Il 2006
è stato un anno di estreme tensioni in Medio Oriente con l’emergere di un
governo islamista in Palestina, il precipitare della situazione in
Iraq, il conflitto fra Israele ed Hezbollah nel Sud del Libano,
il ritorno dei talebani in Afghanistan, il riemergere di un
nazionalismo aggressivo a Teheran, l’esecuzione di Saddam Hussein.
L’anno si è aperto con le piazze del mondo arabo in fiamme dopo la
pubblicazione (settembre 2005) sul quotidiano danese “Jyllands-Posten” di
alcune vignette raffiguranti il profeta Maometto in modo offensivo
per i fedeli musulmani (una in particolare che ritrae il Profeta con un
turbante-bomba, come fosse un kamikaze). Alcuni rappresentanti della
comunità islamica danese si sono rivolti al direttore e all’editore del
“Jyllands Posten” chiedendo le scuse ufficiali, ma nessuno ha dato loro
ascolto, come non ha dato loro ascolto il primo ministro danese Anders Fogh
Rasmussen, che non ha ritenuto opportuno scusarsi pubblicamente. A metà
novembre sono cominciate dunque le prime manifestazioni in Arabia Saudita
con la richiesta di boicottaggio delle merci provenienti dalla Danimarca. La
rabbia si è diffusa lentamente nel mondo islamico fino a quando, a fine
gennaio, un quotidiano norvegese ha dato spazio alla vicenda ripubblicando
le vignette. A quel punto l’onda di protesta si è diffusa prepotentemente.
Tredici persone sono morte (undici in Afghanistan, una in Somalia e una in
Libano) durante le manifestazioni che si sono tenute a gennaio nelle quali
sono state incendiate le ambasciate di Danimarca e Norvegia a Damasco e il
Consolato danese a Beirut. I media occidentali hanno riprodotto le immagini
blasfeme invocando il principio della libertà di stampa, ma nel mondo arabo
e tra le comunità musulmane l’offesa si è trasformata in protesta violenta.
Il 4 febbraio migliaia di manifestanti hanno sfilato per le strade delle
maggiori città islamiche, da Istanbul a Tripoli, da Gerusalemme a Giacarta,
sotto le rappresentanze diplomatiche di quei Paesi europei che hanno
“oltraggiato l’Islam”. Esaminiamo ora quanto accaduto nelle diverse aree del
continente asiatico partendo dall’area calda del Medio Oriente.
Il 23 gennaio, il re dell’Arabia Saudita Abdullah bin Abdulaziz
al-Saoud è arrivato a Pechino dove ha siglato con il regime cinese una
serie di accordi di “partnership energetica e strategica” e il giorno
seguente era in India dove è stato ricevuto dal primo ministro Manmohan
Singh: anche qui ha firmato una serie di intese energetiche. Questa
missione asiatica di Abdullah è senza precedenti e sarebbe anche la prima
missione estera come sovrano: insomma il re dell’Arabia Saudita ha deciso di
dare moltissima importanza ai nuovi legami con le grandi potenze dell’Asia
emergente. D’altro canto India e Cina sono i maggiori mercati in crescita
per i produttori di petrolio e di gas. L’Arabia Saudita ha annunciato anche
un gigantesco piano di acquisizione di armamenti, soprattutto europei. Uno
degli effetti diretti più evidenti di ogni incremento del prezzo del
petrolio è l’impennarsi della spesa militare: del resto, le entrate del
greggio producono un surplus di valuta pregiata che viene utilizzata per
fare acquisti di prodotti ad alta tecnologia.
Negli Emirati Arabi, la realizzazione dell’ennesima costruzione
eccentrica di Dubai, la torre Burj Dubai, è stata possibile grazie allo
sfruttamento disumano di lavoratori stranieri immigrati, provenienti in
prevalenza dall’Estremo Oriente. Per questo in marzo gli operai che lavorano
al progetto hanno iniziato uno sciopero, chiedendo salari più adeguati (il
salario giornaliero per un operaio specializzato è di circa 6 euro, per un
operaio senza qualifica meno di 4 euro) e condizioni di lavoro più umane:
per tutta risposta gli sceicchi dell’emirato hanno reagito mandando la
polizia a caricare i dimostranti. La classe dirigente non poteva tollerare
che l’attrazione esercitata da questo Paese sugli investitori stranieri
venisse compromessa da questo sciopero. Da anni negli Emirati si lavora per
rendere il Paese attraente per i capitali stranieri che qui trovano le
migliori condizioni d’investimento e un costo del lavoro tra i più bassi del
mondo. è il caso di tutti i cosiddetti “elefanti bianchi”, una serie di
costruzioni eccentriche che hanno ridisegnato il profilo degli Emirati,
contribuendo a far conoscere il Paese nel mondo: purtroppo tutto si basa
sullo sfruttamento degli immigrati che rappresentano ormai la metà della
popolazione. Sul piano politico, le prime elezioni legislative nella storia
del Paese (16 dicembre) hanno assegnato un seggio a una donna, Amal
Abdallah al Kubaissi. Si votava per eleggere 20 dei 40 membri del
Consiglio nazionale federale, organo che ha poteri consultivi. Gli altri
membri sono nominati dai sette emiri che controllano il Paese.
In Kuwait è morto l’emiro Jaber al-Ahmed al-Sabah che guidava
l’emirato dal 1978 (15 gennaio). Il nuovo emiro è il principe ereditario
Sheikh Saad al Abdallah al-Salem al-Sabah che però è stato
destituito dal Parlamento perché gravemente malato. Al suo posto è stato
quindi nominato (21 gennaio) il primo ministro Sabah al-Ahmad al-Jabir
al-Sabah che dovrà a sua volta nominare un nuovo primo ministro e un
principe ereditario. A causa delle polemiche suscitate dal progetto di
riforma elettorale sostenuto dall’opposizione (che voleva la riduzione da 25
a 5 delle circoscrizioni elettorali per mettere fine ai brogli e alle
logiche tribali), l’emiro ha poi sciolto il Parlamento (21 maggio) e ha
indetto elezioni anticipate per il 29 giugno. Le consultazioni, a cui per la
prima volta hanno partecipato anche le donne, sono terminate con la vittoria
dei partiti dell’opposizione che hanno ottenuto 33 dei 50 seggi, 17 dei
quali conquistati dagli islamici sunniti. Lo sceicco ha poi nominato premier
Nasser Mohammad al-Ahmad al-Sabah.
Nell’Oman il sultano Qabous ben Said al-Said, alla fine, ha
ceduto e, su pressione del governo statunitense, ha concesso il diritto di
scioperare e di organizzarsi in sindacati. Queste riforme fanno parte di un
pacchetto di leggi approvate dal sultano per riformare il diritto del
lavoro, a margine di un trattato commerciale bilaterale stipulato con gli
Usa. Prima di sottoscrivere l’accordo, Washington ha dovuto imporre
all’emirato una serie di riforme strutturali del mercato del lavoro perché i
lavoratori erano in una condizione di semi-schiavitù. Qabous, visto che
l’Oman, a differenza dei Paesi vicini, non dispone di riserve petrolifere e
di gas naturale, non poteva permettersi di perdere l’accordo commerciale e
ha deciso di promulgare la legge che avvicina la normativa del lavoro del
Paese ai parametri dell’Organizzazione internazionale del lavoro.
In Iran l’anno si è aperto con l’annuncio del governo della ripresa
delle attività nucleari e la rimozione dei sigilli delle Nazioni Uniti da
alcuni siti di ricerca. L’Iran, che in quanto parte del Trattato di non
proliferazione nucleare (Tnp) si è impegnato a non produrre o acquisire in
altro modo armi o altri congegni esplosivi atomici, è sospettato di avere
segretamente sviluppato un programma nucleare militare. In base a un accordo
di garanzia stipulato con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea),
l’organismo Onu che sovrintende alla cooperazione internazionale nella
tecnologia nucleare civile, l’Iran è obbligato ad informare l’Aiea delle sue
attività nucleari ed è sottoposto al regime di ispezioni dell’agenzia.
L’Iran ha anche firmato, ma non ratificato, un protocollo aggiuntivo
all’accordo di garanzia, in base al quale acconsente su base volontaria ad
un regime di ispezioni più intrusivo. Teheran ha negato la destinazione
militare del suo programma e ha rivendicato il “diritto inalienabile”,
sancito dal Tnp, a sviluppare tecnologie nucleari per scopi civili. Sulla
base delle informazioni in loro possesso, gli Stati Uniti e l’Unione europea
ritengono invece che l’Iran abbia intenzione di dotarsi di armi nucleari o
almeno della tecnologia necessaria a tale scopo, benché finora non siano
emerse prove concrete in tal senso. Gli Stati Uniti, che non hanno relazioni
diplomatiche con l’Iran e mantengono un regime unilaterale di sanzioni,
hanno più volte sostenuto la necessità di far ricorso a mezzi coercitivi,
comprese le sanzioni internazionali, e non hanno escluso l’ipotesi dell’uso
della forza armata. L’Ue ha invece rapporti diplomatici ed economici con
l’Iran, soprattutto per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico, e
ha sempre indicato nella diplomazia lo strumento per risolvere il
contenzioso. Infine la Russia e la Cina, entrambi membri permanenti del
Consiglio di sicurezza e quindi con potere di veto sulle risoluzioni, hanno
buoni rapporti economici ed energetici con l’Iran. La Russia non ha mai
appoggiato l’ipotesi delle sanzioni, proponendosi come mediatore. Ugualmente
la Cina si è sempre detta contraria. Il contenzioso ruota attorno alla
capacità da parte dell’Iran di procedere all’arricchimento dell’uranio, un
procedimento necessario alla produzione di energia, ma facilmente
convertibile per uso militare. Benché l’Iran abbia permesso agli ispettori
dell’Aiea di procedere alle verifiche, l’Aiea ha più volte lamentato che la
cooperazione offerta non è soddisfacente. Tra l2003 e l’estate 2005 i
cosiddetti Ue-3 (Francia, Germania e Gran Bretagna) hanno trattato per conto
dell’Ue con l’Iran, nel tentativo di dissuaderlo dal perseguire le proprie
ambizioni nucleari e hanno chiesto a Teheran il congelamento a tempo
indeterminato dell’arricchimento dell’uranio. In cambio, l’Ue ha offerto la
fornitura del materiale fissile (uranio altamente arricchito o plutonio)
necessario alla produzione di energia. Nel novembre 2004, in base al
cosiddetto “accordo di Parigi” con l’Ue-3, l’Iran ha acconsentito ad un
congelamento temporaneo e volontario dell’arricchimento dell’uranio per la
durata dei negoziati. L’Iran ha però sempre riaffermato il suo diritto,
riconosciuto dal Tnp, di arricchire l’uranio. A partire da marzo 2005, gli
sforzi europei hanno ricevuto l’approvazione degli Stati Uniti che in
precedenza avevano mostrato grande scetticismo sul negoziato. Nell’agosto
2005 l’Iran ha rifiutato l’ultima proposta europea, sostenuta anche dagli
Usa, e ha riattivato un impianto per la conversione dell’uranio, un
procedimento preliminare all’arricchimento. L’Ue ha quindi interrotto le
trattative e appoggiato la richiesta americana di deferire la questione al
Consiglio di sicurezza dell’Onu. Parallelamente nell’autunno 2005 la Russia
ha avanzato una proposta di mediazione, in base alla quale l’uranio per le
centrali iraniane verrebbe arricchito in Russia e poi trasportato in Iran.
In gennaio Teheran ha annunciato di voler riprendere attività legate
all’arricchimento dell’uranio vero e proprio e il 5 febbraio il Consiglio
dei governatori dell’Aiea ha approvato una risoluzione che deferisce l’Iran
al Consiglio di sicurezza dell’Onu per inadempienza ai suoi obblighi con
l’Agenzia: la risoluzione è passata con il voto favorevole dei cinque membri
permanenti del Consiglio di sicurezza. Ogni misura contro l’Iran è stata
però sospesa fino alla presentazione del rapporto del direttore generale
dell’Aiea, Mohammed El Baradei. Dal canto suo l’Iran ha reagito con
durezza alla decisione sul deferimento del dossier all’Onu, annunciando la
sospensione delle ispezioni a sorpresa e minacciando per bocca del
presidente Mahmoud Ahmadinejad, il ritiro dal Tnp. Il rapporto di El
Baradei ha poi riferito che l’Aiea non è in grado di stabilire, a causa
della mancata cooperazione, se in Iran abbiano luogo attività nucleari non
dichiarate. Il caso è passato quindi nelle mani del Consiglio di sicurezza
che in aprile ha approvato all’unanimità una dichiarazione che ha concesso
all’Iran trenta giorni di tempo per sospendere le attività di arricchimento
dell’uranio e riprendere la collaborazione con l’Aiea, ma Teheran ha
respinto l’ultimatum, anzi il 9 aprile ha annunciato di essere riuscita ad
arricchire l’uranio al 3,5% (per sfruttarlo a fini militari l’uranio
dovrebbe essere arricchito all’80%). Il 28 aprile l’Aiea ha decretato che
l’Iran non collabora con l’Onu e che ha l’uranio necessario a svolgere il
suo programma nucleare. Si è aperta così la strada per le sanzioni
internazionali e, almeno in teoria, si è avvicinata di un passo una
possibile soluzione militare sostenuta dagli Usa. Ma per ora il gioco resta
nelle mani di Teheran: le sanzioni infatti potrebbero tradursi in un nuovo
shock petrolifero e questo non lo vuole nessuno. L’8 maggio il presidente
Ahmadinejad ha scritto una lettera al presidente degli Stati Uniti
proponendo negoziati diretti tra i due Paesi: si è trattato della prima
comunicazione al vertice dal 1979. Lo stesso giorno Gran Bretagna e Francia
hanno presentato al Consiglio di sicurezza una bozza di risoluzione sul
programma nucleare iraniano in cui si invita Teheran a sospendere il
programma di arricchimento dell’uranio, senza parlare esplicitamente di
sanzioni, ma facendo riferimento al cap. 7 della carta dell’Onu. Russia e
Cina si sono però dichiarate contrarie. Il 6 giugno l’Alto rappresentante
dell’Ue per la politica estera, Javier Solana, ha presentato a
Teheran un piano per la soluzione della crisi: esso prevede che l’Iran
sospenda le sue attività di arricchimento dell’uranio fino a quando non sarà
provato che hanno scopi pacifici. La crisi in Libano ha fatto slittare la
nuova riunione del Consiglio di sicurezza prevista per il 17 luglio. I
leader del G8, conclusosi a Mosca il 17 luglio, hanno invitato il governo
iraniano ad accettare un pacchetto di aiuti economici e tecnologici in
cambio dell’interruzione dell’arricchimento dell’uranio. Il 20 luglio
Francia, Gran Bretagna e Germania hanno presentato al Consiglio di sicurezza
un progetto di risoluzione che chiede all’Iran di sospendere l’arricchimento
dell’uranio: in caso contrario sono previste sanzioni politiche ed
economiche. Teheran ha rifiutato di sospendere l’arricchimento alla scadenza
dell’ultimatum delle Nazioni Unite (il 31 agosto), anche se in un colloquio
con Kofi Annan il presidente Ahmadinejad si è detto disposto a partecipare a
dei negoziati senza però pre-condizioni sul programma nucleare. L’11
dicembre infine Francia e Gran Bretagna hanno presentato al Consiglio di
sicurezza dell’Onu la nuova bozza di risoluzione, risultato di una lunga
discussione che ha coinvolto per mesi i due Paesi insieme a Germania, Stati
Uniti, Russia e Cina. Nel testo, Francia e Gran Bretagna hanno fatto un
ulteriore passo avanti per venire incontro alle resistenze della Russia e
hanno ristretto il ventaglio delle sanzioni. Il bando alle vendite è stato
limitato ai soli prodotti più pericolosi per la fabbricazione di armi
nucleari. Alla Russia, inoltre, sarà consentito proseguire nella costruzione
del reattore nucleare di Bushehr. Per convincere Teheran a obbedire alla
risoluzione tuttavia, i due Paesi promotori della risoluzione hanno lasciato
inalterato il divieto per tutti i Paesi di offrire assistenza nucleare
all’Iran e istruzione agli studenti. Mosca è contraria a queste due ultime
sanzioni e non ha per il momento lasciato capire se potrebbe rinunciare al
suo diritto di veto all’interno del Consiglio di sicurezza permettendo alla
risoluzione di passare. L’anno si è chiuso con la sconfitta dei candidati
ultraconservatori vicini al presidente Ahmadinejad alle elezioni
amministrative e in quelle per il rinnovo del Consiglio degli esperti (che
ha il compito di nominare, controllare e destituire la guida suprema), vinte
dai conservatori moderati e dai riformisti (15 dicembre). L’ex presidente
Akbar Hashemi Rafsanjani è arrivato in testa nello scrutinio per il
Consiglio ottenendo il doppio dei voti dell’ayatollah ultraconservatore
Mohammad Taghi Mesbah Yazdi.
Le notizie che ogni giorno si sono susseguite dall’Iraq si compongono
quasi esclusivamente di macabri dati numerici, che riguardano il conto delle
vittime e dei feriti causati dal nuovo, quotidiano attentato, in una spirale
di violenza che sembra inarrestabile. I morti sono il risultato non solo
degli scontri tra le forze americane e i nostalgici del regime, ma
soprattutto di una guerra settaria che vede contrapposte le diverse
confessioni religiose del Paese, producendo almeno cento morti al giorno
secondo le stime delle Nazioni Unite. Di fronte all’incessante bagno di
sangue su base confessionale, ha cominciato a farsi sempre più strada l’idea
di promuovere in maniera aggressiva un piano di radicale partizione del
Paese. La prospettiva di un Iraq decentralizzato ha guidato per decenni i
gruppi di opposizione al regime, sciiti e curdi, che, una volta arrivati al
potere, hanno tentato in ogni modo di indebolire il governo centrale. La
Costituzione approvata nel referendum del 2005 ne è l’espressione,
nonostante la quasi unanime opposizione dei sunniti. La regione
settentrionale dell’Iraq, a maggioranza curda, costituisce una sorta di
enclave a se stante già da una quindicina di anni e si considera
indipendente dal potere centrale, al punto da aver abrogato la bandiera
irachena. Prendendo ispirazione dal modello curdo molti leader sciiti, e
numerosi esponenti religiosi, hanno già cominciato a sfruttare le
manifestazioni di piazza e le prediche del venerdì per infiltrare tra le
masse sciite, disperate ed esauste dalla guerra, l’idea che una regione
autonoma al Sud possa fermare la carneficina. D’altro canto i critici non
credono che alcun tipo di separazione tra sunniti e sciiti possa rendere il
Paese più sicuro e anzi avvertono che spezzettare le province su base
confessionale rappresenterebbe un cataclisma paragonabile alla divisione del
Pakistan dall’India del 1947. In gennaio l’uomo conosciuto come il capo di
Al Qaeda in Iraq, il giordano Abu Musab Al Zarqawi, annunciava la
formazione del Mujaheddin Shura, una coalizione di gruppi combattenti legati
alla “rete internazionale del terrore”. Questo Consiglio dei mujaheddin
sarebbe una risposta all’istituzione, da parte di diverse tribù sunnite
della provincia di Anbar, di comitati per la sicurezza chiamati Cellule del
popolo, che hanno l’obiettivo di fermare i gruppi responsabili di massacri
indiscriminati, oltre che dell’uccisione di diversi capi tribali e religiosi
moderati. La formazione di queste due coalizioni nasce dal mutato clima,
segnato dalla partecipazione dei sunniti alle elezioni del 15 dicembre e dai
primi colloqui tra alcuni gruppi di insorti iracheni ed esponenti della
coalizione occupante. Due note bande armate hanno rifiutato di aderire al
Mujaheddin Shura, probabilmente perché in disaccordo con la linea
sanguinaria di Al Zarqawi: si tratta dell’Esercito islamico in Iraq e di
Ansar al Sunna. Le tensioni tra gruppi armati iracheni e i “qaedisti”
del Mujaheddin Shura sono esplose definitivamente dopo l’attentato,
rivendicato da Al Qaeda, che a inizio gennaio ha ucciso 56 poliziotti
sunniti di Ramadi. Da allora, gli scontri tra formazioni armate si sono
moltiplicati in un crescendo di uccisioni mirate. Ad alimentare la tensione
tra sciiti e sunniti hanno contribuito i colloqui tra rappresentanti del
Pentagono e alcuni gruppi ribelli iracheni. I colloqui volti ad elaborare
una strategia comune contro Al Qaeda sono stati confermati dal settimanale
statunitense “Newsweek”, secondo cui gli incontri si sarebbero tenuti nelle
basi militari Usa della provincia di Al Anbar, in Giordania e in Siria. I
gruppi ribelli con cui sono in corso i colloqui sarebbero ex baathisti,
fazioni islamiche, ex agenti della Guardia repubblicana e dei servizi
segreti di Saddam, oltre a diverse tribù sunnite. I contatti in corso sono
stati criticati da diversi esponenti politici sciiti. D’altro canto tra le
richieste principali che i gruppi ribelli hanno avanzato ai negoziatori
statunitensi, ci sarebbe quella di contenere l’ingerenza iraniana nel Paese.
Una delle prime conseguenze del dialogo aperto con le tribù sunnite dell’Anbar
(dove si sono consumate il 30% delle perdite di soldati Usa) è stata la
decisione del primo ministro Ibrahim al Jaafari di sostituire le forze Usa
con milizie locali, grazie a un accordo in cui i capi tribali si impegnano a
dare la caccia ai combattenti stranieri. Mentre dunque le forze della
coalizione tentano di ricacciare fuori dal Paese i combattenti di Al Qaeda,
i tre principali gruppi etnici conducono una durissima battaglia tra di loro
per consolidare o incrementare il potere acquisito con le elezioni politiche
di dicembre. Il 22 febbraio, a Samarra (uno dei vertici del famigerato
“triangolo sunnita”: gli altri due sono Baghdad e Ramadi), è stata data alle
fiamme la cupola d’oro del mausoleo di Al Askari, uno dei luoghi di culto
sciita più venerati al mondo, dove si trovano le spoglie di Alì al-Hadi e
del figlio Hassan al-Askari, rispettivamente decimo e undicesimo imam degli
sciiti. Samarra, pur ospitando uno dei santuari sciiti più sacri, è una
città a maggioranza sunnita e la guerriglia irachena ha spesso preso di mira
edifici sacri e luoghi di culto sciiti. L’attacco ha scatenato la rabbia
della comunità sciita: 27 moschee sunnite sono state date alle fiamme a
Baghdad e sei persone, tra cui tre imam, sono state uccise. L’attentato ha
riportato l’attenzione su un altro aspetto drammatico del conflitto in Iraq,
oltre a quello del deterioramento progressivo dei rapporti
interconfessionali, ovvero la distruzione del patrimonio artistico iracheno,
con le sue millenarie opere d’arte. Le violenze interconfessionali non erano
una novità, ma la distruzione di un simbolo del credo sciita ha peggiorato
la situazione, portando il Paese sull’orlo della guerra civile. In questo
senso non ha aiutato la paralisi del Parlamento iracheno che, a tre mesi
dalle elezioni, non era ancora riuscito a eleggere un presidente
dell’Assemblea, un governo e un primo ministro. Sempre più sembra che la
guerriglia, dominata da elementi sunniti, stia cercando di provocare la
reazione della comunità sciita irachena che, oltre a rappresentare il 60%
della popolazione, ha vinto le elezioni irachene e si prepara a governare.
Da due anni a questa parte si sono moltiplicati anche gli episodi che vedono
gruppi di sunniti rapiti da uomini armati, con le uniformi della polizia
irachena, e poi ritrovati abbandonati in fosse comuni con un proiettile in
testa. Il governo iracheno, al termine di un’inchiesta sulle violenze
settarie contro i sunniti, ha ammesso che le squadre della morte esistono, e
danno la caccia ai sunniti con la copertura delle forze di sicurezza, sono
infiltrate nella polizia, armate dall’Iran e compromesse con il ministero
dell’Interno. L’inchiesta è partita dopo che il maggiore Joseph Peterson,
responsabile Usa per la formazione delle Forze armate irachene, ha
annunciato la scoperta di una squadra della morte che operava con divise e
distintivi del ministero dell’Interno (5 febbraio). Il comportamento
imparziale della polizia irachena è un elemento cruciale alla soluzione del
conflitto: solo quando i corpi armati iracheni saranno autonomi le forze
della coalizione potranno iniziare a lasciare il Paese, ma se la polizia
diventasse invece parte in causa nelle violenze tra sunniti e sciiti, allora
la guerra civile sarebbe inevitabile. La tensione tra sunniti e sciiti, dopo
l’attentato di Samarra è diventata sempre più evidente. Le comunità
religiose si sono andate organizzando in milizie di difesa, sulle quali il
governo e i deputati non hanno alcun controllo. Mentre ancora si cercava una
soluzione politica al conflitto, il 16 marzo, in contemporanea con la prima
fallimentare seduta del Parlamento iracheno, gli Usa hanno lanciato la
cosiddetta “operazione Swarmer”. Secondo il comunicato diffuso dai generali
Usa l’operazione “è finalizzata a stanare i guerriglieri, in particolare
quelli stranieri che si nascondono nei villaggi attorno alla città di
Samarra, e arrestarli, oltre a distruggere i loro nascondigli (l’inglese “swarm”,
indica lo sciame brulicante di insetti, quali le termiti, nel terreno) e i
loro depositi di armi e munizioni”. Obiettivo dell’attacco era la zona a
nord-ovest di Samarra, dove, secondo il comando Usa, si nasconderebbe
l’Organizzazione di Al Qaeda per la Jihad nella terra dei due Fiumi,
comandata da Abu Musab Al Zarqawi, da dove si muovono i cosiddetti “arab
fighters”, cioè gli stranieri che sono affluiti in Iraq nel 2003 per
combattere la loro guerra santa contro gli invasori. Sul piano strettamente
politico, il 16 marzo si è tenuta la prima seduta del Parlamento iracheno
eletto il 15 dicembre 2005. Si è trattato di una seduta puramente formale
visto che mancava l’accordo sulla formazione del governo e la seduta è stata
quindi aggiornata a data da destinarsi. Di fronte alle divisione del
Parlamento, il premier uscente Ibrahim al-Jaafari si è detto disposto
a farsi da parte benché il suo nome come candidato premier fosse stato
indicato dall’Alleanza unificata irachena (Aui), l’alleanza sciita che ha
stravinto le elezioni. Le difficoltà di trovare un accordo di governo hanno
messo in luce tutte le forzature che il voto del 15 dicembre aveva
mascherato. Anche gli Stati Uniti, dopo tre anni di guerra, sembrano essersi
resi conto di aver commesso degli errori in Iraq. La paralisi del Parlamento
iracheno, la cui elezione era il fiore all’occhiello dell’amministrazione
Bush, ha fatto crescere ulteriormente la pressione sull’amministrazione
statunitense da parte degli elettori Usa, che vedono aumentare il numero dei
morti statunitensi in Iraq, senza però vedere risultati. Di fronte a questo
stato di cose alcuni dirigenti dell’Aui hanno invitato il premier a
dimettersi per facilitare la formazione di un governo di unità nazionale (2
aprile). Negli stessi giorni il ministro degli Esteri britannico Jack
Straw e il segretario di Stato americano Condoleezza Rice erano a
Baghdad per cercare di dare un impulso alla formazione del nuovo governo, ma
al-Jaafari li ha accusati di interferire nelle questioni interne all’Iraq.
