(dal latino
paupertas, der. di
pauper: povero). La condizione
economica e morale di chi è povero, di chi cioè dispone in minime
quantità delle cose necessarie per una normale esistenza. ║ Fig. -
Cadere in p.: trovarsi senza mezzi di sussistenza. ║ Fig. -
P.
d'ingegno: scarso valore, limitatezza. ║ Fig. -
P. di mente:
aridità, meschinità. • Dir. - Dal punto di vista giuridico,
il concetto di
p. assume valori diversi; il legislatore in genere
sostituisce il termine
p. con "soggetto in stato di bisogno".
Per questi individui l'ordinamento predispone limiti ufficiali per quanto
riguarda, per esempio, la denuncia dei redditi o assistenze particolari. Il
D.P.R. 24-7-1977, n. 616 attribuisce ai comuni le funzioni amministrative
riguardanti i servizi di assistenza e beneficenza pubblica: a questo proposito
l'art. 23 indica le categorie di assistibili indigenti, come famiglie bisognose
di detenuti e delle vittime del delitto, liberati dal carcere, minorenni
sottoposti a provvedimenti cautelari, ex prostitute indigenti. I comuni
rilasciano
attestati di nullatenenza, sulla base di notizie fiscali e
informative, mentre non è più ipotizzabile il certificato di
p., basato sull'esistenza dell'elenco comunale dei poveri, oggi
scomparso. La tradizionale denominazione di
p. compare nell'art. 630 Cod.
Civ., in base al quale le disposizioni testamentarie, impartite genericamente a
favore dei poveri, si intendono fatte per gli indigenti del luogo in cui il
testatore domiciliava al tempo della sua morte. • Econ. - Complesso
fenomeno legato allo sviluppo della società e, come tale, analizzabile
sotto diversi aspetti. In senso assoluto la
p. può essere definita
come la mancanza dei mezzi indispensabili alla mera sopravvivenza
dell'individuo, ma il concetto di sussistenza varia a seconda delle diverse
teorie economiche e la carenza di mezzi è relativa alle condizioni
storiche, culturali e territoriali di una società (la
p. di una
società primitiva è diversa dalla
p. di un'economia
industrializzata). Il concetto di
p., inoltre, all'interno di una stessa
struttura sociale, dati cioè uno stesso luogo e una stessa epoca storica,
è relativo anche alla distribuzione dei beni, perché esprime non
solo la condizione di coloro che possiedono una quantità di beni
materiali insufficienti alla sopravvivenza, ma anche di coloro che ne possiedono
in misura minore rispetto ad altri. Altra distinzione nelle società
attuali è tra i Paesi industrialmente avanzati e i Paesi arretrati: nei
primi il livello complessivo del prodotto nazionale è abbastanza alto da
consentire una redistribuzione delle ricchezze, anche se in esse si riscontra il
fenomeno delle isole di
p., di regioni cioè o di zone urbane
sottosviluppate rispetto al Paese cui appartengono. Nei Paesi arretrati il
prodotto pro capite è così basso che una redistribuzione di
reddito fra ricchi e poveri non darebbe come effetto quello di aumentare i beni
materiali dei poveri. Dunque nei Paesi industrialmente avanzati, le politiche
redistributive pongono un argine al fenomeno della
p.; nei Paesi
arretrati i programmi di riduzione della
p. si identificano sia con
quelli indirizzati a favorire la crescita economica, sia con i trasferimenti di
reddito dai Paesi ricchi a quelli poveri. All'interno di una stessa
società, si può parlare di
p. assoluta, come quella di
coloro che si trovano sotto un certo livello di riferimento, indipendentemente
dalla condizione di tutti gli altri membri della popolazione. Tale soglia non
è universale; dipende dalle convenzioni sociali e dal contemporaneo
standard di vita di una società: per esempio, un individuo negli Stati
Uniti può essere considerato povero anche con un reddito più alto
del reddito medio individuale dell'India. Nel 1797 fu realizzata in Inghilterra
la prima ricerca sistematica sulla
p. (
The State of the Poor, di
sir F.M. Eden), con dettagli specifici dei bilanci familiari dei
"poveri". Tra la fine dell'Ottocento e l'inizio del Novecento, sempre
in Inghilterra, furono condotti studi relativi alla
p.:
Life and
Labour of the People of London (1889-1903) di C. Booth, e
Poverty
(1901) di B.S. Rowntree, nel quale compare il tentativo di definire il concetto
di
p. in senso sociale, tramite l'individuazione di uno standard di
p. di riferimento basato sulla quantificazione di bisogni minimi. Nel
1965, negli Stati Uniti, M. Orshansky sviluppò la prima indagine di tipo
moderno, che individuava una serie di linee della
p. a seconda delle
tipologie familiari considerate, anche se ne trascurava l'aspetto sociale. R.
