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Polìtica.

Titolo di un'opera di Aristotele, divisa in otto libri, scritta presumibilmente tra il 335 e il 322 a.C. In essa vengono individuate le fondamenta dello Stato e, attraverso l'analisi delle trasformazioni storiche, delineata la Costituzione dello Stato ideale. L'agire politico viene considerato nel suo naturale evolversi, in un contesto all'interno del quale l'equilibrio e la moderazione sono visti come essenziali al raggiungimento del governo ideale della polis. Nel capitolo introduttivo del I libro, probabilmente quello che in realtà venne redatto per ultimo, Aristotele definisce il suo pensiero riguardo al grande problema filosofico concernente la distinzione della natura da apparenza e convenzione, suggerendo una concezione del mondo naturale maturata attraverso la sua concezione politica. I libri II, III, VII e VIII, con molta probabilità i primi redatti, trattano dello Stato ideale e delle teorie precedenti che lo hanno riguardato. Le questioni più interessanti di questa prima parte sono rappresentate dalle relazioni del pensiero di Aristotele con quello di Platone. La seconda parte, riconducibile ai libri IV, V e VI, analizza invece le forme statali e di governo contemporanee all'autore, con particolare riguardo alla concezione delle forze sociali che sono alla base dell'organizzazione e dei mutamenti politici e alla descrizione dei mezzi di cui lo statista deve fare uso nell'arte di governare. Il trattato nel suo complesso si presenta, quindi, come un'esposizione di elementi di filosofia politica e di scienze politiche. Come Platone, per Aristotele la forma ideale della vita civile, sia dal punto di vista sociale sia politico, ma anche e soprattutto il tramite perfetto per la piena realizzazione delle capacità umane, è la città-Stato greca. L'uomo è "animale politico", distinto dagli altri esseri viventi per il dono della parola e per la sua capacità di fornire un giudizio morale. I cittadini hanno tutti un fine comune, che è quello della sopravvivenza, della sicurezza e dell'innalzamento della qualità della vita della comunità stessa. Nell'ambito della città-Stato tale fine può essere realizzato esclusivamente da una minoranza e Aristotele, come Platone, esclude da tale novero coloro i quali non hanno piena cittadinanza e gli schiavi. Condizione essenziale per il raggiungimento del maggior benessere comune è la presenza e l'operatività della legge, che deve presiedere a qualsiasi azione. Tale dottrina, che pone una netta distinzione tra governo legittimo e tirannia, sarebbe sopravvissuta durante il Medioevo, arrivando a costituire la base teoretica di qualsiasi governo costituzionale moderno. Una differenza essenziale tra Platone e Aristotele è evidente in tutte quelle parti della P. che trattano dello Stato ideale: lo Stato ideale aristotelico corrisponde a quello collocato da Platone al secondo posto. Aristotele attacca frontalmente anche i regimi democratici, instauratisi solo grazie alla corruzione perpetrata ai danni dei cittadini. Ma è la tirannia la forma di governo maggiormente condannata, il potere arbitrario di un individuo "senza alcuna responsabilità nei confronti di nessuno e che governa allo stesso modo, avendo presente solo il proprio utile e non quello dei suoi governati, e quindi contro il loro stesso volere". Il suo ideale è un governo costituzionale, il solo che rifletta un autentico ideale di giustizia. Accettando il punto di vista esposto da Platone nelle Leggi, egli ammette che in ogni Stato la sovranità assoluta dev'essere tenuta dalle leggi e mai da una singola persona. La relazione tra un capo di governo costituzionale e i sudditi è di genere diverso da ogni altra sorta di sudditanza, perché è compatibile con la libertà delle due parti, e perciò richiede tra loro un grado di eguaglianza e di somiglianza morale. Il governo costituzionale consiste di tre elementi fondamentali: è un governo nell'interesse pubblico o generale; legittimo, in quanto è regolato da leggi generali e non da decreti arbitrari; è un governo di sudditi consenzienti, quindi distinto da un dispotismo sopportato soltanto per forza. Nella classificazione delle forme di governo, Aristotele adotta quella già usata da Platone nel Politico, individuando un gruppo di tre regimi legittimi: monarchia, aristocrazia e democrazia (moderata), e di tre Stati corrotti, o dispotici, degenerazione dei precedenti: tirannide, oligarchia e democrazia estremista (o demagogia). La distinzione fondamentale fra democrazia e oligarchia consiste in una differente pretesa al potere: l'una basata sul diritto di proprietà e l'altra sul benessere del maggior numero di esseri umani. Posto il problema in questi termini, Aristotele mostra come la ricchezza non dia diritto assoluto al potere in quanto lo Stato non può essere confuso con una società commerciale e neppure è il risultato di un contratto. Tuttavia l'assoluta uguaglianza fra i cittadini è in realtà una finzione, per il peso esercitato in politica da elementi come una buona nascita, una buona educazione, l'agiatezza economica. Per Aristotele la migliore forma democratica è quella in cui il popolo ha un potere considerevole ed è in grado di tenere a freno la classe dirigente. Un'oligarchia che abbia larghe basi in una popolazione in cui la ricchezza sia abbastanza uniformemente distribuita può essere una forma legittima di governo. L'analisi dei fattori politici nella democrazia e nell'oligarchia mette Aristotele in grado di considerare il problema della costruzione dello Stato ideale, ossia di chiedersi quale governo sia migliore per la massima parte degli Stati. Aristotele chiama questa forma di Stato "governo costituzionale", nome che egli dà nel libro III alla democrazia moderata. Esso consiste in una forma mista di costituzione, in cui sono sapientemente combinati elementi oligarchici e democratici. La sua base sociale è fondata sull'esistenza di una vasta classe media, composta da coloro che non sono né molto ricchi né molto poveri. Un gruppo cittadino di questo tipo è abbastanza vasto per dare allo Stato una base popolare, abbastanza disinteressato per coprire le magistrature che implicano una responsabilità e abbastanza scelto per evitare i danni di un governo nelle mani delle masse. Tanto l'oligarchia quanto la democrazia sono in una condizione di equilibrio instabile, ciascuna di essa risultando soggetta a repentine cadute e a degenerare in forme di tirannia, del singolo, o della folla. A lungo andare, comunque, nessuna forma di governo può essere permanente, a meno che non sia sostenuta dalle maggiori forze economiche e politiche dello Stato.