INTRODUZIONE
Quando Vittorio
Pozzo, dopo studi attenti e valutazioni della situazione, varò il suo
piano, risultò che egli, nell'intento di snellire la formula, aveva
basato le sue decisioni su tre punti fondamentali:
- il valore tecnico
della squadra;
- la data di fondazione della Società;
- la
solidità finanziaria.
Quest'ultimo capitolo è senza dubbio il
più significativo. Se, in effetti, Vittorio Pozzo aveva perfettamente
ragione di prendere in considerazione anche il fattore economico e con esso i
bilanci della Società, probabilmente non si rendeva conto (allora) che
quella sua impostazione non era altro che l'origine del calcio professionistico,
sia pure in forma ancora embrionale. Ma, in effetti, sui binari tracciati nel
1921 da Vittorio Pozzo - pur fra roventi polemiche - doveva poi incamminarsi il
calcio italiano e non solo quello.
La realtà tecnica e la
realtà economica erano i pilastri della "riforma Pozzo". Le grandi
Società, in perfetta buona fede, non certo con spirito di soffocamento
delle provinciali ma convinte della indispensabilità delle loro
richieste, risultarono perfettamente soddisfatte di come Vittorio Pozzo aveva
impostato il problema e si prepararono a difendere a spada tratta quelle tesi.
Non passava nemmeno per la loro testa l'idea di voler soffocare le provinciali,
ma erano perfettamente convinte che lo sviluppo del calcio non poteva trascurare
gli incontri ad alto livello che avrebbero garantito - attraverso la
pubblicità che da essi derivava - anche l'attività delle squadre
minori.
Il progetto di Vittorio Pozzo proponeva un campionato italiano di
24 squadre divise in 2 gironi e con la finalissima per il titolo da disputarsi
in una sola partita fra le vincenti dei due gironi; in questo modo il titolo di
campione d'Italia veniva assegnato dopo 24 domeniche di gare. Esso abbreviava la
troppo lunga durata del campionato e consentiva l'eventuale disputa di altre
gare amichevoli e soprattutto il varo della Coppa Italia. Concentrando in 24
squadre il meglio del calcio italiano, si ottenevano partite di grande richiamo
e, nello stesso tempo, incassi sempre maggiori e soprattutto incontri di un
valore tecnico decisamente superiore, evitando certe partite fra squadroni e
squadrette che si erano quasi sempre risolte in burle.
TEMPO DI AGITAZIONE
Le Società minori, quando vennero a
conoscenza del "progetto Pozzo", protestarono con tutto il fiato che avevano in
gola.
Si sentivano umiliate ed estromesse. Si diedero appuntamento a Novi
Ligure per una storica riunione nella quale bollarono a fuoco il "il progetto
Pozzo" e nominarono un comitato di "agitazione e propaganda". A queste
agitazioni della Società minori, i grandi club risposero con una loro
riunione che venne tenuta a Milano e si concluse addirittura con un patto
d'onore. Infatti, le grosse Società si impegnarono, sulla loro parola
d'onore, a proporre alla prossima Assemblea Federale l'accettazione del
campionato a 24 squadre e, nel caso il progetto venisse bloccato, di uscire
immediatamente dalla Federazione. Era un ricatto? Era una presa di posizione dei
potenti contro gli umili? Era il desiderio di guadagnare di più con gli
incassi che sarebbero certamente aumentati? Forse non era nulla di tutto questo,
anche se qualche elemento poteva essere contaminato da manovre extra sportive.
C'era piuttosto in tutti il leale convincimento di operare per il bene del
calcio italiano nel pretendere ad ogni costo la riduzione del campionato
italiano a 24 squadre, perché una grande squadra non aveva nessun
interesse sportivo ad affrontare una piccola e sprovveduta squadretta di
provincia come molte volte era successo. La grande squadra desiderava l'incontro
con una sua pari, perché la sfida potesse risultare più
appassionata e tecnicamente più valida. Dall'altra parte della medaglia,
le Società provinciali insistevano: "Vogliamo gli squadroni in provincia
per cimentarci sportivamente con loro, perché simili incontri
rappresentano un'autentica linfa per la propaganda dello
sport".
Così, divise su due opposte barricate, le Società
arrivarono all'Assemblea che venne tenuta nei saloni della Camera di Commercio a
Torino il 23 e 24 luglio 1921. Aria di battaglia. Aria di caos. Aria di
sommossa. Dopo alcuni tediosi preliminari, con i congressisti che si agitavano
sulle sedie, che sembravano punti da spilli, si arrivò finalmente alla
votazione del "progetto Pozzo". Venne respinto: 113 voti contrari, 65 voti
favorevoli.
