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Essere.

Ciò che è, che esiste. La ricerca dell'e. è la ricerca del principio fondamentale dell'Universo e il tentativo di concepire un e. supremo, tale che da esso possa dedursi il mondo e il supremo valore. Tale ricerca coincide con l'inizio stesso della ricerca filosofica. La prima formulazione del concetto di e. fu posta da Parmenide che indicò come e. il principio primo che ha dato vita al mondo nel suo ordine. Per i pensatori della scuola eleatica, come per Parmenide che di tale scuola è il massimo rappresentante, l'e. si fonda sul pensiero come ciò che solo può essere pensato, per cui il non-e. non può essere. Il non-e. è assurdo, esso non si può né pensare né esprimere. L'e. è tutto, solo esso è vero in quanto può essere veramente pensato. Gli atomisti, per concepire il divenire, fecero propria la distinzione parmenidea, tra e. e non-e., pur negando il principio parmenideo secondo cui il non-e. non è. Il loro massimo rappresentante, Democrito, considera l'e. (uno e compatto) diviso dal vuoto che lo spezza in e. molteplici, aventi tutti la stessa natura indivisibile e perciò detti atomi. La molteplicità non deriva dalla scomposizione dell'uno che è divisibile, ma i molti sono l'infinito ripetersi dell'uno. Platone, affrontando il problema da un punto di vista puramente razionale, ammette la razionalità tanto dell'e. quanto del non-e. che perciò non viene concepito come negazione dell'e., ma come necessità dell'e. che, per determinarsi, deve dialetticamente negarsi. Aristotele rifiuta la dialettica quale autonegazione dell'e. e concepisce l'e. non come reale in se stesso, ma come un semplice predicato della realtà: "questo è". Secondo Aristotele, vi è quindi una pluralità di e. (sostanze). Egli considera il divenire come uno sviluppo dell'e., e, per poter spiegare la partecipazione dei singoli individui all'unico predicato, deve ammettere un unico Ente immobile che sovrintende il processo dei singoli e. Ne consegue che il divenire terreno altro non è che la rappresentazione illusoria di un processo già compiuto. Questi presupposti aristotelici resero possibile la successiva fusione col pensiero cristiano. In tutti i pensatori classici, tuttavia, sono presenti due diversi significati di e. e nessuno è riuscito a sottrarsi alla difficoltà di conciliare questi due significati contrapposti, ossia quello di e., nel senso di esistere, che si pone come un valore irrazionale, e quello di e. come principio di razionalità. Di qui la distinzione fatta da Platone tra un mondo terreno e un mondo ideale, e quella di Aristotele tra potenza e atto. Soprattutto la filosofia medioevale ha sentito l'esigenza razionale di dare una soluzione compiuta al problema della coincidenza dei due valori in un unico e. (o Ente o Sostanza). Viene così posto da Anselmo d'Aosta l'argomento ontologico, secondo cui l'Ente, è principio di ogni esistenza, dato che questa, per essere pensata, deve avere un valore universale. Tale identificazione dell'e. logico con l'esistere e con riferimento a Dio è resa possibile in quanto viene ammessa un'esistenza non sensibile. L'argomento ontologico è rifiutato da Tommaso d'Aquino che conserva la distinzione classica tra i due significati. Per Tommaso, l'e., pur nella sua unità, implica una dualità di piani e perciò l'e. non può venire considerato rigorosamente uno. Il principio dal quale Tommaso muove è quello della diversità dell'e. di Dio dall'e. che da Dio deriva, per cui il creatore è separato dalla creatura. Secondo l'argomento ontologico, invece, l'Ente puramente logico non può avere un'esistenza sensibile, per cui quanto più l'e. passa dall'esistere materiale (esistenza di fatto), all'esistere logico (esistenza di diritto), tanto più esso è reale. Questo argomento fu accolto da vari pensatori, tra cui, in età medioevale, Scoto Eriugena e, in età moderna, Cartesio e