In calendario per il 17 aprile, la prima seduta ordinaria del nuovo
Parlamento è stata rinviata al 3 maggio per permettere ai gruppi politici di
trovare l’accordo sulle nomine alle alte cariche dello Stato e sulla
formazione dell’esecutivo. Nel corso della prima seduta alcuni parlamentari
sunniti hanno chiesto di modificare gli articoli sul federalismo considerato
una minaccia per l’unità del Paese. Il passo indietro di al-Jaafari,
avversato da parte degli sciiti e da curdi sunniti e americani, ha riaperto
le trattative per la guida del nuovo governo. Il Gran consiglio dei sette
leader dell’Alleanza irachena si è riunito il 21 aprile per decidere i nomi
dei candidati, sui quali i membri del Parlamento sono stati chiamati a
decidere. Due i candidati con più possibilità, entrambi membri del Dawa, il
partito di al-Jaafari: Ali al-Adeeb e Jawad Nuri al-Maliki.
Alla fine la scelta è caduta su al-Maliki, numero due del Dawa, laureato in
Letteratura araba, convinto sostenitore di al-Jaafari e già suo consulente.
Anche lui, come al-Adeeb, è un ex esule: negli anni Ottanta si era rifugiato
in Siria. I suoi critici lo accusano di avere una visione politica troppo
settaria. La forte intensificazione delle azioni degli “insurgents” e dei
loro temporanei alleati, i cosiddetti “arabi” di Al Zarqawi, iniziata
contemporaneamente al primo tentativo di riunione del Parlamento, si è
accentuata durante le lotte intestine che hanno portato alla designazione
condivisa dello sciita laico Jawad al-Maliki quale premier. Gli obiettivi
più frequenti sono state le reclute della polizia e dell’esercito, nella
stragrande maggioranza sciite e curde, e i loro istruttori. È ovvio che, in
una situazione in continuo sbilanciamento a danno dei sunniti, agli ex
baathisti per sopravvivere non resti che continuare ad alimentare le fila
della guerriglia. Il 20 maggio al-Maliki ha presentato il suo governo al
Parlamento, salvo che per i dicasteri della Difesa e degli Interni. Alla
Difesa il premier ha poi scelto il sunnita Abdel Kader Mohammed Jassem
Ubeidi e agli Interni lo sciita Jawad Polani (8 giugno). Intanto
il 27 aprile un ordigno è esploso al passaggio di una pattuglia del
contingente italiano sulla strada a sud-ovest di Nassiriya lungo un tragitto
regolarmente percorso dai militari italiani: nella violenta esplosione sono
morti due carabinieri, i marescialli Carlo De Trizio e Franco
Lattanzio, un capitano dell’esercito, Nicola Ciardelli, e un
caporale della polizia militare rumena. A poco più di un mese
dall’attentato, un altro militare italiano, il caporal maggiore
Alessandro Pibiri, in servizio al 152° reggimento fanteria, è morto a
circa un centinaio di chilometri da Nassiriya (5 giugno): un convoglio
militare britannico che trasportava materiale logistico militare è stato
attaccato con mine comandate a distanza. Ad essere colpito è stato un mezzo
della Brigata Sassari, di scorta al convoglio. Negli stessi giorni un
deputato democratico statunitense rivelava il tentativo dei vertici militari
di tener nascosta la strage di 24 civili iracheni uccisi a sangue freddo il
19 novembre 2005 da un gruppo di marines nella città di Haditha, 260 km ad
est di Baghdad. Così come già successo con Abu Ghraib anche questo scandalo
è diventato un simbolo della guerra in corso e ha radicato tra i cittadini
americani l’opinione che sia stata un’operazione sbagliata fin dall’inizio.
L’8 giugno il premier iracheno ha annunciato alla televisione la morte di Al
Zarqawi, punto di riferimento di Al Qaeda in Iraq, ucciso, durante un
bombardamento della coalizione, nella casa in cui si nascondeva a Baquba,
città situata 65 km a nord di Baghdad. Al Zarqawi, di nazionalità giordana,
è indicato come la mente dei più gravi attentati terroristici in Iraq degli
ultimi tre anni e della maggior parte dei rapimenti. Sulla sua testa gli Usa
avevano posto una taglia di 10 milioni di dollari, ma la sua figura restava
avvolta nel mistero. L’unica immagine disponibile era una foto tessera in
bianco e nero, risalente ai tempi della sua prigionia in Giordania per reati
comuni. Con un comunicato pubblicato su internet la cellula irachena di Al
Qaeda ha fatto sapere che il successore di Al Zarqawi sarà lo sceicco Abu
Hamza Al Muhajer. A metà giugno il numero dei soldati statunitensi morti
in Iraq raggiungeva quota 2.500: ciononostante il Congresso ha difeso la
politica dell’amministrazione Bush nel Paese, rifiutando di fissare un
calendario per il ritiro delle truppe e Senato e Camera hanno approvato, con
il voto favorevole di alcuni democratici, una risoluzione che impegna gli
Usa a proseguire la lotta contro il terrorismo in Iraq. Situazione molto
critica anche a Bassora, nel Sud dell’Iraq, dove gli sciiti sono la
maggioranza assoluta e dove si sono verificati crimini orrendi, con intere
famiglie sterminate per rendere quanto più omogenea possibile la popolazione
della città. L’obiettivo vero e non dichiarato di questa guerra nella guerra
che si combatte a Bassora è il controllo del mercato locale del petrolio.
Gli episodi di violenza si sono moltiplicati dopo l’attentato del 21 aprile
quando tre autobomba lanciate contro alcuni posti di blocco e contro
l’accademia di polizia hanno causato la morte di 71 persone. Da quel momento
non c’è stata più pace. Il motivo dell’esplosione di violenza sembra
risiedere non tanto nel fatto che gli sciiti volevano fare piazza pulita dei
sunniti quanto nell’inizio della guerra del petrolio. L’Iran vuole mantenere
il controllo delle risorse di Bassora e punta a scatenare l’aggressione
contro i sunniti per “ripulire” la città. Il ministro del Petrolio iracheno
Hussein Shahristani ha accusato la guardia costiera iraniana di
favorire il contrabbando di gasolio da parte dei pescatori della zona di
Bassora che viene poi rivenduto nelle acque internazionali del Golfo
Persico, a tutto vantaggio dei mediatori iraniani. Secondo Shahristani, nel
contrabbando sarebbero coinvolti fino a 1.700 pescherecci della zona di
Bassora, e l’Iran continuerebbe a finanziare gli scontri etnici in città per
mantenere il controllo del commercio del greggio. Nel tentativo di mettere
fine alle violenze, il 25 giugno il primo ministro al-Maliki ha lanciato un
piano che prevede il dialogo con i ribelli e il 22 luglio si è riunita per
la prima volta la Commissione di riconciliazione, composta da politici, capi
tribali e rappresentanti della società civile. Sul campo però la situazione
è ben lontano dall’essere stabilizzata e non è stato possibile restituire il
controllo della sicurezza della regione di Baghdad alle autorità irachene:
il piano lanciato per riportare la calma nella capitale è fallito e nelltra
il premier iracheno al-Maliki e il presidente George W. Bush a
Washington (25 luglio) quest’ultimo ha annunciato un rafforzamento della
presenza statunitense nella capitale. Il 17 luglio al mercato di Mahmoudiya,
30 km a sud di Baghdad, 48 persone hanno perso la vita a causa dell’attacco
coordinato di due autobomba, seguite da colpi di mortaio sulla folla in fuga
dopo l’esplosione, mentre sei auto piene di uomini armati e mascherati
chiudevano la folla in trappola, bloccando le vie di fuga dalla piazza e
aprendo il fuoco su donne e bambini. Obiettivo della strage erano i civili
sciiti. Il giorno seguente un kamikaze si è fatto esplodere su un’auto nel
centro della cittadina sciita di Kufa uccidendo 59 persone L’impennata di
violenza è sembrata una vendetta per la strage del 9 luglio quando milizie
sciite avevano messo a ferro e fuoco il quartiere sunnita Jihad di Baghdad:
42 persone erano state massacrate da miliziani che a volto coperto erano
entrati nel quartiere compatti e che, dopo aver creato dei check-point
improvvisati, avevano ucciso tutti coloro che avevano la carta d’identità
sunnita. Sebbene fosse risaputo che i responsabili dell’eccidio sono gli
uomini dell’esercito del Mahdi, gli uomini dell’imam sciita radicale Muqtada
al-Sadr, il governo non aveva fatto nulla. La violenza quotidiana, in
particolare in città miste come Baghdad, è fuori controllo anche perché i
militari della coalizione si muovono solo per intervenire in aiuto dei
militari iracheni o per missioni specifiche. Il reale controllo delle strade
è nelle mani delle milizie, e quella del Mahdi è la più sanguinaria. Così il
piano di riconciliazione nazionale lanciato dal premier al-Maliki è
naufragato nelle violenze settarie sempre più drammatiche. Il 28 agosto
almeno 81 persone sono morte in due giorni di combattimento tra l’esercito
iracheno e i miliziani sciiti a Diwaniyah: gli scontri sono scoppiati dopo
l’arresto da parte dei soldati statunitensi di un leader dell’esercito del
Mahdi. Sul fronte politico la Commissione per l’elaborazione definitiva
della Costituzione, che secondo le previsioni sarebbe dovuta nascere al
massimo quattro mesi dopo le elezioni parlamentari del 15 dicembre 2005, ha
visto la luce solo alla fine di settembre. L’Aui ha poi presentato un
progetto di legge sul federalismo che il Parlamento ha approvato l’11
ottobre, nonostante l’opposizione dei sunniti (e che entrerà in vigore tra
18 mesi). Il progetto ha rappresentato una vittoria per gli sciiti che, al
pari dei curdi nel Nord, avranno una regione autonoma in 6 province del Sud,
e una sconfitta per i sunniti, che si ritrovano confinati nelle regioni
centrali del Paese, meno ricche di petrolio. Di fatto però la divisione tra
sciiti e sunniti non è stata netta, e anche l’esito del voto è stato oggetto
di molte contestazioni. A favore del federalismo si sono schierati compatti
i curdi e lo Sciri, il partito filoiraniano della Rivoluzione islamica, il
partito Dawa e alcuni sostenitori dell’ex premier Allawi, mentre l’altra
coalizione sciita, l’Aui era spaccata. Al boicottaggio hanno infatti aderito
i gruppi sciiti vicini al leader religioso Muqtada al-Sadr e un altro
partito sciita, il Fadhila. Insieme a loro, hanno disertato la votazione i
sunniti dell’Iraqi Accord Front e quelli del National Dialogue Council. Il
rifiuto del federalismo ha unito sciiti e sunniti, iracheni religiosi e
secolari che, per ragioni diverse, si sono trovati uniti in un fronte
trasversale, i cui denominatori comuni sono il sentimento nazionalista e il
timore che il federalismo faccia precipitare il Paese nella violenza. Le
modalità del voto sono state molto contestate e hanno diviso, di fatto, la
coalizione sciita in maggioranza al governo. La vera posta in gioco non è la
Costituzione e nemmeno la corretta suddivisione delle materie prime e degli
introiti fiscali, ma chi deterrà il potere dello Stato, e all’interno dei
diversi gruppi religiosi. Gli oltre venti gruppi ed organizzazioni della
guerriglia sunnita, formano tutt’altro che un blocco unitario. I gruppi
principali vicini ad Al Qaeda sono Al Qaeda in Iraq e Ansar al Sunna. Negli
scorsi anni sono stati soprattutto i jihadisti, guidati da Al Zarqawi, a
sconvolgere l’opinione pubblica con i loro spaventosi attentati. Lo scopo
era cacciare le truppe straniere per scatenare poi una guerra civile contro
gli sciiti locali. Oltre a combattere le truppe straniere, i nazionalisti
sunniti vogliono impedire che il nuovo Iraq venga contrassegnato dagli
obiettivi di sciiti e curdi. Da circa un anno però le differenze tra
nazionalisti e jihadisti sono aumentate. Ciò non dipende solo dal fatto che
i nazionalisti limitano al solo Iraq i loro obiettivi politici, ma sono
cresciuti i dissensi in merito ai contatti con il governo di Baghdad e gli
americani. I jihadisti li rifiutano radicalmente mentre i nazionalisti
sunniti li cercano. Le fratture però non risparmiano nemmeno la comunità
sciita. Lo Sciri, il Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq,
e i simpatizzanti di Muqtada al-Sadr, hanno opinioni contrapposte. Il
Consiglio della rivoluzione vuole che il Sud sciita sia il più possibile
autonomo, al-Sadr invece rifiuta il sistema federale ed è a favore del
mantenimento dello Stato unitario. Tra questi due estremi si trova il
partito Fadhila, forte nella provincia di Bassora che, a differenza dello
Sciri che punta ad accorpare nove province, vuole invece creare un’unità
autonoma con al massimo le tre province del Sud. La lotta di queste forze
non riguarda temi politici, ma sostanziali posizioni di potere. Il
Consiglio, fondato negli anni Novanta dagli esiliati in Iran, mantiene
stretti legami politici con Teheran, fatto che indispone gli altri sciiti
iracheni. Lo Sciri, che è sostenuto soprattutto dagli strati intermedi della
popolazione, vede con preoccupazione la crescita dell’influenza di Muqtada
al-Sadr i cui simpatizzanti provengono invece dai ceti più poveri degli
sciiti. A differenza dello Sciri e del partito Dawa, anch’esso fondato
nell’esilio iraniano, il raggruppamento di al-Sadr, unico movimento popolare
sciita nato in Iraq, gode di un prestigio crescente e con l’esercito del
Mahdi dispone anche di truppe forti e addestrate. Nonostante la sua ascesa
politica, l’influenza di al-Sadr a Bassora, la seconda città per importanza
dell’Iraq, è limitata. Per questo si è dovuto alleare, sia pur
temporaneamente, con i rivali dello Sciri, per combattere insieme Fadhila.
Quest’ultimo, i cui uomini ricoprono le cariche di governatore e presidente
del Consiglio provinciale, è riuscito a piegare le truppe locali alle
proprie milizie ed ora dispone di una forza notevole per proteggere gli
impianti petroliferi della zona. Mentre il governo iracheno tentava di
smantellare le milizie illegali e quello Usa premeva perché le forze di
sicurezza irachene prendessero al più presto il controllo del Paese, gli
attentati sono continuati senza sosta in tutte le province costringendo il
capo della diplomazia irachena alle Nazioni Unite, Hochiyar Zebari, a
chiedere al Consiglio di sicurezza di prolungare di un anno il mandato della
Coalizione a guida Usa in Iraq, in scadenza il 31 dicembre (30 ottobre). Il
numero delle vittime Usa nel solo mese di ottobre ha superato le cento
unità: un bilancio tragico che, nell’approssimarsi delle elezioni di medio
termine, ha costretto l’amministrazione statunitense a fare pressione sul
governo di al-Maliki perché prendesse quanto prima il controllo della
sicurezza. Alcuni generali della coalizione si sono incontrati con i
rappresentanti di alcuni gruppi ribelli, offrendo un’amnistia in cambio
della fine delle violenze. Per cinque giorni in ottobre le forze
statunitensi e irachene hanno imposto il blocco a Sadr City, la roccaforte
delle milizie sciite a Baghdad, alla ricerca di un soldato statunitense
rapito. Dopo cinque giorni il premier al-Maliki ha ordinato di rimuovere il
blocco, ordine che è stato salutato come una vittoria dalle milizia sciite
radicali di Muqtada al-Sadr. Il 30 ottobre una bomba ha ucciso oltre 30
persone nel quartiere di Sadr City. Poco dopo, sempre nella capitale, altre
due esplosioni sono costate la vita ad altri dieci iracheni. Il 31 ottobre
23 persone, tra cui 19 bambini, sono rimaste uccise da un attentato durante
una festa di nozze: un’autobomba è esplosa al passaggio del corteo dei
parenti dello sposo. Nello stesso giorno altri cinque attentati suicidi
hanno colpito Baghdad. Il 5 novembre Saddam Hussein è stato condannato a
morte dalla Corte che da un anno lo stava processando: la condanna si
riferisce solo alla strage di sciiti di Dujail nel 1982 (un secondo processo
si è aperto il 21 luglio contro Saddam e sei alti ex funzionari del vecchio
regime per il genocidio dei curdi nella cosiddetta operazione Anfal,
l’uccisione di almeno 100.000 persone tra il 1997 e il 1998). In caso di
sentenza capitale Saddam aveva chiesto la fucilazione, ma sarà impiccato.
Secondo il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle Detenzioni arbitrarie
(composto da esperti legali provenienti da Algeria, Iran, Spagna, Ungheria e
Paraguay) il processo contro l’ex presidente iracheno sarebbe illegale
perché viola il diritto a un giusto processo conforme alla legislazione
internazionale. La privazione della libertà è arbitraria e contravviene
all’art. 14 della Convenzione internazionale per i diritti politici e
civili, cui aderiscono sia gli Usa che l’Iraq. Il presidente Bush ha
definito la sentenza “un successo per la democrazia irachena” mentre i
principali leader dell’Ue hanno ribadito la loro ferma opposizione alla pena
di morte. Il Paese intanto era sempre più fuori controllo. L’amministrazione
Bush cercava affannosamente un accordo con i ribelli e il governo del
premier al-Maliki tentava in tutti i modi di coinvolgere i sunniti nel
processo di riconciliazione nazionale. Il 27 ottobre è nato il Comando
politico unificato della resistenza irachena (Cpuri) che rappresenta l’ala
religiosa e laico-progressista della società irachena, la quale non si
riconosce negli eserciti stranieri, percepiti come invasori che difendono
solo gli interessi economici dell’Occidente, né nella deriva jihadista. Il
Comando comprende formazioni molto differenti tra loro: ci sono gli orfani
del Partito Baath e quelli del Comando generale delle Forze armate, politici
e militari che, pur distaccandosi da Saddam Hussein, non rinnegano le idee
originarie del partito o l’ideale di un Iraq unito. Ci sono poi quelli che
si definiscono i “comunisti patriottici”, che rinnegano la scelta del
Partito comunista iracheno, vicino al governo. Ma ci sono anche i religiosi,
come l’ayatollah sciita Ahmad al-Hussaini al Bagdadi e il Consiglio
degli ulema sunniti. Le figure di spicco del Comando (il cui esecutivo è
formato da 15 esuli e 10 membri in Iraq) sono Qais Mohammed Nuri,
esponente di primo piano del partito Baath, l’ayatollah al-Bagdadi e
Abdelyaber al-Kubaysi, ex esponente del partito Baath, oppositore del
regime di Saddam Hussein e per questo esiliato in Siria fino al novembre
2002, quando è tornato in Iraq per prendere parte alla resistenza contro le
forze d’occupazione statunitensi. Per il momento gli Stati Uniti e i loro
alleati, tanto quanto il governo iracheno, hanno ignorato il Cpuri. Dopo la
sconfitta elettorale di George W. Bush la strategia dell’intervento in Iraq,
militare e politica, è stata sottoposta a critiche anche da alcuni
osservatori che si erano detti favorevoli al rovesciamento del regime di
Saddam con la forza. Tanto che l’ambasciatore Usa a Baghdad, Zalmay
Khalilzad, il 24 ottobre ha ripreso i contatti con la guerriglia
irachena nel tentativo di condurre al tavolo negoziale i miliziani
nazionalisti per isolare le fazioni più integraliste. L’ambasciatore ha
incontrato anche le milizie di autodifesa che proteggono la popolazione
civile dai bombardamenti stranieri e dalle milizie di fanatici religiosi con
l’intento di concordare un’operazione per ripulire Ramadi, ritenuta la
roccaforte di Al Qaeda in Iraq. Un’altra apertura verso i sunniti, subito
dopo la condanna a morte di Saddam, che serviva anche in termini elettorali
agli Usa, è stata l’emendamento alla legge di debaathificazione del Paese
(si fermeranno quindi le epurazioni). A Baquba , a nord-ovest di Baghdad,
gli scontri tra sunniti e sciiti e gli attentati contro le forze di
sicurezza sono diventati quasi quotidiani: l’8 novembre una ventina di
persone sono morte in una serie di attacchi in vari punti della città. Il 23
novembre nel quartiere sciita di Sadr City sono morte almeno duecento
persone per l’esplosione di quattro autobomba e una serie di colpi di
mortaio: si è trattato dell’attacco più grave dall’inizio dell’anno.
Al-Maliki ha proclamato il coprifuoco a Baghdad e la chiusura degli
aeroporti di Baghdad e Bassora. Tuttavia nei giorni seguenti sono proseguite
le violenze confessionali in città. Intanto il premier al-Maliki incontrava
il presidente Bush ad Amman per discutere dell’aumento delle violenze (29
novembre): in segno di protesta l’imam sciita Muqtada al-Sadr, contrario
alla decisione di coinvolgere Bush nella discussione sul ruolo di Siria e
Iran nella pacificazione del Paese (convinto che le forze statunitensi
stiano appoggiando l’insurrezione sunnita) ha “sospeso” il suo appoggio al
governo. Infine il 16 dicembre si è aperta a Baghdad la Conferenza di
riconciliazione voluta dal premier al-Maliki. Il primo ministro ha definito
un errore la legge di “debaathificazione” approvata nel 2003 su richiesta
dell’ex amministratore statunitense Paul Bremer perché avrebbe
causato la disgregazione delle Forze armate e l’emarginazione della comunità
sunnita. Il premier ha proposto agli ex militari baathisti di rientrare
nell’esercito e ha garantito a tutti gli ex militari il pagamento delle
pensioni arretrate.
Il 25 gennaio si sono tenute le elezioni in Cisgiordania e nella
Striscia di Gaza, le seconde elezioni legislative nella storia
dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Mentre ci si preparava al voto,
il 31 dicembre 2005 la Jihad islamica ha messo a segno a Tel Aviv il primo
attentato suicida dalla fine della tregua (una trentina i feriti, ma nessun
morto). Le consultazioni sono terminate con la vittoria del partito radicale
Hamas (che non aveva partecipato al voto del 1996) che ha ottenuto la
maggioranza assoluta al Consiglio legislativo, aggiudicandosi 76 dei 132
seggi, contro i 43 di Al Fatah, il partito al potere. Subito dopo il voto il
leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha annunciato che il gruppo non
rinuncerà a Gerusalemme capitale e ai confini del 1967, anche se si è detto
disponibile a rinnovare la tregua con Israele. Il movimento integralista
islamico ha attirato i consensi soprattutto perché è apparso molto più
onesto e moralmente integro rispetto alla corrotta dirigenza di Al Fatah, il
partito del presidente Abu Mazen. La vittoria di Hamas ha messo in allarme
Israele e l’Occidente. Il premier israeliano Ehud Olmert ha fatto
sapere che non avvierà negoziati con i radicali islamici e ha annunciato una
serie di sanzioni contro l’Anp (tra cui la sospensione della restituzione
dei dazi doganali prelevati da Israele sui prodotti destinati ai Territori),
mentre Stati Uniti e Unione europea hanno ipotizzato il blocco degli aiuti
in modo da destabilizzare il nascente governo Hamas, strangolando l’Anp dal
punto di vista economico. Il ministro della Difesa israeliano Shaul Mofaz,
ha inserito la Palestina guidata da Hamas all’interno dell’asse del male,
assieme a Iran, Siria e Hezbollah e ha minacciato di interrompere le
relazioni con l’Anp se il Parlamento avesse eletto alla sua presidenza un
membro di Hamas. Preoccupata dalla possibilità di un isolamento politico e
di uno strangolamento economico, la dirigenza palestinese ha cercato di
rafforzare i legami all’interno del mondo arabo. Lo ha fatto Hamas, che con
Khaled Meshaal, capo dell’ufficio politico del movimento in esilio a
Damasco, il 14 febbraio era in Sudan, mentre il ministro dell’Economia
Mazen Sinnokrot, considerato vicino agli islamisti, è andato negli
Emirati Arabi per assicurarsi i cospicui finanziamenti che sono sempre
arrivati dal defunto emiro di Abu Dhabi bin Zayed e che l’Anp spera arrivino
anche dal suo erede. Sono continuate anche le mosse di avvicinamento con la
Giordania non tanto perché nel Parlamento di Amman siede l’unica forte
rappresentanza legale dei Fratelli musulmani quanto piuttosto perché il
regno hashemita può rivestire un ruolo importante di ponte tra l’Occidente e
i palestinesi. A rendere ancor più tesa la situazione è stata la notizia
resa pubblica dal quotidiano “Ha’aretz” secondo la quale Israele avrebbe
effettivamente annesso la valle del Giordano, impedendo l’accesso dei
palestinesi (eccetto i residenti) a un terzo della Cisgiordania, ovvero a
quella lingua di terra che corre lungo la frontiera con il regno hashemita.
