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ASIA.

La politica. 2006

Il 2006 è stato un anno di estreme tensioni in Medio Oriente con l’emergere di un governo islamista in Palestina, il precipitare della situazione in Iraq, il conflitto fra Israele ed Hezbollah nel Sud del Libano, il ritorno dei talebani in Afghanistan, il riemergere di un nazionalismo aggressivo a Teheran, l’esecuzione di Saddam Hussein. L’anno si è aperto con le piazze del mondo arabo in fiamme dopo la pubblicazione (settembre 2005) sul quotidiano danese “Jyllands-Posten” di alcune vignette raffiguranti il profeta Maometto in modo offensivo per i fedeli musulmani (una in particolare che ritrae il Profeta con un turbante-bomba, come fosse un kamikaze). Alcuni rappresentanti della comunità islamica danese si sono rivolti al direttore e all’editore del “Jyllands Posten” chiedendo le scuse ufficiali, ma nessuno ha dato loro ascolto, come non ha dato loro ascolto il primo ministro danese Anders Fogh Rasmussen, che non ha ritenuto opportuno scusarsi pubblicamente. A metà novembre sono cominciate dunque le prime manifestazioni in Arabia Saudita con la richiesta di boicottaggio delle merci provenienti dalla Danimarca. La rabbia si è diffusa lentamente nel mondo islamico fino a quando, a fine gennaio, un quotidiano norvegese ha dato spazio alla vicenda ripubblicando le vignette. A quel punto l’onda di protesta si è diffusa prepotentemente. Tredici persone sono morte (undici in Afghanistan, una in Somalia e una in Libano) durante le manifestazioni che si sono tenute a gennaio nelle quali sono state incendiate le ambasciate di Danimarca e Norvegia a Damasco e il Consolato danese a Beirut. I media occidentali hanno riprodotto le immagini blasfeme invocando il principio della libertà di stampa, ma nel mondo arabo e tra le comunità musulmane l’offesa si è trasformata in protesta violenta. Il 4 febbraio migliaia di manifestanti hanno sfilato per le strade delle maggiori città islamiche, da Istanbul a Tripoli, da Gerusalemme a Giacarta, sotto le rappresentanze diplomatiche di quei Paesi europei che hanno “oltraggiato l’Islam”. Esaminiamo ora quanto accaduto nelle diverse aree del continente asiatico partendo dall’area calda del Medio Oriente.
Il 23 gennaio, il re dell’Arabia Saudita Abdullah bin Abdulaziz al-Saoud è arrivato a Pechino dove ha siglato con il regime cinese una serie di accordi di “partnership energetica e strategica” e il giorno seguente era in India dove è stato ricevuto dal primo ministro Manmohan Singh: anche qui ha firmato una serie di intese energetiche. Questa missione asiatica di Abdullah è senza precedenti e sarebbe anche la prima missione estera come sovrano: insomma il re dell’Arabia Saudita ha deciso di dare moltissima importanza ai nuovi legami con le grandi potenze dell’Asia emergente. D’altro canto India e Cina sono i maggiori mercati in crescita per i produttori di petrolio e di gas. L’Arabia Saudita ha annunciato anche un gigantesco piano di acquisizione di armamenti, soprattutto europei. Uno degli effetti diretti più evidenti di ogni incremento del prezzo del petrolio è l’impennarsi della spesa militare: del resto, le entrate del greggio producono un surplus di valuta pregiata che viene utilizzata per fare acquisti di prodotti ad alta tecnologia.
Negli Emirati Arabi, la realizzazione dell’ennesima costruzione eccentrica di Dubai, la torre Burj Dubai, è stata possibile grazie allo sfruttamento disumano di lavoratori stranieri immigrati, provenienti in prevalenza dall’Estremo Oriente. Per questo in marzo gli operai che lavorano al progetto hanno iniziato uno sciopero, chiedendo salari più adeguati (il salario giornaliero per un operaio specializzato è di circa 6 euro, per un operaio senza qualifica meno di 4 euro) e condizioni di lavoro più umane: per tutta risposta gli sceicchi dell’emirato hanno reagito mandando la polizia a caricare i dimostranti. La classe dirigente non poteva tollerare che l’attrazione esercitata da questo Paese sugli investitori stranieri venisse compromessa da questo sciopero. Da anni negli Emirati si lavora per rendere il Paese attraente per i capitali stranieri che qui trovano le migliori condizioni d’investimento e un costo del lavoro tra i più bassi del mondo. è il caso di tutti i cosiddetti “elefanti bianchi”, una serie di costruzioni eccentriche che hanno ridisegnato il profilo degli Emirati, contribuendo a far conoscere il Paese nel mondo: purtroppo tutto si basa sullo sfruttamento degli immigrati che rappresentano ormai la metà della popolazione. Sul piano politico, le prime elezioni legislative nella storia del Paese (16 dicembre) hanno assegnato un seggio a una donna, Amal Abdallah al Kubaissi. Si votava per eleggere 20 dei 40 membri del Consiglio nazionale federale, organo che ha poteri consultivi. Gli altri membri sono nominati dai sette emiri che controllano il Paese.
In Kuwait è morto l’emiro Jaber al-Ahmed al-Sabah che guidava l’emirato dal 1978 (15 gennaio). Il nuovo emiro è il principe ereditario Sheikh Saad al Abdallah al-Salem al-Sabah che però è stato destituito dal Parlamento perché gravemente malato. Al suo posto è stato quindi nominato (21 gennaio) il primo ministro Sabah al-Ahmad al-Jabir al-Sabah che dovrà a sua volta nominare un nuovo primo ministro e un principe ereditario. A causa delle polemiche suscitate dal progetto di riforma elettorale sostenuto dall’opposizione (che voleva la riduzione da 25 a 5 delle circoscrizioni elettorali per mettere fine ai brogli e alle logiche tribali), l’emiro ha poi sciolto il Parlamento (21 maggio) e ha indetto elezioni anticipate per il 29 giugno. Le consultazioni, a cui per la prima volta hanno partecipato anche le donne, sono terminate con la vittoria dei partiti dell’opposizione che hanno ottenuto 33 dei 50 seggi, 17 dei quali conquistati dagli islamici sunniti. Lo sceicco ha poi nominato premier Nasser Mohammad al-Ahmad al-Sabah.
Nell’Oman il sultano Qabous ben Said al-Said, alla fine, ha ceduto e, su pressione del governo statunitense, ha concesso il diritto di scioperare e di organizzarsi in sindacati. Queste riforme fanno parte di un pacchetto di leggi approvate dal sultano per riformare il diritto del lavoro, a margine di un trattato commerciale bilaterale stipulato con gli Usa. Prima di sottoscrivere l’accordo, Washington ha dovuto imporre all’emirato una serie di riforme strutturali del mercato del lavoro perché i lavoratori erano in una condizione di semi-schiavitù. Qabous, visto che l’Oman, a differenza dei Paesi vicini, non dispone di riserve petrolifere e di gas naturale, non poteva permettersi di perdere l’accordo commerciale e ha deciso di promulgare la legge che avvicina la normativa del lavoro del Paese ai parametri dell’Organizzazione internazionale del lavoro.
In Iran l’anno si è aperto con l’annuncio del governo della ripresa delle attività nucleari e la rimozione dei sigilli delle Nazioni Uniti da alcuni siti di ricerca. L’Iran, che in quanto parte del Trattato di non proliferazione nucleare (Tnp) si è impegnato a non produrre o acquisire in altro modo armi o altri congegni esplosivi atomici, è sospettato di avere segretamente sviluppato un programma nucleare militare. In base a un accordo di garanzia stipulato con l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea), l’organismo Onu che sovrintende alla cooperazione internazionale nella tecnologia nucleare civile, l’Iran è obbligato ad informare l’Aiea delle sue attività nucleari ed è sottoposto al regime di ispezioni dell’agenzia. L’Iran ha anche firmato, ma non ratificato, un protocollo aggiuntivo all’accordo di garanzia, in base al quale acconsente su base volontaria ad un regime di ispezioni più intrusivo. Teheran ha negato la destinazione militare del suo programma e ha rivendicato il “diritto inalienabile”, sancito dal Tnp, a sviluppare tecnologie nucleari per scopi civili. Sulla base delle informazioni in loro possesso, gli Stati Uniti e l’Unione europea ritengono invece che l’Iran abbia intenzione di dotarsi di armi nucleari o almeno della tecnologia necessaria a tale scopo, benché finora non siano emerse prove concrete in tal senso. Gli Stati Uniti, che non hanno relazioni diplomatiche con l’Iran e mantengono un regime unilaterale di sanzioni, hanno più volte sostenuto la necessità di far ricorso a mezzi coercitivi, comprese le sanzioni internazionali, e non hanno escluso l’ipotesi dell’uso della forza armata. L’Ue ha invece rapporti diplomatici ed economici con l’Iran, soprattutto per quanto riguarda l’approvvigionamento energetico, e ha sempre indicato nella diplomazia lo strumento per risolvere il contenzioso. Infine la Russia e la Cina, entrambi membri permanenti del Consiglio di sicurezza e quindi con potere di veto sulle risoluzioni, hanno buoni rapporti economici ed energetici con l’Iran. La Russia non ha mai appoggiato l’ipotesi delle sanzioni, proponendosi come mediatore. Ugualmente la Cina si è sempre detta contraria. Il contenzioso ruota attorno alla capacità da parte dell’Iran di procedere all’arricchimento dell’uranio, un procedimento necessario alla produzione di energia, ma facilmente convertibile per uso militare. Benché l’Iran abbia permesso agli ispettori dell’Aiea di procedere alle verifiche, l’Aiea ha più volte lamentato che la cooperazione offerta non è soddisfacente. Tra l2003 e l’estate 2005 i cosiddetti Ue-3 (Francia, Germania e Gran Bretagna) hanno trattato per conto dell’Ue con l’Iran, nel tentativo di dissuaderlo dal perseguire le proprie ambizioni nucleari e hanno chiesto a Teheran il congelamento a tempo indeterminato dell’arricchimento dell’uranio. In cambio, l’Ue ha offerto la fornitura del materiale fissile (uranio altamente arricchito o plutonio) necessario alla produzione di energia. Nel novembre 2004, in base al cosiddetto “accordo di Parigi” con l’Ue-3, l’Iran ha acconsentito ad un congelamento temporaneo e volontario dell’arricchimento dell’uranio per la durata dei negoziati. L’Iran ha però sempre riaffermato il suo diritto, riconosciuto dal Tnp, di arricchire l’uranio. A partire da marzo 2005, gli sforzi europei hanno ricevuto l’approvazione degli Stati Uniti che in precedenza avevano mostrato grande scetticismo sul negoziato. Nell’agosto 2005 l’Iran ha rifiutato l’ultima proposta europea, sostenuta anche dagli Usa, e ha riattivato un impianto per la