Stats Tweet

Promèteo.

Mit. - Personaggio della mitologia greca. Figlio del Titano Giapeto, e fratello di Atlante ed Epimeteo, era una divinità del fuoco. Il suo nome significa colui che sa prevedere (da promantháno: saper prevedere), in opposizione al fratello Epimeteo, colui che sa dopo. Secondo un'antichissima tradizione era figlio di Era e, come Efesto, avrebbe favorito la nascita di Atena dalla testa di Zeus, aprendola con una bipenne. La sua figura è legata ai miti sulla nascita dell'umanità. Nel Protagora di Platone, dopo la creazione degli uomini e degli animali nel sottosuolo da parte degli dei, P. ed Epimeteo vennero incaricati di portarli alla luce e di distribuire loro le varie qualità: Epimeteo, senza riflettere, diede subito tutto agli animali, lasciando gli uomini nudi e indifesi; P., allora, rubò per essi il fuoco e le arti di Atena ed Efesto, suscitando così l'ira di Zeus. Nella Teogonia di Esiodo, secondo un mito parallelo, durante un sacrificio, P. avrebbe diviso un bue in due parti: da una parte nascondendo la carne sotto la pelle, dall'altra ricoprendo le sole ossa di grasso bianco. Offertele a Zeus, chiese che la parte da lui scartata fosse data agli uomini: Zeus scelse il grasso bianco e, adirato per l'inganno, decise di sottrarre il fuoco agli uomini: P. lo rubò per loro e subì la vendetta di Zeus: venne incatenato sulla cima del Caucaso mentre un'aquila gli rodeva incessantemente il fegato, che continuava a ricrescere. Fu poi liberato da Eracle, che trafisse con una freccia l'aquila. Nella versione riportata da Eschilo, Zeus accettò la liberazione di P. in cambio di un antichissimo oracolo da questi rivelatogli, secondo cui, se avesse sposato Teti, avrebbe generato un figlio che lo avrebbe spodestato. Fornito di doti profetiche, P. avrebbe rivelato al figlio Deucalione dell'imminente diluvio universale programmato da Zeus per annientare la stirpe umana. La sua figura era onorata ad Atene, dove si celebravano le Prométheia, feste di commemorazione del ratto del fuoco, a Tebe, nella Focide, nella Locride, ad Argo e a Sicione. Eschilo dedicò a P. una trilogia, di cui ci è giunto solo il Prometeo incatenato, in cui lo raffigura, legato a una rupe, sofferente nel corpo ma soprattutto nell'anima per l'ingiusta punizione inflittagli da un dio invidioso e crudele. La figura di P. ha influenzato la letteratura di tutti i secoli: per il suo atto di ribellione contro la divinità, è assimilato a Satana che, come lui ribelle e superbo, viene rappresentato in veste quasi eroica da G. Marino nella Strage degli Innocenti e da J. Milton nel Paradiso Perduto; per questo stesso atto, diviene il simbolo della ribellione contro la tirannide nel Prometheus di J.W. Goethe e nel Prometheus Unbound di P.B. Shelley. G. D'Annunzio lo avvicina all'idea del "superuomo" di Nietzsche. Nelle arti grafiche, P. venne raffigurato sul trono di Zeus ad Olimpia e sul frontone del Partenone nella Nascita di Venere dagli scultori greci dell'età classica; nell'arte romana compare su vasi, gemme, vetri incisi, sarcofagi nell'atto di creare gli uomini e sottrarre il fuoco agli dei.

Portatore del fuoco è una delle più grandi immagini che siano scaturite dalla profondità del mito e ha una tradizione letteraria e artistica che dalla più lontana antichità classica si estende ininterrotta fino ai nostri giorni.

Nume del fuoco in origine, poeti e mitografi lo rivestirono dei più complessi significati filosofici e morali facendone un simbolo dello spirito umano nel suo anelito verso la luce e la libertà.

Nelle Opere e i giorni di Esiodo, il primo poeta che s'ispiri al mito, Promèteo si staglia con le dimensioni di un titano benefico anelante alla liberazione degli uomini cui dona il fuoco e le arti contro il volere di Giove; il quale manda sulla terra Pandora, principio di tutti i mali, e punisce Promèteo facendolo legare a un palo sul Caucaso dove un'aquila gli rode il fegato sempre rinascente.

Platone, nel Protagora accoglie una varietà del mito che indica in Promèteo il creatore della stirpe; e riferimenti all'eroe si trovano nelle opere di Sofocle. Euripide, fino ad Aristofane e alla commedia attica che lo volge ormai in chiave d'ironia.

