L'essere possibile, la qualità di ciò che può essere, che
può accadere, realizzarsi. ║ La capacità, il potere, o la
condizione di fare una cosa. ║ Il mezzo, il modo, con il quale fare una
cosa. ║ Usato perlopiù al plurale, facoltà, forze,
capacità di cui si dispone e il cui esercizio permette di fare una cosa.
║ Probabilità. ║ Capacità, dote di tipo professionale
o creativo che si trova ancora allo stato potenziale. ║ Per estens. -
Pensabilità, concepibilità. ║
P. economiche:
disponibilità economiche, facoltà di spendere. • Gramm. -
Periodo ipotetico della p.: quello che ha come condizione un evento
possibile. • Filos. - La storia dell'elaborazione filosofica del concetto
di
p. affonda le sue radici nella speculazione ontologica intorno
all'essere e alla realtà degli antichi pensatori greci. Essi
consideravano la
p. come una sorta di stato intermedio fra essere e non
essere: se, infatti, ciò che è possibile non è ancora un
ente o un reale, tuttavia non è neppure un non ente o un irreale, in
quanto a esso non è precluso il raggiungimento dell'essere in atto. A
causa di questa medietà il concetto stesso di
p. fu a lungo
respinto dai pensatori che, proclamando l'assolutezza dell'essere, ne
rifiutavano ogni ipotesi di mescolanza con il non essere. È il caso di
Parmenide, degli Eleati, e della Scuola post-socratica di Megara, uno dei
massimi esponenti della quale, Diodoro Crono, sostenne la coincidenza della
p. con l'insieme degli avvenimenti presenti e futuri, riducendo in tal
modo la logica modale alla logica del tempo. L'individuazione di due distinti
piani dell'essere portò Platone a escludere il concetto di
p. dal
mondo sovrasensibile delle idee (che di fatto venne da lui concepito
eleaticamente) e a reintrodurlo nel transeunte sensibile, modellato secondo la
categoria dell'eterno divenire eracliteo. Aristotele distinse il concetto di
effettivo potere (
dúnasthai) da quello del puro "poter
essere" (
endéchesthai), che propriamente non ha alcuna
predeterminazione, né in senso positivo, né in senso negativo.
Tuttavia, anche per Aristotele, perfezione ed eccellenza ontologica non sono da
identificare con la
p., ma con la sua realizzazione e compimento, ovvero
con l'atto. È questo il presupposto di fondo che lo guidò
nell'elaborazione della sua concezione di Dio come atto puro, privo di ogni
potenzialità, la cui completa attualità non viene intaccata da
alcun residuo di poter essere. L'avvento del Cristianesimo e la rivalutazione da
esso operata della prassi, dell'amore e della potenza, segnarono una rottura
epocale con la tradizione del pensiero antico e un'inversione nel rapporto di
priorità fra potenza e atto. Si configurò, infatti, un netto
contrasto fra le categorie della teoria del divino della teologia filosofica
greca e l'idea di un Dio continuamente partecipe della storia dell'uomo, un Dio
in mutamento, un Dio (per definizione onnipotente), che sceglie, entro una gamma
infinita di
p., quelle da portare all'attualità. Uno dei problemi
centrali della filosofia medioevale fu proprio quello di conciliare il
razionalismo greco, che aveva negato ogni
p. e potenza nell'ambito del
divino, con il volontarismo cristiano, che, al contrario, vedeva nella potenza
una delle massime espressioni della divinità. L'introduzione della
nozione di
p. all'interno del divino non solo creava una serie di aporie
nella teologia filosofica, ma era anche in grado di sovvertire ogni umana
conoscenza della natura e della storia. In questo contesto di pensiero la
p. in sé, che si dovrebbe stabilire attraverso un'analisi delle sue
note costituenti, restava sconosciuta, in quanto era impossibile porre un limite
alla potenza divina a partire dalla natura quale la conosciamo, dal momento che
essa non è che l'espressione della volontà divina e Dio può
fare delle cose tutto ciò che vuole. Tale concezione portò a
posizioni di esasperato volontarismo, ma anche, grazie all'identificazione fra
volontà e natura divina, ad altre più mitigate. In questo secondo
caso l'ordine della natura e della storia risulta salvaguardato da diversi
fattori: Dio può volere solo ciò che è conforme alla sua
natura, quindi Dio non può mai volere cose conflittuali, in quanto la sua
natura non può essere composta da elementi conflittuali; qualunque cosa
Dio voglia è voluta dall'eternità; non solo quindi è
assurda l'idea di voleri conflittuali, ma lo è anche l'idea di un
cambiamento nel volere di Dio. L'ampio dibattito medioevale intorno al concetto
di
p. e di natura divina ebbe una sorta di conclusione riepilogativa
proprio all'inizio dell'era moderna con Nicola Cusano, il quale riassunse la
questione con una formula particolarmente incisiva, definendo la divinità
come
possest, ossia come unità metafisica del
posse e
dell'
esse. La tendenza a identificare reale e possibile riapparve anche
nel pensiero moderno fra i sostenitori del Determinismo e del Razionalismo, per
i quali necessità e
p. coincidono, in quanto solo ciò che
di fatto si realizza esisteva anteriormente come
p. logica. Così
Spinoza risolse il concetto di potere nell'essere, sulla base della convinzione
che, qualunque cosa concepiamo essere entro il potere divino, allora è
necessario che sia. Leibniz individuò la ragione divina come sede delle
infinite
p., di cui essa realizza solo quelle che corrispondono al suo
perfetto progetto cosmico. Da Kant in poi l'utilizzo del termine
p. si
fece più ristretto, confinato all'ambito della logica. Per Kant la
p. non è altro che una delle tre categorie della modalità
(
p., esistenza, necessità), e più precisamente quella che
si esprime nel giudizio problematico. Nella filosofia contemporanea la nozione
di
p. ha assunto una rinnovata centralità nell'ambito
dell'Esistenzialismo, in opposizione a ogni tipo di sistema
oggettivistico-metafisico, visto come regno della necessità. La
p., vista come struttura fondamentale dell'esistenza, è divenuta
così espressione della problematicità, libertà di scelta e
precarietà della condizione umana. In questo ambito Nicola Abbagnano ha
voluto battezzare proprio
filosofia della p. la sua peculiare
rielaborazione di temi esistenzialistici.