conversione dell’uranio, un procedimento preliminare all’arricchimento. L’Ue ha quindi interrotto le trattative e appoggiato la richiesta americana di deferire la questione al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Parallelamente nell’autunno 2005 la Russia ha avanzato una proposta di mediazione, in base alla quale l’uranio per le centrali iraniane verrebbe arricchito in Russia e poi trasportato in Iran. In gennaio Teheran ha annunciato di voler riprendere attività legate all’arricchimento dell’uranio vero e proprio e il 5 febbraio il Consiglio dei governatori dell’Aiea ha approvato una risoluzione che deferisce l’Iran al Consiglio di sicurezza dell’Onu per inadempienza ai suoi obblighi con l’Agenzia: la risoluzione è passata con il voto favorevole dei cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza. Ogni misura contro l’Iran è stata però sospesa fino alla presentazione del rapporto del direttore generale dell’Aiea, Mohammed El Baradei. Dal canto suo l’Iran ha reagito con durezza alla decisione sul deferimento del dossier all’Onu, annunciando la sospensione delle ispezioni a sorpresa e minacciando per bocca del presidente Mahmoud Ahmadinejad, il ritiro dal Tnp. Il rapporto di El Baradei ha poi riferito che l’Aiea non è in grado di stabilire, a causa della mancata cooperazione, se in Iran abbiano luogo attività nucleari non dichiarate. Il caso è passato quindi nelle mani del Consiglio di sicurezza che in aprile ha approvato all’unanimità una dichiarazione che ha concesso all’Iran trenta giorni di tempo per sospendere le attività di arricchimento dell’uranio e riprendere la collaborazione con l’Aiea, ma Teheran ha respinto l’ultimatum, anzi il 9 aprile ha annunciato di essere riuscita ad arricchire l’uranio al 3,5% (per sfruttarlo a fini militari l’uranio dovrebbe essere arricchito all’80%). Il 28 aprile l’Aiea ha decretato che l’Iran non collabora con l’Onu e che ha l’uranio necessario a svolgere il suo programma nucleare. Si è aperta così la strada per le sanzioni internazionali e, almeno in teoria, si è avvicinata di un passo una possibile soluzione militare sostenuta dagli Usa. Ma per ora il gioco resta nelle mani di Teheran: le sanzioni infatti potrebbero tradursi in un nuovo shock petrolifero e questo non lo vuole nessuno. L’8 maggio il presidente Ahmadinejad ha scritto una lettera al presidente degli Stati Uniti proponendo negoziati diretti tra i due Paesi: si è trattato della prima comunicazione al vertice dal 1979. Lo stesso giorno Gran Bretagna e Francia hanno presentato al Consiglio di sicurezza una bozza di risoluzione sul programma nucleare iraniano in cui si invita Teheran a sospendere il programma di arricchimento dell’uranio, senza parlare esplicitamente di sanzioni, ma facendo riferimento al cap. 7 della carta dell’Onu. Russia e Cina si sono però dichiarate contrarie. Il 6 giugno l’Alto rappresentante dell’Ue per la politica estera, Javier Solana, ha presentato a Teheran un piano per la soluzione della crisi: esso prevede che l’Iran sospenda le sue attività di arricchimento dell’uranio fino a quando non sarà provato che hanno scopi pacifici. La crisi in Libano ha fatto slittare la nuova riunione del Consiglio di sicurezza prevista per il 17 luglio. I leader del G8, conclusosi a Mosca il 17 luglio, hanno invitato il governo iraniano ad accettare un pacchetto di aiuti economici e tecnologici in cambio dell’interruzione dell’arricchimento dell’uranio. Il 20 luglio Francia, Gran Bretagna e Germania hanno presentato al Consiglio di sicurezza un progetto di risoluzione che chiede all’Iran di sospendere l’arricchimento dell’uranio: in caso contrario sono previste sanzioni politiche ed economiche. Teheran ha rifiutato di sospendere l’arricchimento alla scadenza dell’ultimatum delle Nazioni Unite (il 31 agosto), anche se in un colloquio con Kofi Annan il presidente Ahmadinejad si è detto disposto a partecipare a dei negoziati senza però pre-condizioni sul programma nucleare. L’11 dicembre infine Francia e Gran Bretagna hanno presentato al Consiglio di sicurezza dell’Onu la nuova bozza di risoluzione, risultato di una lunga discussione che ha coinvolto per mesi i due Paesi insieme a Germania, Stati Uniti, Russia e Cina. Nel testo, Francia e Gran Bretagna hanno fatto un ulteriore passo avanti per venire incontro alle resistenze della Russia e hanno ristretto il ventaglio delle sanzioni. Il bando alle vendite è stato limitato ai soli prodotti più pericolosi per la fabbricazione di armi nucleari. Alla Russia, inoltre, sarà consentito proseguire nella costruzione del reattore nucleare di Bushehr. Per convincere Teheran a obbedire alla risoluzione tuttavia, i due Paesi promotori della risoluzione hanno lasciato inalterato il divieto per tutti i Paesi di offrire assistenza nucleare all’Iran e istruzione agli studenti. Mosca è contraria a queste due ultime sanzioni e non ha per il momento lasciato capire se potrebbe rinunciare al suo diritto di veto all’interno del Consiglio di sicurezza permettendo alla risoluzione di passare. L’anno si è chiuso con la sconfitta dei candidati ultraconservatori vicini al presidente Ahmadinejad alle elezioni amministrative e in quelle per il rinnovo del Consiglio degli esperti (che ha il compito di nominare, controllare e destituire la guida suprema), vinte dai conservatori moderati e dai riformisti (15 dicembre). L’ex presidente Akbar Hashemi Rafsanjani è arrivato in testa nello scrutinio per il Consiglio ottenendo il doppio dei voti dell’ayatollah ultraconservatore Mohammad Taghi Mesbah Yazdi.
Le notizie che ogni giorno si sono susseguite dall’Iraq si compongono quasi esclusivamente di macabri dati numerici, che riguardano il conto delle vittime e dei feriti causati dal nuovo, quotidiano attentato, in una spirale di violenza che sembra inarrestabile. I morti sono il risultato non solo degli scontri tra le forze americane e i nostalgici del regime, ma soprattutto di una guerra settaria che vede contrapposte le diverse confessioni religiose del Paese, producendo almeno cento morti al giorno secondo le stime delle Nazioni Unite. Di fronte all’incessante bagno di sangue su base confessionale, ha cominciato a farsi sempre più strada l’idea di promuovere in maniera aggressiva un piano di radicale partizione del Paese. La prospettiva di un Iraq decentralizzato ha guidato per decenni i gruppi di opposizione al regime, sciiti e curdi, che, una volta arrivati al potere, hanno tentato in ogni modo di indebolire il governo centrale. La Costituzione approvata nel referendum del 2005 ne è l’espressione, nonostante la quasi unanime opposizione dei sunniti. La regione settentrionale dell’Iraq, a maggioranza curda, costituisce una sorta di enclave a se stante già da una quindicina di anni e si considera indipendente dal potere centrale, al punto da aver abrogato la bandiera irachena. Prendendo ispirazione dal modello curdo molti leader sciiti, e numerosi esponenti religiosi, hanno già cominciato a sfruttare le manifestazioni di piazza e le prediche del venerdì per infiltrare tra le masse sciite, disperate ed esauste dalla guerra, l’idea che una regione autonoma al Sud possa fermare la carneficina. D’altro canto i critici non credono che alcun tipo di separazione tra sunniti e sciiti possa rendere il Paese più sicuro e anzi avvertono che spezzettare le province su base confessionale rappresenterebbe un cataclisma paragonabile alla divisione del Pakistan dall’India del 1947. In gennaio l’uomo conosciuto come il capo di Al Qaeda in Iraq, il giordano Abu Musab Al Zarqawi, annunciava la formazione del Mujaheddin Shura, una coalizione di gruppi combattenti legati alla “rete internazionale del terrore”. Questo Consiglio dei mujaheddin sarebbe una risposta all’istituzione, da parte di diverse tribù sunnite della provincia di Anbar, di comitati per la sicurezza chiamati Cellule del popolo, che hanno l’obiettivo di fermare i gruppi responsabili di massacri indiscriminati, oltre che dell’uccisione di diversi capi tribali e religiosi moderati. La formazione di queste due coalizioni nasce dal mutato clima, segnato dalla partecipazione dei sunniti alle elezioni del 15 dicembre e dai primi colloqui tra alcuni gruppi di insorti iracheni ed esponenti della coalizione occupante. Due note bande armate hanno rifiutato di aderire al Mujaheddin Shura, probabilmente perché in disaccordo con la linea sanguinaria di Al Zarqawi: si tratta dell’Esercito islamico in Iraq e di Ansar al Sunna. Le tensioni tra gruppi armati iracheni e i “qaedisti” del Mujaheddin Shura sono esplose definitivamente dopo l’attentato, rivendicato da Al Qaeda, che a inizio gennaio ha ucciso 56 poliziotti sunniti di Ramadi. Da allora, gli scontri tra formazioni armate si sono moltiplicati in un crescendo di uccisioni mirate. Ad alimentare la tensione tra sciiti e sunniti hanno contribuito i colloqui tra rappresentanti del Pentagono e alcuni gruppi ribelli iracheni. I colloqui volti ad elaborare una strategia comune contro Al Qaeda sono stati confermati dal settimanale statunitense “Newsweek”, secondo cui gli incontri si sarebbero tenuti nelle basi militari Usa della provincia di Al Anbar, in Giordania e in Siria. I gruppi ribelli con cui sono in corso i colloqui sarebbero ex baathisti, fazioni islamiche, ex agenti della Guardia repubblicana e dei servizi segreti di Saddam, oltre a diverse tribù sunnite. I contatti in corso sono stati criticati da diversi esponenti politici sciiti. D’altro canto tra le richieste principali che i gruppi ribelli hanno avanzato ai negoziatori statunitensi, ci sarebbe quella di contenere l’ingerenza iraniana nel Paese. Una delle prime conseguenze del dialogo aperto con le tribù sunnite dell’Anbar (dove si sono consumate il 30% delle perdite di soldati Usa) è stata la decisione del primo ministro Ibrahim al Jaafari di sostituire le forze Usa con milizie locali, grazie a un accordo in cui i capi tribali si impegnano a dare la caccia ai combattenti stranieri. Mentre dunque le forze della coalizione tentano di ricacciare fuori dal Paese i combattenti di Al Qaeda, i tre principali gruppi etnici conducono una durissima battaglia tra di loro per consolidare o incrementare il potere acquisito con le elezioni politiche di dicembre. Il 22 febbraio, a Samarra (uno dei vertici del famigerato “triangolo sunnita”: gli altri due sono Baghdad e Ramadi), è stata