Ma è nel Promèteo incatenato che il mito si presenta in tutta la ricchezza dei suoi motivi. È la più facile delle tragedie di Eschilo (525-456 a. C.) e la più difficile: la più facile per l'interpretazione letterale, la più difficile per una interpretazione critica. Fu parte di una trilogia: ma non avendo testimonianze dirette come la trilogia fosse costituita, di certo possiamo dire solo questo, che il Prométeo liberato seguiva l'Incatenato; se poi il Prométeo portatore del fuoco aprisse la trilogia o la chiudesse, l'una e l'altra sono ipotesi ugualmente congetturabili. Né sappiamo niente della data: diremmo tra i Persiani e i Sette a Tebe. Personaggi della tragedia sono tutte divinità: Cratos e Bia (Bia è personaggio muto), Efesto, Promèteo, Coro delle figlie di Oceano, Oceano, lo figlia di Inaco, Ermes. La scena è in una regione deserta della Scizia, su un dirupo montano; non lungi dal mare. Promèteo, colpevole di aver tolto il fuoco agli dèi e di averne insegnato l'uso ai mortali, è tratto da Cratos e Bia, due satelliti agli ordini diretti di Efesto e quindi di Zeus, su codesto dirupo, e quivi lo incatenano. Durante l'incatenamento Promèteo non proferisce parola. Partiti i tre, c'è la grande e famosissima monodia di Promèteo, "O luminoso etere, o venti dalle rapide ali, o sorgenti dei fiumi, sorriso innumerevole delle acque del mare". Odono dal mare il lamento le Oceanidi, e accorrono. Siamo ai primissimi tempi del regno di Zeus, poco dopo che Zeus, aiutato dallo stesso Promèteo, rovesciò dal regno Crono e i Titani alleati. Alle Oceànidi Promèteo narra le proprie colpe, sopra tutto come dette agli uomini il beneficio del fuoco. Viene in scena Oceano. Viene per consigliare Promèteo a dimettere tracotanza, a dimostrare remissione e saviezza, a promettergli aiuto. Promèteo risponde ironico, respinge lui e i suoi consigli. E séguita a narrare alle Oceànidi di che altri benefici sollevò, di quali altri insegnamenti istruì la infelice stirpe degli uomini mortali. - Ma tu, Promèteo, perché non provvedi a te stesso? - Giorno verrà che anche Zeus dovrà cedere al destino. - Qui Promèteo, oscuramente accenna a un suo segreto che sarà l'arma della sua liberazione. A questo punto entra in scena, correndo e agitandosi scompigliatamente, una giovinetta che ha due brevi corna su la fronte: è Io, la lontana ava di Èracle, il liberatore. Ella percorre la terra inseguita e morsa da un assillo che è la vendetta della gelosia di Era contro di lei e contro Zeus. Càpita per caso dinanzi all'incatenato. Non sa chi è. Più stupisce di udire ella da lui il proprio nome. Io racconta al Coro le sventure patite; Promèteo predice a Io quel che tuttavia le rimane da patire. Ma anche le predice la fine del regno di Zeus, se egli, Promèteo, non sarà prima liberato: che è il segreto rivelatogli un giorno da Tèmide-Gea, sua madre. - E chi libererà te? - chiede Io. - Un nato dalla tua tredicesima generazione (di fatti Èracle discende da Io dopo dodici generazioni). Così il velo un poco si dischiude e il dramma volge alla fine; e prepara il dramma seguente. Zeus manda Ermes da Promèteo, perché vuol sapere che cos'è questo segreto che così orgogliosamente egli dice di conoscere. Promèteo rifiuta. E allora una enorme ruina della terra e del cielo lo travolge; la roccia a cui Promèteo è legato si squarcia, ed egli cade giù nel vuoto e scompare. Ricomparirà sul Caucaso, nel dramma successivo; e allora rivelerà il segreto, e Èracle lo scioglierà dalle catene. Il Prométeo incatenato fu dramma di maggior fortuna, più che gli altri di Eschilo, mezzo secolo fa, in un ambiente spirituale specialmente inclinato a negazioni e ribellioni antiautoritarie; segnatamente a negazioni e ribellioni antichiesastiche. Inutile dire che, di tutte le interpretazioni, questa è la più aliena dallo spirito di Eschilo in generale e dal significato della tragedia in particolare.

Eschilo è un modello eterno di aspra grandezza e di un entusiasmo non raffinato. (F. Schlegel).

Trapiantato a Roma col teatro greco, il mito ebbe molte trascrizioni poetiche e teatrali tra cui la tragedia Prometheus di Lucio Accio (n. 170 a. C.) imitata da Eschilo e perduta con molte altre.

Luciano di Samosata (circa 125-185 d. C.), trasse dalla tragedia eschilea uno dei suoi dialoghi argutamente satirici e drammatici, Promèteo o Il Caucaso. Lo scrittore, che già coi Dialoghi marini e coi Dialoghi degli dèi aveva rivolto la sua satira alle credenze mitiche primitive, dimostrando quanto vane, stolte, e spesso immorali esse apparissero se presentate prive della poesia con la quale le avevano rivestite Pindaro o Eschilo, addenta qui col suo sarcasmo il principio dell'"eterna giustizia". La scena del dialogo è nel Caucaso, come nel Promèteo di Eschilo; l'aquila che per volere di Zeus deve rodere il fegato di Proèteo non è ancora giunta e il titano ne approfitta per svolgere alla presenza di Ermes ed Efesto, gli esecutori degli ordini divini, un'apologia sagace e arguta delle colpe che gli sono attribuite - spartizione dolosa delle carni a un banchetto di Zeus; creazione degli uomini; furto del fuoco -; apologia abilissima e condotta secondo tutte le regole della retorica, veramente degna di un grande oratore. Zeus, il quale dai rimproveri che Promèteo gli rivolgeva nella tragedia di Eschilo appariva quasi ingrandito, potente e terribile nella sua ira, non è qui che un essere ingiusto e irragionevole, privo di qualsiasi grandezza e dignità, dal quale Promèteo potrà comperare la liberazione dalla terribile pena mediante una profezia che, benché pregato da Ermes impietosito di lui, non vuole svelare appunto perché sta oramai sopraggiungendo l'aquila e perché sarà il prezzo del riscatto. L'ironia in questo dialogo è più forte che non nei Dialoghi marini e in quelli degli dèi perché non è dissimulata: abbiamo dinnanzi un vero eroe che, difendendo se stesso, non solo fa un aperto e terribile capo d'accusa contro la divinità, ma convince della sua ingiustizia i suoi stessi ministri. Lo stile è, come sempre in Luciano, limpido ed elegante, atto a mettere in rilievo argomenti semplici e inconfutabili quali quelli di Promèteo; la lingua è per lo più attica.

