse Promèteo, disprezzato e provato sino allora dalle sventure, a
salvarlo. Egli ch'è rimasto fedele alla propria anima, rifiuta poi la corona che
l'angelo vorrebbe donargli per riconoscenza, ma compie un ultimo atto d'amore:
va a ricercare nel profondo dell'abiezione il fratello caduto, lo risolleva e lo
richiama a sé. Questa breve trama, anche se tace di alcuni personaggi di secondo
piano, ma non trascurabili come il leone e il cane accanto a Promèteo, e le
figure chiaramente allusive di Sofia e Doxa accanto a Epimeteo - nelle quali la
derivazione gnostica è chiaramente riconoscibile -, mostra quanto sia complesso
questo mondo mitico, in cui tanti elementi eterogenei sono venuti a comporsi.
Forse a prima vista il poema, considerato soltanto nelle sue linee esteriori,
può apparire come una rievocazione erudita, frigidamente composta secondo un
modello neoclassico; ma la forma in cui esso s'avviva e l'intimo fuoco che lo
pervade, annullano quel che di astratto e di artefatto vi può essere stato,
all'origine, negli schemi della concezione. Non sempre il significato delle
vicende, nell'intrico delle allusioni, risulta chiaro, ma l'evidenza poetica -
come avvertì subito G. Keller - è tale da convincere sempre e da appagare il
senso critico. Nel suo complesso il poema è una potente affermazione dei diritti
della personalità umana e non per una pura coincidenza nacque negli stessi anni
in cui Friedrich Nietzsche concepiva Così parlò Zarathustra. Nel nuovo mito di
Promèteo ed Epimeteo, Spitteler ha così saputo trasfigurare la sua tragedia ch'è
poi quella del suo tempo; e alla figura dei due fratelli in lotta, come di due
princìpi, che reggono l'anima umana, egli tornò ancora, esempio quasi unico
nella storia letteraria moderna, dopo più di quarant'anni, dopo tutta una vita
d'esperienze umane e artistiche, svolgendo di nuovo e sullo stesso ordito la
trama antica, questa volta in versi rigidamente rimati in un nuovo poema (v.
sotto), ove l'architettura risulta più compiuta e armonica, lo svolgimento più
lineare, il ritmo interiore più pacato e dominato, ma dove fatalmente è andato
perduto quel fuoco, quella ricchezza di motivi, che aveva con ferito e ancora
mantiene il suo splendore all'opera giovanile.
Fedele al mito classico è anche il poema Promèteo donatore del fuoco [Prometheus
the Firegiver], del poeta inglese Robert Bridges (1844-1930), pubblicato nel
1884.
Una libera variazione innestata nel mito è il Prométeo male incatenato [Le
Prométhée mal enchaîné] che è tra le opere più rappresentative di André Gide
(1869-1951). Pubblicata nel 1899, essa appartiene al periodo dei migliori
"trattati" (v. Betsabea, Filottete, El Hadj) e si può considerare come la piena
affermazione della raggiunta maturità dello scrittore. L'audacia della
trasposizione si annuncia fin dall'inizio, quando Promèteo entra senz'altro
nella vita contemporanea e siede a mensa in un ristorante dove ascolta le strane
storie di due signori, Coclite e Damocle, l'uno dei quali si scopre beneficato e
l'altro vittima dei capricci di uno strano tipo che il cameriere del ristorante
asserisce di conoscere, il ricchissimo banchiere Zeus, il quale si diletta di
"azioni gratuite". Prometeo sbalordisce e terrorizza tutti i presenti facendo
comparire il suo avvoltoio, o aquila elle fosse, che egli pasce del suo fegato.
Da questo primo groviglio di fatti nascono impensati ma logici sviluppi: per
Coclite, per Damocle, ma soprattutto per Promèteo. Durante un suo soggiorno in
prigione (giacché egli è stato arrestato su denuncia del cameriere per
fabbricazione abusiva di fiammiferi!) egli si è accorto che l'aquila che gli
rode il fegato è semplicemente la sua coscienza: l'ha nutrita quindi con
scrupolosa generosità, allietandosi di vederla sempre più bella, e non
preoccupandosi di deperire egli stesso pietosamente. Ora Promèteo vuol farsi
apostolo di questo nuovo modo di vita: egli dà una conferenza, nella "Sala nelle
Nuove Lune", nel corso della quale sostiene, con molti sottili ragionamenti e
con commovente sincerità, la teoria elle ogni uomo deve avere un'aquila, la
quale si pascerà dei suoi rimorsi, e sacrificare la sua vita affinché essa
divenga sempre più bella; Promèteo non è più dunque il puro filantropo, che rapì
già il fuoco agli Dei per amor degli uomini: ora ha un'idea più profonda della
dignità umana, egli non ama più l'uomo, "ama ciò che lo divora". Segue una
stupefacente intervista col banchiere Zeus (certuni dicono che egli è il buon
Dio), e la straziante morte del povero Damocle, che ha preso troppo sul serio la
teoria dell'aquila. Promèteo, come aveva solennemente annunciato, fa un discorso
per i funerali: si presenta grasso e allegro come non mai, e racconta una
stravagante e divertentissima storiella che obbliga a ridere tutti i convenuti.