data alle fiamme la cupola d’oro del mausoleo di Al Askari, uno dei luoghi di culto sciita più venerati al mondo, dove si trovano le spoglie di Alì al-Hadi e del figlio Hassan al-Askari, rispettivamente decimo e undicesimo imam degli sciiti. Samarra, pur ospitando uno dei santuari sciiti più sacri, è una città a maggioranza sunnita e la guerriglia irachena ha spesso preso di mira edifici sacri e luoghi di culto sciiti. L’attacco ha scatenato la rabbia della comunità sciita: 27 moschee sunnite sono state date alle fiamme a Baghdad e sei persone, tra cui tre imam, sono state uccise. L’attentato ha riportato l’attenzione su un altro aspetto drammatico del conflitto in Iraq, oltre a quello del deterioramento progressivo dei rapporti interconfessionali, ovvero la distruzione del patrimonio artistico iracheno, con le sue millenarie opere d’arte. Le violenze interconfessionali non erano una novità, ma la distruzione di un simbolo del credo sciita ha peggiorato la situazione, portando il Paese sull’orlo della guerra civile. In questo senso non ha aiutato la paralisi del Parlamento iracheno che, a tre mesi dalle elezioni, non era ancora riuscito a eleggere un presidente dell’Assemblea, un governo e un primo ministro. Sempre più sembra che la guerriglia, dominata da elementi sunniti, stia cercando di provocare la reazione della comunità sciita irachena che, oltre a rappresentare il 60% della popolazione, ha vinto le elezioni irachene e si prepara a governare. Da due anni a questa parte si sono moltiplicati anche gli episodi che vedono gruppi di sunniti rapiti da uomini armati, con le uniformi della polizia irachena, e poi ritrovati abbandonati in fosse comuni con un proiettile in testa. Il governo iracheno, al termine di un’inchiesta sulle violenze settarie contro i sunniti, ha ammesso che le squadre della morte esistono, e danno la caccia ai sunniti con la copertura delle forze di sicurezza, sono infiltrate nella polizia, armate dall’Iran e compromesse con il ministero dell’Interno. L’inchiesta è partita dopo che il maggiore Joseph Peterson, responsabile Usa per la formazione delle Forze armate irachene, ha annunciato la scoperta di una squadra della morte che operava con divise e distintivi del ministero dell’Interno (5 febbraio). Il comportamento imparziale della polizia irachena è un elemento cruciale alla soluzione del conflitto: solo quando i corpi armati iracheni saranno autonomi le forze della coalizione potranno iniziare a lasciare il Paese, ma se la polizia diventasse invece parte in causa nelle violenze tra sunniti e sciiti, allora la guerra civile sarebbe inevitabile. La tensione tra sunniti e sciiti, dopo l’attentato di Samarra è diventata sempre più evidente. Le comunità religiose si sono andate organizzando in milizie di difesa, sulle quali il governo e i deputati non hanno alcun controllo. Mentre ancora si cercava una soluzione politica al conflitto, il 16 marzo, in contemporanea con la prima fallimentare seduta del Parlamento iracheno, gli Usa hanno lanciato la cosiddetta “operazione Swarmer”. Secondo il comunicato diffuso dai generali Usa l’operazione “è finalizzata a stanare i guerriglieri, in particolare quelli stranieri che si nascondono nei villaggi attorno alla città di Samarra, e arrestarli, oltre a distruggere i loro nascondigli (l’inglese “swarm”, indica lo sciame brulicante di insetti, quali le termiti, nel terreno) e i loro depositi di armi e munizioni”. Obiettivo dell’attacco era la zona a nord-ovest di Samarra, dove, secondo il comando Usa, si nasconderebbe l’Organizzazione di Al Qaeda per la Jihad nella terra dei due Fiumi, comandata da Abu Musab Al Zarqawi, da dove si muovono i cosiddetti “arab fighters”, cioè gli stranieri che sono affluiti in Iraq nel 2003 per combattere la loro guerra santa contro gli invasori. Sul piano strettamente politico, il 16 marzo si è tenuta la prima seduta del Parlamento iracheno eletto il 15 dicembre 2005. Si è trattato di una seduta puramente formale visto che mancava l’accordo sulla formazione del governo e la seduta è stata quindi aggiornata a data da destinarsi. Di fronte alle divisione del Parlamento, il premier uscente Ibrahim al-Jaafari si è detto disposto a farsi da parte benché il suo nome come candidato premier fosse stato indicato dall’Alleanza unificata irachena (Aui), l’alleanza sciita che ha stravinto le elezioni. Le difficoltà di trovare un accordo di governo hanno messo in luce tutte le forzature che il voto del 15 dicembre aveva mascherato. Anche gli Stati Uniti, dopo tre anni di guerra, sembrano essersi resi conto di aver commesso degli errori in Iraq. La paralisi del Parlamento iracheno, la cui elezione era il fiore all’occhiello dell’amministrazione Bush, ha fatto crescere ulteriormente la pressione sull’amministrazione statunitense da parte degli elettori Usa, che vedono aumentare il numero dei morti statunitensi in Iraq, senza però vedere risultati. Di fronte a questo stato di cose alcuni dirigenti dell’Aui hanno invitato il premier a dimettersi per facilitare la formazione di un governo di unità nazionale (2 aprile). Negli stessi giorni il ministro degli Esteri britannico Jack Straw e il segretario di Stato americano Condoleezza Rice erano a Baghdad per cercare di dare un impulso alla formazione del nuovo governo, ma al-Jaafari li ha accusati di interferire nelle questioni interne all’Iraq. In calendario per il 17 aprile, la prima seduta ordinaria del nuovo Parlamento è stata rinviata al 3 maggio per permettere ai gruppi politici di trovare l’accordo sulle nomine alle alte cariche dello Stato e sulla formazione dell’esecutivo. Nel corso della prima seduta alcuni parlamentari sunniti hanno chiesto di modificare gli articoli sul federalismo considerato una minaccia per l’unità del Paese. Il passo indietro di al-Jaafari, avversato da parte degli sciiti e da curdi sunniti e americani, ha riaperto le trattative per la guida del nuovo governo. Il Gran consiglio dei sette leader dell’Alleanza irachena si è riunito il 21 aprile per decidere i nomi dei candidati, sui quali i membri del Parlamento sono stati chiamati a decidere. Due i candidati con più possibilità, entrambi membri del Dawa, il partito di al-Jaafari: Ali al-Adeeb e Jawad Nuri al-Maliki. Alla fine la scelta è caduta su al-Maliki, numero due del Dawa, laureato in Letteratura araba, convinto sostenitore di al-Jaafari e già suo consulente. Anche lui, come al-Adeeb, è un ex esule: negli anni Ottanta si era rifugiato in Siria. I suoi critici lo accusano di avere una visione politica troppo settaria. La forte intensificazione delle azioni degli “insurgents” e dei loro temporanei alleati, i cosiddetti “arabi” di Al Zarqawi, iniziata contemporaneamente al primo tentativo di riunione del Parlamento, si è accentuata durante le lotte intestine che hanno portato alla designazione condivisa dello sciita laico Jawad al-Maliki quale premier. Gli obiettivi più frequenti sono state le reclute della polizia e dell’esercito, nella stragrande maggioranza sciite e curde, e i loro istruttori. È ovvio che, in una situazione in continuo sbilanciamento a danno dei sunniti, agli ex baathisti per sopravvivere non resti che continuare ad alimentare le fila della guerriglia. Il 20 maggio al-Maliki ha presentato il suo governo al Parlamento, salvo che per i dicasteri della Difesa e degli Interni. Alla Difesa il premier ha poi scelto il sunnita Abdel Kader Mohammed Jassem Ubeidi e agli Interni lo sciita Jawad Polani (8 giugno). Intanto il 27 aprile un ordigno è esploso al passaggio di una pattuglia del contingente italiano sulla strada a sud-ovest di Nassiriya lungo un tragitto regolarmente percorso dai militari italiani: nella violenta esplosione sono morti due carabinieri, i marescialli Carlo De Trizio e Franco Lattanzio, un capitano dell’esercito, Nicola Ciardelli, e un caporale della polizia militare rumena. A poco più di un mese dall’attentato, un altro militare italiano, il caporal maggiore Alessandro Pibiri, in servizio al 152° reggimento fanteria, è morto a circa un centinaio di chilometri da Nassiriya (5 giugno): un convoglio militare britannico che trasportava materiale logistico militare è stato attaccato con mine comandate a distanza. Ad essere colpito è stato un mezzo della Brigata Sassari, di scorta al convoglio. Negli stessi giorni un deputato democratico statunitense rivelava il tentativo dei vertici militari di tener nascosta la strage di 24 civili iracheni uccisi a sangue freddo il 19 novembre 2005 da un gruppo di marines nella città di Haditha, 260 km ad est di Baghdad. Così come già successo con Abu Ghraib anche questo scandalo è diventato un simbolo della guerra in corso e ha radicato tra i cittadini americani l’opinione che sia stata un’operazione sbagliata fin dall’inizio. L’8 giugno il premier iracheno ha annunciato alla televisione la morte di Al Zarqawi, punto di riferimento di Al Qaeda in Iraq, ucciso, durante un bombardamento della coalizione, nella casa in cui si nascondeva a Baquba, città situata 65 km a nord di Baghdad. Al Zarqawi, di nazionalità giordana, è indicato come la mente dei più gravi attentati terroristici in Iraq degli ultimi tre anni e della maggior parte dei rapimenti. Sulla sua testa gli Usa avevano posto una taglia di 10 milioni di dollari, ma la sua figura restava avvolta nel mistero. L’unica immagine disponibile era una foto tessera in bianco e nero, risalente ai tempi della sua prigionia in Giordania per reati comuni. Con un comunicato pubblicato su internet la cellula irachena di Al Qaeda ha fatto sapere che il successore di Al Zarqawi sarà lo sceicco Abu Hamza Al Muhajer. A metà giugno il numero dei soldati statunitensi morti in Iraq raggiungeva quota 2.500: ciononostante il Congresso ha difeso la politica dell’amministrazione Bush nel Paese, rifiutando di fissare un calendario per il ritiro delle truppe e Senato e Camera hanno approvato, con il voto favorevole di alcuni democratici, una risoluzione che impegna gli Usa a proseguire la lotta contro il terrorismo in Iraq. Situazione molto critica anche a Bassora, nel Sud dell’Iraq, dove gli sciiti sono la maggioranza assoluta e dove si sono verificati crimini orrendi, con intere famiglie sterminate per rendere quanto più omogenea possibile la popolazione della città. L’obiettivo vero e non dichiarato di questa guerra nella guerra che si combatte a Bassora