Il mito di Promèteo doveva trovare nuove fortune in un'epoca di virilità prorompente come il Rinascimento e l'età barocca. Ma più che nella poesia e nella tragedia trova raffigurazioni e apologie nella pittura. Tuttavia è celebre nel Seicento spagnolo la commedia mitologica La estatua de Prometeo di Pedro Calderón de la Barca (1600-1681), composta nel 1669, pubblicata nella Quinta Parte de comedias, ecc. (Barcellona, 1677). Il poeta spagnolo traduce il mito in un simbolismo filosofico di una concettosità piena di riferimenti teologici, ma illuminato spesso da una abbagliante poesia.

Il Romanticismo interpretò Promèteo come il ribelle indomito e ne fece uno dei suoi eroi. Celebre è il frammento drammatico in versi di Wolfgang Goethe (1749-1832), Prometheus, steso nel 1773, pubblicato postumo nel 1878. Nel discorso commemorativo di Shakespeare, che il Goethe pronunciò nel 1771, cominciò a disegnarsi il personaggio prometeico quale fondatore dell'uman genere e nel 1772 nell'Architettura tedesca, quale mediatore fra il cielo e la terra. Il Discours sur le rétablissement des sciences et des arts (1750) del Rousseau, l'influsso del Herder e infine lo scritto del Wieland, il Dialogo in sogno con Promèteo contribuirono in parte alla concezione di quest'opera, i cui principali ispiratori furono però Eschilo e Voltaire. Il vecchio mito, così rivissuto nell'atmosfera del tempo, accese la fantasia creatrice del giovane poeta, che gli diede nuova forma e nuova vita. Il frammento consta di due atti. Nel primo, Promèteo, in un dialogo con Mercurio, si ribella alla soggezione degli dèi e, riconoscendo solo la superiorità del Fato, rifiuta la proposta del fratello Epimeteo di sedere pari agli dèi sull'Olimpo. "Voglion spartire con me, e io penso di non avere nulla da spartir con loro. Ciò ch'io posseggo non possono togliermelo e ciò ch'essi posseggono se lo custodiscano". Epimeteo gli rimprovera il suo isolamento: "Il tuo orgoglio ignora la voluttà di sentirti intimo nel tutto con gli dèi, con te stesso, coi tuoi, con l'universo e il cielo". Ma Promèteo non riconosce altra totalità all'infuori della propria potente forza creatrice e si sente uno con le proprie creature. Nella scena successiva con Minerva, la ribellione s'afferma positivamente come conquista di libertà; s'egli finora s'era piegato a portare il peso impostogli dai celesti, la dea riconosce che codesto suo servaggio servì solo a renderlo degno di quella libertà ch'egli proclama altamente per sé e per gli altri uomini. E allora ella gli apre il mistero della sorgente di vita conosciuta solo dagli dèi. Nel secondo atto, "Giove, a Mercurio che gli annunzia, quasi per muoverlo a vendetta e castigo, l'alto tradimento di Minerva e la brulicante e giubilante genìa umana che si agita sulla terra, risponde che gli uomini sono e debbono essere, e che essi accrescono il numero dei suoi servi, e bene per loro se seguiranno la sua paterna guida, male se contrasteranno al suo braccio di principe. E poiché il fido messaggero vorrebbe affrettarsi a riportare alle nuove creature quella parola di bontà, egli dice saggiamente e bonariamente con mitezza sorridente: "Non ancora! Nella fresca letizia giovanile l'anima loro si finge pari agli dèi. Non ti daranno ascolto, fin tanto che non avranno bisogno di te. Abbandonali alla loro vita!". C'era rischio che, svolgendo questo motivo, il fremente consenso con Promèteo si convertisse nella riverenza per Giove, per la saggezza e l'armonia; e perciò forse il dramma incagliò, e si arrestò ai frammenti che possediamo, nei quali è, tra l'altro, bellissima la prima sensazione della morte sulla terra - Pandora che vede morire la figlia Mira -, e l'idea della morte come supremo ribollimento di vita e palingenesi, espressa da Promèteo.

Dallo schizzo abbandonato il Goethe trasse fuori una breve e vigorosa lirica, che è il suo vero Promèteo giovanile, non quello che sarà moderato da Giove e con lui si concilierà, ma quello che afferma l'inutilità degli dèi, e la possanza, pienezza e autonomia della vita umana" (B. Croce).

"Copri il tuo cielo, Giove, di nubilosi vapori ed esercitati su le querce e le cime dei monti, pari a fanciullo che decapiti cardi: ma lasciarmi tu devi la mia terra e la mia capanna, che non tu costruisti, e il focolare, la cui fiamma m'invidi! - Nulla conosco io sotto il sole più povero di voi dèi! Di sacrifici e d'incensi a stento nutrite la vostra maestà e languireste se non ci fossero, speranzosi pazzi, mendicanti e bambini... - Io onorarti? Perché? Hai forse tu mai alleviato il dolor dell'oppresso? Hai forse tu mai asciugato le lacrime dell'afflitto? E me non han forse fatto uomo il Tempo onnipotente e il Fato eterno, signori miei e tuoi? - Vaneggeresti forse ch'io dovessi odiare la vita, nel deserto fuggirmene perché non tutti i sogni diedero frutti? - Qui fermo io sto, formo a mia immagine uomini, una stirpe a me simile, destinata a soffrire piangere godere e gioire, e a non curarsi di te, come fo io!"

A una tragedia La liberazione di Promèteo lavorava il Goethe nel 1795. Ce ne avanzano tre brevi frammenti di 23 versi complessivi, dei quali il più ampio, d'ispirazione potente e solenne, fu pubblicato nel 1888.

Questo titanismo del traboccante sentimento creatore, scatenato o legittimato da Herder, educatosi stilisticamente su Pindaro, che dopo il tentativo drammatico si condensa in una concentrata forma lirica e prende la forma dell'inno, significa nella lirica di Goethe, e nella tedesca in generale, l'inizio del grande stile che le Odi del Klopstock avevano soltanto avvertito e preparato. La grandezza e forza, il volo sublime, lo slancio universale che nel Klopstock appaiono soltanto come tendenza, sono qui realizzate per la prima volta. (Gundolf).