A chi gli chiede della sua aquila, egli risponde tranquillamente che l'ha
ammazzata, e invita il cameriere e Coclite ad andare a mangiarla con lui... È
facile vedere in questa complicata e colorita favola la satira di un modo di
vita scrupolosamente moralistico, onde l'uomo pasce la sua coscienza di continui
rimorsi, abbandonandosi con una specie di morbosa dilettazione a questo funesto
esercizio. La conclusione non porta però Promèteo a proclamare l'inutilità
dell'aquila: è giusto concedere a essa quanto di noi pretende, basta essere
abbastanza forti per ucciderla in tempo. L'apologo di Gide verte dunque
sull'insistito tema della liberazione dalle regole; ma esso vale soprattutto per
le scoperte e le affermazioni particolari della polemica: tutte trasferite
felicemente sul piano dell'invenzione poetica, in una serie di geniali trovate
degna dei più riusciti racconti filosofici settecenteschi, ma con un'arditissima
tecnica, volutamente irrazionale, che prelude al Surrealismo
Il Promèteo è la satira della nostra impotenza ad agire gratuitamente, a
intraprendere una qualsiasi cosa che non abbia per causa determinante la nostra
mentalità., le nostre abitudini, le nostre convinzioni... Si prende gioco di
tutto ciò di cui le Nourritures pretendono giustamente di sbarazzarci, di tutto
ciò che impedisce in noi l'esaltazione che le Nourritures vogliono produrre. (J.
Rivière).
La materia, il soggetto proprio della sua opera è l'inquietudine; ma la parola
inquietudine non basta, non va abbastanza in profondità.... Il turbamento -
parola greve, pesante, che ha il suono cupo e opaco della cosa stessa che
esprime -: ecco la parola che meglio traduce lo stato permanente di Gide. (Du
Bos).
Prometeo il Paziente [Prometheus der Dulder], poema in due parti e otto canti di
Carl Spitteler (1845-1924), pubblicato Del 1924, riprende il mito prometeico già
trattato in Promèteo ed Epimeteo (v. sopra) e ne ricava una nuova elaborazione
che può stare accanto alla prima senza restarne offuscata. L'azione è più
rapida, la linea narrativa corre secondo un ritmo più serrato, ma in realtà,
l'impostazione del poema, anche nel suo significato simbolico, è sostanzialmente
la medesima. Ancora una volta Promèteo viene tentato dall'angelo di Dio e anche
invitato a rinunciare alla sua anima; il suo perentorio rifiuto viene punito
colla consegna del trono del mondo al suo fratello Epimeteo, pronto a compiere
il sacrificio, e colla condanna a una vita di stenti e di tormenti, appena
attenuata dalla speranza di un lontano compenso promessogli dall'anima, elevata
all'altezza di una dea. Anche qui Epimeteo non è capace di riconoscere il dono
prezioso che Pandora ha fatto agli uomini, né riesce a salvare il figlio
dell'angelo di Dio, che gli è stato confidato come unico prezioso tesoro, dalle
astute mene di Behemoth, specie di infernale divinità, potenza delle tenebre, il
cui nome è di evidente origine biblica. E anche qui è Promèteo che, intervenendo
all'ultimo momento, compie il salvamento non per amore di gloria o di benessere,
ma perché la sua dea, l'anima, glielo ha imposto. Infine Promèteo si sottrae al
plauso del mondo e alla riconoscenza dell'angelo di Dio per tornare nella valle
in cui trascorse la sua giovinezza, non solo però ma col fratello Epimeteo,
ch'egli riscatta dalla abiezione in cui era caduto ridonandogli l'anima
sacrificata un tempo. Prescindendo da altre differenze formali, i ritmi giambici
della Primavera olimpica sostituiscono la prosa poetica di Promèteo ed Epimeteo;
inoltre la folla varia dei personaggi è notevolmente diminuita: i figli
dell'angelo di Dio, che là erano tre, qui sono ridotti a uno solo; Behemoth
agisce qui direttamente e senza più l'aiuto del perfido intermediario Leviathan;
di Doxa, fedele compagna dell'angelo di Dio e nemica di Promèteo, non si ha
traccia: così pure si possono considerare scomparsi gli animali del seguito di
Promèteo, i suoi fedeli compagni, il leone e il cane, anche se di quest'ultimo è
rimasto un breve cenno. In conclusione si può dire che qui l'architettura è più
armonica, l'azione più svelta e veramente il protagonista rimane Promèteo mentre
nella prima elaborazione Epimeteo e il suo regno avevano una parte almeno
altrettanto importante, come il titolo dell'opera giustamente avvertiva.
