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Pontéfice.

(dal latino pontifex: chi costruisce il ponte). Membro del principale collegio sacerdotale dell'antica Roma. ║ Titolo attribuito nei primi secoli del Cristianesimo ai vescovi; dal V sec. cominciò a essere riferito al solo vescovo di Roma, di cui presto divenne appellativo esclusivo e onorifico e poi designazione ufficiale, insieme a Vicarius Petri e, con la riforma gregoriana, Vicarius Christi. Gregorio Magno fu il primo a essere chiamato sommo p. ║ Per estens. - Capo di una scuola, di un partito, di una corrente di pensiero. Con accezione ironica o spregiativa, chi si atteggia a maestro infallibile. • Encicl. - Nell'antica Roma, i p. formavano un collegio a carattere giuridico-sacrale (collegium pontificum), istituito, secondo la tradizione, da Numa Pompilio e presieduto da un pontifex maximus, la cui insegna era la toga praetexta, cioè orlata di porpora. Il più antico ufficio di tale carica sarebbe verosimilmente da ricollegarsi a quanto suggerito dall'etimologia (pontem faciens: colui che fa il ponte), cioè alla costruzione e conservazione dei ponti, forse quelli eretti sul Tevere a unire diversi villaggi di palafitte all'epoca dei primi insediamenti sui luoghi della futura città. In età storica, i p. erano cooptati (inizialmente dal re poi dagli stessi colleghi) in numero di 6, poi di 9 e infine di 15, a costituire i membri ordinari del collegio, che includeva però anche il rex sacrarum, i 15 flamini (V. FLAMINE) e le 6 vestali (V.), cui nel tempo furono affidate le incombenze sacrali vere e proprie. Le prerogative e le funzioni sacerdotali dei p., infatti, non si esaurivano puramente in compiti religiosi, secondo l'accezione "spirituale" del termine, ma avevano anche aspetti profani e giuridici, ancorché improntati alla tutela di precise e antiche tradizioni. A riprova del carattere composito dell'istituto pontificale, si ricorda che, nelle occasioni a carattere formalmente sacrale come le processioni, il p. massimo si poneva come inferiore rispetto al rex sacrarum e ai tre flamini maggiori (sacerdoti di Giove, Marte e Quirino: diale, martiale e quirinale), anche se essi gli erano in realtà subordinati, in quanto venivano scelti da lui e da lui potevano essere multati per inadempienze rituali. Secondo alcuni studiosi, nel p. massimo si perpetuarono, al principio dell'età repubblicana, alcune delle funzioni rituali, politiche e giuridiche che erano state del re (mentre il potere regale vero e proprio, l'imperium, rifluiva nelle diverse magistrature cittadine) da cui il rex sacrarum, sacerdote in senso stretto, era escluso. Tale trasferimento di funzioni dal re al collegio pontificale era anche significato dal fatto che l'antica dimora regia era abitata dai p. (e non dai flamini, ad esempio); la valenza politica residua nelle loro attribuzioni, tuttavia, andò restringendosi sempre più nel tempo, fino a coincidere con mansioni tecnico-giuridico-sapienzali. Ai p. spettava la conservazione della tradizione giuridico-religiosa della città (nell'ambito della teologia, come della liturgia e della preghiera), cui si riferivano i commentarii pontificum, raccolte di decreti e responsi a carattere giuridico-sapienziale, e i libri sacerdotum, codici rituali e cerimoniali, nonché formulari di preghiere. Essi esercitavano il controllo del culto pubblico e privato, al fine di preservare e rafforzare la pax deorum, cioè la concordia tra la città e i suoi dei, ed avevano la responsabilità collegiale del culto della triade capitolina (Iuppiter, Mars, Quirinus: Giove, Marte, Quirino, poi identificato con Romolo), massima espressione della sacralità dello Stato e garanzia della sua durata. Fra i massimi uffici pontificali erano: la registrazione degli eventi notevoli interessanti lo Stato nel corso dell'anno (annales maximi); la compilazione di calendari (in cui fino all'epoca di Cesare e della riforma giuliana, i p. avevano cura di inserire un mese intercalare di 22 o 23 giorni ogni due anni, V. CALENDARIO) e dei fasti (V.), cioè gli elenchi dei magistrati eletti nell'anno, l'indicazione dei giorni fasti e nefasti, delle riunioni dei comizi, ecc. Inoltre i p. sovrintedevano alla consecratio dei templi e al rispetto delle obbligazioni rituali (lex templi); assistevano i magistrati per quanto riguardava le questioni del diritto matrimoniale e funerario (cioè negli ambiti della vita civile più contigue alla dimensione sacrale). Al principio dell'età repubblicana, quando ancora non era efficacemente stabilita e cristallizzata la divisione di competenza tra il potere politico effettivo delle magistrature dotate di imperium e la funzione giuridico-sacerdotale dei p., sussisteva un'indubbia ostilità tra le due istituzioni, di cui resta traccia in alcune leggi. Nel 304 a.C., un magistrato di origini plebee, Cneo Flavio, ottenne di rendere pubblici i fasti fino ad allora custoditi segretamente dai p. che, da questa loro conoscenza esclusiva, ricavavano un notevole potere di interdizione, avendo la possibilità di influire sulle convocazioni dei comizi, dei tribunali, sullo svolgimento dei processi, ecc. Nel 300 a.C. entrò in vigore la lex Ogulnia, secondo la quale potevano accedere alla carica pontificale non più solo i patrizi ma anche i plebei, al fine di contrastare la natura di roccaforte gentilizia del collegio. L'inattingibilità dell'ufficio pontificale, però, era data in primo luogo dal metodo della cooptazione interna dei suoi membri, per il quale erano i sacerdoti in carica che sceglievano chi dovesse subentrare a un collega morto, mentre i comizi potevano solo prendere atto della nomina. Tale stato di cose fu sovvertito dalla lex Domitia nel 104 a.C., che incaricò dell'elezione dei p. i comizi tributi. Al fine di preservare almeno in parte il carattere sacrale della scelta, e non subordinarla totalmente ai giochi politici, solo 17 tribù, stabilite per sorteggio tra le 35 complessive, potevano partecipare all'elezione dei p. La legge limitava fortemente l'autonomia sacrale propria del collegio e per questo fu abolita dai provvedimenti di restaurazione sillani. Tuttavia quando, con Cesare, il partito popolare ebbe di nuovo la meglio, essa fu ripristinata. Da Augusto in poi la designazione dei p. venne di nuovo effettuata per cooptazione, non più però da parte dell'intero collegio, ma del solo p. massimo, carica ricoperta dagli imperatori fino al Regno di Graziano (375 d.C.), che abolì titolo e carica. Nel breve volgere di un secolo, il Cristianesimo fece proprio il termine, a indicare le figure episcopali e, dal V sec., la massima carica ecclesiale (V. PAPA e PAPATO).