Il Promèteo... mi sembra degno di stare accanto alle opere maggiori del Maestro. (F. Schlegel).

Mi sembra che nessuna scalpellata nello sbozzare la mia personalità interiore è andata tanto in profondità... quanto questi mirabili versi del Promèteo. Nulla di ciò che lessi di Goethe in seguito poté modificare questa prima impressione decisiva, ma solo compierla, o meglio addolcirla. (A. Gide).

Rivolta titanica del Promèteo - indubbiamente l'unica opera di rivolta in cui nessuna declamazione, nessun'eloquenza, nessuna tenebra appesantiscono o ritardano lo slancio del movimento. (Du Bos).

Nello stesso spirito di protesta è concepito il Promèteo liberato [Prometheus Unbound] di Percy Bysshe Shelley (1792-1822), dramma lirico in quattro atti, in versi, pubblicato nel 1820. Seguendo in parte la tradizione classica, Shelley in questo dramma impersona la Giove il principio del Male e in Promèteo il rigeneratore dell'umanità, che, usando il sapere come un'arma contro il male, riconduce gli uomini alla virtù attraverso la saggezza. Per punire la temerità del Titano, campione degli uomini, Giove lo condanna a essere incatenato a una roccia del Caucaso, dove un avvoltoio divora il suo fegato continuamente rinnovato. Promèteo sopporta coraggiosamente tutti i tormenti che Giove gli infligge, aspettando serenamente l'ora in cui, secondo una profezia, Giove sarà detronizzato e lo spirito del Bene trionferà. Il compiersi del fato potrebbe essere evitato solo se Promèteo rivelasse il segreto di cui è l'unico custode, e che Giove non riesce a carpirgli nemmeno promettendogli l'immediata liberazione da tutte le sue torture. L'ora fatale arriva: Giove sparisce, detronizzato da Demogorgon, il Potere Primitivo del Mondo; mentre Ercole, che rappresenta la forza, libera Promèteo (l'Umanità) dalle torture generate dal Male. Asia, una delle Oceanidi, che personifica la Natura, riacquista allora tutta la sua primitiva bellezza e si riunisce felicemente al suo sposo Promèteo. Si inizia così il regno dell'Amore e del Bene. Una viva esigenza filosofica forma nello Shelley il forte substrato ideologico e intellettuale che spesso sostiene, ma non di rado anche inceppa, la sua ispirazione il suo affiato lirico. Seguace in un primo tempo del pensiero di William Godwin (1756-1836), di cui sposò in seconde nozze la figlia Mary, lo Shelley elaborò in seguito un pensiero personale, di cui sono permeate quasi tutte le sue opere e segnatamente il Promèteo liberato. Al centro delle sue idee sul destino dell'umanità, sta la convinzione che il male non sta inerente alla natura umana, ma sia invece accidentale e possa quindi venire eliminato. Il principio su cui egli torna più spesso nelle sue opere, è che l'uomo deve tendere a perfezionarsi sempre più sino a riuscire a eliminare il male dalla sua natura. Il Promèteo liberato è la trasposizione di una visione filosofica sul piano di una vicenda lirica che chiede una risonanza più profonda, quasi sacra, all'antichità del mito da cui è tratta. Tale concezione si può sommariamente riassumere nella convinzione che l'uomo giungerà a prevalere sulle forze del male attraverso la sofferenza e con l'aiuto dell'amore. Si ritrovano in quest'opera taluni dei caratteri più tipici dell'arte e del mondo poetico di Shelley: la concezione platonica dell'amore (non per nulla il poeta scelse per la sua trasposizione lirica un mito greco), deformata e nello stesso tempo esaltata da una romantica fede nell'onnipotenza di questo sentimento cui non rimane estraneo il suo lato più fisico e umano. Si trova anche nel Promèteo un sovraccarico di simboli che rende le figure spesso astratte, non solo come personaggi di un dramma, ma anche come creazioni liriche, giacché la lussureggiante ricchezza della fantasia shelleyana tende talora ad accumulare le immagini col risultato di un intenso barbaglio più che di una resa concreta. La bellezza dell'opera, oltre che alla generosa concezione spirituale che la anima, resta affidata alla straordinaria potenza e altezza lirica di molti brani che sono tra le più splendide creazioni poetiche dello Shelley. Il dramma constava inizialmente di tre soli atti; solo alcuni mesi dopo che esso era compiuto, Shelley vi aggiunse il quarto atto, quasi un inno di gioia per la vittoria di Promèteo.

Esso [il Promèteo] è senza dubbio la più grande e la più prodiga esibizione del potere di Shelley, lo stupendo mondo lirico, dove chiarità immortali passano sospirando accanto ai profumi dei fiori, popolano gli aliti delle brezze, s'accalcano e sfavillano nelle foglie che brillano sui rami; dove l'erba stessa è tutta frusciante di amabili creature spirituali e una plorante nebbia di musica riempie l'aria. (Thompson).

Il suo obiettivo fondamentale, che senza dubbio non a più che semi-cosciente, sta in un'impalpabile tunica sonora che diviene come il rivestimento dell'espressione e la sua musica è ben dello stesso ordine di quei grandi fenomeni naturali che egli ha tanto amato: il vento, l'incantatore che spazza davanti a lui le foglie morte. (Du Bos).