è il controllo del mercato locale del petrolio. Gli episodi di violenza si sono moltiplicati dopo l’attentato del 21 aprile quando tre autobomba lanciate contro alcuni posti di blocco e contro l’accademia di polizia hanno causato la morte di 71 persone. Da quel momento non c’è stata più pace. Il motivo dell’esplosione di violenza sembra risiedere non tanto nel fatto che gli sciiti volevano fare piazza pulita dei sunniti quanto nell’inizio della guerra del petrolio. L’Iran vuole mantenere il controllo delle risorse di Bassora e punta a scatenare l’aggressione contro i sunniti per “ripulire” la città. Il ministro del Petrolio iracheno Hussein Shahristani ha accusato la guardia costiera iraniana di favorire il contrabbando di gasolio da parte dei pescatori della zona di Bassora che viene poi rivenduto nelle acque internazionali del Golfo Persico, a tutto vantaggio dei mediatori iraniani. Secondo Shahristani, nel contrabbando sarebbero coinvolti fino a 1.700 pescherecci della zona di Bassora, e l’Iran continuerebbe a finanziare gli scontri etnici in città per mantenere il controllo del commercio del greggio. Nel tentativo di mettere fine alle violenze, il 25 giugno il primo ministro al-Maliki ha lanciato un piano che prevede il dialogo con i ribelli e il 22 luglio si è riunita per la prima volta la Commissione di riconciliazione, composta da politici, capi tribali e rappresentanti della società civile. Sul campo però la situazione è ben lontano dall’essere stabilizzata e non è stato possibile restituire il controllo della sicurezza della regione di Baghdad alle autorità irachene: il piano lanciato per riportare la calma nella capitale è fallito e nelltra il premier iracheno al-Maliki e il presidente George W. Bush a Washington (25 luglio) quest’ultimo ha annunciato un rafforzamento della presenza statunitense nella capitale. Il 17 luglio al mercato di Mahmoudiya, 30 km a sud di Baghdad, 48 persone hanno perso la vita a causa dell’attacco coordinato di due autobomba, seguite da colpi di mortaio sulla folla in fuga dopo l’esplosione, mentre sei auto piene di uomini armati e mascherati chiudevano la folla in trappola, bloccando le vie di fuga dalla piazza e aprendo il fuoco su donne e bambini. Obiettivo della strage erano i civili sciiti. Il giorno seguente un kamikaze si è fatto esplodere su un’auto nel centro della cittadina sciita di Kufa uccidendo 59 persone L’impennata di violenza è sembrata una vendetta per la strage del 9 luglio quando milizie sciite avevano messo a ferro e fuoco il quartiere sunnita Jihad di Baghdad: 42 persone erano state massacrate da miliziani che a volto coperto erano entrati nel quartiere compatti e che, dopo aver creato dei check-point improvvisati, avevano ucciso tutti coloro che avevano la carta d’identità sunnita. Sebbene fosse risaputo che i responsabili dell’eccidio sono gli uomini dell’esercito del Mahdi, gli uomini dell’imam sciita radicale Muqtada al-Sadr, il governo non aveva fatto nulla. La violenza quotidiana, in particolare in città miste come Baghdad, è fuori controllo anche perché i militari della coalizione si muovono solo per intervenire in aiuto dei militari iracheni o per missioni specifiche. Il reale controllo delle strade è nelle mani delle milizie, e quella del Mahdi è la più sanguinaria. Così il piano di riconciliazione nazionale lanciato dal premier al-Maliki è naufragato nelle violenze settarie sempre più drammatiche. Il 28 agosto almeno 81 persone sono morte in due giorni di combattimento tra l’esercito iracheno e i miliziani sciiti a Diwaniyah: gli scontri sono scoppiati dopo l’arresto da parte dei soldati statunitensi di un leader dell’esercito del Mahdi. Sul fronte politico la Commissione per l’elaborazione definitiva della Costituzione, che secondo le previsioni sarebbe dovuta nascere al massimo quattro mesi dopo le elezioni parlamentari del 15 dicembre 2005, ha visto la luce solo alla fine di settembre. L’Aui ha poi presentato un progetto di legge sul federalismo che il Parlamento ha approvato l’11 ottobre, nonostante l’opposizione dei sunniti (e che entrerà in vigore tra 18 mesi). Il progetto ha rappresentato una vittoria per gli sciiti che, al pari dei curdi nel Nord, avranno una regione autonoma in 6 province del Sud, e una sconfitta per i sunniti, che si ritrovano confinati nelle regioni centrali del Paese, meno ricche di petrolio. Di fatto però la divisione tra sciiti e sunniti non è stata netta, e anche l’esito del voto è stato oggetto di molte contestazioni. A favore del federalismo si sono schierati compatti i curdi e lo Sciri, il partito filoiraniano della Rivoluzione islamica, il partito Dawa e alcuni sostenitori dell’ex premier Allawi, mentre l’altra coalizione sciita, l’Aui era spaccata. Al boicottaggio hanno infatti aderito i gruppi sciiti vicini al leader religioso Muqtada al-Sadr e un altro partito sciita, il Fadhila. Insieme a loro, hanno disertato la votazione i sunniti dell’Iraqi Accord Front e quelli del National Dialogue Council. Il rifiuto del federalismo ha unito sciiti e sunniti, iracheni religiosi e secolari che, per ragioni diverse, si sono trovati uniti in un fronte trasversale, i cui denominatori comuni sono il sentimento nazionalista e il timore che il federalismo faccia precipitare il Paese nella violenza. Le modalità del voto sono state molto contestate e hanno diviso, di fatto, la coalizione sciita in maggioranza al governo. La vera posta in gioco non è la Costituzione e nemmeno la corretta suddivisione delle materie prime e degli introiti fiscali, ma chi deterrà il potere dello Stato, e all’interno dei diversi gruppi religiosi. Gli oltre venti gruppi ed organizzazioni della guerriglia sunnita, formano tutt’altro che un blocco unitario. I gruppi principali vicini ad Al Qaeda sono Al Qaeda in Iraq e Ansar al Sunna. Negli scorsi anni sono stati soprattutto i jihadisti, guidati da Al Zarqawi, a sconvolgere l’opinione pubblica con i loro spaventosi attentati. Lo scopo era cacciare le truppe straniere per scatenare poi una guerra civile contro gli sciiti locali. Oltre a combattere le truppe straniere, i nazionalisti sunniti vogliono impedire che il nuovo Iraq venga contrassegnato dagli obiettivi di sciiti e curdi. Da circa un anno però le differenze tra nazionalisti e jihadisti sono aumentate. Ciò non dipende solo dal fatto che i nazionalisti limitano al solo Iraq i loro obiettivi politici, ma sono cresciuti i dissensi in merito ai contatti con il governo di Baghdad e gli americani. I jihadisti li rifiutano radicalmente mentre i nazionalisti sunniti li cercano. Le fratture però non risparmiano nemmeno la comunità sciita. Lo Sciri, il Consiglio supremo per la rivoluzione islamica in Iraq, e i simpatizzanti di Muqtada al-Sadr, hanno opinioni contrapposte. Il Consiglio della rivoluzione vuole che il Sud sciita sia il più possibile autonomo, al-Sadr invece rifiuta il sistema federale ed è a favore del mantenimento dello Stato unitario. Tra questi due estremi si trova il partito Fadhila, forte nella provincia di Bassora che, a differenza dello Sciri che punta ad accorpare nove province, vuole invece creare un’unità autonoma con al massimo le tre province del Sud. La lotta di queste forze non riguarda temi politici, ma sostanziali posizioni di potere. Il Consiglio, fondato negli anni Novanta dagli esiliati in Iran, mantiene stretti legami politici con Teheran, fatto che indispone gli altri sciiti iracheni. Lo Sciri, che è sostenuto soprattutto dagli strati intermedi della popolazione, vede con preoccupazione la crescita dell’influenza di Muqtada al-Sadr i cui simpatizzanti provengono invece dai ceti più poveri degli sciiti. A differenza dello Sciri e del partito Dawa, anch’esso fondato nell’esilio iraniano, il raggruppamento di al-Sadr, unico movimento popolare sciita nato in Iraq, gode di un prestigio crescente e con l’esercito del Mahdi dispone anche di truppe forti e addestrate. Nonostante la sua ascesa politica, l’influenza di al-Sadr a Bassora, la seconda città per importanza dell’Iraq, è limitata. Per questo si è dovuto alleare, sia pur temporaneamente, con i rivali dello Sciri, per combattere insieme Fadhila. Quest’ultimo, i cui uomini ricoprono le cariche di governatore e presidente del Consiglio provinciale, è riuscito a piegare le truppe locali alle proprie milizie ed ora dispone di una forza notevole per proteggere gli impianti petroliferi della zona. Mentre il governo iracheno tentava di smantellare le milizie illegali e quello Usa premeva perché le forze di sicurezza irachene prendessero al più presto il controllo del Paese, gli attentati sono continuati senza sosta in tutte le province costringendo il capo della diplomazia irachena alle Nazioni Unite, Hochiyar Zebari, a chiedere al Consiglio di sicurezza di prolungare di un anno il mandato della Coalizione a guida Usa in Iraq, in scadenza il 31 dicembre (30 ottobre). Il numero delle vittime Usa nel solo mese di ottobre ha superato le cento unità: un bilancio tragico che, nell’approssimarsi delle elezioni di medio termine, ha costretto l’amministrazione statunitense a fare pressione sul governo di al-Maliki perché prendesse quanto prima il controllo della sicurezza. Alcuni generali della coalizione si sono incontrati con i rappresentanti di alcuni gruppi ribelli, offrendo un’amnistia in cambio della fine delle violenze. Per cinque giorni in ottobre le forze statunitensi e irachene hanno imposto il blocco a Sadr City, la roccaforte delle milizie sciite a Baghdad, alla ricerca di un soldato statunitense rapito. Dopo cinque giorni il premier al-Maliki ha ordinato di rimuovere il blocco, ordine che è stato salutato come una vittoria dalle milizia sciite radicali di Muqtada al-Sadr. Il 30 ottobre una bomba ha ucciso oltre 30 persone nel quartiere di Sadr City. Poco dopo, sempre nella capitale, altre due esplosioni sono costate la vita ad altri dieci iracheni. Il 31 ottobre 23 persone, tra cui 19 bambini, sono rimaste uccise da un attentato durante una festa di nozze: un’autobomba è esplosa al passaggio del corteo dei parenti dello sposo. Nello stesso giorno altri cinque attentati suicidi hanno colpito Baghdad. Il 5 novembre Saddam Hussein è stato condannato a morte dalla Corte che da un anno lo stava processando: la condanna si riferisce solo alla strage di sciiti di Dujail nel 1982 (un secondo processo si è aperto il 21 