Le restrizioni dell’esercito israeliano sono in linea con quello che Ehud
Olmert ha dichiarato nella piattaforma politica del suo partito, il Kadima:
Israele intende conservare i tre grandi blocchi di colonie e avere il
controllo sulla valle del Giordano. Il 18 febbraio si è aperto dunque il
secondo Parlamento nella storia dell’Anp: Parlamento a maggioranza Hamas. Il
presidente Abu Mazen ha chiesto ad Hamas di rispettare Oslo, usando toni
duri contro Israele per la sua politica unilaterale, le colonie,
l’isolamento della valle del Giordano dal resto della Cisgiordania, il muro
di separazione, la “pulizia etnica di musulmani e cristiani palestinesi a
Gerusalemme”: un discorso senza cedimenti ma pronto al negoziato, nel
rispetto della Road Map. Dal canto suo Haniyeh si è dichiarato “pronto a
riconoscere Israele” se Israele “riconoscerà uno Stato palestinese lungo le
frontiere del 1967, rilascerà i prigionieri e riconoscerà il diritto al
ritorno dei rifugiati in Israele”. Per Hamas si riparte dunque da questo
punto e non dagli accordi di Oslo che, e secondo Haniyeh, non sono stati
rispettati da Israele, perché Tel Aviv non ha concesso di creare uno Stato
palestinese nel 1999, ma anzi ha occupato nuovamente la Cisgiordania,
costruito il muro, ampliato le colonie e giudaizzato Gerusalemme. Il 21
febbraio il presidente Abu Mazen ha incaricato Ismail Haniyeh, in quanto
capolista di Hamas, di formare il nuovo governo, invitandolo a rispettare
gli accordi tra l’Anp e Israele. Haniyeh, considerato il leader dell’ala
moderata del partito, si è detto favorevole a un governo di unità nazionale.
A rendere più difficile la formazione del nuovo esecutivo è intervenuta la
decisione del nuovo Consiglio legislativo palestinese (6 marzo) di abrogare
una serie di misure approvate da Al Fatah per rafforzare i poteri del
presidente Abu Mazen (potere di sciogliere il Parlamento e di bloccare le
leggi): i deputati di Al Fatah hanno lasciato l’aula in segno di protesta,
presentando ricorso alla Corte suprema. Sul campo intanto proseguivano i
raid israeliani nella Striscia di Gaza e si rinnovavano gli appelli di Abu
Mazen alla comunità internazionale perché intervenisse a “mettere fine
all’aggressione israeliana”. Poche ore prima di incontrare Haniyeh, in un
rimpasto dei servizi di sicurezza dell’Anp il presidente ha designato il
nuovo responsabile della sicurezza preventiva, con giurisdizione non solo su
Gaza, ma anche sulla Cisgiordania: si tratta di Rashid Abu Shbak, già
uomo forte di Al Fatah nella Striscia, ma soprattutto braccio destro di uno
degli uomini più vicini ad Abu Mazen, vale a dire Mohammed Dahlan,
capo della sicurezza di Al Fatah. Abu Mazen sembra così aver fatto a Dahlan
un regalo prezioso quanto, allo stesso tempo, pericoloso: il controllo a
distanza della sicurezza interna, proprio nel momento in cui Hamas si
accingeva a formare il governo. Senza abbandonare l’idea di costruire una
coalizione quanto più ampia possibile facendo entrare anche Al Fatah, Hamas
ha cominciato dal Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), da
cui ha ricevuto subito la disponibilità a partecipare all’esecutivo.
Scontato, invece, il “no” della Jihad islamica, che non aveva neanche
partecipato alle elezioni. Le trattative politiche sono comunque rimaste
sullo sfondo di una cronaca che ha privilegiato le questioni finanziarie
dell’Anp, in crisi di liquidità dopo che Israele ha deciso il congelamento
dei prelievi fiscali che appartengono all’Anp e che le autorità di Tel Aviv
hanno il solo compito di raccogliere, per poi versarle nelle casse
palestinesi. La leadership all’estero, guidata da Khaled Meshaal, il
20 febbraio era a Teheran, dove ha incassato l’appoggio scontato di
Mahmoud Ahmadinejad e di Ali Khamenei. Nel suo tentativo di
aprirsi canali più presentabili, Hamas ha cercato di ottenere il sostegno
dei Paesi arabi, che negli stessi giorni discutevano come coprire i buchi
finanziari dell’Anp. L’Organizzazione per la Conferenza islamica ha deciso
di partecipare alla “colletta” e un appoggio è arrivato dal movimento da cui
Hamas è nato, i Fratelli musulmani egiziani. Parallelamente Bush ha
intensificato le pressioni verso i Paesi arabi perché non sostengano un’Anp
guidata dagli eredi dello sceicco Ahmed Yassin. Il 21 febbraio
Condoleezza Rice iniziava il suo tour nei Paesi arabi (Egitto e Arabia
Saudita in testa) per limitare l’appoggio a Hamas. Il viaggio non ha portato
frutti: i Paesi della Lega araba non possono isolare l’Anp e preferiscono
attendere le mosse di Hamas, confermando, peraltro, gli aiuti economici. Il
14 marzo l’esercito israeliano ha fatto irruzione nel carcere di Gerico, in
Cisgiordania (che secondo gli accordi internazionali è gestito dai
poliziotti dell’Anp) con l’obiettivo di farsi consegnare Ahmed Saadat,
leader dell’Fplp, ritenuto responsabile dell’uccisione del ministro
israeliano del turismo Zeevi nel 2002 (in risposta all’uccisione, da parte
israeliana, di Abu Ali Mustafa, il predecessore di Saadat), e altri
quattro esponenti del partito marxista, detenuti sotto il controllo di un
gruppo di osservatori americani e britannici (che si trovavano nel carcere
dal 2002 in virtù di un accordo tra israeliani e palestinesi) che hanno
lasciato il carcere poco prima dell’attacco israeliano. In febbraio la Corte
di giustizia palestinese aveva sentenziato che non sussistono prove di un
collegamento diretto tra Saadat e l’omicidio di Zeevi e che quindi il leader
dell’Fplp doveva essere rilasciato. Israele però, in piena campagna
elettorale per le presidenziali del 28 marzo, ha ritenuto inaccettabile il
rilascio di Saadat, decidendo di prelevarlo per rinchiuderlo in un carcere
israeliano. Il vuoto lasciato dagli osservatori ha subito consentito agli
israeliani di intervenire, con l’appoggio di elicotteri e caccia, e a Gaza
come a Nablus e a Jenin l’intervento ha scatenato l’ira di gruppi armati
palestinesi, che hanno sequestrato (solo per poche ore) gli stranieri che si
trovavano in zona e dato alle fiamme il British Council, la redazione della
tv tedesca Ard, un ufficio legato agli statunitensi, una sede dell’Ue. A
rendere la situazione ancor più incandescente è stato il fatto che Saadat e
gli altri cinque si sono barricati nell’edificio. La situazione si è
sbloccata solo nel tardo pomeriggio, quando, dopo nove ore di assedio da
parte dei militari di Tsahal, una fila di detenuti è uscita dall’edificio
ormai semidistrutto. Il raid ha investito non solo i rapporti (già al
limite) tra israeliani e palestinesi, ma anche i rapporti tra palestinesi e
occidentali. Vista l’esistenza di quell’accordo del 2002 che aveva portato a
Gerico gli osservatori statunitensi e britannici a fare da garanti della
detenzione dei cinque dell’Fplp, quando gli osservatori se ne sono andati
quindici minuti prima dell’ingresso dell’esercito israeliano, i palestinesi
hanno ritenuto tutti (statunitensi, britannici e israeliani) responsabili di
quello che stava succedendo. Ad accusarli, non sono stati solo i militanti
dell’Fplp a Gaza, ma prima di tutti il presidente Abu Mazen, che solo due
giorni prima si era incontrato ad Amman con Shimon Peres. Abu Mazen,
sia prima sia dopo le elezioni, aveva fatto capire che la questione di
Saadat andava risolta all’interno del mondo palestinese, soprattutto dopo il
risultato delle consultazioni del 25 gennaio, quando Saadat (insieme a una
decina di persone detenute nelle carceri israeliane) era diventato deputato.
Sul piano politico Hamas non è riuscito a convincere gli altri partiti a
entrare nel governo e il 19 marzo Haniyeh ha presentato ad Abu Mazen la
lista dei 24 ministri del nuovo esecutivo: 14 della Cisgiordania e 10 della
Striscia di Gaza. Mahmud Zahar, considerato un esponente dell’ala
intransigente del partito, è stato nominato ministro degli Esteri
(inizialmente chiuso ad ogni apertura, all’inizio di aprile Zahar ha
riconosciuto implicitamente il diritto all’esistenza di Israele in una
lettera inviata al segretario generale dell’Onu Kofi Annan) mentre agli
Interni è andato Saed Siam che ha fatto sapere che non ordinerà
l’arresto dei palestinesi responsabili degli attacchi contro obiettivi
israeliani. L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e
nemmeno gli irriducibili dell’Olp, il Fronte popolare per la liberazione
della Palestina (Fplp), hanno potuto aderire a un governo guidato da Hamas
perché il suo programma non rispecchia le posizioni e l’eredità dell’Olp.
Hamas (che rifiuta di riconoscere lo Stato d’Israele e vuole imporre la
legge islamica in Palestina) ha tratto la sua legittimità dal voto e si
appoggia a un gruppo concreto di sostenitori all’interno della Striscia di
Gaza e della Cisgiordania, mentre l’Olp e in particolare la fazione di Al
Fatah (che ha implicitamente rinunciato al “diritto al ritorno” e riconosce
Israele) si rivolge per la sua legittimità all’intero popolo palestinese, in
tutto il mondo. Il governo Haniyeh ha quindi ottenuto la fiducia del
Parlamento con 71 voti a favore e 31 contrari (29 marzo). Nel suo discorso
di insediamento il premier palestinese ha dichiarato che il governo è
disposto a discutere con la comunità internazionale per mettere fine al
conflitto in Medio Oriente, ma non a riconoscere Israele, ribadendo il
diritto dei palestinesi a continuare la lotta per l’indipendenza. Dal canto
suo Israele ha ribadito il suo rifiuto ad avere rapporti con un governo
“terrorista”. Dopo che Stati Uniti e Canada hanno deciso il blocco dei
contatti, il 30 marzo il Quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Ue,
Russia e Nazioni Unite) ha fatto sapere, attraverso un comunicato emesso da
Bruxelles, che “ci saranno inevitabilmente delle ricadute sull’aiuto diretto
al governo palestinese e ai suoi ministeri”. Il 20 marzo mentre Abu Mazen
era ancora a Gaza gruppi di uomini armati hanno scatenato la protesta nella
Striscia: contro una centrale di polizia, alcuni ministeri, un ospedale e
bloccando la strada che porta al valico settentrionale di Erez, da cui
proprio Abu Mazen sarebbe passato per tornare a Ramallah. Gli uomini armati,
che si sono definiti membri delle Brigate dei martiri di Al Aqsa (anche se
le stesse Brigate hanno smentito) chiedevano lavoro. D’altro canto a Gaza
oltre al lavoro mancano tutti i beni di prima necessità e questo rende
difficile la stessa sopravvivenza: il 20 marzo la riapertura per quaranta
minuti, dopo una chiusura di una settimana, del valico merci di Karni, che
unisce Israele alla Striscia, è stata solo una breve boccata di ossigeno in
quella che le agenzie dell’Onu hanno definito una vera e propria crisi
alimentare. I ministri del governo Hamas non hanno fatto concessioni a
Israele e anzi hanno mantenuto il loro “no” alle tre condizioni poste dal
Quartetto per evitare la crisi degli aiuti economici e dei rapporti
politici, compreso il mancato riconoscimento formale dello Stato di Israele.
Per Hamas sarà molto difficile far accettare un governo senza alleati, e
soprattutto senza Al Fatah. è stato Abu Mazen a rappresentare i palestinesi
al vertice della Lega araba di Khartoum. Ed è stato ancora il solo Abu Mazen
a partire per un delicato quanto importante viaggio in Sudafrica che è valso
ad Hamas il “riconoscimento incondizionato” del presidente sudafricano
Thabo Mbeki, membro dell’African National Congress, tradizionalmente
amico dell’Olp. Mentre il presidente era ancora a Città del Capo, a soli due
giorni dal suo insediamento, al primo ministro Haniyeh è toccato riportare
ordine nelle strade di Gaza durante i funerali di Abu Youssef al Quqa,
uno dei capi più noti dei Comitati di resistenza popolare (Crp),
l’organizzazione di base che raccoglie gruppi armati della Striscia di
diversa estrazione politica (1° aprile). Abu Youssef al Quqa era uno dei
possibili bersagli degli omicidi mirati di Israele ed è morto il 31 marzo
ucciso da un’autobomba. Abu Abir, il portavoce dei Crp, ha innescato
le violenze (in cui sono morte tre persone) sostenendo che a uccidere al
Quqa sarebbero stati gli israeliani, e le forze di sicurezza preventiva,
facendo il nome di Mohammed Dahlan, il quale ha smentito seccamente. Il
tutto, ad appena mezza giornata dalla prima crisi tra Abu Mazen e il governo
di Hamas, scoppiata sull’attentato suicida compiuto la notte del 30 marzo in
Cisgiordania, dove un uomo si è fatto esplodere dentro una macchina di
israeliani vicino alla colonia di Kedumim. Mentre il presidente, dal
Sudafrica, ha subito condannato l’attentato, il governo palestinese ha detto
che la “resistenza è un diritto legittimo per chi è sotto occupazione”. Lo
scontro tra Hamas e Al Fatah si è palesato l’8 maggio quando tre palestinesi
sono morti nei combattimenti tra miliziani di Hamas e di Al Fatah vicino a
Khan Yunis, nel Sud della Striscia di Gaza. Le violenze sono scoppiate
quando i due gruppi si sono accusati reciprocamente di una serie di
rapimenti. Sia il premier sia il presidente hanno lanciato un appello alla
calma invitando a non fare ricorso alle armi anche se tra i due permane un
profondo disaccordo sulla gestione della sicurezza nei Territori. Nel
tentativo di porre fine alla crisi economico-finanziaria dei Territori, il
25 maggio il presidente Abu Mazen ha dato dieci giorni di tempo ad Hamas per
accettare un dialogo nazionale che prevede negoziati con Israele per una
soluzione del conflitto basata sulla creazione di due Stati entro i confini
del 1967. Il presidente ha quindi deciso di convocare un referendum per far
approvare dalla popolazione un documento che sancisce la creazione dello
Stato palestinese entro i confini del 1967, riconoscendo implicitamente
l’esistenza dello Stato d’Israele. Il primo ministro Haniyeh ha bocciato
l’ipotesi del referendum e ha messo in discussione il diritto stesso del
presidente di convocarlo. Lo scontro tra le due anime palestinesi rivali è
esploso in tutta la sua gravità il 12 giugno quando a Ramallah un gruppo di
uomini di Al Fatah ha dato alle fiamme la sede del governo e del Parlamento
mentre a Rafah, nella striscia di Gaza, con i miliziani di Hamas si sono
scontrati gli agenti di sicurezza preventiva, vicini al presidente (due
civili sono morti). Abu Mazen ha decretato lo stato di massima allerta e ha
dato ordine alla polizia di impedire ai miliziani di Hamas di pattugliare le
strade di Gaza. Intanto è cresciuta ulteriormente la tensione con Israele
quando, dopo la morte di tredici civili palestinesi nell’esplosione di un
ordigno su una spiaggia della Striscia, Hamas ha annunciato la fine della
tregua proclamata nel febbraio 2005 (e ha ripreso il lancio di razzi). Il 20
giugno tre bambini sono morti in seguito a un altro raid aereo israeliano
nel Nord della Striscia di Gaza: l’obiettivo erano un’automobile su cui
viaggiavano due miliziani delle Brigate dei martiri di Al Aqsa che sono
rimasti illesi. In risposta il gruppo ha minacciato un’intensificazione del
lancio di razzi su Sderot, ma il 21 giugno l’esercito israeliano uccideva
altri due civili nell’ennesimo raid nel Sud della Striscia. Dopo giorni di
negoziati con Al Fatah, Hamas ha accettato di firmare un documento noto come
“iniziativa dei prigionieri” (condiviso da tutti i principali partiti e
gruppi politici palestinesi con l’eccezione della Jihad islamica) che
prevede uno Stato palestinese nei confini del 1967 (27 giugno). Pur avendo
sottoscritto il documento Hamas ha però negato che esso implichi un
riconoscimento di Israele. L’11 novembre il presidente Abu Mazen annunciava
la formazione di un governo di unità nazionale entro la fine del mese e
sembrava ci fosse accordo sul nome del nuovo premier: Mohammad al Shbeir,
ex presidente dell’università islamica di Gaza. Tuttavia i negoziati si sono
rivelati subito difficili: Hamas ha ribadito il rifiuto a riconoscere lo
Stato d’Israele e Abu Mazen ha quindi smentito l’accordo sulla nomina di al
Shbeir. Falliti i negoziati per la formazione di un governo di unità
nazionale, Abu Mazen, sostenuto dalla comunità internazionale, ha deciso di
indire elezioni anticipate, ma il primo ministro Haniyeh si è fermamente
opposto alla decisione definendola un tentativo di colpo di Stato (d’altro
canto non è nei poteri del presidente convocare nuove elezioni; può
destituire il premier ma non sciogliere il Parlamento). Sono quindi
scoppiati violenti scontri tra i miliziani di Al Fatah e quelli di Hamas e
almeno tredici persone sono morte.
Anche in Israele l’anno si è aperto in piena campagna elettorale per
le elezioni anticipate del 28 marzo (decise dall’allora primo ministro
Ariel Sharon dopo che il suo partito, il Likud, invece di sostenerlo
aveva ostacolato il suo piano di ritiro da Gaza dando voce alla ribellione
dei coloni). Sharon sperava di poter riprendere le trattative con Abu Mazen
da posizioni più favorevoli, avendo dimostrato una volontà di pace con il
ritiro da parte dei Territori occupati. Il ritiro da Gaza è stato un
successo per la politica estera israeliana, ma ha creato una divisione in
molti partiti e soprattutto all’interno dello stesso Likud tra i favorevoli
e i contrari al ritiro. La formazione del nuovo partito Kadima ha lasciato
il Likud, che aveva 40 parlamentari, con solo 26 parlamentari. Con l’uscita
di scena di Ariel Sharon e l’elezione di Benjamin Netanyahu alla
segreteria del Likud, il partito è slittato più a destra. C’è stata poi la
divisione e lo scontro interno nel partito Shinui di Tomy Lapid,
alleato di governo di Sharon in un primo tempo, partito liberale e
anticlericale. Kadima di fatto ha occupato lo spazio politico di questa
formazione, che contava 15 seggi, e che si è presentata al voto divisa in
due formazioni. Nel partito laburista si sono svolte le elezioni interne per
eleggere il segretario e la vittoria è andata ad Amir Peretz (il
candidato più a sinistra), segretario del sindacato, che si presentava con
un programma di riforme e misure sociali che sembrava restituire al partito
un’anima di sinistra e una funzione di riscossa sociale dopo tanto tempo di
gestione conservatrice dell’economia. Tre parlamentari laburisti, ovvero tre
ministri del governo Sharon, sono però passati a Kadima: Shimon Peres,
segretario del Partito laburista uscente, Haim Ramon, ministro senza
portafoglio (teorico e mediatore che ha ideato il nuovo partito) e Dalia
Itzik, responsabile della Politica energica e alleata di Peres. Alla
fine di gennaio il partito Kadima, considerato favorito, ha presentato le
sue liste elettorali con capolista il premier Ehud Olmert, seguito
dall’ex leader laburista Peres e dal ministro degli Esteri Tzipi Livni
(assente Ariel Sharon sempre in coma farmacologico dopo l’ictus che lo aveva
colpito nel dicembre 2005). Come partito di maggioranza Kadima ha dovuto
difendersi dalle accuse di corruzione lanciate dagli avversari del Likud che
hanno attaccato Olmert per come aveva gestito, da sindaco, Gerusalemme.
Anche il ritiro dagli insediamenti è stato usato contro Kadima, così come i
problemi di sicurezza. Si dice che i blitz delle settimane precedenti il
voto (come quello al carcere di Gerico) siano state proprio una risposta a
queste accuse, e che Olmert se ne sia servito come strumento elettorale per
dimostrare che al ritiro dagli insediamenti non corrisponde una linea
morbida in questioni di sicurezza. Il Partito laburista è stato attaccato,
soprattutto attraverso il suo leader, Amir Peretz, accusato dagli avversari
di non avere una “vera” esperienza politica essendo stato per anni capo dei
sindacati. Il Likud, terzo grande partito, è stato ugualmente attaccato
attraverso il suo leader, Netanyahu, a cui è stato rinfacciato un passato
politico pieno di voltafaccia, oltre al suo lavoro come ministro del Tesoro:
la politica di incentivi alle aziende ha provocato tagli sul sociale. Per
quanto riguarda il Meretz (partito di sinistra) dopo la sconfitta alle
ultime elezioni il leader storico del partito, Yossi Sarid, si era
dimesso, creando un certo vuoto di identità. Contemporaneamente entrava nel
Meretz un gruppo uscito a sinistra dai laburisti, deluso dall’appoggio di
Peres al governo. I due gruppi si sono fusi, ma senza amalgamarsi e Yossi
Bielin è diventato il nuovo segretario senza avere un consenso convinto
degli attivisti. La comunità russa che alle elezioni precedenti contava su
tre partiti si è presentata solo con Israel Beitenu (“Israele è casa
nostra”) guidato da Avigdor Lieberman, in origine nel Likud, vicino a
Netanyahu. Le elezioni erano state indette per favorire una politica
possibilista verso i palestinesi, ma le elezioni in Palestina, che hanno
portato Hamas al potere e indebolito Abu Mazen, hanno lasciato intuire che
Israele tornerà alle sue posizioni passate. Com’era nelle previsioni, le
consultazioni sono terminate con la vittoria di Kadima che ha conquistato 29
seggi su 120, davanti al Partito laburista di Amir Peretz che si è
aggiudicato 19 seggi. Il partito ultra-ortodosso Shas ha ottenuto 13 seggi;
il partito russofono di estrema destra Israel Beitenu 12 seggi (diventando
così la nuova destra di Israele); il Partito nazionale religioso e Unione
nazionale ha ottenuto 9 seggi; il Partito dei pensionati 8 seggi (è stato la
sorpresa di queste elezioni: è una formazione di protesta scelta da tutti
gli israeliani stanchi dei partiti tradizionali); al Partito dell’ebraismo
unificato Torah sono andati 6 seggi; a Meretz 4 seggi; i tre partiti arabi
insieme hanno conquistato 10 seggi. Vero e proprio tracollo per il Likud di
Netanyahu che si è fermato a 11 seggi (nel 2003 ne aveva conquistati 40).
Dopo che Kadima e laburisti hanno raggiunto un accordo per formare un
governo di coalizione insieme anche agli ultrortodossi di Shas e al Partito
dei pensionati, il 5 aprile il premier uscente Olmert ha ricevuto dal
presidente Moshe Katsav l’incarico di formare il nuovo governo che
può contare su di una maggioranza di 67 deputati su 120 nella Knesset (ma
non è escluso un accordo con altri partiti religiosi e con i pacifisti di
Meretz). Tzipi Livni è stata confermata al ministero degli Esteri
mentre il leader laburista Peretz sarà il nuovo ministro della Difesa e
Shimon Peres quello dello Sviluppo del Negev e della Galilea. Obiettivo del
governo Olmert è la separazione unilaterale dalla Cisgiordania, rinunciando
alla maggior parte degli insediamenti anche se lo Shas ha annunciato che
potrebbe opporsi. Intanto solo nei primi quattro mesi dell’anno nello
scambio di razzi tra palestinesi e israeliani, le Forze armate di Israele
hanno lanciato nel Nord della Striscia di Gaza circa 300 granate al giorno.
Se alla fine di marzo un kamikaze palestinese ha ucciso tre civili
israeliani, solo ad aprile gli attacchi missilistici e gli aerei israeliani
hanno causato 15 vittime palestinesi (tra cui un bambino di sette anni e una
ragazzina). Poi, il 17 aprile durante la Pasqua ebraica e mentre Israele si
apprestava a festeggiare l’apertura della nuova Knesset, il diciottenne
Samer Salim Hamad si è fatto esplodere vicino alla vecchia stazione
degli autobus di Tel Aviv: nove i morti e decine i feriti. Ha rivendicato
l’attacco suicida la Jihad islamica, che ha subito inviato il video in cui
Samir sostiene di “dedicare” l’attacco alle migliaia di detenuti palestinesi
nelle carceri israeliane. La reazione di Israele non si è fatta attendere:
subito dopo l’attentato decine di jeep blindate sono entrate nel cuore di
Nablus e numerosi palestinesi sono stati arrestati. Per gli israeliani, la
responsabilità dell’attentato di Tel Aviv ricade sull’Anp nel suo complesso.
Dal canto suo il presidente Abu Mazen ha stigmatizzato l’attacco come
contrario agli interessi dei palestinesi, mentre il portavoce di Hamas,
Sami Abu Zuhri, ha detto che l’attacco è il “naturale risultato”
dell’aggressione israeliana: una posizione condivisa da altri ministri
dell’esecutivo. Intanto i tentativi di Hamas di far valere una qualche
autorità sui palestinesi non sono stati favoriti dal ritiro degli aiuti
europei né dalla dichiarazione con cui Olmert ha giudicato Hamas in parte
responsabile dell’attentato del 17 aprile: con quell’attentato kamikaze si è
rotta la tregua tra la Jihad islamica e Hamas durata quattro mesi:
dall’attentato terroristico del 19 gennaio alla vigilia delle elezioni
palestinesi, all’attacco del 17 aprile. Tregua non scritta che la Jihad
islamica aveva, in sostanza, concesso a Hamas, impegnato a costituire il
primo governo senza Al Fatah della breve storia dell’Anp. La Jihad islamica
aveva boicottato le elezioni, continuando nel lancio dei razzi Qassam,
assieme alle Brigate dei martiri di Al Aqsa, ma astenendosi dal compiere
attentati suicidi dentro le città israeliane, come invece aveva fatto per
tutto l’anno precedente. L’attentato è avvenuto all’indomani della promessa
dell’Iran di donare ai palestinesi 50 milioni di dollari in seguito alla
decisione di Europa e Stati Uniti di congelare gli aiuti economici al
governo di Hamas fino a quando il movimento non riconoscerà il diritto
all’esistenza dello Stato di Israele e rinuncerà alla violenza come lotta
politica. Sono proseguite intanto le azioni mirate di Israele contro gli
attivisti palestinesi. Il 21 maggio a Gaza City è stato ucciso Mohammed
Dahduh, esponente della Jihad islamica: per colpire l’auto sulla quale
viaggiava, l’esercito israeliano non si è fatto scrupolo di sparare un
missile in mezzo al traffico, uccidendo una famiglia intera di civili.
