Storico, filosofo, uomo politico e scienziato italiano. Nato
da una di una certa prosperità economica e di larghe tradizioni
culturali, frequentò il liceo a Milano e si iscrisse quindi alla
facoltà di Giurisprudenza dell'università di Pavia; nel contempo
fu assunto quale supplente presso il ginnasio dove insegnò poi come
professore effettivo. Seguiva nel frattempo le lezioni del Romagnosi, il
filosofo di cui si dichiarerà seguace e, ancora giovanissimo, nel 1822,
pubblicava sulla rivista "Antologia" un articolo dal titolo "Assunto primo della
scienza del diritto naturale di G. Romagnosi". Dopo aver conseguito la laurea
nel 1824 si dedicò a studi di varia natura, prediligendo però le
scienze economiche e storiche: in questo periodo collabora a varie riviste, fra
cui l'"Eco della Borsa", gli "Annali universali di statistica", il "Bollettino
di notizie statistiche ed economiche italiane e straniere", gli "Annali di
giurisprudenza pratica"; su quest'ultimo pubblica il suo celebre saggio
Ricerche economiche sulle interdizioni imposte dalla legge civile agli
Israeliti, scritto che gli diede una larghissima notorierà in campo
europeo. Finalmente, nel 1839, fondò e diresse una delle più
interessanti e vivaci riviste non solo di quel periodo, ma senza dubbio
dell'intera storia dell'Italia moderna, "Il Politecnico", che per cinque anni
raccolse quanto di meglio la cultura e la scienza italiana di quel periodo
offriva, all'insegna di quella particolare forma di illuminismo che fu
l'illuminismo lombardo, tutto teso alla risoluzione dei problemi concreti,
economici, politici e sociali, che si ponevano. Dotato di grande autorità
e prestigio in Italia e in molti paesi europei, il
C. viene nominato nel
1845 segretario della Società d'incoraggiamento d'arti e mestieri;
più tardi pubblica quell'opera magistrale che è
Notizie
neutrali e civili sulla Lombardia. La rivoluzione del 1848 lo vede alla
testa dell'ala più democratica dello schieramento milanese: sino ad
allora non si era mai occupato di politica, ma anche in questo campo, malgrado
la sconfitta che la sua posizione ebbe, dimostrò una straordinaria
acutezza di giudizio e lottò acerbamente, appoggiato dalla stragrande
maggioranza del popolo milanese, contro l'annessione della Lombardia al Piemonte
durante le cinque giornate di Milano. Fu anche eletto segretario del Consiglio
di guerra e anche in questo campo, a lui totalmente sconosciuto, dimostrò
tale intelligenza tattica da riuscire a vincere il pur forte esercito austriaco,
che fu costretto a ripiegare di fronte alla vasta insurrezione del popolo.