luglio contro Saddam e sei alti ex funzionari del vecchio regime per il genocidio dei curdi nella cosiddetta operazione Anfal, l’uccisione di almeno 100.000 persone tra il 1997 e il 1998). In caso di sentenza capitale Saddam  aveva chiesto la fucilazione, ma sarà impiccato. Secondo il gruppo di lavoro delle Nazioni Unite sulle Detenzioni arbitrarie (composto da esperti legali provenienti da Algeria, Iran, Spagna, Ungheria e Paraguay) il processo contro l’ex presidente iracheno sarebbe illegale perché viola il diritto a un giusto processo conforme alla legislazione internazionale. La privazione della libertà è arbitraria e contravviene all’art. 14 della Convenzione internazionale per i diritti politici e civili, cui aderiscono sia gli Usa che l’Iraq. Il presidente Bush ha definito la sentenza “un successo per la democrazia irachena” mentre i principali leader dell’Ue hanno ribadito la loro ferma opposizione alla pena di morte. Il Paese intanto era sempre più fuori controllo. L’amministrazione Bush cercava affannosamente un accordo con i ribelli e il governo del premier al-Maliki tentava in tutti i modi di coinvolgere i sunniti nel processo di riconciliazione nazionale. Il 27 ottobre è nato il Comando politico unificato della resistenza irachena (Cpuri) che rappresenta l’ala religiosa e laico-progressista della società irachena, la quale non si riconosce negli eserciti stranieri, percepiti come invasori che difendono solo gli interessi economici dell’Occidente, né nella deriva jihadista. Il Comando comprende formazioni molto differenti tra loro: ci sono gli orfani del Partito Baath e quelli del Comando generale delle Forze armate, politici e militari che, pur distaccandosi da Saddam Hussein, non rinnegano le idee originarie del partito o l’ideale di un Iraq unito. Ci sono poi quelli che si definiscono i “comunisti patriottici”, che rinnegano la scelta del Partito comunista iracheno, vicino al governo. Ma ci sono anche i religiosi, come l’ayatollah sciita Ahmad al-Hussaini al Bagdadi e il Consiglio degli ulema sunniti. Le figure di spicco del Comando (il cui esecutivo è formato da 15 esuli e 10 membri in Iraq) sono Qais Mohammed Nuri, esponente di primo piano del partito Baath, l’ayatollah al-Bagdadi e Abdelyaber al-Kubaysi, ex esponente del partito Baath, oppositore del regime di Saddam Hussein e per questo esiliato in Siria fino al novembre 2002, quando è tornato in Iraq per prendere parte alla resistenza contro le forze d’occupazione statunitensi. Per il momento gli Stati Uniti e i loro alleati, tanto quanto il governo iracheno, hanno ignorato il Cpuri. Dopo la sconfitta elettorale di George W. Bush la strategia dell’intervento in Iraq, militare e politica, è stata sottoposta a critiche anche da alcuni osservatori che si erano detti favorevoli al rovesciamento del regime di Saddam con la forza. Tanto che l’ambasciatore Usa a Baghdad, Zalmay Khalilzad, il 24 ottobre ha ripreso i contatti con la guerriglia irachena nel tentativo di condurre al tavolo negoziale i miliziani nazionalisti per isolare le fazioni più integraliste. L’ambasciatore ha incontrato anche le milizie di autodifesa che proteggono la popolazione civile dai bombardamenti stranieri e dalle milizie di fanatici religiosi con l’intento di concordare un’operazione per ripulire Ramadi, ritenuta la roccaforte di Al Qaeda in Iraq. Un’altra apertura verso i sunniti, subito dopo la condanna a morte di Saddam, che serviva anche in termini elettorali agli Usa, è stata l’emendamento alla legge di debaathificazione del Paese (si fermeranno quindi le epurazioni). A Baquba , a nord-ovest di Baghdad, gli scontri tra sunniti e sciiti e gli attentati contro le forze di sicurezza sono diventati quasi quotidiani: l’8 novembre una ventina di persone sono morte in una serie di attacchi in vari punti della città. Il 23 novembre nel quartiere sciita di Sadr City sono morte almeno duecento persone per l’esplosione di quattro autobomba e una serie di colpi di mortaio: si è trattato dell’attacco più grave dall’inizio dell’anno. Al-Maliki ha proclamato il coprifuoco a Baghdad e la chiusura degli aeroporti di Baghdad e Bassora. Tuttavia nei giorni seguenti sono proseguite le violenze confessionali in città. Intanto il premier al-Maliki incontrava il presidente Bush ad Amman per discutere dell’aumento delle violenze (29 novembre): in segno di protesta l’imam sciita Muqtada al-Sadr, contrario alla decisione di coinvolgere Bush nella discussione sul ruolo di Siria e Iran nella pacificazione del Paese (convinto che le forze statunitensi stiano appoggiando l’insurrezione sunnita) ha “sospeso” il suo appoggio al governo. Infine il 16 dicembre si è aperta a Baghdad la Conferenza di riconciliazione voluta dal premier al-Maliki. Il primo ministro ha definito un errore la legge di “debaathificazione” approvata nel 2003 su richiesta dell’ex amministratore statunitense Paul Bremer perché avrebbe causato la disgregazione delle Forze armate e l’emarginazione della comunità sunnita. Il premier ha proposto agli ex militari baathisti di rientrare nell’esercito e ha garantito a tutti gli ex militari il pagamento delle pensioni arretrate.
Il 25 gennaio si sono tenute le elezioni in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza, le seconde elezioni legislative nella storia dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Mentre ci si preparava al voto, il 31 dicembre 2005 la Jihad islamica ha messo a segno a Tel Aviv il primo attentato suicida dalla fine della tregua (una trentina i feriti, ma nessun morto). Le consultazioni sono terminate con la vittoria del partito radicale Hamas (che non aveva partecipato al voto del 1996) che ha ottenuto la maggioranza assoluta al Consiglio legislativo, aggiudicandosi 76 dei 132 seggi, contro i 43 di Al Fatah, il partito al potere. Subito dopo il voto il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, ha annunciato che il gruppo non rinuncerà a Gerusalemme capitale e ai confini del 1967, anche se si è detto disponibile a rinnovare la tregua con Israele. Il movimento integralista islamico ha attirato i consensi soprattutto perché è apparso molto più onesto e moralmente integro rispetto alla corrotta dirigenza di Al Fatah, il partito del presidente Abu Mazen. La vittoria di Hamas ha messo in allarme Israele e l’Occidente. Il premier israeliano Ehud Olmert ha fatto sapere che non avvierà negoziati con i radicali islamici e ha annunciato una serie di sanzioni contro l’Anp (tra cui la sospensione della restituzione dei dazi doganali prelevati da Israele sui prodotti destinati ai Territori), mentre Stati Uniti e Unione europea hanno ipotizzato il blocco degli aiuti in modo da destabilizzare il nascente governo Hamas, strangolando l’Anp dal punto di vista economico. Il ministro della Difesa israeliano Shaul Mofaz, ha inserito la Palestina guidata da Hamas all’interno dell’asse del male, assieme a Iran, Siria e Hezbollah e ha minacciato di interrompere le relazioni con l’Anp se il Parlamento avesse eletto alla sua presidenza un membro di Hamas. Preoccupata dalla possibilità di un isolamento politico e di uno strangolamento economico, la dirigenza palestinese ha cercato di rafforzare i legami all’interno del mondo arabo. Lo ha fatto Hamas, che con Khaled Meshaal, capo dell’ufficio politico del movimento in esilio a Damasco, il 14 febbraio era in Sudan, mentre il ministro dell’Economia Mazen Sinnokrot, considerato vicino agli islamisti, è andato negli Emirati Arabi per assicurarsi i cospicui finanziamenti che sono sempre arrivati dal defunto emiro di Abu Dhabi bin Zayed e che l’Anp spera arrivino anche dal suo erede. Sono continuate anche le mosse di avvicinamento con la Giordania non tanto perché nel Parlamento di Amman siede l’unica forte rappresentanza legale dei Fratelli musulmani quanto piuttosto perché il regno hashemita può rivestire un ruolo importante di ponte tra l’Occidente e i palestinesi. A rendere ancor più tesa la situazione è stata la notizia resa pubblica dal quotidiano “Ha’aretz” secondo la quale Israele avrebbe effettivamente annesso la valle del Giordano, impedendo l’accesso dei palestinesi (eccetto i residenti) a un terzo della Cisgiordania, ovvero a quella lingua di terra che corre lungo la frontiera con il regno hashemita. Le restrizioni dell’esercito israeliano sono in linea con quello che Ehud Olmert ha dichiarato nella piattaforma politica del suo partito, il Kadima: Israele intende conservare i tre grandi blocchi di colonie e avere il controllo sulla valle del Giordano. Il 18 febbraio si è aperto dunque il secondo Parlamento nella storia dell’Anp: Parlamento a maggioranza Hamas. Il presidente Abu Mazen ha chiesto ad Hamas di rispettare Oslo, usando toni duri contro Israele per la sua politica unilaterale, le colonie, l’isolamento della valle del Giordano dal resto della Cisgiordania, il muro di separazione, la “pulizia etnica di musulmani e cristiani palestinesi a Gerusalemme”: un discorso senza cedimenti ma pronto al negoziato, nel rispetto della Road Map. Dal canto suo Haniyeh si è dichiarato “pronto a riconoscere Israele” se Israele “riconoscerà uno Stato palestinese lungo le frontiere del 1967, rilascerà i prigionieri e riconoscerà il diritto al ritorno dei rifugiati in Israele”. Per Hamas si riparte dunque da questo punto e non dagli accordi di Oslo che, e secondo Haniyeh, non sono stati rispettati da Israele, perché Tel Aviv non ha concesso di creare uno Stato palestinese nel 1999, ma anzi ha occupato nuovamente la Cisgiordania, costruito il muro, ampliato le colonie e giudaizzato Gerusalemme. Il 21 febbraio il presidente Abu Mazen ha incaricato Ismail Haniyeh, in quanto capolista di Hamas, di formare il nuovo governo, invitandolo a rispettare gli accordi tra l’Anp e Israele. Haniyeh, considerato il leader dell’ala moderata del partito, si è detto favorevole a un governo di unità nazionale. A rendere più difficile la formazione del nuovo esecutivo è intervenuta la decisione del nuovo Consiglio legislativo palestinese (6 marzo) di abrogare una serie di misure approvate da Al Fatah per rafforzare i poteri del presidente Abu Mazen (potere di sciogliere il Parlamento e di bloccare le leggi): i deputati di Al Fatah hanno lasciato l’aula in segno di protesta, presentando ricorso alla Corte suprema. Sul campo intanto proseguivano i raid israeliani nella Striscia di Gaza