eXTReMe Tracker
Tweet

Meridionale.

Che si trova a Mezzogiorno, cioè a Sud. Si intende sia in senso assoluto, vale a dire a Sud dell'Equatore (V. AUSTRALE), sia limitatamente ad altre zone più vicine al Nord. ║ Rivolto a Sud. Proveniente da Sud. ║ Con valore sia aggettivale sia sostantivato, di persone che vivono a Sud. • St. - Questione m.: locuzione con la quale si cominciò ad indicare, subito dopo l'unità di Italia, il problema dell'arretratezza economica, sociale e politica delle regioni italiane corrispondenti al precedente Stato borbonico delle Due Sicilie. In senso più ampio, con tale definizione si intende oggi il complesso, non solo di problemi, ma anche di teorie, proposte e provvedimenti di natura politica ed amministrativa che furono adottati nel tentativo di ridurre lo squilibrio socio-economico fra le regioni m. e settentrionali dello Stato post-risorgimentale. I limiti geografici della questione m. non sono peraltro ben definiti, né vanno assunti rigidamente: anche la Sardegna, per esempio, che pure non fu mai borbonica bensì piemontese già prima dell'unità, rientrava in questi limiti. L'arretratezza del Meridione, che aveva radici tanto in obiettive condizioni fisico-geologiche del territorio quanto, e più ancora, nelle sue vicende storiche a partire dalla dominazione spagnola, oppose difficoltà impreviste al progetto cavouriano di un'amministrazione centralizzata e di un mercato nazionale libero e unificato. Il feudalesimo, abolito sul piano giuridico soltanto in epoca napoleonica, sopravviveva in realtà nelle strutture economico-sociali di quelle regioni: il monopolio della ricchezza era appannaggio di baroni latifondisti, spesso restii ad investire capitali per incrementare il rendimento delle loro terre che facevano invece coltivare da affittuari a brevissimo termine (tanto da rendere impossibile l'introduzione di migliorie) o più spesso da braccianti. Comuni, enti pubblici, istituti di credito, attività imprenditoriali, commerciali e manifatturiere erano quasi completamente assenti e, con essi, mancava un vero ceto medio, se si esclude quella porzione di funzionari pubblici ed ecclesiastici in gran parte parassiti o collusi con il potere mafioso e camorrista già esistente. Ugualmente carente era ogni tipo di infrastruttura, comprese la rete stradale e ferroviara (98 km di strada ferrata in rapporto ai 1.300 di Piemonte e Lombardia); infine, mancavano nel Mezzogiorno organizzazioni associative di qualsiasi genere e l'analfabetismo era dilagante, assai più che al Nord. Tale situazione peggiorò, di fatto, con l'intervento dello Stato unitario che, gestito dal blocco moderato guidato da Cavour, rafforzò da una parte l'oligarchia locale di proprietari terrieri, ostile ad una condivisione del potere politico, e finì per vessare ulteriormente il popolo con provvedimenti quali la coscrizione obbligatoria, la pressione fiscale, equiparata a quella piemontese, l'eliminazione delle barriere doganali interne e l'introduzione di un libero mercato senza alcun correttivo per la fragile e precaria economia m. Quando anche la vendita dei territori demaniali e dei beni confiscati alle corporazioni religiose, che avrebbe dovuto consentire a contadini e piccoli proprietari l'acquisto di terre, finì invece, causa l'estensione eccessiva dei lotti e la macchinosità delle aste, col favorire nuovamente i latifondisti, la situazione diventò esplosiva. Il fenomeno del brigantaggio, già presente in età borbonica, raggiunse dimensioni e consenso popolare notevoli, inasprito da tasse ingiuste (compresa l'imposta sul macinato, che colpiva le classi più deboli proprio nel cibo quotidiano) e represso con azioni militari sanguinose e di enorme portata. Già nel 1863 il Governo aveva creato una commissione d'inchiesta, guidata da Giuseppe Massari, per analizzare il fenomeno del brigantaggio e la questione m. in genere e individuarne la soluzione. I suoi membri, però, si