Osteggiato dalla borghesia e dalla nobiltà milanese, il
C. fu
costretto ad abbandonare la sua Milano e a rifugiarsi nel Canton Ticino, ove
rimase per un decennio insegnando nel locale liceo cantonale che fu fondato per
suo consiglio. In questo decennio, oltre a svolgere una intensa attività
di consigliere presso il governo ticinese, pubblicò l'interessante
Dell'insurrezione di Milano nel 1848 e della successiva guerra, e
curò l'
Archivio triennale. Dopo la guerra del 1859, ritornò
a Milano, rifondò "Il Politecnico", venne eletto più volte al
Parlamento, ma si rifiutò sempre di partecipare alle sue sedute;
gravemente deluso dallo sviluppo della società italiana, si ritirò
a poco a poco dalla vita pubblica, guardato con ostilità e freddezza
dalle autorità e da quella borghesia che aveva scelto non già la
strada democratica che egli propugnava, ma invece un regime di carattere
sostanzialmente conservatore e autoritario. I suoi ultimi anni furono tristi e
poco operosi. Come già sopra si accennava il
C. fu seguace del
Romagnosi, a cui dedicò alcuni articoli e saggi; tuttavia il suo pensiero
filosofico fu per alcuni aspetti originale e in alcuni punti egli andò
oltre l'indagine del maestro. Fra i suoi articoli e saggi di carattere
filosofico ricordiamo:
Considerazioni sul principio della filosofia
(1857),
Psicologia delle menti associate, del 1859. Il
C., come i
migliori pensatori della prima metà dell'800 italiano, attribuisce alla
filosofia una precisa finalità pratica, sociale, e non già un
compito astrattamente speculativo: la filosofia, a suo giudizio, deve
contribuire alla trasformazione del mondo e della società, se è
vero che "noi non siamo nel mondo come immobili spettatori e la nostra vita non
è mera contemplazione". Da ciò la vivace polemica che il pensatore
lombardo sviluppò ininterrottamente contro quella che definiva "la
filosofia delle scuole" e contro la metafisica in generale proprio perché
questa, seguendo "le idee pure a priori" indipendentemente dai risultati
dell'esperienza, finisce per costruire sistemi astratti e si affida alle
"intuizioni dell'immaginazione" e a "ipotesi fantastiche". Quindi, non a caso,
il
C. unisce alla volontà di usare la filosofia in senso
"pratico", la ferma critica alla metafisica; ciò porta inoltre l'adozione
di un metodo sostanzialmente sperimentale in filosofia, di contro appunto alle
"ipotesi fantastiche". Scrive a questo proposito il
C. che bisogna
"accettare la seconda via del'esperienza e della sincera osservazione; (..) per
trovare anche in filosofia quella novità e quella fecondità che
fanno il pregio e la forza delle altre scienze, non è mestieri avventarsi
a strani voli tra gli spazi immaginari; solo basta che la filosofia si comporti
come fanno, con loro fortuna e loro gloria, le altre scienze". Questo metodo,
mediato come abbiamo visto dalle scienze, porta il
C. ad escludere che
fine della sua ricerca sia quello di stabilire una "scienza dell'assoluto",
compito questo irraggiungibile, ma invece appunto quello di aiutare
l'umanità nel suo progresso e nel suo sviluppo verso la felicità.
Dopo aver dunque identificato il nesso esistente fra la filosofia e le altre
scienze e dopo aver criticato la metafisica, il pensatore lombardo indica
specificatamente il campo proprio di indagine della filosofia, che è
quello dello studio del pensiero umano condotto su un terreno sperimentale: egli
scrive: "noi non possiamo afferrare lo spirito umano, non possiamo scrutarne
l'essenza, non possiamo conoscerlo se non in quanto si manifesta con gli atti
suoi e le sue elaborazioni". Se ciò è vero, significa che il
pensiero non può essere studiato in astratto, ma bensì nel
concreto degli aspetti in cui si manifesta praticamente; studio del pensiero
umano equivale dunque allo studio della storia, della lingua, della religione,
delle arti e delle scienze. Da queste premesse, il filosofo milanese deriva il
proprio interesse per lo studio della società contemporanea; in
particolare il
C. vede la società e l'analizza attraverso la
psicologia e l'ideologia sociale, vale a dire studia il rapporto esistente fra
le facoltà e le operazioni della mente e le modificazioni che queste
subiscono ad opera delle relazioni che stringono gli uomini nella
società. Ed è questo uno dei contributi più originali dati
dal
C. allo sviluppo della filosofia. Mentre infatti sino ad allora la
psicologia era vista solo in relazione all'uomo isolato, all'individuo, ora egli
estende la psicologia all'analisi degli individui in rapporto fra di loro.