All’alba del 23 maggio una squadra dei corpi speciali israeliani ha fatto
irruzione nell’abitazione di Ibrahim Hamad, a Ramallah, in
Cisgiordania, freddando il leader delle Brigate Ezzedine al-Qassam (braccio
armato del movimento islamico Hamas), ritenuto la mente di alcuni degli
attentati più gravi degli ultimi anni: l’attacco al Moment Cafè a
Gerusalemme nel 2002, nel quale morirono 11 persone; quello, lo stesso anno,
in un albergo a Rishion Letzion, nel quale persero la vita 16 persone, e,
ancora nel 2002, quello alla Hebrew University di Gerusalemme, con 7 morti.
Hamad era accusato anche del doppio attentato del 2003 a Gerusalemme, uno al
Cafè Hillel e uno alla base militare di Tzrifin, nei quali persero la vita
15 persone. Per questi crimini l’Anp aveva imprigionato Hamad nel 1998, con
l’accusa di attività antisraeliane, ma durante la Seconda Intifada, nel
2002, era stato rilasciato e al momento dell’attacco viveva nei pressi dalla
casa di Abu Mazen. Quindi sembra difficile che le Forze armate israeliane si
potessero spingere a tanto, in una zona di Ramallah, senza minimamente
informare Abu Mazen di quello che stavano per fare. In realtà le cose
potrebbero essere spiegate da un fattore sempre più evidente: la sempre
maggior frequenza degli scontri tra i miliziani di Hamas e quelli di Al
Fatah. La tensione tra le milizie, ormai diventate due forze di sicurezza
dell’Anp contrapposte, si è fatta sempre più aspra e a Ramallah è più forte
Al Fatah. Se non ha avallato l’operazione per arrestare Hamad, non l’ha
certo impedita. Con il pretesto di costringere i palestinesi a rilasciare un
soldato rapito, Gilad Shalit, tra il 27 e il 28 giugno l’esercito
israeliano ha lanciato una pesante offensiva nella Striscia di Gaza, la
cosiddetta operazione “Pioggia d’estate” (Shalit era stato rapito il 25
giugno da un commando palestinese che, passato il confine con Israele
attraverso un tunnel, ha attaccato un posto militare vicino al kibbutz di
Kerem Shalom, uccidendo due soldati israeliani). L’aviazione e i carri
armati israeliani hanno bombardato ponti, strade aeroporti e centrali
elettriche (distruggendo l’unica centrale elettrica della Striscia). Dopo
aver respinto un ultimatum lanciato da tre gruppi armati palestinesi
(Brigate Ezzedine al-Qassam, i Comitati di resistenza popolare e l’Esercito
dell’Islam) che chiedevano il rilascio di mille detenuti in cambio della
liberazione del soldato Shalit, il primo ministro Olmert ha ordinato nuovi
raid nella Striscia: colpiti il ministero dell’Interno, l’ufficio del
premier Haniyeh, l’Università islamica di Gaza e alcune sedi di Hamas.
Parallelamente il governo svizzero, depositario della Convenzioni di
Ginevra, accusava il governo israeliano di aver violato il diritto
internazionale punendo l’intera popolazione palestinese. Le convenzioni,
infatti, proibiscono di prendere di mira servizi essenziali per la
popolazione civile, quali l’elettricità e l’acqua. È parso evidente che la
prolungata attività bellica non dipendeva dalla cattura del soldato Shalit.
L’episodio è stato usato come pretesto per rioccupare alcune parti del
territorio e creare una zona demilitarizzata nel Nord per fermare il lancio
dei razzi Qassam. Israele ha intensificato le operazioni militari proprio
nello stesso giorno dell’accordo annunciato tra Al Fatah e Hamas sul
documento dei prigionieri. Mentre continuava l’offensiva di Israele con
l’occupazione di tre ex insediamenti colonici nel Nord della Striscia,
saliva la tensione al confine con il Libano, dove si apriva un altro fronte
di battaglia in seguito all’uccisione di altri soldati israeliani da parte
di Hezbollah (12 luglio): il governo israeliano ha reagito bombardando
alcuni obiettivi nel Libano del Sud e mobilitando i riservisti. Benché il
segretario generale dell’Onu Kofi Annan abbia accusato il governo
israeliano di fare un uso eccessivo della forza nella Striscia di Gaza,
mettendo a rischio la vita dei civili, l’operazione “Pioggia d’estate” è
stata estesa alla Cisgiordania, portando all’arresto di 64 dirigenti di
Hamas, tra cui 8 ministri e 26 deputati. La morsa di Israele dunque non si è
allentata, né ha fatto progressi il fronte diplomatico, dopo che il governo
di Olmert ha respinto un’offerta di tregua lanciata dal premier Haniyeh. I
combattimenti sono continuati, la situazione umanitaria peggiorata ed è
cresciuto il numero delle vittime. La Marina militare ha bersagliato
piattaforme palestinesi utilizzate per il lancio di razzi Qassam nel Nord
della Striscia, ma Israele è stata colpita comunque. A 11 giorni dall’inizio
dell’operazione “Pioggia d’estate” il premier Haniyeh ha lanciato un appello
ai miliziani palestinesi e a Israele per un cessate il fuoco. La risposta
però è stata negativa: “nessuna tregua” ha ribadito il primo ministro Ehud
Olmert, se prima non ci sarà la liberazione di Shalit. Intanto tutta la
stampa israeliana condannava il governo per la sua gestione della guerra in
Libano e chiedeva le dimissioni di Olmert. La tensione è ulteriormente
cresciuta quando il 4 settembre il governo israeliano ha approvato la
costruzione di 690 case in due insediamenti colonici vicino a Gerusalemme,
nei Territori occupati. Olmert ha spiegato che il ritiro unilaterale dalla
Cisgiordania non è più all’ordine del giorno “dopo il fallimento del ritiro
dalla Striscia di Gaza e la guerra in Libano”. L’Anp ha denunciato il piano,
accusando Israele di voler proseguire la sua politica coloniale
compromettendo gli sforzi per rilanciare il processo di pace. A ottobre era
ancora in corso l’offensiva lanciata nella Striscia di Gaza dopo il
rapimento del soldato Shalit e a metà del mese erano circa 250 i palestinesi
uccisi. Ha suscitato molte preoccupazioni l’allargamento della maggioranza
di governo israeliana al nuovo partito ultranazionalista Israel Beiteinu di
Avigdor Lieberman, entrato nell’esecutivo come ministro degli Affari
strategici (30 ottobre). Il governo Olmert, fortemente in difficoltà alla
fine del conflitto con il Libano, ha inteso così recuperare i consensi
perduti. Molti hanno giudicato questa mossa pericolosa per qualsiasi
tentativo di avviare trattative di pace dal momento che Lieberman è il
simbolo dell’ultranazionalismo israeliano che rasenta il razzismo e si è
espresso a favore dell’annessione della Westbank, piena di insediamenti
ebraici. I primi di novembre Israele ha lanciato una nuova operazione
militare denominata “Nubi d’autunno” a Beit Hanun, nel Nord della Striscia
di Gaza. Per Tel Aviv si trattava di un’importante operazione di sicurezza
per fermare il lancio di razzi Qassam contro la cittadina israeliana di
Sderot. Dopo sette giorni di assedio (in cui i palestinesi sono rimasti
senza acqua, elettricità e cibo), le Forze armate israeliane avevano ucciso
almeno 74 persone e all’alba del 9 novembre i colpi israeliani hanno
centrato le case della famiglia Athamah: 18 palestinesi sono morti (tutti
civili, tra cui otto bambini e sei donne). Si sarebbe trattato di un errore
della batteria di artiglieria israeliana che stava mirando a un obiettivo da
cui sarebbero partiti i razzi Qassam caduti il 7 novembre su Ashkelon. Il
premier Olmert si è scusato per l’errore ma ha fatto sapere che le
operazioni nella Striscia di Gaza sarebbero proseguite. Immediata la
reazione dei palestinesi alla strage: mentre proseguivano i lanci di razzi
Qassam, caduti su Sderot, i gruppi armati minacciavano la ripresa degli
attentati suicidi dentro le città israeliane, drasticamente diminuiti
nell’ultimo anno e mezzo (tra gli estremisti solo la Jihad islamica ha
continuato a compiere attacchi kamikaze, mentre Hamas ha rispettato una
tregua di fatto dal febbraio del 2005, tregua che ora alcuni esponenti del
braccio armato vorrebbero rompere). La minaccia degli attentati, però, non è
stata fatta dalla leadership politica: il premier Haniyeh ha invece chiesto
all’Onu di intervenire per fermare Israele. La strage degli Athamah ha avuto
un impatto negativo sul negoziato in corso tra il presidente Abu Mazen e
Ismail Haniyeh per il nuovo governo di unità nazionale, dichiarato sospeso
dal premier. In ogni caso tutta la dirigenza dell’Anp ha chiesto
l’intervento della comunità internazionale e dell’Onu perché imponesse a
Israele il rispetto della legalità internazionale senza escludere la
possibilità di un intervento con una forza d’interposizione come accaduto in
Libano, forza di interposizione che però necessita del benestare di tutte le
parti in campo. Dal canto suo, Israele ha continuato i suoi raid mirati
dentro Gaza. Il 17 novembre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha
approvato con 156 voti favorevoli e 7 contrari una risoluzione che chiede la
fine delle operazioni dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza e del
lancio dei razzi da parte dei palestinesi verso il Sud di Israele. La
risoluzione chiede inoltre una Commissione d’inchiesta sull’uccisione dei
civili a Beit Hanun. Il governo israeliano ha inizialmente respinto la
risoluzione, ma il 25 novembre Israele e Anp hanno concluso un accordo sul
cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. I gruppi armati palestinesi si sono
impegnati a mettere fine al lancio di razzi e in cambio l’esercito
israeliano si è ritirato dalla Striscia. Ciononostante una fazione delle
Brigate dei martiri di Al Aqsa e un gruppo minore, l’Esercito dell’Islam,
hanno proseguito con il lancio dei razzi mettendo in pericolo la tregua.
Infine il confronto tra Hamas e Al Fatah ha rischiato di degenerare in
guerra civile quando la sera del 14 dicembre il premier Haniyeh, a Rafah, è
stato il bersaglio di un attentato (fallito), mentre stava rientrando con
gli aiuti raccolti da un tour che lo aveva portato in Iran e in altri Paesi
arabi: il convoglio sul quale viaggiava è stato attaccato nell’area sotto il
diretto controllo di Forza 17, la guardia presidenziale di Abu Mazen (ferito
gravemente il figlio e un consigliere di Haniyeh). La dirigenza di Hamas ha
accusato Mohammed Dahlan, l’uomo forte di Al Fatah a Gaza di essere
implicato nell’accaduto. A Khan Younis, la città da cui Dahlan proviene e
che ancora rimane la sua roccaforte, quattro giorni prima dell’attentato
contro Haniyeh è stato ucciso un giudice legato ad Hamas, il giorno dopo
l’esecuzione dei tre figli di Baha Balousheh, l’ufficiale della sicurezza
legato ad Abu Mazen.
Dopo che l’Hezbollah (la formazione sciita libanese) ha bombardato le
postazione dell’esercito israeliano al confine tra Israele e Libano,
uccidendo almeno tre soldati e sequestrandone altri due (12 luglio), il
governo israeliano ha ordinato un’offensiva aerea e terrestre nel Sud del
Libano. I caccia di Tel Aviv hanno martellato le postazioni di Hezbollah
lungo il confine, ma anche nei pressi delle due principali città costiere di
Tiro e Sidone. Colpite anche infrastrutture nella valle della Beqaa, così
come gli aeroporti militari di Riyaq e Qolei’at e quello civile della
capitale. Le bombe hanno distrutto in un paio di giorni palazzi e depositi
di carburante. Israele ha deciso anche di isolare via terra il Paese,
lanciando i suoi caccia contro l’autostrada che collega Beirut alla vicina
Siria (14 luglio). Centinaia i morti. Intanto, dal governo libanese, che ha
preso le distanze dall’operazione di Hezbollah, giungeva la richiesta di un
cessate il fuoco. Tuttavia i razzi sparati dal Sud del Libano hanno colpito
Haifa, la terza città israeliana. Com’era prevedibile la risposta di Israele
non si è fatta attendere. Paradossalmente Israele ha attaccato per fermare
il terrorismo, ma si tratta di una scelta destinata a produrre effetti
opposti come hanno dimostrato le vicende degli ultimi anni. Di fatto questa
politica ha dato credibilità e ora anche il potere politico, a gruppi come
Hamas ed Hezbollah, che hanno come primo obiettivo la lotta contro
l’occupazione israeliana nei rispettivi Paesi. Sia i libanesi sia i
palestinesi hanno reagito agli attacchi sempre più duri di Israele contro i
civili sostenendo leadership in grado di proteggerli e nello stesso tempo di
garantire i servizi essenziali. Infine la campagna di resistenza contro
Israele ha conquistato consensi politici non solo in Medio Oriente, ma in
buona parte del resto del mondo, facendo il gioco di Siria e Iran ispiratori
ideologici e finanziatori di Hamas ed Hezbollah. Il 19 luglio è stato
colpito per la prima volta il centro della capitale Beirut, mentre Hezbollah
proseguiva senza sosta il lancio di missili verso il Nord di Israele. L’Onu
ha chiesto un cessate il fuoco immediato, proponendo l’invio di una forza di
pace, ma il premier israeliano Olmert, sostenuto dagli Usa, ha respinto la
tregua accusando Siria e Iran di essere coinvolti. Il 13 agosto è stata
approvata all’unanimità la risoluzione 1.701 del Consiglio di sicurezza
delle Nazioni Unite che ha chiesto l’“immediata cessazione delle ostilità
tra Hezbollah e Israele” con il dispiegamento di circa 15.000 Caschi blu
dell’Unifil per appoggiare l’esercito libanese e il contemporaneo ritiro
progressivo delle forze israeliane e di Hezbollah a Nord del fiume Litani.
Il 14 luglio è entrato quindi in vigore il cessate il fuoco: circa 1.300
libanesi, in maggioranza civili, e più di 150 israeliani sono morti nel
conflitto. Compito principale dei Caschi blu – 7.000 dei quali saranno
forniti dall’Ue e il contingente più numeroso è quello inviato dall’Italia –
sarà quello di far rispettare la tregua. Ciononostante il 19 agosto Israele
ha compiuto un raid aereo nell’Est del Libano per impedire la consegna di
armi ad Hezbollah da parte dell’Iran e della Siria. Questo mese di guerra ha
avuto un’enorme importanza politica per il Medio Oriente. Se Israele e Stati
Uniti si prefiggevano di umiliare Siria e Iran, hanno fallito il loro scopo,
mentre la reputazione di Hezbollah è cresciuta in tutto il mondo arabo.
L’appoggio incondizionato di Washington alla campagna militare israeliana ha
finito per unire sciiti e sunniti in un unico fronte antiamericano; ha
rafforzato le milizie filoiraniane in Iraq; ha distolto l’attenzione dal
nucleare iraniano; ha definitivamente compromesso l’immagine di Washington
come imparziale mediatore tra israeliani e arabi e ha alimentato il
terrorismo. Sia i militari israeliani che i sostenitori di Hezbollah si sono
autoproclamati vincitori di questa guerra. In Israele il quotidiano
“Ha’aretz” ha pubblicato un editoriale in cui si chiedevano le
dimissioni del capo di Stato maggiore Dan Halutz, accusato di aver
commesso molti errori (16 agosto). Il vero problema è che non è stato
raggiunto l’unico obiettivo che potesse ripagare lo Stato d’Israele della
decisione di aprire un secondo fronte in Libano, proprio mentre sulla
Striscia di Gaza infuriava l’operazione “Pioggia d’estate”: la distruzione
della rete degli Hezbollah. Il movimento sciita ha certamente subito un
colpo durissimo ma è riuscito nell’intento di serrare le fila, proteggere il
suo leader Hassan Nasrallah e guadagnarsi il sostegno di una parte
del mondo arabo e islamico. In compenso, Israele ha dovuto pagare un prezzo
molto alto a livello d’immagine e di opinione pubblica internazionale, con
le immagini della strage di Cana che hanno fatto il giro del mondo. Senza
contare le perdite di Tsahal, l’esercito israeliano, che sono state cospicue
(emblema di queste perdite sarà il giovane Uri Grossman, il figlio
dello scrittore David, che per la prima volta si era schierato a favore
della risposta armata). Così come quello militare anche il bilancio politico
è stato poco soddisfacente per Israele. Dopo il plebiscito iniziale che ha
accompagnato l’attacco a Hezbollah, la maggioranza degli israeliani ha
criticato la condotta delle operazioni da parte del ministro della Difesa
Peretz e si è detta insoddisfatta della tregua, accettata senza la
preventiva liberazione dei due militari catturati il 12 luglio. L’operato di
Olmert e del suo governo ha finito per scontentare tutti, sia i sostenitori
di Kadima che i laburisti di Peretz. Yossi Sarid, deputato
dell’opposizione di sinistra del partito Meretz, ha colto subito l’occasione
per attaccare il Partito laburista, chiedendosi come possa definirsi di
sinistra la squadra di Peretz. Dall’altra parte, l’opposizione di destra
guidata da Benjamin Netanyahu ha sottolineato come la politica del
ritiro unilaterale da Gaza e dal Libano non abbia garantito la sicurezza
d’Israele. Il Libano, che stava faticosamente ritornando alla normalità dopo
15 anni di guerra civile, ha pagato un prezzo altissimo per il conflitto con
circa mille civili morti, migliaia di persone che hanno perso la propria
casa e il proprio lavoro. La situazione è disastrosa: solo per le
infrastrutture, il danno per le casse libanesi è di oltre 2,5 miliardi di
dollari. Al danno economico va aggiunto quello ambientale, con circa 120 dei
220 km di costa compromessi dall’enorme quantità di combustibile e olio
riversata in mare dalla distruzione della centrale elettrica di Jiyyeh.
Anche l’assetto politico libanese è stato sconvolto da questa guerra. Il
principale risultato ottenuto dalla politica di pacificazione del dopo
guerra civile era stato l’ingresso di Hezbollah nel governo, con due
ministri. Sembrava così avviata una conversione della milizia sciita
filoiraniana in un partito tradizionale. Con il ritiro dell’esercito siriano
era iniziata la stagione delle autobomba, che era costata la vita all’ex
premier Rafik Hariri e a tanti altri esponenti del fronte
antisiriano, ma anche questa fase sembrava avviata alla conclusione: proprio
per il 12 luglio, data d’inizio delle ostilità, era in programma una seduta
decisiva del Dialogo nazionale, un tavolo di negoziati dove sedevano sciiti,
sunniti, filosiriani, antisiriani, cristiani e drusi. Non è ancora chiaro se
Hezbollah abbia deliberatamente provocato Israele per legittimarsi di nuovo
come movimento di resistenza ed evitare così il disarmo, o è stato costretto
a farlo dall’Iran, desideroso di distogliere gli occhi del mondo dal suo
programma nucleare. Comunque Hezbollah si è di nuovo accreditato come
bastione contro la violenza di Israele. Al contrario di ogni previsione
israeliana, l’opinione pubblica libanese si è ricompattata, con sunniti e
cristiani che hanno accolto gli sciiti in fuga dal Sud. Beirut si è persino
riavvicinata a Damasco, da cui si era allontanata dopo l’omicidio Hariri. Il
14 agosto è partito il programma di indennizzi di Hezbollah, che ha già
distribuito denaro a numerose famiglie, erogato con fondi provenienti da
donatori africani, sudamericani, statunitensi e ovviamente iraniani. Sul
piano strettamente politico in novembre si sono dimessi sei parlamentari
vicini ad Hezbollah che hanno abbandonato l’esecutivo dopo la decisione del
governo di approvare la creazione di un tribunale internazionale incaricato
di giudicare i responsabili dell’omicidio dell’ex primo ministro Rafiq
Hariri (decisione giudicata illegittima dal presidente filosiriano Emile
Lahoud). Il ritiro dei sei parlamentari ha fatto fallire per l’ennesima
volta i colloqui interreligiosi, rimandati a data da destinarsi. Il premier
libanese Fuad Sinora ha respinto le dimissioni, ma i sei hanno
ribadito le loro decisioni. Secondo la maggioranza antisiriana, le
dimissioni sono la mossa orchestrata da Siria e Iran, per bloccare
l’istituzione del Tribunale internazionale per l’omicidio di Hariri,
prevista dalla risoluzione 1.701 delle Nazioni Unite. Ma il 13 novembre il
Parlamento libanese è comunque riuscito ad avere la maggioranza in aula e ha
approvato l’istituzione della Corte. Il tribunale verrà istituito fuori dal
Libano (probabilmente a Cipro), si baserà sulla legislazione libanese e
internazionale e dovrà tenere conto delle indagini svolte dalla commissione
delle Nazioni Unite. L’ultimo rapporto non è stato reso pubblico, ma secondo
indiscrezioni, il documento contiene accuse esplicite a Damasco. L’anno si è
chiuso con l’uccisione a Beirut da parte di un commando armato del ministro
dell’Industria Pierre Gemayel, membro di una delle famiglie maronite
più potenti in Libano (21 novembre). I funerali del ministro (23 novembre),
alla presenza di una folla imponente e ingenti misure di sicurezza, sono
stati trasformati dalle “forze del 14 marzo” (Hariri, Jumblatt e Geagea), in
cui i falangisti di Gemayel si riconoscono, in una vera e propria
manifestazione contro la Siria, il presidente libanese Lahoud, e
l’opposizione al governo (Hezbollah, Amal e Aoun). Ritratti di Lahoud, Assad
e Ahmadinejad sono stati bruciati, mentre la folla ha scandito e urlato
slogan fortemente antisiriani. L’uccisione di Gemayel ha riportato alla luce
vecchi contrasti tra i cristiani: da una parte i falangisti e dall’altra gli
shebeb (i ragazzi) di Aoun. Prima dell’uccisione di Gemayel, il Paese già
viveva una crisi politica, acuita dalle dimissioni dei sei ministri (cinque
sciiti membri dei partiti filosiriani Hamas ed Hezbollah e uno cristiano
ortodosso). Il governo di Fuad Sinora, a giudizio di molti, appare
incostituzionale in quanto appoggiato solo dalla coalizione sunnita, drusa e
cristiana, cosiddetta del “14 marzo” mentre, secondo gli Accordi di Taef del
1989 (che posero fine alla guerra civile), le decisioni del governo sono
valide con la maggioranza dei due terzi dei suoi membri. Attualmente dei 24
membri del governo Sinora ne sono rimasti solo 17, inferiori quindi ai due
terzi. Il 1° dicembre infine centinaia di migliaia di persone hanno
partecipato a una manifestazione di Hezbollah a Beirut per costringere
Sinora alle dimissioni e ottenere un nuovo governo di unità nazionale. La
mobilitazione è proseguita ad oltranza e Sinora ha accusato Hezbollah di
voler attuare un colpo di Stato.
Da sei anni il presidente della Siria Bashar el-Assad vive nel
solco tracciato dal padre, senza prendere nessuna iniziativa personale.
Aveva promesso riforme economiche chiedendo la collaborazione di specialisti
siriani della Banca mondiale, ma è subito diventato chiaro che una
trasformazione profonda avrebbe colpito gli interessi di personaggi
influenti e le riforme si sono arenate. Il presidente più di una volta ha
ordinato la liberazione di prigionieri politici e ha autorizzato alcuni
gruppi della società civile a riunirsi. Ma poi ha anche ordinato lo
scioglimento di queste organizzazioni, così come l’arresto di centinaia di
attivisti. Il 12 settembre le forze di sicurezza hanno sventato un attacco
alla sede diplomatica Usa a Damasco: quattro i morti (tre terroristi e un
uomo della sicurezza).
L’11 febbraio il presidente dello Yemen Alí Abdallah Saleh ha
operato un vasto rimpasto di governo, rimpiazzando molti ministri con
tecnocrati. I 32 ministri appartengono, come prima, al partito di governo
del presidente, il Congresso generale del popolo (General People’s Congress,
Gpc). Il rimpasto ha fatto seguito all’evasione di 23 terroristi di Al Qaeda
dal carcere di Sana’a. La questione è rilevante per due ragioni. La prima è
che il ministro dell’Interno del precedente governo, che molti ritenevano
avrebbe pagato per la fuga dei terroristi, è rimasto al suo posto, ed è
stato anche promosso a vice premier. Inoltre, è rimasto al suo posto il
direttore della prigione teatro della fuga. Con ciò confermando
l’impopolarità della guerra al terrorismo. La seconda ragione è il motivo
politico che ha originato il rimpasto: secondo molti analisti esso è stato
fatto per aumentare la popolarità del presidente Saleh in vista delle
elezioni presidenziali di settembre. Elezioni presidenziali a cui aveva
detto che non si sarebbe ripresentato (luglio 2005), per poi annunciare di
doversi “piegare” alle pressioni popolari per una sua ricandidatura “per il
bene della nazione” (il 17 dicembre 2005, al congresso del suo partito).
Saleh aveva promesso di non farlo: ma siccome la guerra al terrorismo segna
il passo, gli Usa non hanno potuto abbandonarlo e hanno dovuto sostenerlo.
Il 20 settembre si sono dunque tenute le elezioni e il presidente uscente
Saleh, in carica da 28 anni, si è trovato per la prima volta a confrontarsi
con un avversario vero. Il presidente ha incentrato la campagna elettorale
su modernizzazione, sicurezza e apertura graduale all’Occidente, mentre le
opposizioni hanno criticato la lentezza del processo democratico e la
corruzione dilagante nelle istituzioni. Saleh ha fatto leva sulla necessità
di contenere il radicalismo islamico nel Paese, sottolineando i vantaggi
derivanti dall’alleanza con gli Stati Uniti, stretta all’indomani dell’11
settembre. Oltre al rischio terrorismo, un altro problema per la sicurezza è
il ripetersi dei rapimenti di turisti, fenomeno che minaccia il turismo
nazionale e un sintomo del malessere delle tribù che abitano le zone rurali
del Paese. Proprio al termine della campagna elettorale, il governo ha
annunciato di aver raggiunto un accordo di cooperazione con gli Usa, che
doneranno 1,76 milioni di dollari per combattere la corruzione e promuovere
la trasparenza di governo, a condizione che il presidente sia ancora Saleh.