Nonostante la maggiore perfezione artistica qualche volta si rimpiange il calore
di cui erano animate anche le divagazioni nell'opera della giovinezza. Inoltre
proprio nel titolo si accenna a una diversità notevole di tono tra le due
elaborazioni: mentre nella prima vibravano ancora potenti le voci della
ribellione, tanto da raccogliersi in battute di satira violenta, qui il tono è
più pacato, quasi di una dignitosa rassegnazione. Mentre là Promèteo, appena
udita la voce della sua anima, si scuoteva pronto all'azione, qui occorre
ch'essa implori, quasi si lamenti, prima ch'egli, troppo amareggiato dal dolore
e dalle umiliazioni prolungate, si risolva ad agire. Era in questo ultimo
Promèteo un vecchio che parlava, prossimo alla morte, il cui animo, senza
dichiararsi ancora vinto, si volgeva ormai verso una accettazione virile, una
rassegnazione pacata, piuttosto che verso la ribellione aperta, il titanismo
eroico che animava ancora tante pagine di Prométeo ed Epimeteo. Le riserve di
carattere artistico sono quasi le stesse che si possono fare per quella prima
opera: qui anzi la maggior perfezione della forma ha in qualche modo aggravato
il carattere neo classico di tutta la rievocazione spitteleriana del mito
ellenico, anche se ha dimostrato il continuo cammino percorso con grande
coscienza dall'artista. Tra le due elaborazioni della leggenda di Promèteo ed
Epimeteo è saldamente segnata tutta l'opera di Spitteler, di questo sempre più
raro esempio di creatore di miti.
Nel campo musicale, col titolo Promèteo si suol comunemente designare
l'ouverture op. 43 del "balletto eroico allegorico" Le creature di Promèteo [Die
Geschöpfe des Prometheus], che Ludwig van Beethoven (1770-1727) musicò nel 1800,
su richiesta del coreografo italiano Salvatore Viganò (1769-1821). La prima
rappresentazione ebbe luogo a Vienna nel 1801. Il testo del balletto è
scomparso, e l'azione ci è nota soltanto attraverso i resoconti dell'epoca.
Doveva celebrare Promèteo come benefattore dell'umanità per mezzo della
coscienza e delle arti (tema quant'altri mai caro a Beethoven, che aveva
un'altissima concezione della missione sociale dell'arte ed era pervaso di un
ardente e profondo amore del genere umano). La trama doveva porre in scena due
statue, che, per la potenza dell'armonia, si animavano a poco a poco e
diventavano partecipi di tutte le passioni umane. Promèteo le conduce sul
Parnaso, dove Apollo fa curare la loro istruzione in ogni genere di musiche,
arti e danze da Anfione, Arione, Orfeo, Melpomene, Talia, Tersicore, Pan e
Bacco. La partitura di Beethoven comprende, oltre all'ouverture seguita da una
introduzione, 16 numeri, indipendenti l'uno dall'altro e corrispondenti ad
altrettanti quadri coreografici. L'ouverture è, fra tutti, l'unico pezzo rimasto
nel repertorio, ed è veramente una vigorosa e raccolta composizione, ben chiusa
entro il consueto schema formale, animata da grande vivacità e ricchezza di
contrasti. Il primo tema (e principale) è un lungo tratto dei violini in do
maggiore che percorre quasi tutta la composizione con la sua trama serrata e col
suo energico e rapidissimo passo. L'orchestra è quella della Sinfonia n. 1,
colla quale quest'ouverture presenta alcune somiglianze. L'introduzione, che
dipinge una tempesta durante la quale Promèteo sfugge ai fulmini di Giove, e i
16 numeri che seguono, sono praticamente scomparsi dal patrimonio delle nostre
conoscenze musicali, benché contengano notevoli bellezze. Né sempre è facile
rendersi conto delle situazioni sceniche a cui dovevano corrispondere; per
alcuni soccorrono certe annotazioni fatte da Beethoven stesso sulla partitura e
tratte certamente dalla trama del balletto di Viganò. Soltanto il finale occupa
un grande posto nella letteratura beethoveniana, poiché in esso appare,
probabilmente per la prima volta, il tema eroico su cui si eleverà la gloriosa
costruzione del finale della Sinfonia n. 3 (Eroica). La priorità è contesa dalle
Contradanze per due violini e violoncello, pubblicate nel 1802, ma forse
composte, almeno in parte, anteriormente. In seguito il medesimo tema fu preso
da Beethoven a soggetto delle Variazioni e fuga op. 35, pur esse del 1802. Il
balletto del Viganò fu rappresentato alla Scala di Milano nel 1813; a questa
serata milanese si riferiscono alcuni cenni di Carlo Porta nel poemetto Olter
disgrazî de Giovannin Bongee.