Anche l'illuminismo volle mettere a contributo il mito, e significativo di questa tendenza è il poemetto in endecasillabi sciolti di Vincenzo Monti (1754-1828), Il Promèteo, cominciato nel 1797, continuato nel 1821 e uscito postumo in tre canti nel 1832. Nella "Prefazione non inutile al poema" l'autore accenna agli scopi dell'opera, che sono due principalmente: promuovere l'amore dei latini e dei greci e ben meritare della patria libera, scrivendo da uomo libero. Il primo intento non è del tutto raggiunto e il secondo non s'intona con l'elogio servile rivolto dal Monti a Napoleone. Il poema avrebbe dovuto narrare, secondo la prefazione montiana, che gli uomini, usciti dallo stato di bruti, appresero da Promèteo la fisica e l'astronomia e da Giove ebbero la giovinezza. Ma, essendosi insuperbiti gli uomini di questi doni, Giove mandò a Promèteo Pandora con un vaso contenente tutti i mali. Promèteo lo rifiutò, ma l'accettò il fratello di lui Epimeteo; tutti i mali uscirono dal vaso e caddero sugli uomini, rimanendo al fondo soltanto la speranza. Essendo Promèteo superbo e ribelle a Giove, fu da Giove precipitato nel Tartaro, da cui sarebbe uscito soltanto se un immortale avesse per lui accettato di farsi mortale. Questi fu Chirone. Avendo poi Promèteo udito dalle Parche che Giove era minacciato dal figlio, e conoscendo il vaticinio al riguardo, propose a Giove la rivelazione, in cambio della propria liberazione dal carcere della rupe caucasica. Liberato, Promèteo insegnò agli uomini l'arte, la politica, la libertà. Questo avrebbe dovuto essere l'argomento; ma esso al contrario si arresta ai lamenti dello stolto Epimeteo e al viaggio di Promèteo in Grecia, dove egli va a chieder consiglio a Temide. I precedenti del soggetto li troviamo in Esiodo, in Eschilo, in Voltaire, in Goethe, che però trattarono il mito come esaltazione della mente umana, invano affaticata dietro il supremo perché delle cose. Il Promèteo di Monti è un simbolo di Napoleone, apportatore al mondo di pace, e quindi di civiltà. Le fonti dirette sono le profezie del Paradiso perduto di Milton, del V libro dell'Eneide e del III canto dell'Orlando furioso. Il valore dell'opera è quasi esclusivamente formale, mancandole vera ispirazione e un'organica unità.

…tutto quello che spetta all'anima, al fuoco, all'affetto, all'impeto vero e profondo, sia sublime, sia massimamente tenero gli manca affatto. (Leopardi).

Ciò che nei versi del Monti ci riesce gradevole è l'abito leggero di poesia, che vi soffia intorno e li muove; e sia pure di poesia letteraria, di poesia sulla poesia. (B. Croce).

Chi leggerà con animo sollecito di aderire veramente allo spirito montiano, sentirà quanta lirica commozione sia in questo canto che il lettore disattento potrebbe giudicare un freddo motivo di vecchia letteratura, ed è invece motivo che l'animo del Monti rinnova e rinfresca con quella passione dell'immaginoso e del sonoro che sono gli elementi essenziali della sua arte. (F. Flora).

Celebre è pure la traduzione della tragedia eschilea pubblicata nel 1833 da Elisabetta Barrett Browning (1806-1861).

Nel 1880 il poeta tedesco Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) pubblicò il poema in due volumi Prometheus und Epimetheus che segue la tradizione.

Una interpretazione moderna del mito diede lo scrittore svizzero di lingua tedesca Carl Spitteler (1845-1924) nel poema in prosa Promèteo ed Epimeteo [Prometheus und Epimetheus], pubblicato nel 1881. Il mito ellenico viene completamente rielaborato e integrato da elementi biblici gnostici e cristiani. Nella figura di Promèteo non s'incarna tanto, come di consueto, il titanismo romantico, che aveva animato l'evocazione goethiana ma piuttosto la fedeltà alla propria anima, al proprio demone. Epimeteo ha un rilievo uguale al fratello e vien proclamato re del mondo dall'angelo di Dio, proprio perché rinuncia alla sua anima e si affida soltanto alla sua coscienza ("Gewissen"), dove però l'accento è posto più sul lato intellettuale che morale. Poiché a lui manca quella conoscenza più profonda che viene direttamente dall'anima, avviene a Epimeteo di compiere due errori fatali: quando Pandora, figlia del signore dell'Universo, vuole sollevare il destino umano con un dono miracoloso, questo non vien riconosciuto, ma anzi disprezzato, tanto da finir per cadere nelle mani di un mercante ebreo. Quando poi Behemot, personificazione del Maligno tolta dal libro di Giobbe, circuisce coll'astuzia il debole re del mondo, questi non riesce a riconoscere in lui il Nemico e così due dei tre figli dell'angelo divino, diretti eredi del suo potere, e cioè Mito e Gerone (si badi ai nomi) vengono perduti e anche l'ultimo, Messia, seguirebbe la loro sorte se non intervenisse Promèteo, disprezzato e provato sino allora dalle sventure, a salvarlo. Egli ch'è rimasto fedele alla propria anima, rifiuta poi la corona che l'angelo vorrebbe donargli per riconoscenza, ma compie un ultimo atto d'amore: va a ricercare nel profondo dell'abiezione il fratello caduto, lo risolleva e lo richiama a sé. Questa breve trama, anche se tace di alcuni personaggi di secondo piano, ma non trascurabili come il leone e il cane accanto a Promèteo, e le figure chiaramente allusive di Sofia e Doxa accanto a Epimeteo - nelle quali la derivazione gnostica è chiaramente riconoscibile -, mostra quanto sia complesso questo mondo mitico, in cui tanti elementi eterogenei sono venuti a comporsi. Forse a prima vista il poema, considerato soltanto nelle sue linee esteriori, può apparire come una rievocazione erudita, frigidamente composta secondo un modello neoclassico; ma la forma in cui esso s'avviva e l'intimo fuoco che lo pervade, annullano quel che di astratto e di artefatto vi può essere stato, all'origine, negli schemi della concezione. Non sempre il significato delle vicende, nell'intrico delle allusioni, risulta chiaro, ma l'evidenza poetica - come avvertì subito G. Keller - è tale da convincere sempre e da appagare il senso critico. Nel suo complesso il poema è una potente affermazione dei diritti della personalità umana e non per una pura coincidenza nacque negli stessi anni in cui Friedrich Nietzsche concepiva Così parlò Zarathustra. Nel nuovo mito di Promèteo ed Epimeteo, Spitteler ha così saputo trasfigurare la sua tragedia ch'è poi quella del suo tempo; e alla figura dei due fratelli in lotta, come di due princìpi, che reggono l'anima umana, egli tornò ancora, esempio quasi unico nella storia letteraria moderna, dopo più di quarant'anni, dopo tutta una vita d'esperienze umane e artistiche, svolgendo di nuovo e sullo stesso ordito la trama antica, questa volta in versi rigidamente rimati in un nuovo poema (v. sotto), ove l'architettura risulta più compiuta e armonica, lo svolgimento più lineare, il ritmo interiore più pacato e dominato, ma dove fatalmente è andato perduto quel fuoco, quella ricchezza di motivi, che aveva con ferito e ancora mantiene il suo splendore all'opera giovanile.