Il principale avversario di Saleh era Faysal bin Shamlan, candidato
della coalizione dei partiti di opposizione (Joint Meeting Parties) il cui
slogan era un velato attacco al presidente “Un presidente per lo Yemen, non
uno Yemen per il presidente”. Secondo diversi osservatori yemeniti, il
progetto di Saleh di democratizzare il Paese è fallito; ciononostante alcuni
partiti di opposizione si sono mostrati riluttanti a contestare il suo
potere e diverse formazioni, tra cui Islah, il partito islamico, non hanno
presentato un proprio candidato, sostenendo tiepidamente bin Shamlan. Il Gpc
era in testa nei sondaggi anche perché alcuni esponenti dell’opposizione in
esilio sono rientrati nel Paese per sostenere il presidente uscente: lo
sceicco Abdullah al Ahmar, presidente del partito islamico Islah,
Abdul Rahman al Jafri e Muhsen bin Fareed del Partito dei Figli
dello Yemen, Ray. Questi cambi di campo hanno suscitato non poche polemiche
tra gli avversari del Gpc, che hanno accusato il partito del presidente di
non essersi limitato alla campagna elettorale e di aver tentato di portare
dalla propria parte alcuni avversari politici. Il giorno del voto da più
parti si sono levate denunce di intimidazione degli elettori. Per evitare di
compromettere le elezioni con brogli o violenze, la Commissione elettorale
nazionale ha richiesto alla Commissione europea l’invio di osservatori. Le
consultazioni sono terminate con la vittoria di Saleh che ha ottenuto il
77,17% dei voti contro il 21,82% del suo principale avversario, Faysal bin
Shamlan. Le opposizioni hanno denunciato irregolarità ma per la prima volta
il voto è stato caratterizzato dalla presenza di più di un candidato.
Intanto lo Yemen è sottoposto a forti tensioni cominciate nel giugno del
2004: uno scontro tra il governo centrale e un gruppo tribale della
provincia di Saada, al confine con l’Arabia Saudita, la cosiddetta Gioventù
credente (responsabile degli ultimi rapimenti di turisti) seguace dello
Zaidismo, una forma di sciismo radicata negli altipiani dello Yemen del
Nord. Lo scontro si intreccia con motivi tribali e di potere locale, ma ha
anche motivazioni religiose e regionali. Le motivazioni locali risiedono nel
fatto che il regime teme che la Gioventù credente voglia il ritorno dell’imamato
zaidita, che ha regnato nello Yemen del Nord per mille anni, fino al 1962,
quando fu deposto e nacque la repubblica. Da allora fra gli sciiti zaiditi
(35% degli yemeniti) hanno perso terreno i religiosi e hanno preso il
sopravvento i laici, tra cui il presidente Saleh, anch’egli uno zaidita. Ma
oggi a questo scontro se ne unisce uno regionale: Saleh si è schierato con
gli Usa e la loro guerra al terrorismo, perché ha bisogno del loro sostegno
per rimanere al potere, mentre l’élite religiosa e il popolo sono contrari,
per il motivo opposto. Così in un Paese dove la difesa assorbe il 40% del
Pil, ma la stessa percentuale di popolazione vive sotto il livello di
povertà, si è riacceso lo scontro politico sul ruolo degli sciiti e di chi
debba guidarli. L’intervento in Iraq inoltre ha rafforzato gli sciiti
religiosi e regionalizzato lo scontro.
Passiamo ora all’Asia centrale e al Caucaso. La guerra in Afghanistan,
che a fine 2001 sembrava finita, è ripresa poco dopo e, anno dopo anno, sta
crescendo in intensità. Intere regioni del Sud sono di nuovo sotto il
controllo dei talebani e tutto il Paese è a rischio attentati. A distanza di
cinque anni dall’11 settembre, non solo non è stata vinta la guerra “non
convenzionale” contro il terrorismo, ma neppure quelle convenzionali contro
l’Afghanistan e l’Iraq. L’Afghanistan è ben lungi dall’essere pacificato
perché la resistenza armata dei talebani non è stata sconfitta e anzi in
quest’ultimo anno si è rafforzata. I primi tre anni di “dopoguerra” hanno
visto un progressivo indebolimento della resistenza talebana e un
conseguente calo dell’intensità dei combattimenti: 1.500 morti nel 2002,
1.000 nel 2003, 700 nel 2004. Ma i talebani, rifugiatisi in Pakistan,
riorganizzatisi grazie al sostegno dei servizi segreti di Islamabad (Isi),
all’appoggio dei movimenti integralisti pachistani e alle armi acquistate
con gli incassi eccezionali del raccolto d’oppio del 2004 e del 2005, sono
dilagati dal confine pachistano riprendendo sostanzialmente il controllo di
tutto l’Afghanistan meridionale e infiltrandosi anche nelle maggiori città.
Il 2005 si è chiuso con un bilancio di oltre 2.000 morti e il 2006 non si è
aperto sotto migliori auspici (750 morti solo nei primi 4 mesi dell’anno),
anzi con l’aggravante del ricorso agli attentati suicidi da parte dei
talebani. Il drastico aumento delle perdite nel corso del 2005 (unite a
quelle irachene) ha costretto gli Usa a ritirarsi dalle zone più pericolose
(Kandahar, Helmand e Uruzgan), lasciando agli alleati della Nato il compito
di combattere i talebani al posto loro, accettando dopo cinque anni le
offerte di aiuto che l’Alleanza offrì alla Casa Bianca dopo l’11 settembre
2001. Di qui il cambiamento di fatto della missione Isaf, la forza
multinazionale della Nato in Afghanistan: da missione di pace e
stabilizzazione a missione di guerra. Un cambiamento che in alcuni Paesi
coinvolti ha suscitato aspri dibattiti e incontrato non poche resistenze,
messe però a tacere. Londra, Ottawa e Amsterdam hanno invitato nel Sud
dell’Afghanistan 7.400 soldati, consentendo agli Stati Uniti, già impegnati
in Iraq, di smobilitare migliaia di soldati. I talebani hanno accolto i
nuovi arrivati con agguati, attentati suicidi, attacchi missilistici, che
hanno causato diversi morti. Anche l’Italia si è trovata coinvolta in questa
nuova guerra in quanto membro della Nato. Il 5 maggio un ordigno ha fatto
saltare in aria un convoglio italiano, a sud-est di Kabul, uccidendo il
tenente Manuel Fiorito, II reggimento Alpini di Cuneo, e il
maresciallo ordinario Luca Polsinelli del IX reggimento Alpini
dell’Aquila. Le truppe italiane presidiano Kabul da tre anni, ma se fino a
ieri le tre province considerate a rischio-attentati erano quelle più a Sud
(Uruzgan, Helmand e Kandahar), ora l’intero Paese deve stare in allerta.
Così più passano i giorni e più l’Afghanistan assomiglia all’Iraq: nella
settimana del 25 maggio per la prima volta, ha superato l’Iraq per numero di
morti: 392 contro 174. L’escalation degli attacchi talebani si spiegherebbe
con la nomina, da parte del mullah Omar, di Jalaluddin Haqqani
come nuovo comandante generale delle operazioni militari talebane. Haqqani,
stratega della guerriglia fin dai tempi della jihad contro i sovietici,
sarebbe stato messo al comando delle operazioni talebane per rinvigorire
l’offensiva di primavera. A Haqqani sarebbe stato dato il compito di
mobilitare i quadri talebani anche nell’Est dell’Afghanistan in
collaborazione con Gulbuddin Hekmatyar, attivo in quelle regioni. Più
in generale, in tutte le zone pashtun del Paese i vertici talebani stanno
cercando di mobilitare i signori della guerra per promuovere una rivolta
armata generale contro il governo di Kabul e le forze straniere. L’obiettivo
della Coalizione di garantire sicurezza e sviluppo all’Afghanistan sta
dunque fallendo. La vittoria delle forze alleate in Afghanistan nel 2001 è
stata fulminante. Sbaragliato il regime talebano, il Paese si è dato una
Costituzione, un presidente e un Parlamento. Tuttavia la promessa
ricostruzione non è mai iniziata mettendo così in discussione il senso
stesso della presenza militare occidentale. Di qui l’incremento drammatico
degli attacchi terroristici contro la Coalizione mentre i talebani hanno
occupato diversi distretti costringendo i rappresentanti locali del governo
alla fuga. A cinque anni dalla sconfitta del regime talebano, l’Afghanistan
rimane tra i cinque Paesi più poveri al mondo con un vita media pari 46 anni
d’età. Nel Sud del Paese la povertà dilaga ed è esasperata dalle frequenti
carestie che colpiscono gli sfollati costretti ad abbandonare i villaggi
distrutti nei combattimenti. Agli sfollati, privi di assistenza umanitaria,
si aggiungono i coltivatori d’oppio che hanno perso la loro fonte di
reddito. Le statistiche in realtà dicono che il 2006 è stato un anno record
per la produzione d’oppio, record che si deve paradossalmente alle province
dove è più forte la presenza talebana; dove invece sono stati implementati i
programmi antioppio occidentali, i contadini fanno la fame. D’altro canto in
Afghanistan la spesa militare della comunità internazionale supera del 90%
quella per la ricostruzione. I principali organismi umanitari internazionali
denunciano poi un forte calo dei finanziamenti, e tra i fondi stanziati,
gran parte vengono sprecati per garantire sicurezza ai dipendenti dei
programmi umanitari. E ancora, solo il 10% della popolazione ha accesso
all’acqua: manca per le coltivazioni e forse questa è una delle ragioni alla
base dell’impennata nella produzione di oppio, che non ha bisogno di
irrigazione per crescere. Manca l’elettricità: ne usufruisce solo il 20 %
della popolazione. Il risultato è che dopo cinque anni di presenza in
Afghanistan, gli afghani cominciano a chiedersi cosa abbiano da guadagnare
dalla presenza militare straniera sul proprio territorio. Una presenza in
grado di non fare nulla di significativo per migliorare le loro condizioni
di vita. Servono ospedali, scuole, strade e soprattutto lavoro e sviluppo
economico. Sul crescente malcontento dei cittadini afghani pesa anche la
scia di odio creata dalle troppe vittime civili morte sotto i bombardamenti:
ed è questo il terreno politico grazie al quale i talebani stanno
riconquistando consensi tra la popolazione. Per far fronte all’emergenza la
Nato ha chiesto più soldati per intensificare lo sforzo bellico. A far
crescere la tensione, il 29 maggio un autotreno militare Usa, passando tra
la folla ha investito delle auto civili provocando morti e feriti. La
popolazione è scesa in piazza contro i militari statunitensi che hanno
cominciato a sparare sulla folla uccidendo un numero imprecisato di persone.
Nonostante il dispiegamento in forze dell’esercito afghano, dalla periferia
i manifestanti sono confluiti verso il centro di Kabul dove hanno fatto
irruzione nel palazzo del Parlamento. Il presidente Hamid Karzai ha
deliberato che i funzionari pubblici restassero chiusi nelle loro case e
l’ambasciata statunitense è stata evacuata. Eppure è stato ripetuto che il
Paese è pacificato, che l’intervento occidentale contro i talebani è stato
un successo e un grande passo avanti verso la pace. Mentre Kabul bruciava,
dal Sud del Paese continuavano a giungere notizie di guerra. L’aviazione Usa
ha bombardato una moschea nella provincia di Helmand, distretto di Kajaki,
ed è stata diffusa la notizia che sono stati uccisi “una cinquantina di
talebani”, in realtà ha ucciso almeno una trentina di civili, comprese donne
e bambini. Si sono moltiplicati bombardamenti aerei, stragi di civili e
attentati suicidi, in un clima di crescente insofferenza popolare verso le
truppe d’occupazione straniere. Il 15 giugno il comando delle forze Usa ha
lanciato la più grande offensiva militare mai vista dal 2001, la cosiddetta
“Offensiva di montagna”: oltre undicimila soldati delle forze speciali
statunitensi, britanniche, canadesi e afghane hanno attaccato con
artiglieria pesante, mezzi corazzati e supporto aereo, le roccaforti dei
talebani nelle province di Helmand, Kandahar, Uruzgan e Zabul. Obiettivo
strategico dell’operazione era quello di estendere fino a qui l’autorità del
governo centrale di Kabul ma soprattutto quello di “bonificare” la zona e
“creare le condizioni adatte” in vista del passaggio del controllo del Sud
dell’Afghanistan dagli Usa alla Nato-Isaf, avvenuto il 30 luglio. Il 19
luglio i talebani hanno conquistato i distretti di Garamser e
Nawa-i-Barakzayi, nel Sud della provincia di Helmand, arrivando così a soli
20 km dal capoluogo, Lashkargah, dove si trova il quartier generale delle
forze Nato-Isaf britanniche. Le locali forze di sicurezza afghane sono
fuggite davanti all’avanzata dei combattenti del mullah Omar, che hanno
quindi preso il controllo di uffici governativi e caserme. Temendo i
bombardamenti Usa, centinaia di civili hanno lasciato i villaggi lungo le
rive del fiume Helmand, dirigendosi a Nord verso Lashkargah. Anche tutte le
Ong internazionali che ancora operavano nella provincia di Helmand hanno
evacuato la zona, tranne l’organizzazione italiana Emergency, che a
Lashkargah ha un ospedale. I talebani controllano quindi ormai tutta la
provincia di Helmand, tranne il capoluogo ancora sotto controllo delle forze
afghane e britanniche. Situazione analoga nel vicino distretto di Naw Zad,
dove le truppe britanniche continuano ad essere attaccate in forza dai
talebani nonostante i massicci bombardamenti aerei effettuati sui loro
nascondigli. Bombardamenti che finiscono per colpire anche civili e
strutture come scuole o ospedali (a Naw Zad è stato bombardato l’ospedale
locale). Le stragi di civili non fanno che aumentare il risentimento
popolare verso le truppe d’occupazione straniere e la simpatia verso la
resistenza talebana, che ora offre un salario di 400 dollari al mese ai
giovani dei poverissimi villaggi pashtun che si arruolano per combattere gli
stranieri. Il 25 agosto, gli aerei della coalizione internazionale hanno
bombardato il villaggio di Musa Qala, nel Nord della provincia di Helmand,
colpendo una festa di matrimonio: dodici civili sono rimasti uccisi. Il 28
agosto una bomba è esplosa nel bazar di Lashkargah: almeno 20 i morti, di
cui 2 bambini, e 40 feriti arrivati in condizioni disperate al locale
ospedale di Emergency. Il 2 settembre le forze Isaf canadesi hanno
dato il via a una massiccia offensiva aerea e terrestre, l’operazione
“Medusa”, contro le roccaforti talebane nel distretto di Panjwayi, provincia
di Kandahar. In due settimane di scontri e bombardamenti aerei si sono
contati più di 500 morti: tutti talebani secondo la Nato, in gran parte
civili secondo talebani e fonti locali. L’8 settembre altri due attentati,
uno a Kabul e uno a Farah, hanno insanguinato l’Afghanistan: nella capitale,
nelle vicinanze dell’ambasciata degli Stati Uniti, è esplosa un’autobomba
provocando la morte di almeno 16 persone, tra cui tre soldati statunitensi
(si è trattato dell’attentato più grave nella capitale dalla caduta dei
talebani nel 2001); a Farah, nella regione Ovest invece, una pattuglia
italiana è rimasta coinvolta in un attacco, colpita dall’esplosione di un
ordigno posto ai bordi di una strada. La bomba ha provocato il ferimento di
quattro soldati. Lo stesso giorno circa 250 ribelli talebani sono morti in
un’offensiva della coalizione nella provincia di Kandahar. Era appena
terminata l’operazione “Medusa”, quando il 17 settembre il comando Usa,
ancora in carico per le operazioni nell’Est del Paese, annunciava l’inizio
dell’operazione “Furia montana”, un’altra imponente offensiva militare
(3.000 soldati Usa e 4.000 soldati afghani) nelle province meridionali di
Khost, Paktia, Paktika e Ghazni, le uniche non ancora toccate dalle
offensive della coalizione. La mattina del 12 ottobre è stato rapito il
fotoreporter italiano Gabriele Torsello lungo la strada tra
Lashkargah e Kandahar: uno dei tragitti più pericolosi di tutto
l’Afghanistan, in quanto attraversa un territorio controllato dai talebani e
infestato da bande armate criminali. L’ipotesi che Torsello fosse nelle mani
dei talebani è stata ripetutamente smentita dal portavoce ufficiale del loro
movimento, Qari Yussef Ahmadi, il quale ha anzi dichiarato che
Torsello si era recato a Musa Qala proprio grazie agli “ottimi rapporti”
esistenti tra il fotoreporter e i guerriglieri afghani. Gli stessi rapitori
hanno poi dichiarato di essere un “gruppo armato islamico indipendente”che
combatte “contro le truppe straniere”. Torsello è stato poi liberato il 3
novembre: una telefonata all’ospedale di Emergency a Lashkargah ha indicato
che il fotoreporter poteva essere recuperato sulla strada per Kandahar e
così è stato. All’inizio di ottobre la Nato ha esteso le sue operazioni a
tutto il Paese, assumendo il controllo della regione orientale, l’unica
ancora sotto il comando diretto degli Usa. Gli attacchi dei ribelli si sono
moltiplicati in seguito al pesante bombardamento Nato del 24 ottobre sulla
provincia di Kandahar che ha provocato decine di morti tra cui 12 civili.
Dopo mesi di silenzio, Gulbuddin Hekmatyar, il capo storico dell’Hezb-e-Islami
(Partito dell’Islam), movimento armato integralista alleato dei talebani
e attivo nell’Est dell’Afghanistan, il 22 ottobre si è rifatto vivo con un
comunicato in cui afferma che “le truppe straniere saranno presto costrette
a ritirarsi dall’Afghanistan” e invita “tutti gli afghani a unirsi ai
mujaheddin nella jihad per un Afghanistan indipendente e islamico”. Al
momento, i guerriglieri di Hekmatyar combattono le truppe Usa nelle province
orientali del Paese, in particolare in Kunar e in Nuristan, tradizionali
roccaforti dell’Hezb-e-Islami. Ma la sua influenza è forte anche
nelle province attorno a Kabul (Nangarhar, Logar, Laghman, Wardak) e nelle
città di Jalalabad e Kandahar.
In Azerbaigian il 10 dicembre il 98,6% degli elettori del
Nagorno-Karabakh, l’enclave armena in territorio azero, ha votato a favore
di una Costituzione che definisce la regione “uno Stato di diritto, sovrano
e democratico” (il Nagorno-Karabakh si è dichiarato indipendente nel 1991).
Sul piano strettamente politico, il presidente Ilham Aliev continua a
reggere il Paese con un regime quasi dittatoriale con la carcerazione di
tutti gli oppositori politici, la chiusura dei giornali critici e il
potenziamento degli apparati di sicurezza, ovvero con la cancellazione di
fatto delle libertà civili dei cittadini azeri. Il 25 novembre la polizia ha
sfrattato dai suoi uffici della capitale Baku il Fronte popolare, principale
partito di opposizione, e i dipendenti del quotidiano “Azadliq”. La ragione
starebbe nel mancato pagamento dell’affitto, ma secondo i leader
dell’opposizione si è trattato dell’ennesima mossa del presidente per
reprimere il dissenso. Nonostante questa immagine poco presentabile dal
punto di vista democratico, il presidente azero è stato invitato negli Stati
Uniti per una visita di stato, la prima da quando è stato eletto nel 2003
(23 aprile). L’iniziativa della Casa Bianca si può spiegare con il fatto che
gli Stati Uniti hanno bisogno di poter contare sull’Azerbaigian, e sulle sue
basi, in caso di intervento armato contro il vicino Iran. In cambio,
Washington ha deciso di sostenere le pretese dell’Azerbaigian sul
Nagorno-Karabakh. Dopo il fallimento, a febbraio, dei colloqui francesi di
Rambouillet tra Aliev e il presidente armeno Robert Kocharyan, gli
Usa hanno quindi dato il via a un’intensa attività diplomatica unilaterale
con Baku, escludendo la controparte armena.
A più di due anni dalla “rivoluzione delle rose”, la Georgia si è
trovata di nuovo immersa in un’ondata di proteste. Le promesse fatte dal
governo non sono state mantenute: la di-soccupazione è cresciuta; gli
stipendi sono molto bassi; la riforma fiscale non ha migliorato la
situazione degli imprenditori e la crisi nei rapporti con Mosca è di
ostacolo all’esportazione dei prodotti georgiani. Il governo di Mikhail
Saakashvili ha rifiutato qualsiasi dialogo con l’opposizione, nonostante
i consensi del partito di governo, il Movimento nazionale unito, siano scesi
al minimo storico (7%). Gli imprenditori hanno accusato il governo di
esercitare pressioni indebite sulle imprese e sui media. Secondo la
Federazione degli imprenditori, il ministero dell’Interno avrebbe creato dei
fondi neri che gli imprenditori sarebbero costretti a finanziare con delle
tangenti. Inoltre il governo Saakashvili, già da tempo accusato per il suo
dispotismo, ha approfittato della crisi in Abkhazia per far passare una
legge che imprime una svolta nettamente autoritaria al Paese: la legge
prevede il carcere per il reato di “estremismo politico”, cioè per chi viene
accusato di essere un “nemico dello Stato”. Per quanto riguarda invece la
situazione nella Repubblica separatista di Abkhazia, a fine luglio
l’esercito georgiano ha portato a termine una serie di operazioni militari
nella Gola di Kodori, al confine con l’Abkhazia: circa 1.500 soldati di
Tbilisi sono entrati nella gola, controllata da un comandante georgiano
ribelle al governo del presidente Saakashvili, Emzar Kvitsiani, per
riprendere possesso della zona. La mossa ha suscitato la protesta di Mosca,
che ha in Abkhazia una sua forza di interposizione e che ha accusato Tbilisi
di voler destabilizzare la situazione ed esporre il Paese a una nuova guerra
etnica. La Gola di Kodori, amministrativamente parte della secessionista
Abkhazia, era fino alla ribellione di Kvitsiani sotto il controllo della
Georgia. In agosto sono cessati i combattimenti nella Gola, ma la tensione
non è scemata, tensione che ha avuto ripercussioni anche nella Repubblica
separatista dell’Ossezia del Sud, il cui presidente Eduard Kokoiti ha
promesso appoggio all’Abkhazia in caso di conflitto aperto con Tbilisi. Il
presidente Saakashvili ha continuato ad ammassare truppe e mezzi da
combattimento nella zona e ha annunciato il reinsediamento del governo
abkazo che dal 1993 (anno in cui i separatisti abkazi vinsero la guerra
contro la Georgia) è in esilio a Tbilisi. Mentre la Russia ha promesso all’Abkhazia
di intervenire militarmente in sua difesa in caso di attacco georgiano.
Intanto gli abkazi hanno denunciato che la Georgia sta cercando di aprire un
altro fronte nel distretto di Gali (attualmente controllato dai peacekeeper
russi), a sud della Gola di Kodori, dove Tbilisi starebbe infiltrando
centinaia di miliziani georgiani per destabilizzare la situazione e creare
il pretesto per un nuovo intervento militare. Per quanto riguarda invece
l’autoproclamata Repubblica dell’Ossezia del Sud, riconosciuta solo dalla
Russia, il 12 novembre si sono tenute doppie elezioni, creando una frattura
che renderà ancora più difficile una soluzione negoziale del conflitto che
si trascina ormai da quindici anni. Le autorità della Repubblica hanno
organizzato elezioni solo nei villaggi sotto il loro controllo, quelli a
maggioranza osseta: si votava per un referendum sull’indipendenza dalla
Georgia e per l’elezione del nuovo “presidente della repubblica”. Secondo il
governo di Tskhinvali (“capitale” dell’Ossezia del Sud) al referendum ha
stravinto il “sì” e alla presidenza è stato confermato il leader
indipendentista Kokoity. Stati Uniti, Nato e Unione europea non hanno
riconosciuto il voto, mentre la Russia, che sostiene apertamente i
separatisti osseti, ritiene che risultati di queste elezioni non potranno
essere ignorati. Parallelamente alle elezioni indipendentiste, il governo di
Tbilisi ha organizzato un voto nei villaggi sud-osseti sotto il suo
controllo, ovvero quelli a maggioranza georgiana. Il risultato è stato la
vittoria schiacciante dei “sì” a un’Ossezia del Sud integrata con la Georgia
e l’elezione di Dimitri Sanakoev come “presidente alternativo” . Il
presidente georgiano Saakashvili lo riconoscerà come l’unico legittimo,
indebolendo così il peso politico delle autorità separatiste e dimostrando
che in Ossezia del Sud c’è anche chi vuole rimanere in Georgia con il
rischio, però, di una formale spaccatura della regione su base etnica.
Il 13 febbraio in Kazakistan è stato trovato ucciso il leader del
partito d’opposizione Naghyz Ak Zhol, Altynbek Sarsenbaev. Sarsenbaev
era un ex alto funzionario del governo che nel 2003 aveva rotto i rapporti
con il presidente Nursultan Nazarbaev per entrare nell’opposizione.
Il 21 febbraio cinque membri delle unità militari speciali Arystan sono
stati arrestati con l’accusa di essere gli assassini di Sarsenbaev e poco
dopo il capo dei servizi segreti, Nartay Dutbaev, braccio destro del
presidente e responsabile delle unità speciali, è stato costretto a
rassegnare le dimissioni. Dopo l’omicidio tutti gli esponenti politici hanno
cercato di occupare le posizioni migliori in previsione del momento in cui
si sceglierà il prossimo presidente.