occuparono solo del problema dell'ordine pubblico, suggerendo l'adozione di misure amministrative, e trascurarono l'aspetto sociale della situazione. Il ceto latifondista, alleato in ciò alla classe imprenditoriale del Nord, impediva una favorevole evoluzione dello status quo allo scopo di mantenere i propri privilegi economici e il monopolio della gestione politica locale. La trasposizione acritica nel Mezzogiorno dell'intero apparato legislativo, amministrativo e fiscale piemontese e l'estensione del regime liberista settentrionale stroncò, nei primi decenni di vita unitaria, le poche manifatture locali incapaci di reggere il peso della concorrenza. La pressione fiscale, infine, causò un vero e proprio drenaggio delle ricchezze m., cui non corrisposero pari investimenti locali, dal momento che la spesa pubblica si concentrò al Nord. Su una tale situazione si appuntò, a partire dagli anni Settanta del secolo, la riflessione dei meridionalisti (V. MERIDIONALISMO) cui si devono le prime ricerche organiche sulle cause dello squilibrio fra le regioni italiane e le prime serie autocritiche del liberalismo risorgimentale. I toscani Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino (futuro ministro delle Finanze e del Tesoro del Gabinetto Crispi) fondarono la rivista "Rassegna settimanale" (1878-80), attraverso la quale diffusero inchieste, condotte in loco, sulla realtà del napoletano e della Sicilia; Pasquale Villari (V.) con le sue Prime lettere meridionali (1816), seguite nel 1875 dalle Seconde lettere, offrì al Paese il quadro socio-economico del Mezzogiorno. Fondamentali furono gli interventi di Giustino Fortunato (V.), che descrisse il degrado delle condizioni idrogeologiche del territorio, acuito dall'incuria dei proprietari dei latifondi, dall'avversità del clima (siccità alternata ad eventi meteorologici violentissimi) e da un immobilismo sociale, di natura oppressiva verso le masse di "cafoni", cui il Governo aveva di fatto aderito. A tale generazione di studiosi va il merito di aver sottratto la questione m. ad una visione particolaristica rivelandone la portata nazionale; le soluzioni da essi prospettate (regolamentazione delle vendite agrarie, istituzione di arbitrati, introduzione della mezzadria in luogo del lavoro bracciantile, agevolazione del credito per favorire la nascita di un ceto medio sia agrario sia mercantile, riforma della pressione fiscale, ecc.), tuttavia, peccarono forse di eccessiva fiducia in una borghesia illuminata che, in realtà, non si mostrò per nulla interessata al riscatto delle popolazioni m. Ciò nonostante, qualcosa stava cambiando nel Mezzogiorno: in alcune zone si verificò un certo progresso nelle coltivazioni (nelle piane campana e pugliese, in quella di Catania) che favorì la crescita anche della commercializzazione dei prodotti agricoli; si svilupparono centri urbani affrancati dalla tradizionale dipendenza da Napoli e Palermo; prese forma una rete di comunicazione, soprattutto ferroviaria, anche se più finalizzata al collegamento col Nord che non a quello fra i vari centri del Meridione (carenza che è tutt'oggi evidente); progredì lentamente anche la diffusione dell'istruzione e delle strutture pubbliche. Tali lievi miglioramenti, però, non colmarono il divario tra le due parti d'Italia: esso si accrebbe, infatti, a partire dalla fine degli anni Ottanta, con la reintroduzione del regime protezionistico contestualmente ad una "guerra" economica con la Francia. Le revisioni delle tariffe doganali, decretate nel 1878 e nuovamente nel 1887, favorirono il mercato interno per il settore siderurgico, tessile e cerealicolo (facendo decollare l'industria settentrionale e il latifondo m. coltivato a frumento) ma bloccarono l'importazione francese di vino, olio, frutta, tutte produzioni tipiche della piccola proprietà contadina del Sud d'Italia. Ciò inasprì il circolo vizioso per cui i capitali venivano sottratti