Townsed (1973) definì la
p. come una forma di ineguaglianza
aggravata da ulteriori condizioni rappresentate, nel caso della
p.
assoluta, dall'incapacità di soddisfare i bisogni di base, nel caso della
p. relativa, dal progressivo ampliarsi del divario tra i livelli medi di
soddisfazione della popolazione e quelli dei poveri. A.K. Sen (1981), a
proposito di problemi alimentari, mise in luce la difficoltà di definire
il rapporto tra
p. e livelli nutrizionali, anche per uno specifico gruppo
di una specifica regione, poiché le abitudini dietetiche e le aspettative
di vita migliorano nel tempo. Anche le indagini periodiche svolte da organismi
internazionali come la Banca Mondiale e l'ILO (International Labour
Organization) mostrano in tutta la sua problematicità lo scarso livello
di crescita del prodotto nazionale dei Paesi meno sviluppati e della distanza
che li separa dai Paesi ricchi. Fare del concetto di
p. un sistema di
misurazione è un'operazione difficile, innanzitutto per il problema di
una base di dati di riferimento: le dichiarazioni dei redditi e i censimenti
della popolazione sono due fonti per i dati sulla distribuzione del reddito nei
Paesi industrializzati, dai quali si evince la percentuale del reddito globale
che va alla parte più povera della popolazione; essi, inoltre,
identificano il numero di membri della popolazione al di sotto di una certa
soglia di reddito e la distanza esistente fra il loro reddito e il valore medio
dei redditi del resto della popolazione, ma non valutano la distribuzione dei
redditi sopra e sotto questa soglia. Le stime relative ai dati richiedono
aggiornamenti a seconda delle fluttuazioni economiche; vi è inoltre il
problema dell'unità di riferimento, della scelta di una specifica misura
della
p. e della scelta di uno standard di
p. In vari Paesi come
gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, come misura della
p. assoluta si
costruisce un paniere costituito dai beni e dai servizi necessari per un tenore
minimo; tale soglia è modificabile in base alle variazioni del livello
dei prezzi e può essere adattata alle dimensioni delle famiglie. Alcuni
sostengono che la
p. può essere in parte eliminata attraverso la
crescita economica a prescindere dalla distribuzione del reddito. In Italia
viene presa come riferimento una serie di indici basati sulla composizione di un
paniere di costi per cibo e altri generi di prima necessità sufficienti
alla sopravvivenza, tenuto conto della diversa composizione e struttura delle
famiglie. Il rapporto tra spesa alimentare e spesa totale mette in luce come le
spese per i bisogni primari, specie alimentari, siano decrescenti all'aumentare
del reddito e della spesa totale. Per la percentuale della distribuzione del
reddito si considera un valore del reddito al di sotto del quale una certa
percentuale di famiglie è considerata povera, tenuto conto del numero dei
componenti familiari: secondo il reddito familiare, le famiglie più
povere risultano quelle con un componente; se come misura si utilizza il reddito
individuale, le famiglie più povere sono quelle più numerose. In
Italia le famiglie più povere risultano essere quelle composte da
anziani, oltre i 65 anni di età, e in particolare non attivi; le famiglie
con più di tre figli in età non lavorativa; le famiglie di operai
in agricoltura senza altri componenti attivi; le donne sole, specie se anziane;
le famiglie senza componenti occupati; le famiglie dell'Italia meridionale. Le
politiche tese al superamento della
p. devono garantire agli individui la
liberazione dallo stato di bisogno, cioè la soddisfazione dei bisogni
primari (
p. assoluta) e devono procedere alla redistribuzione della
ricchezza (
p. relativa). I mezzi per superare la
p. sono legati
alla politica fiscale e alla politica della spesa pubblica (assicurazioni
sociali, assistenza, beneficenza pubblica, assegni familiari). Fra le proposte
di riforma per il sistema assistenziale, sono da ricordare quella relativa
all'imposta negativa (negativa per il fisco e positiva per gli interessati: si
tratta di un sistema per cui sotto un certo livello di reddito gli individui non
pagano imposta e ricevono un sussidio pari alla differenza fra il reddito
percepito e il reddito minimo garantito); la riduzione del prezzo dei beni di
prima necessità (per esempio i progetti di sovvenzioni in materia di
alloggi e di assistenza sanitaria) e gli strumenti per aumentare le
possibilità di entrata nel mercato del lavoro (istruzione, corsi di
formazione professionale). • Sociol. - Condizione di carenza di risorse
materiali e non materiali che caratterizza determinati individui e settori di
una popolazione. ║ Stato di singoli soggetti, famiglie, strati sociali di
una popolazione che si verifica quando le risorse di cui abbisognano sono a un
livello talmente basso da impedire loro un'esistenza simile a quella della
maggioranza dei membri della società cui appartengono. Secondo una
definizione sociologica la
p., che è una condizione oggettivamente
misurabile, storicamente e culturalmente relativa, e soggettivamente definita,
si presenta come un effetto notevole del sistema di disuguaglianze economiche
nella società, risultante da: a) una insufficienza nella
disponibilità di beni e risorse da parte di individui o famiglie; b) il
possesso di una quota assai bassa rispetto alla distribuzione media del prodotto
interno lordo (per convenzione, un quinto); c) un reddito incompatibile con i
livelli di decoro sociale. Si distingue, a questo proposito, tra un concetto di
p. relativa, che riguarda il possesso di un reddito al di sotto di una
determinata soglia, e una
p. assoluta, che non prevede nessun parametro
di confronto, e tra
p. secondaria e
primaria, a seconda che sia o
meno il risultato di sperperi. Storicamente, l'accumulazione di capitale si
è resa possibile con la spoliazione dei piccoli proprietari di terra,
costretti con la forza ad abbandonare i loro terreni e a stabilirsi negli
agglomerati urbani per divenire forza-lavoro. La legislazione inglese dei secc.