e si rinnovavano gli appelli di Abu Mazen alla comunità internazionale perché intervenisse a “mettere fine all’aggressione israeliana”. Poche ore prima di incontrare Haniyeh, in un rimpasto dei servizi di sicurezza dell’Anp il presidente ha designato il nuovo responsabile della sicurezza preventiva, con giurisdizione non solo su Gaza, ma anche sulla Cisgiordania: si tratta di Rashid Abu Shbak, già uomo forte di Al Fatah nella Striscia, ma soprattutto braccio destro di uno degli uomini più vicini ad Abu Mazen, vale a dire Mohammed Dahlan, capo della sicurezza di Al Fatah. Abu Mazen sembra così aver fatto a Dahlan un regalo prezioso quanto, allo stesso tempo, pericoloso: il controllo a distanza della sicurezza interna, proprio nel momento in cui Hamas si accingeva a formare il governo. Senza abbandonare l’idea di costruire una coalizione quanto più ampia possibile facendo entrare anche Al Fatah, Hamas ha cominciato dal Fronte popolare di liberazione della Palestina (Fplp), da cui ha ricevuto subito la disponibilità a partecipare all’esecutivo. Scontato, invece, il “no” della Jihad islamica, che non aveva neanche partecipato alle elezioni. Le trattative politiche sono comunque rimaste sullo sfondo di una cronaca che ha privilegiato le questioni finanziarie dell’Anp, in crisi di liquidità dopo che Israele ha deciso il congelamento dei prelievi fiscali che appartengono all’Anp e che le autorità di Tel Aviv hanno il solo compito di raccogliere, per poi versarle nelle casse palestinesi. La leadership all’estero, guidata da Khaled Meshaal, il 20 febbraio era a Teheran, dove ha incassato l’appoggio scontato di Mahmoud Ahmadinejad e di Ali Khamenei. Nel suo tentativo di aprirsi canali più presentabili, Hamas ha cercato di ottenere il sostegno dei Paesi arabi, che negli stessi giorni discutevano come coprire i buchi finanziari dell’Anp. L’Organizzazione per la Conferenza islamica ha deciso di partecipare alla “colletta” e un appoggio è arrivato dal movimento da cui Hamas è nato, i Fratelli musulmani egiziani. Parallelamente Bush ha intensificato le pressioni verso i Paesi arabi perché non sostengano un’Anp guidata dagli eredi dello sceicco Ahmed Yassin. Il 21 febbraio Condoleezza Rice iniziava il suo tour nei Paesi arabi (Egitto e Arabia Saudita in testa) per limitare l’appoggio a Hamas. Il viaggio non ha portato frutti: i Paesi della Lega araba non possono isolare l’Anp e preferiscono attendere le mosse di Hamas, confermando, peraltro, gli aiuti economici. Il 14 marzo l’esercito israeliano ha fatto irruzione nel carcere di Gerico, in Cisgiordania (che secondo gli accordi internazionali è gestito dai poliziotti dell’Anp) con l’obiettivo di farsi consegnare Ahmed Saadat, leader dell’Fplp, ritenuto responsabile dell’uccisione del ministro israeliano del turismo Zeevi nel 2002 (in risposta all’uccisione, da parte israeliana, di Abu Ali Mustafa, il predecessore di Saadat), e altri quattro esponenti del partito marxista, detenuti sotto il controllo di un gruppo di osservatori americani e britannici (che si trovavano nel carcere dal 2002 in virtù di un accordo tra israeliani e palestinesi) che hanno lasciato il carcere poco prima dell’attacco israeliano. In febbraio la Corte di giustizia palestinese aveva sentenziato che non sussistono prove di un collegamento diretto tra Saadat e l’omicidio di Zeevi e che quindi il leader dell’Fplp doveva essere rilasciato. Israele però, in piena campagna elettorale per le presidenziali del 28 marzo, ha ritenuto inaccettabile il rilascio di Saadat, decidendo di prelevarlo per rinchiuderlo in un carcere israeliano. Il vuoto lasciato dagli osservatori ha subito consentito agli israeliani di intervenire, con l’appoggio di elicotteri e caccia, e a Gaza come a Nablus e a Jenin l’intervento ha scatenato l’ira di gruppi armati palestinesi, che hanno sequestrato (solo per poche ore) gli stranieri che si trovavano in zona e dato alle fiamme il British Council, la redazione della tv tedesca Ard, un ufficio legato agli statunitensi, una sede dell’Ue. A rendere la situazione ancor più incandescente è stato il fatto che Saadat e gli altri cinque si sono barricati nell’edificio. La situazione si è sbloccata solo nel tardo pomeriggio, quando, dopo nove ore di assedio da parte dei militari di Tsahal, una fila di detenuti è uscita dall’edificio ormai semidistrutto. Il raid ha investito non solo i rapporti (già al limite) tra israeliani e palestinesi, ma anche i rapporti tra palestinesi e occidentali. Vista l’esistenza di quell’accordo del 2002 che aveva portato a Gerico gli osservatori statunitensi e britannici a fare da garanti della detenzione dei cinque dell’Fplp, quando gli osservatori se ne sono andati quindici minuti prima dell’ingresso dell’esercito israeliano, i palestinesi hanno ritenuto tutti (statunitensi, britannici e israeliani) responsabili di quello che stava succedendo. Ad accusarli, non sono stati solo i militanti dell’Fplp a Gaza, ma prima di tutti il presidente Abu Mazen, che solo due giorni prima si era incontrato ad Amman con Shimon Peres. Abu Mazen, sia prima sia dopo le elezioni, aveva fatto capire che la questione di Saadat andava risolta all’interno del mondo palestinese, soprattutto dopo il risultato delle consultazioni del 25 gennaio, quando Saadat (insieme a una decina di persone detenute nelle carceri israeliane) era diventato deputato. Sul piano politico Hamas non è riuscito a convincere gli altri partiti a entrare nel governo e il 19 marzo Haniyeh ha presentato ad Abu Mazen la lista dei 24 ministri del nuovo esecutivo: 14 della Cisgiordania e 10 della Striscia di Gaza. Mahmud Zahar, considerato un esponente dell’ala intransigente del partito, è stato nominato ministro degli Esteri (inizialmente chiuso ad ogni apertura, all’inizio di aprile Zahar ha riconosciuto implicitamente il diritto all’esistenza di Israele in una lettera inviata al segretario generale dell’Onu Kofi Annan) mentre agli Interni è andato Saed Siam che ha fatto sapere che non ordinerà l’arresto dei palestinesi responsabili degli attacchi contro obiettivi israeliani. L’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) e nemmeno gli irriducibili dell’Olp, il Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp), hanno potuto aderire a un governo guidato da Hamas perché il suo programma non rispecchia le posizioni e l’eredità dell’Olp. Hamas (che rifiuta di riconoscere lo Stato d’Israele e vuole imporre la legge islamica in Palestina) ha tratto la sua legittimità dal voto e si appoggia a un gruppo concreto di sostenitori all’interno della Striscia di Gaza e della Cisgiordania, mentre l’Olp e in particolare la fazione di Al Fatah (che ha implicitamente rinunciato al “diritto al ritorno” e riconosce Israele) si rivolge per la sua legittimità all’intero popolo palestinese, in tutto il mondo. Il governo Haniyeh ha quindi ottenuto la fiducia del Parlamento con 71 voti a favore e 31 contrari (29 marzo). Nel suo discorso di insediamento il premier palestinese ha dichiarato che il governo è disposto a discutere con la comunità internazionale per mettere fine al conflitto in Medio Oriente, ma non a riconoscere Israele, ribadendo il diritto dei palestinesi a continuare la lotta per l’indipendenza. Dal canto suo Israele ha ribadito il suo rifiuto ad avere rapporti con un governo “terrorista”. Dopo che Stati Uniti e Canada hanno deciso il blocco dei contatti, il 30 marzo il Quartetto per il Medio Oriente (Stati Uniti, Ue, Russia e Nazioni Unite) ha fatto sapere, attraverso un comunicato emesso da Bruxelles, che “ci saranno inevitabilmente delle ricadute sull’aiuto diretto al governo palestinese e ai suoi ministeri”. Il 20 marzo mentre Abu Mazen era ancora a Gaza gruppi di uomini armati hanno scatenato la protesta nella Striscia: contro una centrale di polizia, alcuni ministeri, un ospedale e bloccando la strada che porta al valico settentrionale di Erez, da cui proprio Abu Mazen sarebbe passato per tornare a Ramallah. Gli uomini armati, che si sono definiti membri delle Brigate dei martiri di Al Aqsa (anche se le stesse Brigate hanno smentito) chiedevano lavoro. D’altro canto a Gaza oltre al lavoro mancano tutti i beni di prima necessità e questo rende difficile la stessa sopravvivenza: il 20 marzo la riapertura per quaranta minuti, dopo una chiusura di una settimana, del valico merci di Karni, che unisce Israele alla Striscia, è stata solo una breve boccata di ossigeno in quella che le agenzie dell’Onu hanno definito una vera e propria crisi alimentare. I ministri del governo Hamas non hanno fatto concessioni a Israele e anzi hanno mantenuto il loro “no” alle tre condizioni poste dal Quartetto per evitare la crisi degli aiuti economici e dei rapporti politici, compreso il mancato riconoscimento formale dello Stato di Israele. Per Hamas sarà molto difficile far accettare un governo senza alleati, e soprattutto senza Al Fatah. è stato Abu Mazen a rappresentare i palestinesi al vertice della Lega araba di Khartoum. Ed è stato ancora il solo Abu Mazen a partire per un delicato quanto importante viaggio in Sudafrica che è valso ad Hamas il “riconoscimento incondizionato” del presidente sudafricano Thabo Mbeki, membro dell’African National Congress, tradizionalmente amico dell’Olp. Mentre il presidente era ancora a Città del Capo, a soli due giorni dal suo insediamento, al primo ministro Haniyeh è toccato riportare ordine nelle strade di Gaza durante i funerali di Abu Youssef al Quqa, uno dei capi più noti dei Comitati di resistenza popolare (Crp), l’organizzazione di base che raccoglie gruppi armati della Striscia di diversa estrazione politica (1° aprile). Abu Youssef al Quqa era uno dei possibili bersagli degli omicidi mirati di Israele ed è morto il 31 marzo ucciso da un’autobomba. Abu Abir, il portavoce dei Crp, ha innescato le violenze (in cui sono morte tre persone) sostenendo che a uccidere al Quqa sarebbero stati gli israeliani, e le forze di sicurezza preventiva, facendo il nome di Mohammed Dahlan, il quale ha smentito seccamente. Il tutto, ad appena mezza giornata dalla prima crisi tra Abu Mazen e il governo di Hamas, scoppiata sull’attentato suicida compiuto la notte del 30 marzo in Cisgiordania, dove un uomo si è fatto esplodere dentro una macchina di israeliani vicino alla colonia di Kedumim. Mentre il presidente, dal Sudafrica, ha subito condannato