all'agricoltura ed investiti nelle industrie, concentrate a Nord, mentre i piccoli proprietari m. erano costretti a vendere le loro terre ai latifondisti, già favoriti dagli alti prezzi dei cereali di cui erano i massimi produttori italiani. Larghi strati di popolazione non ebbero altra alternativa all'indigenza se non quella dell'emigrazione, fenomeno che raggiunse in quegli anni (1895-1913) una portata enorme, calcolabile in poco meno di cinque milioni di emigrati, per lo più verso le Americhe e principalmente m. In quei medesimi anni prese forma la riflessione meridionalista di Francesco Saverio Nitti (V.), per il quale lo sviluppo settentrionale e il sottosviluppo m. costituivano gli esiti opposti del drenaggio fiscale di capitali dal Sud e delle misure, liberiste all'interno e protezioniste verso l'estero, della politica economica. Nitti invocava, a risanamento dello squilibrio, l'intervento statale da un lato a sostegno della piccola imprenditoria (soprattutto con sgravi fiscali), dall'altro con nazionalizzazioni, in particolare dell'energia elettrica che era in grado di avviare un processo di industrializzazione del Mezzogiorno. Oltre a Nitti altri studiosi si attestarono su dottrine economiche antiproibizioniste (Einaudi, Donvito, ecc.), ritenendo che in tal modo fosse sufficiente un intervento a sostegno dell'impresa privata perché la situazione evolvesse positivamente. Fu Gaetano Salvemini (V.) ad avvicinarsi per primo alla questione m. con un'ottica classista, individuando la causa dell'arretratezza del Meridione nel blocco sociale creatosi tra borghesia agraria e borghesia urbana. La via del riscatto risiedeva, invece, in una opposta alleanza fra contadini m. ed operai settentrionali, il cui strumento avrebbe dovuto essere il suffragio universale (ottenuto effettivamente nel 1919), in grado di assicurare il giusto peso politico alle loro rivendicazioni. Alla tradizionale scelta antiproibizionista e di sostegno alla piccola impresa si accompagnava, nello studioso, un'opzione in senso federalista e autonomista. Salvemini giudicò assai duramente il sostegno del Partito Socialista all'azione di Giolitti, che accusò di strumentalizzare le masse m., nonostante si dovessero proprio al suo Governo le prime legislazioni speciali in favore del Mezzogiorno. La causa delle autonomie regionali fu sostenuta, dopo la prima guerra mondiale, anche da Don Sturzo, il quale ebbe come obiettivo la costituzione in Meridione di una democrazia a carattere rurale, in grado di gestire localmente la spesa pubblica, assumendo oneri e onori di tale responsabilità. Anche Gramsci, rifacendosi soprattutto all'analisi di Salvemini, si occupò della questione m., considerandola problema nazionale e punto cruciale dell'azione rivoluzionaria che, per realizzarsi, doveva annullare il blocco di potere moderato costituito dall'alleanza fra classe agraria e borghesia urbana. Durante il ventennio fascista la questione m. fu praticamente insabbiata e, molto semplicemente, dichiarata risolta. In realtà i disoccupati m., in numero sempre crescente, furono ghettizzati nelle loro regioni, considerate in pratica come una riserva di manodopera a basso costo o di volontari per le imprese d'Africa e belliche. Ai mali non risolti si aggiunsero, durante la seconda guerra mondiale, le distruzioni causate dai bombardamenti, le gravi perdite umane, lo sbarco e l'occupazione angloamericana, che in qualche modo supplì malamente alla totale disgregazione dell'amministrazione statale dopo l'armistizio del 1943. Tutto ciò, nel secondo dopoguerra, sortì una disparità ancora più accentuata fra le regioni italiane. Il dibattito meridionalista, soffocato insieme alle libertà democratiche dal regime fascista, si riaccese, anche sull'onda dei movimenti sociali delle campagne, nelle voci di Morandi (industrializzazione), Saraceno (autonomia regionale e democrazia rurale), Rossi Doria (riforma agraria e sviluppo agricolo) e