I delegati delle Società maggiori, sconfitti dalla
votazione, lasciarono la sala con atteggiamenti sdegnosi, ma con l'aria di dire:
"Siamo sempre noi che abbiamo il coltello per il manico". Lo scisma era in atto,
violento come non mai. Ci fu un tentativo di approccio e di mediazione fra le
due parti e venne fissato il giorno, il luogo e l'ora dell'appuntamento. Nessuno
andò mai a quell'appuntamento: la guerra era scoppiata.
Così,
quando passò l'estate più turbolenta del calcio italiano, invece
di iniziare un solo campionato, ne iniziarono due: quello della Federazione e
quello della Confederazione Calcistica Italiana. Sotto quest'ultima
denominazione si erano infatti riunite le grosse Società, decise ad
attuare comunque il "progetto Pozzo" e con la futura speranza che sotto la loro
Confederazione affluissero successivamente tutte le forze calcistiche nazionali,
quando il terremoto si fosse placato e le squadre provinciali avessero meglio
valutato le nuove esigenze organizzative.
Al campionato della
Confederazione Calcistica Italiana parteciparono 24 squadre di prima categoria,
come era stato stabilito dal "progetto Pozzo"; a quello della Federazione
(decisamente più dimesso per qualità tecniche e per il nome delle
squadre iscritte) i concorrenti furono più numerosi, quasi il triplo di
quelli confederati. Contemporaneamente andò in scena anche la prima Coppa
Italia che venne vinta dall'A.C. Vado, dopo una accesa finalissima con
l'Udinese.
Dei due campionati, quello della Confederazione incontrò
l'incondizionato favore delle folle, fece registrare record di incassi e di
spettatori, destò vivo interesse, mentre quello della Federazione si
trascinò quasi in una lenta agonia con poche emozioni e scarso eco fra il
pubblico. Il campionato della Federazione fu vinto dalla Novese che, nella
partita decisiva, si era imposta alla Sampierdarenese. Nel campionato
confederale si impose invece il Pro Vercelli, sempre dotata di un poderoso
impianto di squadra. Doveva essere quello l'ultimo scudetto della gloriosa Pro
Vercelli, di una Società e di una squadra che non solo avevano scritto
pagine leggendarie per il nostro calcio, ma avevano dato un lodevole contributo
nella costruzione dell'edificio calcistico italiano gettando le fondamenta di un
gioco maschio e ardito, di una sana mentalità di provincia che sapeva
sfidare a viso aperto gli squadroni della città.
SULLA STRADA DELLA PACIFICAZIONE
Dallo scisma la Nazionale italiana - sul
principio - riportò danni notevoli poiché il nuovo allenatore, il
primo dei fratelli Cevenini, schierò contro la Svizzera solo giocatori
federati trascurando quelli della Confederazione, cioè i più
bravi, gli autentici assi di allora. Ma fu solo un episodio. Infatti già
durante la disputa dei due campionati il buon senso (che negli uomini di sport
viene tradotto con il sostantivo di "passione") cominciava a farsi strada e fra
i due Enti in guerra vennero riallacciate le prime trattative che, almeno in
partenza, riguardavano gli interessi superiori della Nazionale italiana. Venne
così deciso che a formare la squadra azzurra potevano essere chiamati,
indifferentemente, sia i giocatori della Confederazione, sia quelli della
Federazione. Fu questo un primo successo della Confederazione che vedeva via via
le proprie idee farsi largo anche tra i federati e fu quel contributo dei
confederati alla Nazionale a segnare l'alba della pace che doveva essere
successivamente sottoscritta per diventare una pace duratura che raccoglieva
nuovamente il calcio italiano sotto una sola bandiera.
Il contributo dei
confederati alla squadra azzurra permise alla nostra Nazionale di terminare
imbattuta anche nell'anno 1922. Ci furono due pareggi importanti (a Milano e a
Torino) contro gli squadroni di scuola danubiana, Austria e Cecoslovacchia; il
calcio, in quell'occasione, servì anche per ritrovare scambi amichevoli
con i rappresentati di quei Paesi contro i quali l'Italia era scesa in guerra
sette anni prima. Nacque lo slogan "lo sport affratella!" Ed era uno slogan che
doveva tornare di moda anche più tardi, sino ai giorni nostri. Ancora a
Milano, gli Azzurri sconfissero il Belgio, poi pareggiarono a Bologna contro la
Svizzera.