l’attentato, il governo palestinese ha detto che la “resistenza è un diritto legittimo per chi è sotto occupazione”. Lo scontro tra Hamas e Al Fatah si è palesato l’8 maggio quando tre palestinesi sono morti nei combattimenti tra miliziani di Hamas e di Al Fatah vicino a Khan Yunis, nel Sud della Striscia di Gaza. Le violenze sono scoppiate quando i due gruppi si sono accusati reciprocamente di una serie di rapimenti. Sia il premier sia il presidente hanno lanciato un appello alla calma invitando a non fare ricorso alle armi anche se tra i due permane un profondo disaccordo sulla gestione della sicurezza nei Territori. Nel tentativo di porre fine alla crisi economico-finanziaria dei Territori, il 25 maggio il presidente Abu Mazen ha dato dieci giorni di tempo ad Hamas per accettare un dialogo nazionale che prevede negoziati con Israele per una soluzione del conflitto basata sulla creazione di due Stati entro i confini del 1967. Il presidente ha quindi deciso di convocare un referendum per far approvare dalla popolazione un documento che sancisce la creazione dello Stato palestinese entro i confini del 1967, riconoscendo implicitamente l’esistenza dello Stato d’Israele. Il primo ministro Haniyeh ha bocciato l’ipotesi del referendum e ha messo in discussione il diritto stesso del presidente di convocarlo. Lo scontro tra le due anime palestinesi rivali è esploso in tutta la sua gravità il 12 giugno quando a Ramallah un gruppo di uomini di Al Fatah ha dato alle fiamme la sede del governo e del Parlamento mentre a Rafah, nella striscia di Gaza, con i miliziani di Hamas si sono scontrati gli agenti di sicurezza preventiva, vicini al presidente (due civili sono morti). Abu Mazen ha decretato lo stato di massima allerta e ha dato ordine alla polizia di impedire ai miliziani di Hamas di pattugliare le strade di Gaza. Intanto è cresciuta ulteriormente la tensione con Israele quando, dopo la morte di tredici civili palestinesi nell’esplosione di un ordigno su una spiaggia della Striscia, Hamas ha annunciato la fine della tregua proclamata nel febbraio 2005 (e ha ripreso il lancio di razzi). Il 20 giugno tre bambini sono morti in seguito a un altro raid aereo israeliano nel Nord della Striscia di Gaza: l’obiettivo erano un’automobile su cui viaggiavano due miliziani delle Brigate dei martiri di Al Aqsa che sono rimasti illesi. In risposta il gruppo ha minacciato un’intensificazione del lancio di razzi su Sderot, ma il 21 giugno l’esercito israeliano uccideva altri due civili nell’ennesimo raid nel Sud della Striscia. Dopo giorni di negoziati con Al Fatah, Hamas ha accettato di firmare un documento noto come “iniziativa dei prigionieri” (condiviso da tutti i principali partiti e gruppi politici palestinesi con l’eccezione della Jihad islamica) che prevede uno Stato palestinese nei confini del 1967 (27 giugno). Pur avendo sottoscritto il documento Hamas ha però negato che esso implichi un riconoscimento di Israele. L’11 novembre il presidente Abu Mazen annunciava la formazione di un governo di unità nazionale entro la fine del mese e sembrava ci fosse accordo sul nome del nuovo premier: Mohammad al Shbeir, ex presidente dell’università islamica di Gaza. Tuttavia i negoziati si sono rivelati subito difficili: Hamas ha ribadito il rifiuto a riconoscere lo Stato d’Israele e Abu Mazen ha quindi smentito l’accordo sulla nomina di al Shbeir. Falliti i negoziati per la formazione di un governo di unità nazionale, Abu Mazen, sostenuto dalla comunità internazionale, ha deciso di indire elezioni anticipate, ma il primo ministro Haniyeh si è fermamente opposto alla decisione definendola un tentativo di colpo di Stato (d’altro canto non è nei poteri del presidente convocare nuove elezioni; può destituire il premier ma non sciogliere il Parlamento). Sono quindi scoppiati violenti scontri tra i miliziani di Al Fatah e quelli di Hamas e almeno tredici persone sono morte.
Anche in Israele l’anno si è aperto in piena campagna elettorale per le elezioni anticipate del 28 marzo (decise dall’allora primo ministro Ariel Sharon dopo che il suo partito, il Likud, invece di sostenerlo aveva ostacolato il suo piano di ritiro da Gaza dando voce alla ribellione dei coloni). Sharon sperava di poter riprendere le trattative con Abu Mazen da posizioni più favorevoli, avendo dimostrato una volontà di pace con il ritiro da parte dei Territori occupati. Il ritiro da Gaza è stato un successo per la politica estera israeliana, ma ha creato una divisione in molti partiti e soprattutto all’interno dello stesso Likud tra i favorevoli e i contrari al ritiro. La formazione del nuovo partito Kadima ha lasciato il Likud, che aveva 40 parlamentari, con solo 26 parlamentari. Con l’uscita di scena di Ariel Sharon e l’elezione di Benjamin Netanyahu alla segreteria del Likud, il partito è slittato più a destra. C’è stata poi la divisione e lo scontro interno nel partito Shinui di Tomy Lapid, alleato di governo di Sharon in un primo tempo, partito liberale e anticlericale. Kadima di fatto ha occupato lo spazio politico di questa formazione, che contava 15 seggi, e che si è presentata al voto divisa in due formazioni. Nel partito laburista si sono svolte le elezioni interne per eleggere il segretario e la vittoria è andata ad Amir Peretz (il candidato più a sinistra), segretario del sindacato, che si presentava con un programma di riforme e misure sociali che sembrava restituire al partito un’anima di sinistra e una funzione di riscossa sociale dopo tanto tempo di gestione conservatrice dell’economia. Tre parlamentari laburisti, ovvero tre ministri del governo Sharon, sono però passati a Kadima: Shimon Peres, segretario del Partito laburista uscente, Haim Ramon, ministro senza portafoglio (teorico e mediatore che ha ideato il nuovo partito) e Dalia Itzik, responsabile della Politica energica e alleata di Peres. Alla fine di gennaio il partito Kadima, considerato favorito, ha presentato le sue liste elettorali con capolista il premier Ehud Olmert, seguito dall’ex leader laburista Peres e dal ministro degli Esteri Tzipi Livni (assente Ariel Sharon sempre in coma farmacologico dopo l’ictus che lo aveva colpito nel dicembre 2005). Come partito di maggioranza Kadima ha dovuto difendersi dalle accuse di corruzione lanciate dagli avversari del Likud che hanno attaccato Olmert per come aveva gestito, da sindaco, Gerusalemme. Anche il ritiro dagli insediamenti è stato usato contro Kadima, così come i problemi di sicurezza. Si dice che i blitz delle settimane precedenti il voto (come quello al carcere di Gerico) siano state proprio una risposta a queste accuse, e che Olmert se ne sia servito come strumento elettorale per dimostrare che al ritiro dagli insediamenti non corrisponde una linea morbida in questioni di sicurezza. Il Partito laburista è stato attaccato, soprattutto attraverso il suo leader, Amir Peretz, accusato dagli avversari di non avere una “vera” esperienza politica essendo stato per anni capo dei sindacati. Il Likud, terzo grande partito, è stato ugualmente attaccato attraverso il suo leader, Netanyahu, a cui è stato rinfacciato un passato politico pieno di voltafaccia, oltre al suo lavoro come ministro del Tesoro: la politica di incentivi alle aziende ha provocato tagli sul sociale. Per quanto riguarda il Meretz (partito di sinistra) dopo la sconfitta alle ultime elezioni il leader storico del partito, Yossi Sarid, si era dimesso, creando un certo vuoto di identità. Contemporaneamente entrava nel Meretz un gruppo uscito a sinistra dai laburisti, deluso dall’appoggio di Peres al governo. I due gruppi si sono fusi, ma senza amalgamarsi e Yossi Bielin è diventato il nuovo segretario senza avere un consenso convinto degli attivisti. La comunità russa che alle elezioni precedenti contava su tre partiti si è presentata solo con Israel Beitenu (“Israele è casa nostra”) guidato da Avigdor Lieberman, in origine nel Likud, vicino a Netanyahu. Le elezioni erano state indette per favorire una politica possibilista verso i palestinesi, ma le elezioni in Palestina, che hanno portato Hamas al potere e indebolito Abu Mazen, hanno lasciato intuire che Israele tornerà alle sue posizioni passate. Com’era nelle previsioni, le consultazioni sono terminate con la vittoria di Kadima che ha conquistato 29 seggi su 120, davanti al Partito laburista di Amir Peretz che si è aggiudicato 19 seggi. Il partito ultra-ortodosso Shas ha ottenuto 13 seggi; il partito russofono di estrema destra Israel Beitenu 12 seggi (diventando così la nuova destra di Israele); il Partito nazionale religioso e Unione nazionale ha ottenuto 9 seggi; il Partito dei pensionati 8 seggi (è stato la sorpresa di queste elezioni: è una formazione di protesta scelta da tutti gli israeliani stanchi dei partiti tradizionali); al Partito dell’ebraismo unificato Torah sono andati 6 seggi; a Meretz 4 seggi; i tre partiti arabi insieme hanno conquistato 10 seggi. Vero e proprio tracollo per il Likud di Netanyahu che si è fermato a 11 seggi (nel 2003 ne aveva conquistati 40). Dopo che Kadima e laburisti hanno raggiunto un accordo per formare un governo di coalizione insieme anche agli ultrortodossi di Shas e al Partito dei pensionati, il 5 aprile il premier uscente Olmert ha ricevuto dal presidente Moshe Katsav l’incarico di formare il nuovo governo che può contare su di una maggioranza di 67 deputati su 120 nella Knesset (ma non è escluso un accordo con altri partiti religiosi e con i pacifisti di Meretz). Tzipi Livni è stata confermata al ministero degli Esteri mentre il leader laburista Peretz sarà il nuovo ministro della Difesa e Shimon Peres quello dello Sviluppo del Negev e della Galilea. Obiettivo del governo Olmert è la separazione unilaterale dalla Cisgiordania, rinunciando alla maggior parte degli insediamenti anche se lo Shas ha annunciato che potrebbe opporsi. Intanto solo nei primi quattro mesi dell’anno nello scambio di razzi tra palestinesi e israeliani, le Forze armate di Israele hanno lanciato nel Nord della Striscia di Gaza circa 300 granate al giorno. Se alla fine di marzo un kamikaze palestinese ha ucciso tre civili israeliani, solo ad aprile gli attacchi missilistici e gli aerei israeliani hanno causato 15 vittime palestinesi (tra cui un bambino di sette anni e una ragazzina). Poi, il 17 aprile durante la Pasqua ebraica e mentre Israele si apprestava a festeggiare