In Beethoven l'ispirazione si amplifica gradualmente e infine si assorbe nei
flutti possenti di un'arte assolutamente individuale, di una portata puramente
umana. (Dukas).
Beethoven è a un tempo l'uomo del passato e l'uomo dell'avvenire: da una parte
va ricongiunto allo spirito dell'"ancien régime" e a quello della Rivoluzione;
dall'altra bisogna vedere in lui l'"eroe" che aprì e illuminò tutte le vie che
percorreranno i musicisti moderni. (Combarieu).
Gabriel Fauré (1845-1924) musicò nel 1900 una tragedia lirica in tre atti
intitolata Promèteo [Prométhée] che venne rappresentata nello stesso anno a
Béziers. Il libretto di quest'opera, concepita per essere rappresentata
all'aperto, è di Jean Lorrain e A.F. Herold. In esso sono riuniti, e destinati
parte al canto e parte alla declamazione, episodi riferentisi al mito di
Promèteo; per la parte centrale soltanto, gli autori hanno attinto al Promèteo
di Eschilo. Opera nobile e severa, il Promèteo di Fauré è poco noto al pubblico
a causa delle sue difficoltà di realizzazione. Il "preludio" iniziale, il corteo
funebre di Pandora, la scena del supplizio di Promèteo, quella dell'apparizione
di Giove e la conclusione corale, raggiungono una efficacia drammatica. Il
linguaggio di Fauré, maestro nelle brevi composizioni da camera, ma incapace di
vaste concezioni, si presta mirabilmente invece all'espressione sobria e
commossa al tempo stesso di atmosfere mitiche e leggendarie. Promèteo, eseguito
anche al teatro dell'Opéra di Parigi (1907), resta non solo una delle più
importanti opere di Fauré, ma costituisce anche uno dei più significativi
documenti nella storia del teatro musicale francese.
Ciò che subito colpisce nella partitura del Promèteo è la semplicità estrema del
ritmo e della linea melodica unite a un raffinamento armonico quasi costante...
L'opera di Fauré, per le sue rare qualità musicali, per la sua personalità e
l'incanto della lingua armonica in cui è scritta, dev'essere considerata come
una delle migliori produzioni di musica scenica di questi ultimi anni. (Dukas).
Per lo spirito della sua arte, per la forma stessa del suo "melos", Fauré è
veramente greco. Ma non è puramente un musicista greco che rivive nel nostro
secolo, è lo spirito e così pure la forma dell'ellenismo che rivivono in lui...
Egli si innalza in sfere immateriali per riportarci la pura bellezza. (Tiersot).
L'intensità d'espressione drammatica e la nobiltà dello stile ne fanno una delle
più belle partiture della nostra epoca. (Combarieu).
Musiche di scena per il Promèteo incatenato di Eschilo compose nel 1849
Jacques-Elie Halévy (1799-1862); furono eseguite lo stesso anno a Parigi. Dal
1850 al 1855 Franz Liszt (1811-1886) compose un poema sinfonico intitolato
Prométeo; una cantata per soli coro e orchestra. Le nozze di Promèteo [Les noces
de Prométhée] scrisse Camille Saint-Saëns (1836-1921) nel 1867. Vanno pure
menzionate una cantata Promèteo incatenato [Prométhée enchainé] di Lucien
Lambert (1858-1945), eseguita nel 1883 a Parigi, e un'altra omonima di Georges
Matthias (1826-1910) composta ed eseguita pure a Parigi nel 1883. Ricordiamo
infine il "Coro dell'Eco" per il Promèteo liberato di Shelley di Frank Merrick
(n. 1886), la Sinfonia a programma di Anton Konrath (n. 1888), la sinfonia
Prometheus di Otto Dorn (n. 1848) e, collo stesso titolo, le ouvertures di
Woldemar Bargiel (1828-1897) e di Edgar Bainton (n. 1880), il ballo di Hubert
Pataky (n. 1892) e il preludio di Philipp Jarnach (n. 1892). Promèteo incatenato
è il titolo di una ouverture di Karl Goldmark (1830-1915), e di una cantata di
André Messager (1853-1929). Charles Parry (1848-1918) compose un balletto dal
titolo Promèteo liberato. Notevoli pure i poemetti per coro e orchestra
Prometheus di Joseph Brambach (1833-1902) e di Karl Bleyle (n. 1880).
La scultura antica è particolarmente ricca di opere stupende che rappresentano
vari momenti del mito di Promèteo; nei tempi moderni è soprattutto la pittura
che ha dato capolavori su questo soggetto a opera di Michelangelo, Tiziano,
Rubens Ribera, Salvator Rosa, Sylvestre, Moreau e altri