Infatti egli così scrive: "Il maggior numero delle nostre idee non deriva
dal nostro individual senso e dal nostro individual intelletto, ma dai sensi e
dagli intelletti degli uomini associati nella tradizione e nel commercio del
sapere comune e dei comuni errori". Se dunque il pensiero umano non è
solo il prodotto dell'intelligenza individuale, ma risultato complessivo di una
vasta tradizione storica, è chiaro che lo studio della storia si presenta
necessario e impellente per poter giustamente comprendere la società
stessa; scrive il
C.: "È manifesto che non avremo scienza intera,
se non quando avremo fatto lo spoglio di tutte le storie e avremo chiarito come
in ciascuna di esse si sia atteggiata l'intelligenza e la volontà dei
singoli popoli". Dunque studio attento della storia: dopo aver criticato le
varie teorie storiografiche, in specie romantiche, a suo giudizio troppo
schematiche, il
C. conclude che principio stesso della storia, ciò
che insomma unisce i vari periodi e il loro svilupparsi è il progresso
che, certo non si realizza in modo lineare, ma che pure è riscontrabile
in una attenta analisi della storia stessa. Gli uomini insomma si avvicinano, se
pur lentamente, sempre più alla ragione intesa come suprema regolatrice
dell'umanità stessa e della storia; scrive il
C.: "Questo mare di
superstizioni che inonda la terra a poco a poco inaridisce; la luce di una
scienza consolatrice annunzia alle genti che sull'universo impera non una
implacabile vendetta, ma una placida e maestosa ragione". Questa concezione del
mondo dicevamo, laica e scientifica, si traduceva poi in una linea politica
attivamente democratica. Si ricordava sopra come il
C. non si
occupò mai, sino in fondo, di politica e che solo durante le Cinque
giornate di Milano prese parte attiva alla lotta politica; ebbene, in quei pochi
giorni egli dimostrò una comprensione di eccezionale acutezza del
processo storico. In verità il
C. è un po' una mosca bianca
nel desolante panorama della borghesia italiana che, come annotava acutamente
Gramsci, per una serie di ragioni storiche non aveva portato a termine la
"propria" rivoluzione democratico-borghese e quindi si era sviluppata già
con una forte connotazione conservatrice se non reazionria. Gli stessi
avvenimenti del 1848 in Lombardia e le insistenze dell'alta borghesia e del
patriziato milanese verso Carlo Alberto perché intervenisse a "liberare"
Milano - non si sa bene se dagli Austriaci o se dal popolo insorto e spinto in
avanti da una schiera di intellettuali democratici e repubblicani - sta a ben
significare come appunto la classe dirigente milanese fosse assai impari al
proprio ruolo. Il
C. invece, oltre a vedere il processo di liberazione
nazionale non come un semplice sviluppo territoriale dello stato piemontese, ma
come invece rivolta popolare e democratica a sfondo repubblicano, oltre a
ciò dunque si batteva affinché il risorgimento politico fosse
accompagnato da un piano di riforme popolari che rendessero meno disagevole la
vita alle classi più umili. La sua stessa concezione federalistica
dell'Italia, intesa quindi come fusione di una serie di piccole repubbliche
sull'esempio degli Stati Uniti, non aveva nulla di utopistico, ma rispondeva
bensì a quel principio del decentramento dello stato e dell'autonomia
regionale che invece tutti i governi succedutisi dopo la presa di Roma
combatteranno con tutta la loro forza, proprio perché, specie allora,
autonomia significava automaticamente democrazia, partecipazione delle masse
alla scelta di fondo della nazione. Già nel 1848 insomma il
C.
coglieva i nodi principali della vita politica italiana quali poi si sarebbero
evidenziati e tracciava le due linee possibili di sviluppo: da un lato la
formazione di uno stato democratico, federalista e a base regionale, decentrato
e rinnovato da profonde riforme di carattere popolare; dall'altro uno stato
rigidamente monarchico e accentratore chiuso per un lungo periodo alle esigenze
delle masse, sostanzialmente conservatore se non addirittura reazionario. Come
è noto l'impostazione di
C. fu perdente, ma ciò non
diminuisce il valore storico della sua coraggiosa proposta (Milano 1801 -
Castagnola, Lugano 1869).