Fedele al mito classico è anche il poema Promèteo donatore del fuoco [Prometheus the Firegiver], del poeta inglese Robert Bridges (1844-1930), pubblicato nel 1884.

Una libera variazione innestata nel mito è il Prométeo male incatenato [Le Prométhée mal enchaîné] che è tra le opere più rappresentative di André Gide (1869-1951). Pubblicata nel 1899, essa appartiene al periodo dei migliori "trattati" (v. Betsabea, Filottete, El Hadj) e si può considerare come la piena affermazione della raggiunta maturità dello scrittore. L'audacia della trasposizione si annuncia fin dall'inizio, quando Promèteo entra senz'altro nella vita contemporanea e siede a mensa in un ristorante dove ascolta le strane storie di due signori, Coclite e Damocle, l'uno dei quali si scopre beneficato e l'altro vittima dei capricci di uno strano tipo che il cameriere del ristorante asserisce di conoscere, il ricchissimo banchiere Zeus, il quale si diletta di "azioni gratuite". Prometeo sbalordisce e terrorizza tutti i presenti facendo comparire il suo avvoltoio, o aquila elle fosse, che egli pasce del suo fegato. Da questo primo groviglio di fatti nascono impensati ma logici sviluppi: per Coclite, per Damocle, ma soprattutto per Promèteo. Durante un suo soggiorno in prigione (giacché egli è stato arrestato su denuncia del cameriere per fabbricazione abusiva di fiammiferi!) egli si è accorto che l'aquila che gli rode il fegato è semplicemente la sua coscienza: l'ha nutrita quindi con scrupolosa generosità, allietandosi di vederla sempre più bella, e non preoccupandosi di deperire egli stesso pietosamente. Ora Promèteo vuol farsi apostolo di questo nuovo modo di vita: egli dà una conferenza, nella "Sala nelle Nuove Lune", nel corso della quale sostiene, con molti sottili ragionamenti e con commovente sincerità, la teoria elle ogni uomo deve avere un'aquila, la quale si pascerà dei suoi rimorsi, e sacrificare la sua vita affinché essa divenga sempre più bella; Promèteo non è più dunque il puro filantropo, che rapì già il fuoco agli Dei per amor degli uomini: ora ha un'idea più profonda della dignità umana, egli non ama più l'uomo, "ama ciò che lo divora". Segue una stupefacente intervista col banchiere Zeus (certuni dicono che egli è il buon Dio), e la straziante morte del povero Damocle, che ha preso troppo sul serio la teoria dell'aquila. Promèteo, come aveva solennemente annunciato, fa un discorso per i funerali: si presenta grasso e allegro come non mai, e racconta una stravagante e divertentissima storiella che obbliga a ridere tutti i convenuti. A chi gli chiede della sua aquila, egli risponde tranquillamente che l'ha ammazzata, e invita il cameriere e Coclite ad andare a mangiarla con lui... È facile vedere in questa complicata e colorita favola la satira di un modo di vita scrupolosamente moralistico, onde l'uomo pasce la sua coscienza di continui rimorsi, abbandonandosi con una specie di morbosa dilettazione a questo funesto esercizio. La conclusione non porta però Promèteo a proclamare l'inutilità dell'aquila: è giusto concedere a essa quanto di noi pretende, basta essere abbastanza forti per ucciderla in tempo. L'apologo di Gide verte dunque sull'insistito tema della liberazione dalle regole; ma esso vale soprattutto per le scoperte e le affermazioni particolari della polemica: tutte trasferite felicemente sul piano dell'invenzione poetica, in una serie di geniali trovate degna dei più riusciti racconti filosofici settecenteschi, ma con un'arditissima tecnica, volutamente irrazionale, che prelude al Surrealismo

Il Promèteo è la satira della nostra impotenza ad agire gratuitamente, a intraprendere una qualsiasi cosa che non abbia per causa determinante la nostra mentalità., le nostre abitudini, le nostre convinzioni... Si prende gioco di tutto ciò di cui le Nourritures pretendono giustamente di sbarazzarci, di tutto ciò che impedisce in noi l'esaltazione che le Nourritures vogliono produrre. (J. Rivière).

La materia, il soggetto proprio della sua opera è l'inquietudine; ma la parola inquietudine non basta, non va abbastanza in profondità.... Il turbamento - parola greve, pesante, che ha il suono cupo e opaco della cosa stessa che esprime -: ecco la parola che meglio traduce lo stato permanente di Gide. (Du Bos).