In Kirghizistan il regime di Kurmanbek Bakiyev, salito al
potere nel 2005 con la “rivoluzione dei tulipani” (appoggiata da Washington
in funzione antirussa), è tornato nell’orbita di Mosca. Così, dopo essere
stati cacciati dall’Uzbekistan con la chiusura forzata della base di
Karshi-Khanabad, gli Stati Uniti rischiano ora di perdere la loro ultima
base militare in Asia centrale, quella di Manas in Kirghizistan. Bakiyev ha
proposto agli Usa (19 aprile) di pagare entro il 1° giugno un clamoroso
aumento di affitto (da 2 a 200 milioni di dollari) oppure la revisione degli
accordi bilaterali del 4 dicembre 2001, con i quali il governo kirghizo
aveva concesso l’utilizzo della base. E questo con la gioia di Mosca (che in
cambio ha promesso a Bakiyev un miliardo di dollari in investimenti e pieno
sostegno politico in caso di nuove intromissioni statunitensi) e della Cina,
che non gradisce avere la flotta aerea americana vicino alle sue rampe di
missili nucleari nello Xinjiang. Dal canto suo la Russia non paga nulla
d’affitto a Biskek per la base militare di Kant, in quanto struttura comune
del Trattato di sicurezza collettiva della Csi. La perdita della base di
Manas significherebbe per Washington il fallimento definitivo della
strategia di espansione in Asia centrale, iniziata con l’intervento in
Afghanistan del 2001. Per questo Washington ha ritenuto conveniente cercare
di abbattere il regime di Bakiyev, cominciando a creare tensioni tra Bakiyev
e il suo primo ministro Felix Kulov, ma soprattutto promuovendo la
formazione di un nuovo blocco d’opposizione filoccidentale, la Coalizione
popolare delle forze democratiche (Cpfd), formata da 25 partiti (tra cui
quello di Kulov) e 9 Ong finanziate dagli Stati Uniti. La Cpfd ha già
organizzato diverse manifestazioni di protesta (le principali l’8 e il 29
aprile), chiedendo le dimissioni di Bakiyev per aver tradito le promesse
della “rivoluzione dei tulipani” in tema di riforme economiche e lotta alla
criminalità mafiosa. Alla fine in cambio di 150 milioni di dollari di aiuti
il presidente Bakiyev ha autorizzato il governo Usa a continuare a usare la
base militare. Sul piano strettamente politico, il 2 maggio il governo ha
annunciato le dimissioni dopo un voto di sfiducia del Parlamento, ma il
presidente Bakiyev le ha respinte. Infine dopo sei giorni di manifestazioni
di protesta, il presidente Bakiyev ha convocato una sessione straordinaria
del Parlamento per approvare una nuova Costituzione che riduce i suoi poteri
(8 novembre). Il presidente non potrà più scegliere il primo ministro né
licenziare, senza l’approvazione del Parlamento, il procuratore generale e
il capo della Commissione elettorale centrale.
In Tagikistan l’apertura di una base aerea indiana ad Ayni ha
complicato la situazione geopolitica in Asia centrale: alcuni interessi
strategici indiani coincidono con quelli statunitensi altri invece sembrano
incoraggiare legami più stretti con la Russia. L’apertura della base indica
la volontà dell’India di estendere il suo potere nell’Asia centrale e
svolgere un ruolo nel garantire la sicurezza della zona. Ayni fa parte anche
degli sforzi di Delhi per promuovere la stabilità in Afghanistan e aumentare
la capacità dell’India di tenere a bada il terrorismo islamico in Asia
meridionale e centrale. Tuttavia la decisione indiana di estendere il suo
potere in Asia centrale è legata anche al controllo dell’accesso alle fonti
energetiche della regione: New Delhi vuole ottenere il petrolio e il gas del
Kazakistan e partecipare ai progetti quali l’oleodotto che dovrebbe
attraversare Iran, Afghanistan, Pakistan e India e quello che potrebbe
collegare Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India. Infine l’apertura
della base di Ayni si inserisce nella militarizzazione della regione: il
moltiplicarsi di basi straniere in Asia centrale, già in atto prima dell’11
settembre, si è rafforzato dopo quella data. Sul piano politico il
presidente uscente Emomali Rakhmonov ha vinto le elezioni
presidenziali aggiudicandosi il 76,4% dei voti (6 novembre). Alle spalle di
Rakhmonov si è piazzato Olimdzhon Boboyev del Partito delle riforme
economiche con il 6,2%, seguito da Amir Karakulov del Partito agrario
con il 5,3%, da Ismoil Talbakov del Partito comunista con il 5,1% e
da Abdukhalim Gaffarov del Partito socialista con il 2,8%.
L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) ha però
denunciato brogli e irregolarità.
In Turkmenistan il 21 dicembre è morto il presidente Saparmuryad
Niyazov a capo della Repubblica ex sovietica da 21 anni. Si attendono
ora le elezioni presidenziali fissate per febbraio 2007.
Spostandoci nel Subcontinente indiano vediamo che il Bangladesh,
in attesa delle elezioni che dovrebbero tenersi nel gennaio 2007, ha
attraversato una fase di turbolenza politica. Dal 2001 a oggi il
Paese è stato guidato dal Partito nazionalista del Bangladesh (Bnp),
formazione conservatrice e militarista, alleato con il Jamaat-e-Islami, il
maggiore partito islamista del Paese. Il mandato del governo e del primo
ministro Begum Khaleda Zia è scaduto il 27 ottobre. Per organizzare
il voto (in calendario per gennaio 2007), il governo, come previsto dalla
Costituzione, viene sostituito tre mesi prima da un esecutivo ad interim. Ed
è proprio la nomina del capo di questo governo, l’ex giudice della Corte
suprema K. M. Hasan, che è stata alla base dei primi disordini.
L’opposizione, una coalizione di 14 partiti di sinistra guidati dalla Lega
Awami di Sheikh Hasina, si è opposta a questa scelta perché la
posizione filogovernativa di Hassan lo renderebbe incompatibile con il
compito a lui assegnato. L’opposizione ha quindi dato il via a una serie di
proteste sfociate in violenti scontri fra manifestanti e polizia: in cinque
giorni, dal 27 ottobre, si sono contati 25 morti e centinaia di feriti. La
carica ad interim è stata poi assunta dal presidente bengalese Iajuddin
Ahmed, ma i problemi non sono finiti. Agli inizi di novembre la leader
della Lega Awami ha rivolto al governo 11 richieste tese a garantire
l’imparzialità del voto. Fra le altre cose, è stato chiesto il rifacimento
delle liste elettorali, la rimozione dai posti di potere di 300 ufficiali
fedeli al Bnp, l’eliminazione dagli edifici pubblici dei ritratti del
premier uscente. Ma, soprattutto, la Lega Awami ha chiesto di riorganizzare
completamente la Commissione elettorale, rimuovendone il direttore, M.A.
Aziz, accusato di aver aggiunto almeno dieci milioni di nomi falsi sulle
liste elettorali. Al governo è stato quindi posto un ultimatum: se le
richieste non fossero state accettate entro il 12 novembre, la Lega Awami
avrebbe organizzato un blocco totale dei trasporti e delle comunicazioni. E
così è stato: per quattro giorni, la capitale Dhaka è rimasta isolata dal
resto del Paese. La polizia ha cercato di disperdere i manifestanti e negli
scontri di piazza che ne sono seguiti sono morte almeno due persone. Il 16
novembre il blocco è stato sospeso per consentire al Paese di riprendere
fiato ma le proteste dell’opposizione non si sono fermate e fino alla fine
dell’anno è stato un continuo braccio di ferro, con scioperi, barricate,
centinaia di arresti e almeno 34 morti negli scontri fra manifestanti e
polizia. Alla fine la Lega Awami e i suoi alleati hanno deciso di ritirare i
propri candidati dalle elezioni: si presenteranno quindi solo i candidati
del governo uscente con il rischio di nuove violente proteste dopo il voto.
Ha destato non poche preoccupazioni anche la decisione del presidente Ahmed
che a metà dicembre ha dispiegato l’esercito in numerose città. Infine
ricordiamo che Muhammad Yunus, economista bengalese inventore del
sistema del microcredito e della Grameen Bank (la “banca del villaggio”
fondata in Bangladesh nel 1976 e da lì diffusasi in vari Paesi del mondo) ha
vinto il premio Nobel per la pace 2006. Questo riconoscimento assegnato a un
economista sottolinea quanto le condizioni economiche e conseguentemente
sociali delle popolazioni costituiscano il terreno principale del processo
di pace.
In India Sonia Gandhi, presidente del Partito del Congresso,
ha rassegnato le dimissioni dal Parlamento indiano (23 marzo) dopo essere
stata accusata dall’opposizione di avere un secondo impiego statale,
violando le regole del Parlamento (la Gandhi, che si è dimessa anche
dall’incarico in questione, ha annunciato la sua candidatura alle elezioni
suppletive per l’assegnazione del seggio rimasto vacante ed è stata poi
rieletta, 11 maggio). L’opposizione di destra, guidata dal Bjp (Bharatiya
Janata Party), è rimasta confusa dall’annuncio delle dimissioni così come lo
era stata quando, dopo le elezioni del 2004, la Gandhi aveva rinunciato
all’incarico di primo ministro aprendo la strada a Singh (il Bjp, pronto a
scatenare una grande campagna politica contro il premier “straniero” si
ritrovò davanti, come primo ministro, un autorevole tecnocrate sikh). Sonia
ancora una volta ha lanciato un forte messaggio all’opinione pubblica
indiana e il Congresso, impegnato nelle campagne elettorali di Stati
importanti come il West Bengala, il Kerala, l’Assam e il Tamil Nadu, ha
ripreso vigore e forza civile. Le elezioni di maggio in questi Stati e nel
Pondicherry, territorio dell’Unione, hanno attribuito al Partito comunista (Cpi-M
Partito comunista marxista d’India) il risultato più importante della sua
storia. In particolare nel West Bengala la coalizione di sinistra, il Left
Front (alla sua settima vittoria consecutiva, grazie soprattutto ai buoni
risultati dati dalle riforme agricole), e il Left Democratic Front in Kerala,
guidati dal Cpi-M, hanno ottenuto vittorie importanti. In West Bengala, la
sinistra ha conquistato una maggioranza dei tre quarti dei seggi, vedendo
riconfermato il governo statale, in Kerala ha battuto la coalizione del
locale Congresso, lo United Democratic Front. La sinistra è andata molto
bene anche nel Tamil Nadu, dove ha vinto la coalizione guidata dal locale
Dmk (di cui la sinistra era alleata) contro un altro partito locale, l’Aiadmk.
Le vittorie hanno rafforzato il ruolo dei partiti di sinistra a livello
nazionale. Il Bjp, alla guida dell’Nda, l’Alleanza democratica nazionale
delle opposizioni, non ha avuto risultati significativi. Esaminando i
risultati il Congresso ha concluso di essere percepito come anticontadino,
antimusulmano e antitribale. Secondo i suoi leader, l’agenda politica del
Congresso dovrà dunque cambiare in senso sociale. D’altro canto non è detto
che questo implichi uno spostamento a sinistra del governo dal momento che
il Cpi-M in West Bengala ha vinto non sulla base di un programma
ultrasocialista, ma sulla base di progetti neoliberali: è stata la classe
media urbana a votare per la sinistra. È più probabile invece che
cambiamenti più significativi ci possano essere per quanto riguarda la
politica internazionale, dal momento che sinistra e musulmani sono stati
particolarmente critici in proposito verso il governo Singh, contestando
fortemente le intese con gli Usa e l’atteggiamento governativo sulla
questione iraniana, ritenuto troppo vicino a Washington. In ogni caso in
queste elezioni e nelle precedenti elezioni del Bihar, si sono rafforzati
partiti diversi dai due partiti leader delle coalizioni, quello del
Congresso e il Bjp. In particolare si sono rafforzati i partiti più
autonomi, ma che non sono o non appaiono particolarmente opportunistici:
quando hanno potuto gli elettori hanno premiato partiti secolari,
riformatori, attenti ai temi sociali ma non nemici di politiche neoliberali,
costruttori di alleanze fondate su programmi. Per quanto riguarda le
relazioni internazionali, il 2 marzo, in occasione della visita del
presidente statunitense George W. Bush (accompagnata da imponenti
manifestazioni di protesta che hanno impedito al presidente statunitense di
intervenire al Parlamento indiano), India e Usa, per consolidare l’accordo
sullo scambio di tecnologia nucleare che i due governi avevano trattato nel
luglio 2005, hanno sottoscritto uno storico accordo di cooperazione per il
nucleare civile. In base all’accordo l’India (che non ha mai aderito al
Trattato di non proliferazione nucleare, Tnp) dovrà separare i suoi impianti
civili da quelli militari, sottoponendoli ai controlli dell’Aiea (Agenzia
internazionale per l’energia atomica). Gli Usa hanno condizionato l’accordo
nucleare a una netta divisione del nucleare indiano tra progetti a scopo
pacifico e impianti di tipo militare, ma il primo ministro è stato anche
abbastanza chiaro sul fatto che sarà solo New Delhi a stabilire cosa sia
civile e cosa militare. Nondimeno il governo indiano ha continuato a tenere
in piedi la cosiddetta politica del “doppio forno” (ovvero del “doppio
allineamento” sia con la Russia e con la Cina sia con gli Stati Uniti e
l’Occidente), senza fare passi indietro, ad esempio, sul famoso gasdotto che
dovrà portare energia dall’Iran all’India via Pakistan (Musharraf è della
stessa idea) e non si è comunque associata alla crociata delle sanzioni
contro Teheran. E infatti a gennaio il primo ministro Singh annunciava una
ristrutturazione del gabinetto governativo, con lo spostamento ad altro
incarico del ministro del Petrolio Mani Shankar Aiyer, spostamento
che ha rafforzato l’orientamento filo-Usa nel governo di Manmohan. Da un
lato dunque l’India ha evitato di votare con Usa e Ue contro l’Iran, e
dall’altro lato ha spostato ad altro incarico un ministro fortemente esposto
in senso filoiraniano come Mani Shankar Aiyer, il maggiore sostenitore del
gasdotto della pace Iran-India. Ma se è vero che New Delhi continua a
praticare il “doppio forno”, è anche vero che nel governo si sta rafforzando
l’indirizzo filoccidentale. D’altro canto una cosa è il partito di Singh e
di Sonia Gandhi, un’altra cosa è l’alleanza multipartitica che appoggia il
primo ministro. Se infatti il Congresso tende a diventare filoccidentale, la
sinistra e i partiti vicini alla sinistra sono di tutt’altro avviso. Intanto
il 7 marzo un triplice attentato nella città santa indù di Benares ha
causato la morte di almeno 23 persone: gli attentati sono stati rivendicati
dal gruppo islamista Lashkar-e-Kahar, probabilmente legato al gruppo
separatista Lashkar-e-Taiba, attivo nel Kashmir. Per evitare vendette da
parte degli estremisti indù, il governo ha rafforzato le misure di
sicurezza. Nel Kashmir le violenze sono diminuite da quando India e Pakistan
hanno avviato i negoziati nel gennaio 2004. Tuttavia il 14 aprile cinque
persone sono morte in una serie di attacchi dei separatisti a Srinagar,
capitale estiva del Kashmir indiano e il 30 aprile altri 34 civili indù sono
morti in due attacchi dei separatisti islamici sempre nel Kashmir indiano
(si tratta del più grave attentato dalla firma del trattato di pace tra
India e Pakistan nel 2003). L’11 luglio a Bombay, nell’ora di punta del
ritorno a casa, sono scoppiate sette bombe nelle stazioni, sui treni e sulla
metropolitana: almeno duecento i morti. Gli attentati sono stati attribuiti
ai separatisti islamici di Lashkar-e-Taiba che hanno negato ogni
responsabilità. Ugualmente il Pakistan ha negato ogni coinvolgimento negli
attentati anche se è noto che da tempo il Paese ospita i gruppi terroristici
e il Kashmir è diventato il terreno di coltura per terroristi le cui mire
vanno ben oltre la regione (molti degli attacchi dei ribelli afghani vengono
lanciati proprio dal territorio pakistano). In ogni caso subito dopo gli
attentati l’India ha sospeso il processo di pace con il Pakistan chiedendo a
Islamabad di assumersi un impegno deciso contro i terroristi mentre i leader
occidentali riuniti nel G8 hanno assunto un atteggiamento cauto senza citare
chiaramente il Pakistan.
In Nepal il 1° febbraio il re Gyanendra ha confermato le
elezioni municipali dell’8 febbraio difendendo il colpo di Stato dello
scorso anno (presentato come l’unica via per reprimere la rivolta maoista
che da dieci anni combatte contro la monarchia) quando, dopo aver licenziato
il governo e fatto arrestare in massa i principali avversari politici, si
era messo alla guida di un gabinetto formato da fedelissimi, sospendendo le
libertà fondamentali. Le consultazioni sono state contestate dai partiti
costituzionali nepalesi perché, per il sovrano, esse avrebbero dovuto dare
legittimità al regime golpista. Il 5 febbraio è quindi iniziato lo sciopero
generale promosso dalla guerriglia maoista e il giorno seguente un
poliziotto è rimasto ucciso. I maoisti nepalesi alla fine del 2005 avevano
sottoscritto con i partiti costituzionali del regno la dichiarazione di
Delhi e con lo sciopero hanno voluto dimostrare la loro forza popolare
dopo che il 2 gennaio il leader dei ribelli Prachanda aveva
annunciato la fine della tregua unilaterale durata quattro mesi. I partiti
dell’opposizione, d’accordo con i ribelli, si sono astenuti dal voto e le
consultazioni sono terminate con la vittoria scontata degli uomini del re,
facendo crescere la tensione nel Paese. Il 5 aprile, poche ore prima di un
nuovo atteso sciopero generale di quattro giorni, i ribelli hanno ripreso le
ostilità con un’incursione nella città di Malangwa: ventidue i morti. I
guerriglieri hanno attaccato con bombe e artiglieria pesante alcuni edifici
governativi e basi dell’esercito. Quindi, dopo aver preso in ostaggio il
capo dell’amministrazione locale e una ventina di poliziotti, hanno
assaltato il carcere e liberato gli oltre cento detenuti. Nelle stesse ore a
Kathmandu centinaia di persone erano in piazza per protestare contro il
regime di Gyanendra. La polizia è intervenuta duramente operando centinaia
di arresti. Nonostante l’estensione del coprifuoco, in tutto il Nepal sono
proseguite in aprile le manifestazioni contro il re e gli scontri con la
polizia ed è stata interrotta la linea ferroviaria del Patna-Gaya, distretto
che si trova nel cuore del territorio controllato dai maoisti, che qui
godono del pieno sostegno della poverissima popolazione locale, composta in
gran parte da contadini senza terra e dalit (i “non privilegiati”, una
comunità fortemente discriminata, simile ai dalit indiani, i cosiddetti
“intoccabili”). La polizia ha sparato contro i manifestanti uccidendo tre
persone (8-9 aprile). Dopo 16 giorni di proteste, scioperi e coprifuoco, re
Gyanendra ha parlato ai nepalesi dichiarando il ritorno alla democrazia,
offrendo ai partiti politici di nominare di comune accordo un nuovo primo
ministro, ma senza fissare alcuna data per le future elezioni. A molti dei
manifestanti il discorso del sovrano è parso poco credibile e i leader dei
sette principali partiti politici hanno annunciato altre proteste e
manifestazioni, nonostante il permanere del coprifuoco. Si sono così
registrati nuovi scontri in diverse aree della città e parallelamente i
maoisti hanno attaccato le forze armate a Chautara, 100 km ad est di
Kathmandu (23 aprile). Infine la notte del 24 aprile re Gyanendra ha
annunciato alla nazione di accettare le richieste del suo popolo,
ripristinando l’ordinamento democratico e affidando a Girija Prasad
Koirala, designato dai sette partiti dell’opposizione, l’incarico di
primo ministro. Inoltre governo e ribelli maoisti hanno proclamato un
cessate il fuoco per permettere la formazione di un’Assemblea costituente
(28 aprile). Il nuovo governo ha annullato tutte le nomine decise da re
Gyanendra dall’ottobre 2002, comprese quelle di dodici ambasciatori e, per
favorire il processo di pace, ha liberato due capi maoisti. Il 18 maggio il
Parlamento ha approvato all’unanimità un progetto di riforma costituzionale
che limita i poteri della monarchia: il re non avrà più il controllo
dell’esercito e il governo potrà dire la sua nella scelta dell’erede al
trono. Il 16 giugno Koirala, che si è impegnato a rimuovere dai ribelli
l’etichetta di terroristi, e il leader dei ribelli maoisti Prachanda hanno
raggiunto un accordo per mettere fine alla guerra civile, accordo che
prevede lo scioglimento del Parlamento, l’elezione di un’Assemblea
costituente e la formazione di un governo di un’unità nazionale. Prachanda
si è anche impegnato a disarmare i ribelli dopo il voto. Intanto la
popolazione è stremata dagli abusi commessi da entrambe le parti in
conflitto. Da una parte i ribelli, che controllano due terzi del Nepal,
hanno seminato il terrore nelle zone rurali e montagnose, con uccisioni di
civili, estorsioni e reclutamento di minori. Dall’altra l’esercito si è reso
colpevole di esecuzioni sommarie, sparizioni, arresti e detenzioni senza
processo. Un Alto commissariato dovrà garantire lo svolgimento di elezioni
libere e corrette, con una ridefinizione delle aree elettorali (mai fatta
finora). E il Parlamento dovrà trovare formule pratiche per combattere le
discriminazioni delle minoranze e fra le caste. Duecentomila persone hanno
partecipato il 2 giugno alla prima riunione pubblica dei maoisti a
Kathmandu. Il 7 novembre infine dopo 14 ore di negoziato ininterrotto,
governo e guerriglia maoista hanno raggiunto uno storico accordo (ratificato
il 21 novembre) che ha posto fine a dieci anni di guerra civile costata la
vita a oltre tredicimila persone. L’accordo prevede l’ingresso di tutti i
guerriglieri maoisti in sette accampamenti, la chiusura di tutte le loro
armi in tre magazzini sorvegliati da soldati delle Nazioni Unite, sistemi di
allarme e telecamere a circuito chiuso. Lo stesso varrà per le armi
dell’esercito governativo. Dal punto di vista politico è previsto lo
smantellamento, entro il 26 novembre, delle strutture di governo parallelo
create dai maoisti nelle zone da essi controllate, l’immediata espansione
del numero dei parlamentari per permettere l’ingresso di 73 deputati maoisti
(due in meno di quelli del partito di governo), la formazione, entro il 1°
dicembre, di un governo di transizione del quale faranno parte anche i
maoisti e l’elezione, entro giugno 2007, di un’Assemblea costituente che
deciderà il futuro della monarchia nepalese con votazioni a maggioranza
semplice. Si tratta del terzo accordo di pace con i maoisti: i primi due,
del 2001 e del 2003, sono falliti e sono stati seguiti da nuove violente
fasi di conflitto.
Il 5 settembre dopo due mesi di negoziati e di tregua nei combattimenti, il
governo del Pakistan e i guerriglieri waziri hanno raggiunto un
accordo sulla cessazione definitiva della guerra cominciata nel marzo 2004 e
costata la vita ad almeno 3.000 waziri e a 950 militari governativi,
contrassegnata da innumerevoli stragi di civili, uccisi per rappresaglia
dall’esercito pakistano (strage nel bazar di Wana, settembre 2004) o morti
nei raid missilistici della Cia contro i villaggi in cui era segnalata la
presenza di esponenti di Al Qaeda. Guerra che il presidente Pervez
Musharraf è stato costretto a fare dagli Stati Uniti, stanchi
dell’ambiguità del governo di Islamabad, che da una parte si dichiarava un
alleato nella lotta contro il terrorismo e dall’altra continuava ad ospitare
in Waziristan talebani e capi di Al Qaeda. Per soddisfare le richieste di
Washington, Musharraf si è inimicato i settori fondamentalisti del potere
religioso e militare, senza i quali in Pakistan è difficile governare e per
questo ha ricevuto non solo durissime critiche ma è sfuggito anche a
numerosi attentati. Per questo Musharraf ha sempre cercato il dialogo con i
talebani del Waziristan nella speranza di chiudere il prima possibile la
partita. Il rischio è che Musharraf, pur di mettere fine ai combattimenti,
abbia accettato un accordo che non verrà mai rispettato dalla controparte,
se non per il cessate il fuoco in quanto tale. Capi tribali, religiosi e
militari del Waziristan, hanno annunciato che il governo di Islamabad
cesserà le operazioni militari nella regione, toglierà i posti di blocco
dell’esercito e libererà tutti i prigionieri di guerra catturati durante il
conflitto. In cambio i capi tribù, gli ulema e i comandanti militari waziri
dovranno garantire la fine degli attacchi contro forze e obiettivi
governativi da parte dei combattenti talebani waziri, la restaurazione
dell’autorità governativa nella regione, la chiusura dei campi
d’addestramento dei talebani che combattono in Afghanistan, lo stop alle
incursioni compiute oltre confine e l’allontanamento di tutti gli stranieri
presenti nella regione, ovvero dei militanti di Al Qaeda. Ma è difficile
credere che i talebani waziri rinuncino al loro potere, decretando la fine
dello Stato islamico del Waziristan (proclamato in marzo) e che smettano di
reclutare ragazzi nelle madrase locali e di addestrarli nei campi della
regione per alimentare la resistenza afghana. Il rischio insomma è che,
benché la guerra in Waziristan sia finita, la regione continui ad essere la
roccaforte dei talebani che combattono in Afghanistan e il rifugio di Al
Qaeda. L’accordo di pace è stato vissuto a Washington come un tradimento che
mette in discussione l’alleanza antiterrorismo che dopo l’11 settembre 2001
gli Stati Uniti imposero al Pakistan (perché senza le sue basi logistiche la
guerra in Afghanistan sarebbe stata impossibile); un tradimento tanto più
grave perché arrivato in un momento molto difficile per le truppe Usa e Nato
in Afghanistan alle prese con la rimonta dei talebani. Proprio pochi giorni
prima dell’accordo il segretario di Stato Usa, Donald Rumsfeld, aveva
lanciato un chiaro avvertimento al Pakistan, affermando che nessun governo
ha il diritto di negoziare “paci separate” con i terroristi. Ora, dopo
l’accordo con i neotalebani, il Pakistan appare sempre più come l’anello
debole della guerra al terrorismo. Dopo l’11 settembre George Bush riuscì a
ottenere dal Congresso un notevole aumento della spesa militare americana
verso il Pakistan e rinsaldò l’immagine di Musharraf sullo scenario
mondiale. Dal canto suo Musharraf credeva davvero a una nuova politica
pakistana che tagliasse il legame che aveva unito sia la leadership di
Benazir Bhutto sia quella di Nawaz Sharif agli islamisti che,
proprio durante il governo di Benazir, avevano alimentato con le cure dei
servizi segreti, il fenomeno degli studenti delle scuole coraniche, ovvero i
talebani. Tuttavia Musharraf, dopo essersi impegnato nella guerra ai
mujaheddin ha poi dovuto fare i conti con l’opposizione interna. Nelle due
province del Nord-Ovest e del Balucistan (al confine con l’Afghanistan) è al
governo una coalizione di cinque partiti islamisti (Muttahida Majlis-e-Amal
o Mma), anche con l’appoggio del partito vicino a Musharraf, la Lega
musulmana del Pakistan (Pml, Quaid-e-Azam). In vista delle prossime
elezioni, per evitare troppe ribellioni nelle aree tribali della frontiera
ed evitare di perdere altri soldati impegnati nella guerra sul confine, il
governo ha preferito il negoziato che nel Waziristan ha probabilmente
evitato ulteriori guai all’esercito pakistano ma non ha impedito alla
guerriglia che ha base in Pakistan di continuare a lanciare attacchi in
Afghanistan. La scelta negoziale è stata molto criticata perché ha rivelato
una sorta di “doppio gioco” del presidente: contro i radicali sulla scena
internazionale, disposto a scendere a patti coi talebani in patria. Insomma
ancora una volta Musharraf si è trovato diviso tra diverse necessità: quella
di rispondere alle richieste dei suoi alleati occidentali e quella di
negoziare nelle aree tribali per riportare un po’ di pace e il desiderio di
guadagnare appoggi per la rielezione. L’ultima novità è la legge approvata
dall’assemblea della provincia della Frontiera del Nord-Ovest, la
controversa Hasba Bill, passata anche con i voti dei cosiddetti “partiti
liberali”, tra cui quello di un deputato della Lega musulmana. La legge,
seppur rivista dopo una prima bocciatura della Corte suprema nel 2005,
grazie anche alle pressioni di Musharraf, istituisce una sorta di
controllore della virtù che ha il compito di proteggere i valori dell’Islam,
non solo dai cattivi fedeli ma anche dalle azioni governative o
amministrative ritenute lesive dei codici della sharia. Intanto è riesploso
il conflitto tra indipendentisti baluci e governo centrale. Il 26 agosto
l’esercito pakistano, in un’offensiva sulle montagne del distretto di Dera
Bugti, ha ucciso Nawab Akbar Bugti, leader dei ribelli
indipendentisti baluci, simbolo delle ingiustizie del governo militare
(insieme a lui sono morti altri 17 ribelli e 7 soldati). A Quetta, capitale
del Balucistan, nemmeno il coprifuoco imposto dall’esercito e gli arresti di
massa del 28 agosto hanno fermato le violente proteste antigovernative: il
29 gli studenti sono tornati in piazza dando alle fiamme le sedi degli
uffici governativi e sfidando la polizia che ha cominciato a sparare. Le
proteste si sono estese non solo a tutto il Balucistan ma anche oltre, nel
Sindh e perfino a Karachi. L’uccisione del leader della guerriglia
indipendentista balucia ha rischiato di trasformarsi in un disastro per il
regime di Musharraf, già alle prese con l’opposizione dei partiti religiosi
fondamentalisti che sostengono i talebani in Waziristan e in Afghanistan.