Spinoza. Rifacendosi a sant'Agostino, Scoto Eriugena afferma che lo sviluppo dell'e. è unitario, pur passando attraverso quattro gradi: Dio creatore; mondo degli archetipi; cose poste nello spazio e nel tempo; Dio come fine del tutto. Questi quattro momenti si riducono realmente a due (creatore e creatura) che, a loro volta, si risolvono sostanzialmente in uno: Dio quale principio, mezzo e fine del reale. Lo sviluppo dell'e. avviene, secondo l'ordine gerarchico, dall'universale al particolare. Anche l'uomo compie tale movimento, attraverso la morte, la resurrezione del corpo e l'immedesimazione con Dio. Al termine del ciclo, la materia si sarà sciolta nei suoi elementi intellegibili: non vi sarà inferno, ma la condanna del male sarà appunto il non-e. Spinoza definisce la suprema realtà, ossia la sostanza, come quella in cui essenza ed esistenza coincidono (esse in sé), a differenza della realtà degli e. in cui essenza ed esistenza non coincidono (esse in alio). Il problema centrale rimane quello del perché esistono degli e. la cui esistenza non è già data nella loro essenza. Nella filosofia moderna acquista importanza la necessità conoscitiva e l'e. si presenta come attività della coscienza, così che l'opposizione tra e. ed esistere diventa opposizione tra e. della coscienza ed e. esterno, ossia opposizione tra attività logica e dato sensibile. Così in Cartesio è la coscienza a prendere il posto dell'Ente, diventando il punto d'incontro tra l'esistere del mondo e l'e. del pensiero. Fondatore del razionalismo moderno, Cartesio afferma l'evidenza intrinseca del pensiero a se stesso. E. e pensiero s'identificano nell'io autocosciente: cogito ergo sum, e l'atto del dubbio, rivolto sul pensiero stesso, è sempre un atto di autocoscienza. I concetti di e. e di esistere si presentano separati nel pensiero degli empiristi inglesi. Così l'esistere viene considerato da G. Berkeley nient'altro che l'apparizione alla coscienza. A questo punto di vista aderisce anche Kant, secondo cui l'e. non è un carattere della realtà in se stessa e neppure è una copula razionale che consenta di porre in relazione una cosa col giudizio, esso invece consiste nel porre un oggetto nel pensiero, ossia nell'ordinare un gruppo di sensazioni in oggetto. Il porre qualcosa come oggetto non significa ancora riconoscerne l'esistenza che è provata solo dall'esperienza sensibile. Pertanto l'e., come atto mediante il quale la coscienza pone a se stessa le cose, non rappresenta la prova della loro esistenza esteriore. Su questa base, Kant rifiuta l'argomento ontologico, affermando che il concetto di cento talleri puramente pensati non differisce da quello di cento talleri realmente esistenti, i due concetti differiscono solo in quanto i cento talleri puramente pensati non possono essere oggetto di esperienza sensibile. Così, l'esistenza esteriore al nostro atto del conoscere, non potendo essere raffigurata come e., sarà raffigurata come valore. La realtà in se stessa, ossia ciò che Kant chiama noumeno (cosa in sé), non sarà più un e., ma solo un principio morale: l'e. quale principio assoluto universale, deve identificarsi con il valore morale. In tal modo, ogni ontologismo viene a cadere davanti alla metafisica del valore. Il problema dell'e. viene riproposto in termini tradizionali da A. Rosmini che distingue, come già Tommaso d'Aquino, tra l'idea dell'e. di una cosa e il giudizio della sua esistenza. L'idea dell'e. possibile non deriva dalla sensazione e dalla percezione, ma ha la sua sede nell'e. realmente esistente. Pur tenendo conto della critica kantiana, Rosmini ne fraintese il senso più profondo ed elaborò un sistema di tipo ontologico, basato tutto sull'idea dell'e. Tale idea si attua attraverso tre diversi ordini di determinazioni: e. ideale, cioè Dio quale principio della nostra conoscenza; e. reale, cioè Dio quale principio delle cose create; e. morale, cioè Dio quale supremo fine