Prometeo il Paziente [Prometheus der Dulder], poema in due parti e otto canti di Carl Spitteler (1845-1924), pubblicato Del 1924, riprende il mito prometeico già trattato in Promèteo ed Epimeteo (v. sopra) e ne ricava una nuova elaborazione che può stare accanto alla prima senza restarne offuscata. L'azione è più rapida, la linea narrativa corre secondo un ritmo più serrato, ma in realtà, l'impostazione del poema, anche nel suo significato simbolico, è sostanzialmente la medesima. Ancora una volta Promèteo viene tentato dall'angelo di Dio e anche invitato a rinunciare alla sua anima; il suo perentorio rifiuto viene punito colla consegna del trono del mondo al suo fratello Epimeteo, pronto a compiere il sacrificio, e colla condanna a una vita di stenti e di tormenti, appena attenuata dalla speranza di un lontano compenso promessogli dall'anima, elevata all'altezza di una dea. Anche qui Epimeteo non è capace di riconoscere il dono prezioso che Pandora ha fatto agli uomini, né riesce a salvare il figlio dell'angelo di Dio, che gli è stato confidato come unico prezioso tesoro, dalle astute mene di Behemoth, specie di infernale divinità, potenza delle tenebre, il cui nome è di evidente origine biblica. E anche qui è Promèteo che, intervenendo all'ultimo momento, compie il salvamento non per amore di gloria o di benessere, ma perché la sua dea, l'anima, glielo ha imposto. Infine Promèteo si sottrae al plauso del mondo e alla riconoscenza dell'angelo di Dio per tornare nella valle in cui trascorse la sua giovinezza, non solo però ma col fratello Epimeteo, ch'egli riscatta dalla abiezione in cui era caduto ridonandogli l'anima sacrificata un tempo. Prescindendo da altre differenze formali, i ritmi giambici della Primavera olimpica sostituiscono la prosa poetica di Promèteo ed Epimeteo; inoltre la folla varia dei personaggi è notevolmente diminuita: i figli dell'angelo di Dio, che là erano tre, qui sono ridotti a uno solo; Behemoth agisce qui direttamente e senza più l'aiuto del perfido intermediario Leviathan; di Doxa, fedele compagna dell'angelo di Dio e nemica di Promèteo, non si ha traccia: così pure si possono considerare scomparsi gli animali del seguito di Promèteo, i suoi fedeli compagni, il leone e il cane, anche se di quest'ultimo è rimasto un breve cenno. In conclusione si può dire che qui l'architettura è più armonica, l'azione più svelta e veramente il protagonista rimane Promèteo mentre nella prima elaborazione Epimeteo e il suo regno avevano una parte almeno altrettanto importante, come il titolo dell'opera giustamente avvertiva. Nonostante la maggiore perfezione artistica qualche volta si rimpiange il calore di cui erano animate anche le divagazioni nell'opera della giovinezza. Inoltre proprio nel titolo si accenna a una diversità notevole di tono tra le due elaborazioni: mentre nella prima vibravano ancora potenti le voci della ribellione, tanto da raccogliersi in battute di satira violenta, qui il tono è più pacato, quasi di una dignitosa rassegnazione. Mentre là Promèteo, appena udita la voce della sua anima, si scuoteva pronto all'azione, qui occorre ch'essa implori, quasi si lamenti, prima ch'egli, troppo amareggiato dal dolore e dalle umiliazioni prolungate, si risolva ad agire. Era in questo ultimo Promèteo un vecchio che parlava, prossimo alla morte, il cui animo, senza dichiararsi ancora vinto, si volgeva ormai verso una accettazione virile, una rassegnazione pacata, piuttosto che verso la ribellione aperta, il titanismo eroico che animava ancora tante pagine di Prométeo ed Epimeteo. Le riserve di carattere artistico sono quasi le stesse che si possono fare per quella prima opera: qui anzi la maggior perfezione della forma ha in qualche modo aggravato il carattere neo classico di tutta la rievocazione spitteleriana del mito ellenico, anche se ha dimostrato il continuo cammino percorso con grande coscienza dall'artista. Tra le due elaborazioni della leggenda di Promèteo ed Epimeteo è saldamente segnata tutta l'opera di Spitteler, di questo sempre più raro esempio di creatore di miti.

Nel campo musicale, col titolo Promèteo si suol comunemente designare l'ouverture op. 43 del "balletto eroico allegorico" Le creature di Promèteo [Die Geschöpfe des Prometheus], che Ludwig van Beethoven (1770-1727) musicò nel 1800, su richiesta del coreografo italiano Salvatore Viganò (1769-1821). La prima rappresentazione ebbe luogo a Vienna nel 1801. Il testo del balletto è scomparso, e l'azione ci è nota soltanto attraverso i resoconti dell'epoca. Doveva celebrare Promèteo come benefattore dell'umanità per mezzo della coscienza e delle arti (tema quant'altri mai caro a Beethoven, che aveva un'altissima concezione della missione sociale dell'arte ed era pervaso di un ardente e profondo amore del genere umano). La trama doveva porre in scena due statue, che, per la potenza dell'armonia, si animavano a poco a poco e diventavano partecipi di tutte le passioni umane. Promèteo le conduce sul Parnaso, dove Apollo fa curare la loro istruzione in ogni genere di musiche, arti e danze da Anfione, Arione, Orfeo, Melpomene, Talia, Tersicore, Pan e Bacco. La partitura di Beethoven comprende, oltre all'ouverture seguita da una introduzione, 16 numeri, indipendenti l'uno dall'altro e corrispondenti ad altrettanti quadri coreografici. L'ouverture è, fra tutti, l'unico pezzo rimasto nel repertorio, ed è veramente una vigorosa e raccolta composizione, ben chiusa entro il consueto schema formale, animata da grande vivacità e ricchezza di contrasti. Il primo tema (e principale) è un lungo tratto dei violini in do maggiore che percorre quasi tutta la composizione con la sua trama serrata e col suo energico e rapidissimo passo. L'orchestra è quella della Sinfonia n. 1, colla quale quest'ouverture presenta alcune somiglianze. L'introduzione, che dipinge una tempesta durante la quale Promèteo sfugge ai fulmini di Giove, e i 16 numeri che seguono, sono praticamente scomparsi dal patrimonio delle nostre conoscenze musicali, benché contengano notevoli bellezze. Né sempre è facile rendersi conto delle situazioni sceniche a cui dovevano corrispondere; per alcuni soccorrono certe annotazioni fatte da Beethoven stesso sulla partitura e tratte certamente dalla trama del balletto di Viganò. Soltanto il finale occupa un grande posto nella letteratura beethoveniana, poiché in esso appare, probabilmente per la prima volta, il tema eroico su cui si eleverà la gloriosa costruzione del finale della Sinfonia n. 3 (Eroica). La priorità è contesa dalle Contradanze per due violini e violoncello, pubblicate nel 1802, ma forse composte, almeno in parte, anteriormente. In seguito il medesimo tema fu preso da Beethoven a soggetto delle Variazioni e fuga op. 35, pur esse del 1802. Il balletto del Viganò fu rappresentato alla Scala di Milano nel 1813; a questa serata milanese si riferiscono alcuni cenni di Carlo Porta nel poemetto Olter disgrazî de Giovannin Bongee.