I due incontri di Milano che vedevano gli Azzurri di fronte prima
agli austriaci e poi ai belgi hanno fatto epoca e sono passati alla leggenda:
una leggenda che porta il nome di Berto Caligaris, indominato terzino, e di
Burlando per il suo celebre gol con un colpo di testa da 40 metri. Il gol di
Burlando venne segnato al portiere del Belgio, favorito da una lunga e
incredibile traiettoria con la palla accarezzata dal vento. Berto Caligaris
disputava invece la sua prima partita azzurra contro lo squadrone austriaco. Da
quel giorno cominciò la leggenda del terzino fasciato con una benda
bianca alla fronte: la leggenda di Berto, dell'uomo forte e generoso, del
terzino che doveva giocare in Nazionale ben 59 partite e stabilire così
il record assoluto italiano. Caligaris prendeva in Nazionale il posto di Renzo
De Vecchi, primo stilista assoluto del calcio in Italia: continuava così
la tradizione dei terzini sinistri che è stata successivamente tenuta
viva da Monzeglio, da Rava, da Maroso, da Facchetti. I giornali dell'epoca
scrissero di Caligaris: "Focoso e pur preciso, battagliero, animoso, incitava i
compagni con la parola e con l'esempio". Parole un po' retoriche, se si vuole,
ma che illustrano non solo la mentalità del tempo, ma il carattere e il
temperamento generoso di Berto Caligaris.
IL GOL FAMOSO DI BURLANDO
Proprio mentre Caligaris giocava la sua prima
partita azzurra, a Milano ci fu il primo serio approccio fra i rappresentanti
della Federazione e quelli della Confederazione per tentare un rimpasto. Tutto
ciò avvenne nel gennaio 1922: il sasso era stato gettato nello stagno, le
acque cominciavano a muoversi, gli incontri, che in un primo tempo venivano
tenuti con toni altezzosi tra le due parti e procedevano con lentezza e fra
molte polemiche, diventavano via via più concreti dopo che la
Confederazione, durante l'Assemblea di Modena, nominò presidente il
vecchio Pasteur al posto di Bozino. Il 1° aprile del 1922 una commissione
con a capo Pasteur, affiancato da Albertini e Nizza, ebbe l'incarico di
allacciare le prime serie trattative con la Federazione. Ormai il punto morto
era stato superato. La guerra di secessione doveva durare un solo anno e
infatti, quando gli Azzurri giocarono a Milano contro il Belgio, il 21 maggio
1922, e quando Burlando eccitò tutti con il suo gol di testa da quaranta
metri, gli accordi fra le due parti erano già arrivati a buon punto
allora. Venne così deciso che il successivo Campionato, sotto l'unica
bandiera della Federazione, venisse disputato da 36 squadre, 25 delle quali
provenivano dalla Confederazione e 11 dalla Federazione. Così nel Libro
d'oro dei titoli di campioni d'Italia si legge ancora oggi che per la stagione
1921-22 vennero assegnati due scudetti, uno alla Novese (dalla Federazione) e
uno alla Pro Vercelli (dalla Confederazione). Ma ormai il pasticcio era
chiuso.
Il 1922, dopo la grande pace, doveva essere un anno di
riorganizzazione per il nostro calcio. Presidente della Federazione venne
nominato Lombardi, sostituito poco dopo da Bozino. Vinse lo scudetto il Genoa,
nelle cui file militava ancora Renzo De Vecchi, che in quella stagione
tornò ancora a giocare in Nazionale una delle sue ultime partite azzurre:
quella del "figlio di Dio" fu una prestazione superba. La difesa azzurra che
faceva perno su di lui e che comunque prendeva da lui l'esempio per battersi su
ogni palla riuscì ad arginare sullo 0-0 i maestri ungheresi. La
prestazione di De Vecchi fu talmente esaltante, talmente perfetto risultò
il suo stile che i giornali dell'epoca dissero di De Vecchi: "Solo in paradiso
si gioca così bene".
Sempre il campionato del 1922, se vide una
trionfale marcia del Genoa che terminò imbattuta, fece anche registrare
una crisi tecnica in seno all'Inter di Milano, che si trovò sull'orlo
della retrocessione e riuscì a imporsi a fatica nello spareggio con la
Libertas di Firenze per evitare lo smacco. In se stesso questo episodio potrebbe
anche sembrare insignificante, ma da esso prendeva lo spunto uno degli aspetti
più determinanti del calcio italiano. I dirigenti dell'Inter, infatti,
passata la grande paura, non restarono con le mani in mano: qualcosa avrebbero
ben dovuto fare. Venne loro in mente che per potenziare la squadra e non correre
più il brivido della retrocessione avrebbero potuto acquistare dei
calciatori dall'estero.
Così i calciatori stranieri che avevano
fondato il calcio in Italia e che poi erano stati estromessi, vi ritornarono
quasi di prepotenza: ma non erano più i dilettanti di un tempo, i
dirigenti d'industria o gli studenti spensierati del primo '900, erano in
pratica i primi autentici professionisti del calcio. Del resto il professionismo
in Italia era ormai in embrione: gli incassi erano alti e la stessa Federazione
dimostrò di possedere una mentalità professionistica, quando,
prima di concedere alla città di Bologna la partita Italia-Svizzera, che
venne giocata nel 1922, pretese dagli organizzatori la somma anticipata
dall'incasso (che era stata pattuita in termini piuttosto pesanti).
Il Genoa allenato da Garbutt nel 1921-22