di ogni umana ispirazione. Ancor maggiore è l'adesione di V. Gioberti all'ontologismo tradizionale. Egli riconosce il carattere di e. solo all'Ente supremo, concedendo alle creature solo l'esistenza. La sua dottrina si compendia nelle due formule: "L'Ente crea l'esistente" e "L'esistente ritorna all'Ente". La prima vuole indicare il processo attraverso il quale tutti gli "esistenti", ossia gli e. particolari della realtà sensibile, si originano dall'e. assoluto e unico che è Dio. La seconda vuole indicare il ritorno dell'uomo a Dio, ossia l'umana perfettibilità. Anche nella filosofia contemporanea è rimasto vivo nelle correnti spiritualistiche, soprattutto cattoliche, il tentativo di conciliare la concezione tradizionale dell'e. con la critica della conoscenza propria della filosofia moderna da Kant in poi. Si ricorda in particolare la posizione di M. Blondel che fonda sull'azione il concetto stesso di e., intesa come "volere", operando una conciliazione col pragmatismo: "se non sono ciò che voglio essere, con tutte le mie forze nei miei atti, io non sono affatto". Il problema dell'e. è stato affrontato da R. La Senne e L. Lavelle, massimi rappresentanti dell'orientamento filosofico francese noto come "filosofia dello spirito" e basato sui fondamenti speculativi di M. Blondel e H. Bergson. In particolare il Lavelle insiste sulla presenza dell'e. e sul carattere divino di tale "Eterno Presente". Hegel, come realista e panlogista, opera un'identificazione tra l'e. e l'esistere. Ciò posto egli deve far derivare tutta la realtà dal puro concetto di e. che è indeterminato e, per determinarsi, deve contrapporsi a quello di non-e. Di qui la dialettica come processo determinativo dell'e., quale realtà nel suo divenire. Secondo G. Gentile, che sostiene la necessità di una riforma della logica hegeliana, e. e pensiero s'identificano realmente solo quando l'e. è ridotto al pensiero, è un suo prodotto, e il pensiero, se è libertà, non può essere contemplazione di una realtà, ma continua creazione. Il problema dell'e. è stato per gran parte accantonato dalle più importanti correnti di pensiero contemporanee. Va però rilevata l'importanza che esso ha nelle correnti esistenzialiste, in particolare nella filosofia di M. Heidegger che considera come scopo stesso della filosofia la ricerca del senso dell'e. Heidegger distingue tra un esserci (Dasein), quale immediata realtà dell'essere presente (esistenza banale), dall'e. quale esistenza autentica, superiore, che è il rivelarsi dell'esistenza a se stessa. L'uomo è un e.-nel-mondo e ciò corrisponde a uno stato di caduta che è l'esistenza quotidiana nella sua banalità. Da tale stato di caduta l'uomo si riscatta attraverso l'angoscia di fronte al nulla che gli dischiude la verità del proprio e. che è un e.-per-la-morte. J. P. Sartre distingue due categorie fondamentali: l'e.-in-sé e l'e.-per-sé. Il primo è l'e.-nel mondo, ossia l'assoluta determinazione; il secondo è la coscienza annientatrice dell'e. Essa agisce non vincolata da alcun motivo, non sottoposta ad alcuna norma, non legata al passato; ma interamente proiettata verso il futuro, in quanto assoluta libertà. La svalutazione dell'e. da parte delle correnti più vive del pensiero contemporaneo è dovuta al sempre più accentuato rifiuto di ogni concezione metafisica che riduca l'uomo a puro strumento, ponendo a protagonista, anziché l'attività umana, quella misteriosa di un e. determinato. Come osserva N. Abbagnano (Possibilità e Libertà, 1956), ogni dottrina che consideri l'e. come una presenza determinante conduce all'indifferenza valutativa. Si può esaltare e concepire e. come valore, bene, spiritualità, razionalità, ecc.; ma se esso viene considerato come presenza determinante, ciò rende impossibile ogni giudizio valutativo, così che "l'unico atteggiamento legittimo è quello di chi accetta e giustifica tutti i fatti, senza discriminazione e senza scelta".