In Beethoven l'ispirazione si amplifica gradualmente e infine si assorbe nei flutti possenti di un'arte assolutamente individuale, di una portata puramente umana. (Dukas).

Beethoven è a un tempo l'uomo del passato e l'uomo dell'avvenire: da una parte va ricongiunto allo spirito dell'"ancien régime" e a quello della Rivoluzione; dall'altra bisogna vedere in lui l'"eroe" che aprì e illuminò tutte le vie che percorreranno i musicisti moderni. (Combarieu).

Gabriel Fauré (1845-1924) musicò nel 1900 una tragedia lirica in tre atti intitolata Promèteo [Prométhée] che venne rappresentata nello stesso anno a Béziers. Il libretto di quest'opera, concepita per essere rappresentata all'aperto, è di Jean Lorrain e A.F. Herold. In esso sono riuniti, e destinati parte al canto e parte alla declamazione, episodi riferentisi al mito di Promèteo; per la parte centrale soltanto, gli autori hanno attinto al Promèteo di Eschilo. Opera nobile e severa, il Promèteo di Fauré è poco noto al pubblico a causa delle sue difficoltà di realizzazione. Il "preludio" iniziale, il corteo funebre di Pandora, la scena del supplizio di Promèteo, quella dell'apparizione di Giove e la conclusione corale, raggiungono una efficacia drammatica. Il linguaggio di Fauré, maestro nelle brevi composizioni da camera, ma incapace di vaste concezioni, si presta mirabilmente invece all'espressione sobria e commossa al tempo stesso di atmosfere mitiche e leggendarie. Promèteo, eseguito anche al teatro dell'Opéra di Parigi (1907), resta non solo una delle più importanti opere di Fauré, ma costituisce anche uno dei più significativi documenti nella storia del teatro musicale francese.

Ciò che subito colpisce nella partitura del Promèteo è la semplicità estrema del ritmo e della linea melodica unite a un raffinamento armonico quasi costante... L'opera di Fauré, per le sue rare qualità musicali, per la sua personalità e l'incanto della lingua armonica in cui è scritta, dev'essere considerata come una delle migliori produzioni di musica scenica di questi ultimi anni. (Dukas).

Per lo spirito della sua arte, per la forma stessa del suo "melos", Fauré è veramente greco. Ma non è puramente un musicista greco che rivive nel nostro secolo, è lo spirito e così pure la forma dell'ellenismo che rivivono in lui... Egli si innalza in sfere immateriali per riportarci la pura bellezza. (Tiersot).

L'intensità d'espressione drammatica e la nobiltà dello stile ne fanno una delle più belle partiture della nostra epoca. (Combarieu).

Musiche di scena per il Promèteo incatenato di Eschilo compose nel 1849 Jacques-Elie Halévy (1799-1862); furono eseguite lo stesso anno a Parigi. Dal 1850 al 1855 Franz Liszt (1811-1886) compose un poema sinfonico intitolato Prométeo; una cantata per soli coro e orchestra. Le nozze di Promèteo [Les noces de Prométhée] scrisse Camille Saint-Saëns (1836-1921) nel 1867. Vanno pure menzionate una cantata Promèteo incatenato [Prométhée enchainé] di Lucien Lambert (1858-1945), eseguita nel 1883 a Parigi, e un'altra omonima di Georges Matthias (1826-1910) composta ed eseguita pure a Parigi nel 1883. Ricordiamo infine il "Coro dell'Eco" per il Promèteo liberato di Shelley di Frank Merrick (n. 1886), la Sinfonia a programma di Anton Konrath (n. 1888), la sinfonia Prometheus di Otto Dorn (n. 1848) e, collo stesso titolo, le ouvertures di Woldemar Bargiel (1828-1897) e di Edgar Bainton (n. 1880), il ballo di Hubert Pataky (n. 1892) e il preludio di Philipp Jarnach (n. 1892). Promèteo incatenato è il titolo di una ouverture di Karl Goldmark (1830-1915), e di una cantata di André Messager (1853-1929). Charles Parry (1848-1918) compose un balletto dal titolo Promèteo liberato. Notevoli pure i poemetti per coro e orchestra Prometheus di Joseph Brambach (1833-1902) e di Karl Bleyle (n. 1880).

La scultura antica è particolarmente ricca di opere stupende che rappresentano vari momenti del mito di Promèteo; nei tempi moderni è soprattutto la pittura che ha dato capolavori su questo soggetto a opera di Michelangelo, Tiziano, Rubens Ribera, Salvator Rosa, Sylvestre, Moreau e altri