altri. In particolare comunisti e socialisti, riprendendo le riflessioni gramsciane sull'argomento, furono sensibili alla questione; ricordiamo in particolare Emilio Sereni, esperto di problemi agrari e membro del comitato centrale del partito comunista. Al rilievo nazionale assunto dalla questione contribuirono in notevole misura anche riviste specializzate come "Cronache meridionali" (cui collaborarono Amendola, Chiaromonte, Napolitano) e "Nord e Sud" (su cui scrissero Campagna, Ajello, Rossi Doria, Galasso). Dopo alcuni provvedimenti di emergenza, nel 1950 si varò una parziale riforma agraria per il Meridione e venne istituita la "Cassa per il Mezzogiorno", che avrebbe dovuto finanziarie investimenti pubblici, aggiuntivi rispetto al bilancio statale ordinario, per la creazione di infrastrutture (acquedotti, elettrificazione, strade, ecc.) che favorissero la nascita di imprese industriali nel Sud. A questo tipo di intervento, peraltro realizzato solo parzialmente e spesso malamente, si affiancò negli anni anche la realizzazione e promozione diretta di stabilimenti produttivi. Pur in presenza di un certo sviluppo economico e sociale, i risultati non furono né quantitativamente né qualitativamente quelli sperati, ma bastarono a fiaccare l'interesse per la questione a livello nazionale, mentre la politica, con scarsa capacità progettuale ed amministrativa, si limitò a rinnovare più volte le funzioni sussidiarie della Cassa del Mezzogiorno, abolita solo nel 1984. Anche la riforma agraria fallì sostanzialmente l'obiettivo, soprattutto a causa della scarsa assistenza iniziale ai produttori cui, fra l'altro, spettarono unità fondiarie troppo piccole e scarsamente vitali. All'inizio degli anni Sessanta si sostanziò, per la prima volta nella persona di La Malfa, la richiesta di inserire la politica per il Mezzogiorno in quella globale di indirizzo e programmazione dell'intera economia nazionale, sottraendola al regime "speciale" che aveva mostrato la sua inefficacia a lungo termine. La questione m., pur in presenza di studi di grande valore scientifico e sociologico (si pensi ai lavori di Sylos Labini, Graziani, De Rita, ecc.), perse la carica di sincera progettualità politica che aveva mostrato nei primi anni del dopoguerra e decadde spesso ad assistenzialismo senza sbocchi o, peggio, ad occasione di clientelismo, mentre il divario fra Nord e Sud, anche a causa della massiccia emigrazione verso le fabbriche settentrionali o i Paesi dell'Europa occidentale, si accrebbe. Gli interventi, inoltre, finirono con il trascurare sempre di più il settore agricolo concentrandosi, ma poco efficacemente, su quello dell'industria e dei servizi. Dopo il terremoto del 1980 si rafforzò l'adozione di una politica "speciale" per il Meridione, diretta alla realizzazione di opere e alla concessione di sussidi per favorire investimenti. Corruzione, clientelismo e notabilato imperversarono per tutti gli anni Ottanta nelle regioni m., mentre i fenomeni di criminalità organizzata (mafia, camorra, le nuove realtà come le stidde siciliane e la Sacra corona unita pugliese) assunsero dimensioni rilevanti, nutrite dalla disoccupazione mai sanata e sempre crescente. Ad una tale situazione che, accanto a ristrette zone economicamente progredite, presenta campagne abbandonate, centri urbani degradati, insicurezza pubblica, disfunzione delle istituzioni risponde attualmente anche una latitanza del pensiero meridionalista, tanto più evidente nella carenza progettuale della programmazione operata dai differenti Governi degli anni Ottanta e Novanta. La Cassa del Mezzogiorno venne sostituita con la più snella "Agenzia per la promozione e lo sviluppo del Mezzogiorno", a sua volta soppressa per gli scarsi risultati. La crisi politica e istituzionale iniziata in Italia nel 1992 non ha favorito una comprensione migliore della questione m., né ha indicato vie e strumenti efficaci per una sua soluzione.