XV-XVI colpiva duramente coloro che non erano in grado di dimostrare di avere un
lavoro, e quelli che si davano al brigantaggio per sopravvivere. Le prime forme
di organizzazione della classe operaia furono le cooperative e le casse di mutuo
soccorso, in grado di garantire ai lavoratori un livello minimo di sussistenza
anche in periodi di ciclo economico sfavorevole. Il progressivo crescere del
potere contrattuale del movimento operaio organizzato nei sindacati portò
a un mutamento di rotta dell'atteggiamento del potere statale verso gli strati
più poveri della società. Specialmente nei Paesi anglosassoni,
dove l'economia capitalistica si è sviluppata con maggiore
rapidità, si è assistito a una attenuazione dell'impoverimento
assoluto del proletariato e alla creazione di una efficiente rete assistenziale
gestita in proprio dallo Stato. C. Booth nel 1903, analizzando le condizioni di
vita e di lavoro nell'Inghilterra vittoriana, ha introdotto una definizione
operativa del concetto di
p., sulla quale sono fondate le attuali analisi
sociologiche. Secondo Booth, rispetto all'epoca del primo capitalismo
industriale, i problemi della
p. assoluta e della
p. relativa si
sono di molto ridimensionati grazie alla crescita della ricchezza e del
benessere, mentre si è accentuato il divario tra Paesi ricchi e Paesi
poveri. I poveri non vengono più considerati uno strato ineliminabile
della società, ma il risultato di una impostazione sbagliata dello
sviluppo economico e sociale cui è possibile e doveroso porre rimedio.
Tra i piani economici di ogni Governo, infatti, vi è solitamente al primo
posto la volontà di mandare avanti una rigorosa battaglia alla
p.,
fondata sulla crescita delle forze produttive. • Eccl. -
P.
volontaria o
p. evangelica: nella morale cattolica, scelta volontaria
di coloro che, abbandonando il possesso dei beni terreni, si fanno poveri per
avere un più alto grado di perfezione spirituale, secondo l'insegnamento
del Vangelo e lo spirito della primitiva predicazione cristiana, personificata
specialmente in san Francesco e nell'ordine dei frati minori. La
p.
volontaria è raccomandata come consiglio evangelico a tutti i fedeli e
assume carattere di precetto rigorosamente valido per i ricchi e nei riguardi
dell'uso del superfluo. Per gli ecclesiastici assume particolare rilievo. Il
Cristianesimo sin dai tempi più antichi diede grande importanza alla
p., anche se non sempre attuò la comunione dei beni; la
p.
è la prima condizione per essere eremiti o monaci. In seno al
monachesimo, in particolare da san Benedetto in poi, si precisa la
p.
dell'individuo e non della comunità, che invece può possedere,
senza mancare all'ordine di aiutare i poveri dando il superfluo. Nell'Alto
Medioevo le comunità ecclesiastiche, che esercitarono una funzione
economica e sociale rilevante, furono oggetto di aspre critiche specie da parte
degli eretici (Valdo e valdesi), finché san Francesco non riportò
la Chiesa al suo primitivo ideale di
p., dando luogo a ripetuti
interventi dell'autorità pontificia (bolle
Quo elongati di
Gregorio IX,
Exiit qui seminat di Niccolò III,
Cum inter
nonnullos di Giovanni XXII). ║
Voto di p.: volontaria scelta
della
p. sancita da un voto; sta alla base della vita religiosa in senso
canonico. Il voto di
p. può essere
solenne, cioè
totale, quando significa la perdita di ogni diritto di proprietà e della
capacità di acquistarne, o
semplice, cioè parziale, quando
non implica perdita di proprietà o di acquisto, ma solo della libera
disponibilità, che rimane subordinata ai superiori. Il voto di
p.
concerne i singoli religiosi, senza togliere alla comunità il diritto di
possedere.