L’opposizione democratica ha condannato l’assassinio, proclamando per il 1°
settembre uno sciopero generale nazionale. La guerriglia indipendentista
balucia iniziò nel 1947, subito dopo l’annessione forzata del Balucistan da
parte del neonato Pakistan, ed è ripresa un anno e mezzo fa con violenti
scontri armati e centinaia di morti. I baluci si sono sempre opposti a
quello che considerano un regime di occupazione militare e allo sfruttamento
delle risorse locali (gas naturale in primis) che Islamabad ha portato
avanti senza dare nulla in cambio: il Balucistan, nonostante le sue
ricchezze, è sempre rimasta la regione più povera del Pakistan.
Nello Sri Lanka dalle elezioni del novembre 2005 si è registrata
un’escalation di violenze nel Nord e nell’Est del Paese. La situazione è
precipitata dopo l’arrivo dello tsunami e la controversia sulla gestione dei
fondi per la ricostruzione. I tamil hanno preteso di occuparsi delle zone
dove effettivamente controllano il territorio. Ma il governo, nonostante le
aperture dell’ex presidente Chandrika Kumaratunga, non l’ha concesso.
Le cose sono peggiorate con la vittoria alla presidenza di Mahinda
Rajapakse, alleato con i nazionalisti della maggioranza buddista (Jhu,
Jathika Hela Urumaya) e cingalese (Jvp, Janatha Vimukhti Peramuna). Già
premier nel precedente governo, Rajapakse ha detto di voler negoziare con l’Ltte
(Tigri per la liberazione del Tamil Eelam), ma è contrario a concedere
un’ampia autonomia nelle regioni del Nord e dell’Est a maggioranza tamil: a
lui si deve l’irrigidimento che lo ha fatto litigare anche con Kumaratunga.
Nonostante le dichiarazioni di apertura al suo insediamento, l’inizio della
sua presidenza è di fatto coinciso con una chiusura nei confronti della
guerriglia che si è sempre più irrigidita. Il 12 aprile un attentato al
mercato di Trincomalee, città portuale sulla costa orientale, ha causato la
morte di 16 persone. Benché gli indipendentisti abbiano negato la paternità
dell’attentato, nei giorni seguenti bande di estremisti cingalesi hanno
cominciato a bruciare, per rappresaglia, diverse case abitate dai tamil,
provocando decine di feriti. In seguito alle violenze, circa mille persone
sono state costrette a lasciare le loro case. Trincomalee, popolata da indù,
buddisti e musulmani, si è trovata immersa in un clima di violenza e
tensioni comunitarie che hanno reso necessaria l’imposizione del coprifuoco
e costretto alcuni operatori di organizzazioni non governative straniere,
che si occupano della ricostruzione nel dopo-tsunami, ad abbandonare almeno
temporaneamente la zona. Il 25 aprile un attentato suicida ha colpito il
quartier generale dell’esercito a Colombo causando 8 morti (tra i quali il
generale Sarath Fonseka, nominato dal neopresidente Mahinda Rajapakse
per sedare con metodi più duri la ribellione). La risposta del governo non
si è fatta attendere: aviazione, marina e artiglieria sono state tutte
mobilitate per bombardare le basi dei ribelli intorno a Trincomalee. Questi
ultimi attentati hanno fatto temere un ritorno alla guerra civile o a una
situazione simile a quella antecedente il cessate il fuoco proclamato da
governo e ribelli nel febbraio 2002. Benché la tregua non sia stata
rispettata del tutto, non si erano però più verificati bombardamenti nelle
zone di guerriglia. Anche i negoziati di pace, ripresi in febbraio a Ginevra
con la mediazione della Norvegia, si sono interrotti perché in aprile i
ribelli si sono rifiutati di partecipare al secondo round in quanto il
governo non aveva soddisfatto alcune condizioni, prima fra tutte il di-sarmo
dei paramilitari e dell’esercito di Karuna, una frangia di guerriglieri
distaccatasi nel marzo 2004, che potrebbe, a loro giudizio, aver trovato
l’appoggio del governo. Le Tigri hanno anche chiesto la cessazione degli
attacchi contro la popolazione tamil. Con il passare dei giorni i
combattimenti tra esercito e ribelli si sono fatti sempre meno sporadici.
Solo in aprile le violenze tra tamil ed esercito hanno ucciso almeno 200
persone, mentre altre battaglie navali si sono svolte nello specchio di mare
antistante le zone tamil. Secondo la missione di monitoraggio la
responsabilità sarebbe soprattutto delle tigri, perché, stando agli accordi
siglati nel negoziato, il mare è sotto l’autorità del governo di Colombo e
cercare di controllarlo significa violare le regole e provocare di fatto
l’esercito governativo. Dopo un attacco kamikaze a una caserma e la risposta
dell’aviazione che ha colpito le zone tamil del Nord mettendo in fuga
migliaia di civili, l’11 maggio si è registrata l’ennesima battaglia navale
al largo delle coste orientali, la più grave da quando nell’isola sono
ripresi i combattimenti (almeno 45 i morti) segno che ormai la tregua è
lettera morta. La situazione ha continuato a deteriorarsi e all’inizio di
agosto si poteva parlare di vera e propria guerra nel Nord e nell’Est del
Paese. Il 1° agosto la Finlandia ha deciso di ritirare i suoi membri dalla
missione di monitoraggio della tregua (Slmm), costituita da osservatori di
cinque Paesi del Nord Europa. Proprio le Tigri avevano chiesto agli
osservatori di andarsene entro il 1° settembre dopo che l’Ue li aveva
definiti “terroristi”. Il 2 agosto le Tigri hanno attaccato alcune
postazioni dell’esercito nei pressi del porto di Trincomalee, un giorno dopo
l’attacco a una nave di soldati che stava entrando nel porto. Negli stessi
giorni l’aviazione cingalese ha bombardato la zona controllata dalle Tigri
nel distretto di Trincomalee. A metà ottobre i combattimenti più intensi dal
2002 hanno portato alla morte di almeno 129 soldati e circa duecento ribelli
delle Tigri in un’offensiva lanciata nella penisola di Jaffa: l’offensiva ha
rischiato di compromettere la ripresa dei negoziati di pace prevista per il
28 ottobre in Svizzera. Il 16 ottobre poi almeno 10 soldati sono morti in un
attentato suicida nel distretto di Trincomalee (da dicembre 2005 a metà
ottobre 2006 i morti sono più di 2.300). Alla fine di ottobre i
rappresentanti del governo di Colombo e dei ribelli hanno abbandonato i
colloqui di pace a Ginevra, senza fissare una data per la ripresa dei
negoziati.
Restano infine da esaminare il Sud-Est asiatico e l’Estremo
Oriente. Dopo mesi di crisi e tensioni alla fine di febbraio Cina
e Giappone hanno ripreso a parlarsi: i rappresentanti dei due governi si
sono incontrati a Pechino per fare il punto sullo stato delle relazioni
bilaterali. La ragione di fondo di questa ripresa dei contatti sta nel
continuo rafforzamento dei legami economici, finanziari e tecnologici fra i
due Paesi. Tuttavia il capo di Stato e segretario del partito comunista
cinese, Hu Jintao, ha detto chiaramente a Tokyo che fino a quando il
primo ministro giapponese continuerà a visitare il sacrario di Yasukuni, il
tempio scintoista di Tokyo dedicato ai caduti in guerra tra i quali anche
alcuni criminali di guerra nipponici, non ci saranno incontri bilaterali ad
alto livello tra Cina e Giappone. In ogni caso i rapporti commerciali
sino-giapponesi vivono un vero e proprio boom. Nel 2005 il volume degli
scambi tra Tokyo e Pechino ha raggiunto un nuovo record, e nel primo
trimestre del 2006 non meno del 38% di tutta la tecnologia cinese è stata
importata dal Giappone. In marzo anche il presidente russo Vladimir Putin
era a Pechino, quando Russia e Cina hanno siglato un elevato numero di
accordi, sul gas, sui gasdotti, sull’energia, sul nucleare e sulla
cooperazione politica: Mosca e Pechino hanno deciso di far fronte comune
contro la crisi nucleare iraniana. I legami economici e strategici fra i due
vecchi nemici si stanno dunque rafforzando anche se rimangono divergenze e
problemi: dai contrasti derivanti dalla bassa qualità della tecnologia
russa, alla sfida posta dalla fortissima pressione demografica cinese sulla
Siberia russa. Ma attualmente Mosca e Pechino hanno messo da parte le
inimicizie nel nome della lotta all’unipolarismo dell’amministrazione Bush.
La Sco, l’alleanza politico-militare tra Russia, Cina e Asia centrale che
dal 2005 si è esplicitamente proposta come blocco antagonista all’espansione
dell’influenza Usa sugli Stati ex sovietici, sulle loro basi militari e sui
loro enormi giacimenti di petrolio e gas, rappresenta lo strumento principe,
assieme alla cooperazione energetica, del nuovo rapporto sino-russo. Sul
piano delle relazioni internazionali è comunque l’India, per potenzialità e
crescita, il primo e più importante interlocutore di Pechino. India e Cina
hanno potenzialità pressoché uguali ed economie fortemente complementari; da
qualche anno, ovvero da quando la crisi irachena ha messo India e Cina dalla
stessa parte, questi rapporti sono diventati più stretti, anche se
ovviamente non sono superate diffidenze e rivalità reciproche. All’inizio di
giugno i ministri della Difesa indiano e cinese si sono incontrati a Pechino
per sottoscrivere un importante memorandum per esercitazioni militari
congiunte e programmi di addestramento. Si tratta di un fatto importante
perché conferma l’indisponibilità indiana a qualsiasi strategia di
contenimento politico o strategico contro la Cina. India, Russia, Giappone
sono tutte potenze che, in teoria, secondo certi ambienti americani,
avrebbero potuto far parte della “cintura di contenimento” contro la Cina.
La tendenza che però emerge è evidente: il contenimento verso Pechino non
sembra funzionare in questa direzione. Tuttavia se è vero che Russia, India
e Giappone, non accettano o non accetteranno più opzioni di contenimento, è
altrettanto vero che tutte e tre queste potenze non intendono consegnarsi in
toto ad un’egemonia cinese, ma tendono semmai ad applicare, ognuna a loro
modo, una strategia complessa di rapporti multipli. Esemplificativa in tal
senso è la politica dell’India, la cosiddetta politica del “doppio forno”,
ovvero cooperazione con la Cina e forte partnership con Washington (negli
stessi giorni del memorandum New Delhi parlava con Washington per l’accordo
nucleare, firmando con gli americani altre intese di cooperazione spaziale,
e siglando accordi militari con la Cina, accettava il gasdotto turkmeno
senza rinunciare definitivamente al gasdotto iraniano). India e Stati Uniti
hanno firmato anche importanti accordi di cooperazione fra le rispettive
agenzie spaziali. Tutto queste firme mostrano ancora una volta la strategia
indiana di rafforzamento delle proprie posizioni in tutti i possibili campi
tecnologici avanzati. Prosegue intanto la forte crescita economica cinese,
facendo temere a Pechino il crollo di un sistema sempre più squilibrato. Nel
primo trimestre del 2006 il Pil è stato superiore del 10,3% rispetto allo
scorso anno e nei primi cinque mesi dell’anno i prestiti bancari interni
sono aumentati dell’80% rispetto allo stesso periodo del 2005. L’eccesso di
investimenti e debiti generato dalla crescita fa temere a Pechino il crollo
di alcuni settori. Così le autorità cinesi stanno cercando di rallentare
l’economia con gli stessi strumenti impiegati nel 2004 quando si verificò
una situazione analoga: controlli sugli investimenti in determinati settori
e inasprimento della politica monetaria. Oltre alle misure già in vigore per
contenere la spesa in settori come l’alluminio, l’acciaio e il cemento, a
fine giugno il primo ministro Wen Jiabao ha invitato le
amministrazioni locali e le banche a non concedere crediti facili al settore
edilizio. Ad aprile la Banca centrale ha alzato il tasso d’interesse dello
0,27% e il 16 giugno ha chiesto alle banche commerciali di aumentare di
mezzo punto percentuale la quota di utili che è obbligatorio accantonare
come riserva.
La Corea del Nord ha lanciato sette missili a media e lunga gittata
(4 luglio). Il più temibile, il Taepodong-2, studiato per percorrere una
distanza di 6.000 km e quindi in grado di raggiungere l’Alaska e le Hawaii,
si è però schiantato subito dopo il lancio. Altri, a medio raggio, sono
caduti nel Mare del Giappone. Durissime le reazioni degli Stati Uniti e dei
Paesi vicini alla Corea del Nord e soprattutto del Giappone che ha chiesto,
immediatamente, misure internazionali severissime contro il regime comunista
di Pyeongyang, parlando anche di “interventi militari preventivi”. Secondo
alcuni analisti, la Corea del Nord avrebbe voluto in questo modo attirare
l’attenzione e smuovere lo stallo dei negoziati sul nucleare, che dura ormai
dal novembre 2005, negoziati che coinvolgono, oltre alla Corea del Nord,
Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone, Cina e Russia. Nel settembre 2005
sembrava di essere arrivati a uno sblocco, ma poi la situazione è
precipitata. Pyeongyang aveva accettato di smantellare il suo programma
nucleare, di accogliere gli ispettori Onu e di rientrare nel programma di
non proliferazione da cui era uscita nella primavera 2003: in cambio gli Usa
avrebbero dovuto riconoscere il governo di Pyeongyang. Tuttavia
l’amministrazione dei falchi statunitensi ha dimostrato di non volere le
trattative: con un pretesto, ha denunciato una situazione che durava ormai
da tempo (il riciclaggio di dollari americani da parte di Pyeongyang) e ha
impedito a tutte le banche di fare affari con la Corea del Nord. Un modo per
portare al collasso il regime di Kim Jong-Il, uno dei più chiusi al
mondo. Ma c’è stato un altro fattore a scatenare la rabbia di Pyeongyang: il
fatto che gli Usa abbiano adottato una posizione più morbida nei confronti
dell’Iran, cui hanno concesso l’uso dell’uranio a scopi civili. Il lancio
dei missili ha avuto l’effetto negativo di rafforzare le correnti più
oltranziste di tutta l’area e soprattutto negli Stati Uniti e in Giappone.
Il 15 luglio il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha quindi
approvato, all’unanimità, una risoluzione che chiede a Pyeongyang di mettere
fine agli esperimenti missilistici e sancisce l’embargo sulla vendita di
componenti militari al regime nordcoreano. La risoluzione del Consiglio (che
ricalca sostanzialmente la bozza sino-russa) è molto importante perché
rappresenta un messaggio forte al regime di Pyeongyang e perché è frutto di
una decisione unanime della Comunità internazionale; infine perché apre la
strada a un ulteriore tentativo della diplomazia cinese. La risoluzione, che
non comprende né sanzioni economiche né un riferimento al capitolo 7 del
Trattato Onu (che prevede l’uso della forza), è stato stilato con non poche
difficoltà ed è il prodotto di un confronto aperto in Consiglio tra Cina e
Giappone. Tokyo, infatti, aveva chiesto che venissero previste sanzioni
economiche internazionali contro Pyeongyang e ci fosse anche il riferimento
al capitolo 7. Ora tocca ancora una volta alla Cina cercare di far ripartire
i colloqui a sei. Se nel confronto su questa crisi internazionale
particolarmente delicata la diplomazia di Pechino ha avuto la meglio,
rifiutando l’impostazione diplomatica di Tokyo, non ha mancato negli stessi
giorni, di mandare segnali di cooperazione al vicino nipponico e di siglare
accordi riguardanti l’aviazione civile con il Giappone. Pyeongyang ha
respinto la risoluzione e il 9 ottobre ha effettuato un test nucleare
sotterraneo. Il 14 ottobre il Consiglio di sicurezza ha quindi adottato
delle sanzioni economiche e commerciali contro Pyeongyang. La risoluzione
1.718 non contiene alcun riferimento all’uso della forza, ma chiede al
governo di non effettuare altri test e di riprendere i negoziati a sei sul
programma nucleare: il governo nordcoreano ha definito la risoluzione una
dichiarazione di guerra. Tuttavia, dopo un incontro informale a Pechino tra
i rappresentanti di Usa e Cina, Pyeongyang ha dato la disponibilità ad
abbandonare le attività nucleari se Washington cancellerà le sanzioni
economiche. In attesa di decidere se applicare contro Pyeongyang le sanzioni
Onu, la Cina ha cominciato a erigere lungo il confine barriere di cemento
armato sormontate da filo spinato. Ma sarà molto difficile che il commercio
tra i due Paesi subisca limitazioni o interruzioni. Circa il 40% dei
commerci nordcoreani viene scambiato con Pechino, che a sua volta fornisce
l’80% del petrolio di cui Pyeongyang necessita. Più che a dare esecuzione
all’embargo, limitando il passaggio di merci, la barriera servirà ad
arginare la piena dei profughi che si teme investirà la Cina settentrionale
se l’isolamento della Corea dovesse essere totale, provocando una forte
instabilità demografica nella zona al confine. D’altro canto il tentativo di
offrire un programma di aiuti economici e l’offerta di fare uscire il Paese
dal suo attuale isolamento, è già stato fatto, e senza successo, in diversi
incontri tra la stessa Corea del Nord, gli Stati Uniti, la Corea del Sud, la
Cina e il Giappone. Tali riunioni si sono tenute tra il 2003 e il 2005 e si
sono poi interrotte per volontà di Pyeongyang. è rimasta la linea dura, ma
qui gli interessi delle potenze interessate divergono. Sia Pechino, sia
Seul, infatti temono un crollo violento del regime, la conseguente fuga di
milioni di profughi verso i loro rispettivi Paesi e una destabilizzazione
permanente dell’intera regione. Per gli Stati Uniti, i timori sono
soprattutto due: primo, che Pyeongyang, che rifornisce già dei suoi missili
l’Iran e la Siria si metta a vendere la sua tecnologia nucleare a movimenti
terroristici; secondo, che l’incapacità dell’Onu di fermare la Corea del
Nord si rifletta anche sui programmi nucleari dell’Iran. Per il Giappone e
per la Corea del Sud, che da sempre teme la potenza militare del Nord è
soprattutto una questione di equilibri strategici. Se l’Onu non riuscirà a
fermare Pyeongyang, è probabile che anche Tokyo e Seul decideranno di
dotarsi dell’atomica, stabilendo un “equilibrio del terrore” regionale.
Prosegue nelle Filippine la crisi politico-istituzionale apertasi nel
2005 dopo che la presidente Gloria Macapagal Arroyo (subentrata
all’ex presidente Joseph Estrada, in seguito a una rivolta popolare ed
eletta poi nel 2004) ha subito pesanti accuse di corruzione e brogli
elettorali, evitando per un soffio l’impeachment (in Parlamento il Lakas, il
suo partito, che detiene la maggioranza, l’ha salvata). La credibilità
interna della presidente è stata intaccata e la sua figura ne è uscita
fortemente indebolita sul piano internazionale. Il malcontento popolare,
oltre che alle persistenti accuse di manipolazione delle elezioni del 2004,
è dovuto all’incapacità della presidente di cambiare le sorti del Paese che
continua ad essere tra i più corrotti al mondo, a soffrire di gravi
disuguaglianze sociali e di abusi dei diritti umani. Questa crisi politica
ha come conseguenza la stagnazione economica con aumento della
disoccupazione (11%) e crescita della povertà. In occasione del 20°
anniversario della fine della dittatura di Ferdinando Marcos (23 febbraio),
un massiccio corteo di protesta ha attraversato le strade della capitale. Il
giorno seguente la presidente, dopo le voci di un golpe sventato dalle forze
dell’ordine (golpe in cui sarebbero coinvolti personaggi legati all’ex
presidente Estrada come il generale Danilo Lim, agli arresti con
altri alti ufficiali), ha dichiarato lo stato d’emergenza. La tensione è
rimasta alta le manifestazioni sono proseguite, nonostante la dura reazione
della polizia. Quello che si teme ora è la strumentalizzazione che alcuni
settori della politica e dell’esercito potrebbero fare del malcontento
popolare per liberarsi della Arroyo e impadronirsi del potere. La Arroyo,
proclamando lo stato di emergenza (poi revocato il 3 marzo), si è posta
sulla scia di Marcos (prima legittimamente eletto, poi divenuto dittatore,
imponendo la legge marziale), e si è inimicata irrimediabilmente la
popolazione che, per almeno il 40%, vive sotto la soglia di povertà. Intanto
da mesi ormai non si contano più le uccisioni di militanti e dirigenti di
sinistra. Nelle Filippine infatti sono attivi da anni non solo vari
movimenti separatisti e islamisti, ma anche forti movimenti di sinistra e di
sinistra estrema che vertici ed apparati militari considerano una minaccia
gravissima alla sicurezza nazionale. Il numero degli attivisti politici
uccisi nell’arcipelago nel 2006 è drammaticamente aumentato. Secondo Amnesty
International almeno 51 attivisti sono stati uccisi nei primi sei mesi
dell’anno, la maggior parte per mano di motociclisti mascherati.
L’organizzazione teme che negli omicidi possano essere coinvolti soldati e
poliziotti e la presidente Arroyo ha costituito una commissione d’inchiesta
per far luce sulla questione. Il 21 settembre migliaia di agricoltori e
attivisti di sinistra hanno marciato a Manila in occasione del 34°
anniversario della legge marziale imposta dall’ex dittatore Marcos, per
chiedere alla presidente Arroyo di fermare gli omicidi politici e di non
cambiare la Costituzione per prolungare il proprio mandato. I manifestanti
ritengono che ciò che successe 34 anni fa con la legge marziale stia
succedendo ancora sotto l’attuale amministrazione. Intanto il 28 giugno sono
cominciati gli scontri nel Sud del Paese tra i ribelli musulmani del Milf
(Fronte islamico di liberazione Moro) e le forze di polizia che dovevano
arrestare due comandanti del Milf, sospettati di aver progettato l’attentato
dinamitardo di giugno contro il governatore di Maguindanao, rimasto illeso,
attentato in cui sono morte 7 persone. In seguito agli scontri circa 1.500
civili sono stati costretti a fuggire dalle loro abitazioni a causa dei
combattimenti. Il Milf rappresenta il più grande gruppo di separatisti
musulmani nell’isola meridionale di Mindanao. Attivo fin dal 1978, ha poi
aperto negoziati di pace con Manila. Infine ricordiamo che all’inizio di
dicembre il passaggio del tifone Durian nell’Est delle Filippine ha
provocato oltre 400 vittime e circa 600 dispersi. Per il tifone una valanga
di fango si è staccata dal vulcano Mayon e si è riversata sui villaggi alle
sue pendici. La presidente Arroyo ha proclamato lo stato di calamità
naturale e autorizzato l’immediato utilizzo di 20 milioni di dollari per
sistemare le zone colpite dall’uragano.
In Giappone il primo ministro Junichiro Koizumi leader del
Pld, il Partito liberaldemocratico, di destra, vincitore assoluto delle
elezioni anticipate del settembre 2005, pur avendo conquistato per il suo
partito una maggioranza che da tempo non si vedeva nel Parlamento di Tokyo,
aveva confermato la sua decisione di lasciare il governo nel 2006. Da quel
momento è partita la corsa alla successione mentre una serie di scandali
hanno messo in crisi il premier. Al centro di tutto c’era la crisi
finanziaria del gruppo Livedoor e il coinvolgimento del ministero della
Difesa in questo scandalo. Ecco allora che la popolarità è crollata e la
corsa alla successione è diventata durissima e si è giocata sul tema dei
rapporti internazionali. Nel corso della crisi politico-diplomatica seguita
al lancio dei missili nordcoreani, il capo di gabinetto del governo,
Shinzo Abe si è mosso con forza per imporre una linea politica estera
particolarmente dura. Grazie a questa impostazione Abe si è rafforzato nella
corsa alla successione a Koizumi, in cui era contrapposto all’ex capo di
gabinetto Yasuo Fukuda, fautore di una politica internazionale ben
diversa da quella di Abe (Fukuda vuole rapporti migliori con la Cina e una
nuova apertura ai Paesi asiatici, in linea con la “dottrina Fukuda”,
inaugurata dal padre). Il 20 settembre Shinzo Abe ha preso il posto
di Koizumi alla guida del Pld e subito dopo alla guida del governo nazionale
giapponese. Taro Aso è stato confermato ministro degli Esteri. Il
nuovo premier ha diviso gli animi: gli avversari lo hanno definito un
pericoloso nazionalista mentre per i sostenitori sarà colui che riporterà il
Giappone sulla scena mondiale. Come vice capo di gabinetto, Abe accompagnò
Koizumi nel suo storico viaggio a Pyeongyang nel 2002. Dopo i test
missilistici nordcoreani di luglio, Abe si è detto molto favorevole alle
sanzioni economiche contro la Corea del Nord e alla necessità di sviluppare
la capacità offensiva del Giappone per garantirne la sicurezza. La crisi ha
rappresentato un punto di rottura nella tradizionale politica pacifista
giapponese e i cittadini si sono avvicinati alla visione di Abe che un tempo
sarebbe stata considerata troppo di destra. Da Pechino si guarda con
interesse al cambio al vertice giapponese. Il nuovo corso nazionalista
inaugurato da Abe prevede il potenziamento dell’esercito, mentre l’ala più
conservatrice del Pld, preme per creare un arsenale nucleare come deterrente
alla minaccia nordcoreana. In occasione dell’incontro tra il neopremier Abe
e il presidente George W. Bush (Hanoi, 14 novembre), il primo
ministro giapponese si è detto pronto ad attivare la propria contraerea nel
caso fossero rilevati missili in transito sul proprio territorio. Il
problema riguarda però i limiti imposti dalla Costituzione giapponese alle
possibilità di intervento delle forze di autodifesa. Già Koizumi,
aveva fatto una deroga al controverso articolo 9, autorizzando l’invio di un
contingente prima in Afghanistan e poi in Iraq. Ma le intenzioni di Abe
andrebbero ben oltre la semplice forzatura: il premier ha infatti parlato
della precisa volontà di redigere un nuovo testo costituzionale che consenta
al Paese di potenziare il proprio apparato di difesa. D’altro canto il
governo statunitense da tempo sta esercitando pressioni su Tokyo per
ottenere una revisione dell’articolo 9 in modo da potersi garantire un
bastione difensivo nei confronti delle “nuove minacce asiatiche”. La crisi
innescata dai test nucleari nordcoreani ha rafforzato questa posizione e
l’ala conservatrice del Pld ha chiesto l’apertura di un dibattito
parlamentare sul tema dello sviluppo nucleare del Paese, ritenendolo l’unico
deterrente efficace contro la politica aggressiva di Pyeongyang. A riprova
della nuova impostazione di Abe, il Senato ha approvato una legge, promossa
dal premier, che istituisce, per la prima volta dal dopoguerra, un ministero
della Difesa in sostituzione dell’attuale Agenzia della difesa.
In Indonesia, a due anni dallo tsunami che portò morte e distruzione
in tutto il Sud-Est asiatico, permangono molti problemi, no-nostante
l’arrivo di nuovi finanziamenti e l’apertura di nuovi cantieri. Ad Aceh,
provincia indonesiana di Sumatra, la più sconvolta di tutto il Sud-Est
asiatico (126.000 morti accertati, oltre 90.000 dispersi), mezzo milione di
rifugiati vivono ancora in casa dei parenti sopravvissuti, nelle tende
dell’Alto commissariato Onu o nelle baracche della Mezzaluna Rossa. Il
direttore del Brr, l’agenzia governativa per la ricostruzione di Aceh e Nias
fondata per coordinare il lavoro delle associazioni umanitarie ed evitare
sovrapposizioni tra i progetti, ha denunciato la disonestà e la mancanza di
professionalità di alcune organizzazioni non governative impegnate nella
ricostruzione (alcune delle Ong, tra le più grandi e famose, avrebbero
mentito circa i progressi raggiunti nei progetti loro affidati dal governo
indonesiano). Un’altra catastrofe si è abbattuta su Giava il 27 maggio
quando un terremoto ha causato quasi 6.000 morti. Il terremoto ha colpito
una zona molto popolata vicino alla città di Yogyakarta, lungo la costa sud
di Giava, con danni alle costruzioni in tutte le aree circostanti e nelle
città di Klaten, Kulon e Bantul. L’epicentro del terremoto è stato
localizzato nell’Oceano Indiano, 37 km a sud di Yogyakarta, ma
fortunatamente non ha dato origine a un’onda anomala. Il 17 luglio infine
l’incubo dello tsunami è tornato proprio su alcune di quelle terre che già
l’avevano vissuto: l’isola di Giava, è stata travolta da un’onda che ha
raggiunto i 4 m di altezza abbattendosi nella zona di Pangandaran, località
turistica situata a sud dell’isola. Un terremoto sottomarino pari a 7,2
gradi sulla scala Richter al largo dell’isola indonesiana, ha dato il via al
fenomeno: più di 300 morti, almeno 500 feriti e centinaia di dispersi, senza
contare gli oltre 50.000 senzatetto. Sono quindi divampate le polemiche
sulla mancata prevenzione di un fenomeno che il Paese aveva già sperimentato
con effetti catastrofici. Dopo lo tsunami del dicembre 2004, il governo
indonesiano aveva deciso di dotare l’arcipelago di un sofisticato sistema di
allarme che prevedeva la messa in opera di alcune boe galleggianti fisse, in
grado di avvertire in tempo reale dell’arrivo dell’onda anomala. Ma finora
solo due delle previste 25 boe di segnalazione sono state attivate e nessuna
nelle acque di Giava. E intanto pochi giorni prima la Tsunami Evaluation
Coalition (Tec), organizzazione con il compito di monitorare l’utilizzo dei
soldi raccolti a favore delle popolazioni indonesiane, aveva lanciato
l’allarme sul cattivo utilizzo dei fondi. Intanto il 26 gennaio il
presidente indonesiano Ausilio Bambang Yudhoyono ha presentato in
Parlamento un progetto di legge che concede un’ampia autonomia alla
provincia di Aceh, come previsto dall’accordo di pace firmato con i ribelli
del Gam (movimento Aceh libera) il 15 agosto 2005 a Helsinki. L’11 dicembre
si sono tenute le prime consultazioni libere in questa provincia
indonesiana, elezioni storiche dopo 29 anni di guerra civile che ha visto
opporsi il Gam alle feroci squadre speciali dell’esercito indonesiano. Era
stato proprio lo tsunami ad accelerare la ricerca di un accordo di pace per
porre fine a un conflitto indipendentista costato la vita ad almeno 15.000
persone. Accordo che contemplava l’amnistia per i ribelli, la consegna delle
armi da parte di questi ultimi, il ritiro delle truppe di occupazione,
l’autonomia per la provincia e diritto a godere del 70% dei proventi delle
risorse minerarie (gas e petrolio) di cui la provincia è ricca. Il Gam si è
presentato diviso tra coloro che fanno capo agli esuli rifugiatisi in Europa
durante la guerra civile e quelli che invece sostengono coloro che scelsero
di rimanere a combattere. Ai primi facevano riferimento Human Hamid e
Hasbi Abdullah, del Partito islamico moderato, il Ppp (Partai
Persatuan Pembangunan), ai secondi il favorito Yusuf Irwandi e
Muhammad Nazar, che correvano come indipendenti (fatto storico questo,
per l’Indonesia, dove la partecipazione alle elezioni è consentita solo a
membri di partiti). Poche erano le speranze appuntate sul candidato
filogovernativo, l’ex generale dell’esercito Djali Yusuf, che ha
impostato la campagna elettorale sulla distensione e la concordia con gli ex
ribelli. Alcuni candidati hanno promesso una più rigida ed estesa
applicazione della sharia ma gli abitanti di Aceh considerano la legge
islamica come la minore delle preoccupazioni. La popolazione chiede una
migliore istruzione, una sanità efficiente, miglioramenti economici e,
soprattutto, una decisiva accelerazione nel processo di ricostruzione. Le
consultazioni sono terminate con l’elezione a governatore della provincia di
Yusuf Irwandi, ex leader del Gam. Se ad Aceh la pace sembra tornata, il 22
settembre ad Atambua, a Timor Ovest, centinaia di cristiani armati di
machete e bastoni hanno bruciato auto, saccheggiato negozi, attaccato uffici
governativi e assaltato un carcere, liberando tutti i detenuti. I fatti sono
accaduti non lontano dal luogo d’origine dei tre cattolici giustiziati il
giorno precedente, dopo essere stati riconosciuti responsabili delle
violenze antimusulmane avvenute nell’isola di Sulawesi nel maggio 2000 e
costate la vita a 70 persone. Secondo il tribunale che li ha condannati a
morte i tre guidarono le milizie cattoliche che seminarono la morte in
quelle drammatiche giornate della stagione di violenze interreligiose,
durata in Sulawesi dal 1998 fino al 2002. Per gli oltre mille morti di quei
massacri – ci furono vittime di entrambe le religioni – nessun musulmano è
stato condannato alla pena capitale. Per questo, la fucilazione dei tre
cristiani è stata vissuta dalla comunità cattolica come una discriminazione
da parte di un governo dominato dalla maggioranza musulmana. Nella zone dove
sono scoppiate le violenze i cristiani sono la maggioranza, al contrario
dell’isola di Sulawesi, in cui rappresentano una ristretta minoranza. Sul
piano strettamente politico, tra marzo e aprile si sono svolte delle
imponenti manifestazioni contro la riforma del mercato del lavoro annunciata
dal governo. In seguito alle proteste all’inizio di aprile si è tenuto un
incontro tra i rappresentanti sindacali e il vicepresidente Jusuf Kalla
che ha assicurato ai lavoratori che le loro ragioni saranno tenute presenti
nella stesura della legge.
In Mongolia il 13 gennaio il Partito rivoluzionario e popolare
mongolo (Prpm, ex comunista) ha fatto cadere il governo guidato dal liberale
Tsakhigiin Elbegdorj (una coalizione tra ex partito comunista e
unione dei partiti democratici di ispirazione socialdemocratica e liberale),
ritirando i suoi dieci ministri dalla coalizione che era al potere dal 2004.
Gli ex comunisti hanno accusato il primo ministro di non aver fatto
abbastanza per combattere la corruzione e la povertà. Tuttavia la crisi
aperta dal Prpm non è stata ben accolta dalla popolazione che ha manifestato
contro gli ex comunisti accusandoli a loro volta di corruzione e cattiva
gestione economica. Secondo i liberali il Prpm avrebbe provocato la crisi
per ostacolare le misure contro la corruzione volute dal governo e richieste
dagli investitori stranieri presenti nel Paese. Il 16 gennaio il Prpm ha
designato quale nuovo premier l’ex sindaco di Ulan Bator, Miyeegombo
Enkhbold, da molti considerato come uno degli uomini più corrotti del
mondo politico mongolo. Gli esponenti della coalizione democratica hanno
annunciato che si rifiuteranno di partecipare ad un governo che sembra
essere nato solo ed esclusivamente per perpetrare il clima di corruzione
instaurato dal Prpm.
In Myanmar, senza tener conto delle proteste della comunità
internazionale, la giunta militare guidata dal generale Than Shwe ha
prorogato gli arresti domiciliari per la leader della Lega nazionale per la
democrazia e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi (27 maggio).
Il regime dell’ex Birmania continua a sorreggersi grazie alla compiacenza
del resto del mondo occidentale che, in cambio degli accordi economici e
dello sfruttamento del lavoro forzato del popolo birmano, impegnato nella
costruzione di gasdotti e nel disboscamento del teak, ha chiuso gli occhi di
fronte alla violenza e alla cancellazione di ogni minimo diritto sindacale,
che la giunta perpetuava a danno della popolazione anche a vantaggio degli
interessi delle multinazionali. Il mondo occidentale ha protestato quando il
potere birmano veniva meno agli accordi del Wto (Organizzazione mondiale del
commercio), ma tace di fronte alla perpetuazione dell’abuso e della
repressione. Ricordiamo infine che il 27 marzo la giunta militare ha
spostato la capitale da Yangon a Pyinmana, che è stata ufficialmente
rinominata Naypyidav, cioè “sede dei re”.
Il presidente di Taiwan, Chen Shui-bian, leader del Partito
democratico progressista, fautore dell’indipendenza dell’isola dalla
madrepatria, alla fine di gennaio in un discorso politico ha accennato a una
modalità di “formalizzazione” dell’indipendenza di Taiwan suscitando le ire
di Pechino che considera qualsiasi prospettiva di indipendenza
inaccettabile. Chen, in particolare, ha accennato al fatto che è giunto il
momento di considerare lo smantellamento del National Riunification Council,
l’organismo istituito a suo tempo da Taipei per esaminare la possibilità di
riunificazione. Da quando Chen è arrivato al potere l’organismo non si è mai
riunito, proprio in omaggio alla politica del Pdp pro-indipendenza, ma un
suo formale smantellamento significherebbe un messaggio politico chiaro alla
Cina. Pechino non intende accettare alcun passo verso una formale
indipendenza dell’isola e, pur di isolare politicamente Chen e porre le basi
per una futura riunificazione pacifica, ha stretto contatti e legami con i
vecchi nemici del partito nazionalista. Dal canto suo Chen è in declino di
popolarità e quindi cerca di rilanciare il tema dell’indipendenza per
riaffermarsi presso l’opinione pubblica taiwanese vicina al suo partito. Il
13 novembre due membri del Partito progressista democratico (Dpp, al
potere), Lee Wem-chung e Lin Cho-shui, si sono dimessi dal
Parlamento per protestare contro il presidente, coinvolto in uno scandalo di
corruzione. Chen, da mesi sotto accusa per appropriazione indebita, ha
rischiato di essere destituito. Tuttavia il Parlamento ha respinto la
mozione dell’opposizione su un referendum per destituirlo (24 novembre).
Il primo ministro Thaksin Shinawatra, importante imprenditore thai di
un grande impero di telecomunicazioni, aveva vinto ampiamente le ultime
elezioni parlamentari in Thailandia, assicurandosi per il partito da
lui stesso fondato, Thai Rak Thai (“i thailandesi amano i thailandesi”), 375
dei 500 seggi dell’Assemblea nazionale. Il successo della sua politica
economica, una strategia di forte sostegno al mondo rurale e di riforma
sanitaria in senso assistenziale, facevano prevedere un periodo di stabilità
politica. Il premier, nel suo discorso di insediamento al Parlamento, aveva
anche annunciato l’impegno a migliorare i diritti civili. Le principali
organizzazioni umanitarie lo hanno condannato per violazione dei diritti
umani in più di una occasione: per combattere il narcotraffico ha permesso
l’uccisione di 2.275 persone in esecuzioni extragiudiziali e
l’imprigionamento di molte altre nei cosiddetti “detox camp”, campi
di disintossicazione più simili a carceri di massima sicurezza. Nel Sud,
poi, dove si verificano da oltre due anni attentati da parte dei radicali
musulmani, ha ordinato alla polizia di usare ogni mezzo per riportare
l’ordine. Contrariamente alle premesse, il primo ministro ha fatto di nuovo
ricorso alle leggi speciali per cercare di sedare la crisi nel Sud senza
tener in alcun conto le raccomandazioni degli organismi umanitari. Non solo,
Shinawatra ha anche cercato di attaccare la libertà di informazione. Ma la
goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’annuncio, all’inizio del
2006, della vendita delle quote di famiglia della sua società Shin
Corporation, ad una finanziaria di Singapore, la Tamasek Holdings. Il tutto
senza pagare tasse. A questo punto la società civile di Bangkok, guidata
dalla cosiddetta Alleanza del popolo per la democrazia (People’s Alliance
for Democracy, Pad, molto più vivace dell’opposizione parlamentare del
Partito democratico) si è ribellata. Per tre domeniche, grandi folle di
manifestanti si sono radunate nella piazza del Palazzo Reale chiedendo le
dimissioni di Thaksin, accusato di corruzione, abuso di potere e insider
trading. Di fronte al crescere delle proteste, il premier prima ha sciolto
il Parlamento (24 febbraio) e ha indetto elezioni anticipate per il 2 aprile
(con tre anni di anticipo rispetto alla scadenza del mandato), poi ha
convocato una manifestazione di suoi seguaci a Bangkok, andando nei
distretti rurali dove gode ancora di un forte appoggio popolare, e infine ha
ripetutamente respinto le richieste di dimissioni. Dopo lo scioglimento del
Parlamento le manifestazioni di protesta si sono fatte sempre più
consistenti e i partiti di opposizione, guidati dai democratici, hanno
annunciato il boicottaggio delle elezioni. I seguaci del premier contavano
sul fatto che, mentre Bangkok gli è fortemente ostile, il mondo contadino
gli è ancora largamente favorevole. Una bomba è scoppiata davanti
all’abitazione di un ex primo ministro thailandese, ora capo dei consiglieri
del re, aggravando ulteriormente la crisi politica e molte forze, della
stessa opposizione, hanno spinto per un intervento della monarchia contro il
primo ministro che, nonostante le proteste incessanti, ha continuato la
campagna elettorale. Anche nel corso dell’ultimo week-end preelettorale,
migliaia di manifestanti si sono riversati nelle strade di Bangkok,
chiedendo le dimissioni di Shinawatra. Subito dopo il premier ha annunciato
la disponibilità del Thai Rak Thai a formare un governo di unità nazionale
con la partecipazione dell’opposizione, ma solo nel caso in cui il suo
partito non avesse ottenuto almeno il 50% più uno dei voti. L’opposizione ha
respinto l’ipotesi che ha scatenato le veementi reazioni dei vari
schieramenti in gioco. Le consultazioni sono terminate con la vittoria del
Thai Rak Thai che ha ottenuto il 57% dei voti, un risultato inferiore alle
aspettative e che non avrebbe garantito al primo ministro un mandato “forte”
per formare un nuovo governo. Shinawatra, tenuto conto del forte
astensionismo nella capitale, oltre che di quello nel Sud, dove dal gennaio
2004 è in corso un’insurrezione musulmana contro le comunità buddhiste (il
maggior sostegno al premier è venuto dalle campagne e dal Nord, le zone più
povere del Paese, catturate dalla sua politica populista), il 4 aprile ha
annunciato le sue dimissioni dopo un incontro, decisivo, con il re
Bhumibol Adulyadej. Thaksin ha detto di aver preso la decisione per
rispetto del re che quest’anno festeggia i sessant’anni sul trono. Ma la
vera ragione è che Thaksin non ha ricevuto quel consenso popolare a cui
puntava: il suo partito ha ottenuto la maggioranza dei suffragi, ma
l’astensionismo ha raggiunto il 40% e, nonostante l’assenza di partiti di
opposizione, il Thai Rak Thai ha conquistato meno seggi di quanti ne aveva
conquistati nelle ultime elezioni del 2005. Dopo l’annuncio delle
dimissioni, la Borsa di Bangkok ha immediatamente guadagnato più di tre
punti percentuali: dimostrazione che anche il mondo dell’economia e della
finanza avevano perso fiducia in Thaksin. Con le dimissioni del primo
ministro da un lato si è chiusa una fase della crisi politica, dallla
ricerca di una nuova unità della nazione è parsa complicata. Thaksin infatti
è stato battuto dai ceti colti della capitale, ma i contadini hanno
continuato a sostenerlo e il suo partito resta maggioritario. L’8 maggio la
Corte costituzionale ha annullato le legislative del 2 aprile giudicandole
non valide in quanto Thaksin aveva scelto la data del voto senza
consultazioni, non era stata garantita la segretezza del voto e la
Commissione elettorale aveva certificato il risultato in modo irregolare. La
Corte ha poi indetto nuove elezioni entro 60 giorni. Infine il 19 settembre,
mentre Shinawatra era a New York per l’Assemblea generale dell’Onu, carri
armati si sono mossi verso il centro di Bangkok, bloccando le vie di accesso
al quartier generale del governo. Facendo leva sul malcontento popolare e
sul sostegno dell’opposizione guidata dai democratici, il comandante
dell’esercito, il generale Sonthi Boonyaratglin, ha preso il potere:
dopo aver giurato fedeltà al re, Sonthi ha sospeso la Costituzione e il
Parlamento, decretando la legge marziale. Ha imposto la censura sulla stampa
nazionale ed estera “per bloccare la disinformazione” e ha insediato al
potere una giunta militare provvisoria da lui presieduta, denominata
Consiglio per la riforma amministrativa (Arc), promettendo la nomina di un
governo civile che avrà il compito di scrivere una nuova Costituzione e di
indire elezioni nell’ottobre del 2007. La gran parte dei thailandesi ha
appoggiato questo incruento colpo di Stato ed è grata al generale per aver
tolto di mezzo il primo ministro Thaksin Shinawatra. Non v’è più dubbio che
si siano mossi all’unisono militari e casa reale, col tacito avallo
dell’opposizione e l’appoggio di gran parte della popolazione. Proprio la
tiepida opposizione del leader del Partito democratico Abhisit Vejjajiva,
conferma che si è trattato di un golpe istituzionale appoggiato da re
Bhumibol. La giunta militare ha quindi nominato primo ministro il generale
in pensione Surayud Chulamont (1° ottobre).
A quattro anni dall’indipendenza dall’Indonesia, il degrado sociale e
l’instabilità continuano ad affliggere Timor Est. Il 17 marzo oltre
un terzo dei soldati regolari (circa 600 persone) sono stati licenziati in
massa dal primo ministro, Mari Alkatiri, dopo che non si erano
presentati per un mese in caserma per protestare per i bassi salari e il
nepotismo. I soldati licenziati, il 40% delle Forze armate, lamentavano
anche discriminazioni su base etnica. La maggior parte dei comandanti che
occupano i posti chiave è originaria dell’Ovest del Paese e appartiene
all’etnia lorosae. Le reclute invece, quelle che sono scese in sciopero,
originarie dell’Est e di etnia loramonu, hanno denunciato di essere vittime
di discriminazioni, essendo meno pagate degli altri militari. Un malcontento
analogo riguarda la maggior parte della popolazione, che si aspettava di più
dal presidente José Alexandre Xanana Gusmao. Secondo il
rapporto del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite il 40% degli abitanti
di Timor Est è povero; l’accesso a educazione e cure mediche è inadeguato e
60 bambini su 1.000 muoiono entro il primo anno di età; l’aspettativa di
vita è di 55 anni e metà della popolazione non ha l’acqua potabile. La
situazione è drammatica soprattutto nelle campagne, dove l’80% delle
famiglie vive grazie ai proventi dell’agricoltura di sussistenza. La
situazione si è fatta incandescente alla fine di aprile quando la polizia ha
represso violentemente una manifestazione in sostegno dei soldati ribelli (5
persone sono morte), guidati dal maggiore della polizia militare Alfredo
Alves Reinado, ribelli che hanno trovato rifugio sulle colline a Sud di
Dili dichiarando guerra alle autorità governative. All’interno del Fretilin,
il partito nato dal movimento che ha combattuto contro il dominio
indonesiano, è in corso una lotta di potere. I “riformatori”, cioè gli
esponenti più anziani, hanno chiesto le dimissioni di Alkatiri, perché non
sarebbe stato in grado di gestire la rivolta militare e di porre fine a
disoccupazione e povertà. Il 20 maggio mentre si celebrava il quarto
anniversario dell’indipendenza di Timor Est dall’Indonesia, l’Australia
posizionava per precauzione navi da guerra nelle sue acque settentrionali
pronte a intervenire qualora lo avessero chiesto Dili e le Nazioni Unite.
Migliaia di persone sono fuggite terrorizzate dalla capitale devastata dai
disordini e i morti sono stati almeno una ventina. Il ministro degli Esteri
José Ramos-Horta ha chiesto l’intervento di truppe straniere e dalla
sera del 25 maggio, i militari australiani hanno preso possesso
dell’aeroporto e pattugliato con blindati il centro cittadino. Violenti
scontri si sono verificati nella notte del 30 maggio, soprattutto nel
quartiere orientale di Becora: nove poliziotti ribelli sotto protezione Onu
sono stati uccisi e 27 persone sono rimaste ferite. L’Indonesia ha chiuso la
frontiera con Timor Est e il presidente Gusmao ha proclamato lo stato
d’emergenza. Il 26 giugno il primo ministro Alkatiri si è dimesso dopo un
braccio di ferro con il presidente Xanana Gusmao che ha chiesto anche le
dimissioni del ministro della Difesa Roque Rodrigues a causa della
discriminazione del gruppo etnico dei loramonu da parte dei lorosae. Secondo
alcuni analisti il vero problema non sarebbe etnico, ma economico e
riguarderebbe il controllo politico delle vaste riserve di petrolio e gas
naturale del Paese. I sostenitori del premier hanno reagito minacciando di
marciare su Dili dove sono scoppiate nuove violenze. Ci sono stati attacchi
contro le minoranze etniche e decine di edifici sono stati dati alle fiamme.
La crisi politica si è risolta l’8 luglio con la nomina a primo ministro del
premio Nobel per la pace José Ramos-Horta, che svolgeva le funzioni
di coordinamento dei ministri dopo le dimissioni di Alkatiri. Ramos-Horta
dovrà guidare il Paese fino alle elezioni generali del 2007.
In Vietnam l’Assemblea nazionale ha eletto capo dello Stato Nguyen
Minh Triet, un riformatore, in sostituzione di Tran Duc Luong,
che è andato in pensione, mentre Nguyen Tan Dung è il nuovo primo
ministro al posto di Phan Van Khai (27 giugno): l’obiettivo del
rimpasto è quello di favorire le riforme economiche e l’integrazione
internazionale del Paese. Intanto l’8 aprile centinaia di persone hanno
firmato e pubblicato il Manifesto per la libertà e la democrazia in Vietnam.
Il gruppo si è trasformato in un movimento democratico che conta un migliaio
di aderenti ed è noto come Blocco 8.4.06, così chiamato per la data in cui è
stato presentato il programma. Si tratta della sfida politica più decisa
lanciata al potere monolitico del Partito comunista. Il 22 agosto il
movimento ha presentato una proposta in quattro fasi per la
democratizzazione del Paese, chiedendo il ripristino delle libertà civili,
l’istituzione dei partiti politici, la stesura di una nuova Costituzione e
l’elezione democratica di un’Assemblea nazionale incaricata di avviare le
riforme. Il governo ha reagito duramente all’apparizione del nuovo gruppo:
molti membri del Blocco 8.4.06 sono stati fermati, interrogati e torturati.
La repressione del movimento indica che i nuovi leader del Partito non hanno
intenzione di realizzare nessuna riforma politica sul modello di quelle
economiche e finanziarie. Il Blocco 8.4.06 ha chiesto ripetutamente alla
comunità internazionale di appoggiare la sua battaglia per la democrazia.