l’apertura della nuova Knesset, il diciottenne Samer Salim Hamad si è fatto esplodere vicino alla vecchia stazione degli autobus di Tel Aviv: nove i morti e decine i feriti. Ha rivendicato l’attacco suicida la Jihad islamica, che ha subito inviato il video in cui Samir sostiene di “dedicare” l’attacco alle migliaia di detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. La reazione di Israele non si è fatta attendere: subito dopo l’attentato decine di jeep blindate sono entrate nel cuore di Nablus e numerosi palestinesi sono stati arrestati. Per gli israeliani, la responsabilità dell’attentato di Tel Aviv ricade sull’Anp nel suo complesso. Dal canto suo il presidente Abu Mazen ha stigmatizzato l’attacco come contrario agli interessi dei palestinesi, mentre il portavoce di Hamas, Sami Abu Zuhri, ha detto che l’attacco è il “naturale risultato” dell’aggressione israeliana: una posizione condivisa da altri ministri dell’esecutivo. Intanto i tentativi di Hamas di far valere una qualche autorità sui palestinesi non sono stati favoriti dal ritiro degli aiuti europei né dalla dichiarazione con cui Olmert ha giudicato Hamas in parte responsabile dell’attentato del 17 aprile: con quell’attentato kamikaze si è rotta la tregua tra la Jihad islamica e Hamas durata quattro mesi: dall’attentato terroristico del 19 gennaio alla vigilia delle elezioni palestinesi, all’attacco del 17 aprile. Tregua non scritta che la Jihad islamica aveva, in sostanza, concesso a Hamas, impegnato a costituire il primo governo senza Al Fatah della breve storia dell’Anp. La Jihad islamica aveva boicottato le elezioni, continuando nel lancio dei razzi Qassam, assieme alle Brigate dei martiri di Al Aqsa, ma astenendosi dal compiere attentati suicidi dentro le città israeliane, come invece aveva fatto per tutto l’anno precedente. L’attentato è avvenuto all’indomani della promessa dell’Iran di donare ai palestinesi 50 milioni di dollari in seguito alla decisione di Europa e Stati Uniti di congelare gli aiuti economici al governo di Hamas fino a quando il movimento non riconoscerà il diritto all’esistenza dello Stato di Israele e rinuncerà alla violenza come lotta politica. Sono proseguite intanto le azioni mirate di Israele contro gli attivisti palestinesi. Il 21 maggio a Gaza City è stato ucciso Mohammed Dahduh, esponente della Jihad islamica: per colpire l’auto sulla quale viaggiava, l’esercito israeliano non si è fatto scrupolo di sparare un missile in mezzo al traffico, uccidendo una famiglia intera di civili. All’alba del 23 maggio una squadra dei corpi speciali israeliani ha fatto irruzione nell’abitazione di Ibrahim Hamad, a Ramallah, in Cisgiordania, freddando il leader delle Brigate Ezzedine al-Qassam (braccio armato del movimento islamico Hamas), ritenuto la mente di alcuni degli attentati più gravi degli ultimi anni: l’attacco al Moment Cafè a Gerusalemme nel 2002, nel quale morirono 11 persone; quello, lo stesso anno, in un albergo a Rishion Letzion, nel quale persero la vita 16 persone, e, ancora nel 2002, quello alla Hebrew University di Gerusalemme, con 7 morti. Hamad era accusato anche del doppio attentato del 2003 a Gerusalemme, uno al Cafè Hillel e uno alla base militare di Tzrifin, nei quali persero la vita 15 persone. Per questi crimini l’Anp aveva imprigionato Hamad nel 1998, con l’accusa di attività antisraeliane, ma durante la Seconda Intifada, nel 2002, era stato rilasciato e al momento dell’attacco viveva nei pressi dalla casa di Abu Mazen. Quindi sembra difficile che le Forze armate israeliane si potessero spingere a tanto, in una zona di Ramallah, senza minimamente informare Abu Mazen di quello che stavano per fare. In realtà le cose potrebbero essere spiegate da un fattore sempre più evidente: la sempre maggior frequenza degli scontri tra i miliziani di Hamas e quelli di Al Fatah. La tensione tra le milizie, ormai diventate due forze di sicurezza dell’Anp contrapposte, si è fatta sempre più aspra e a Ramallah è più forte Al Fatah. Se non ha avallato l’operazione per arrestare Hamad, non l’ha certo impedita. Con il pretesto di costringere i palestinesi a rilasciare un soldato rapito, Gilad Shalit, tra il 27 e il 28 giugno l’esercito israeliano ha lanciato una pesante offensiva nella Striscia di Gaza, la cosiddetta operazione “Pioggia d’estate” (Shalit era stato rapito il 25 giugno da un commando palestinese che, passato il confine con Israele attraverso un tunnel, ha attaccato un posto militare vicino al kibbutz di Kerem Shalom, uccidendo due soldati israeliani). L’aviazione e i carri armati israeliani hanno bombardato ponti, strade aeroporti e centrali elettriche (distruggendo l’unica centrale elettrica della Striscia). Dopo aver respinto un ultimatum lanciato da tre gruppi armati palestinesi (Brigate Ezzedine al-Qassam, i Comitati di resistenza popolare e l’Esercito dell’Islam) che chiedevano il rilascio di mille detenuti in cambio della liberazione del soldato Shalit, il primo ministro Olmert ha ordinato nuovi raid nella Striscia: colpiti il ministero dell’Interno, l’ufficio del premier Haniyeh, l’Università islamica di Gaza e alcune sedi di Hamas. Parallelamente il governo svizzero, depositario della Convenzioni di Ginevra, accusava il governo israeliano di aver violato il diritto internazionale punendo l’intera popolazione palestinese. Le convenzioni, infatti, proibiscono di prendere di mira servizi essenziali per la popolazione civile, quali l’elettricità e l’acqua. È parso evidente che la prolungata attività bellica non dipendeva dalla cattura del soldato Shalit. L’episodio è stato usato come pretesto per rioccupare alcune parti del territorio e creare una zona demilitarizzata nel Nord per fermare il lancio dei razzi Qassam. Israele ha intensificato le operazioni militari proprio nello stesso giorno dell’accordo annunciato tra Al Fatah e Hamas sul documento dei prigionieri. Mentre continuava l’offensiva di Israele con l’occupazione di tre ex insediamenti colonici nel Nord della Striscia, saliva la tensione al confine con il Libano, dove si apriva un altro fronte di battaglia in seguito all’uccisione di altri soldati israeliani da parte di Hezbollah (12 luglio): il governo israeliano ha reagito bombardando alcuni obiettivi nel Libano del Sud e mobilitando i riservisti. Benché il segretario generale dell’Onu Kofi Annan abbia accusato il governo israeliano di fare un uso eccessivo della forza nella Striscia di Gaza, mettendo a rischio la vita dei civili, l’operazione “Pioggia d’estate” è stata estesa alla Cisgiordania, portando all’arresto di 64 dirigenti di Hamas, tra cui 8 ministri e 26 deputati. La morsa di Israele dunque non si è allentata, né ha fatto progressi il fronte diplomatico, dopo che il governo di Olmert ha respinto un’offerta di tregua lanciata dal premier Haniyeh. I combattimenti sono continuati, la situazione umanitaria peggiorata ed è cresciuto il numero delle vittime. La Marina militare ha bersagliato piattaforme palestinesi utilizzate per il lancio di razzi Qassam nel Nord della Striscia, ma Israele è stata colpita comunque. A 11 giorni dall’inizio dell’operazione “Pioggia d’estate” il premier Haniyeh ha lanciato un appello ai miliziani palestinesi e a Israele per un cessate il fuoco. La risposta però è stata negativa: “nessuna tregua” ha ribadito il primo ministro Ehud Olmert, se prima non ci sarà la liberazione di Shalit. Intanto tutta la stampa israeliana condannava il governo per la sua gestione della guerra in Libano e chiedeva le dimissioni di Olmert. La tensione è ulteriormente cresciuta quando il 4 settembre il governo israeliano ha approvato la costruzione di 690 case in due insediamenti colonici vicino a Gerusalemme, nei Territori occupati. Olmert ha spiegato che il ritiro unilaterale dalla Cisgiordania non è più all’ordine del giorno “dopo il fallimento del ritiro dalla Striscia di Gaza e la guerra in Libano”. L’Anp ha denunciato il piano, accusando Israele di voler proseguire la sua politica coloniale compromettendo gli sforzi per rilanciare il processo di pace. A ottobre era ancora in corso l’offensiva lanciata nella Striscia di Gaza dopo il rapimento del soldato Shalit e a metà del mese erano circa 250 i palestinesi uccisi. Ha suscitato molte preoccupazioni l’allargamento della maggioranza di governo israeliana al nuovo partito ultranazionalista Israel Beiteinu di Avigdor Lieberman, entrato nell’esecutivo come ministro degli Affari strategici (30 ottobre). Il governo Olmert, fortemente in difficoltà alla fine del conflitto con il Libano, ha inteso così recuperare i consensi perduti. Molti hanno giudicato questa mossa pericolosa per qualsiasi tentativo di avviare trattative di pace dal momento che Lieberman è il simbolo dell’ultranazionalismo israeliano che rasenta il razzismo e si è espresso a favore dell’annessione della Westbank, piena di insediamenti ebraici. I primi di novembre Israele ha lanciato una nuova operazione militare denominata “Nubi d’autunno” a Beit Hanun, nel Nord della Striscia di Gaza. Per Tel Aviv si trattava di un’importante operazione di sicurezza per fermare il lancio di razzi Qassam contro la cittadina israeliana di Sderot. Dopo sette giorni di assedio (in cui i palestinesi sono rimasti senza acqua, elettricità e cibo), le Forze armate israeliane avevano ucciso almeno 74 persone e all’alba del 9 novembre i colpi israeliani hanno centrato le case della famiglia Athamah: 18 palestinesi sono morti (tutti civili, tra cui otto bambini e sei donne). Si sarebbe trattato di un errore della batteria di artiglieria israeliana che stava mirando a un obiettivo da cui sarebbero partiti i razzi Qassam caduti il 7 novembre su Ashkelon. Il premier Olmert si è scusato per l’errore ma ha fatto sapere che le operazioni nella Striscia di Gaza sarebbero proseguite. Immediata la reazione dei palestinesi alla strage: mentre proseguivano i lanci di razzi Qassam, caduti su Sderot, i gruppi armati minacciavano la ripresa degli attentati suicidi dentro le città israeliane, drasticamente diminuiti nell’ultimo anno e mezzo (tra gli estremisti solo la Jihad islamica ha continuato a compiere attacchi kamikaze, mentre Hamas ha rispettato una tregua di fatto dal febbraio del 2005, tregua che ora alcuni esponenti del braccio armato vorrebbero rompere). La minaccia degli attentati, però, non è stata fatta dalla leadership politica: il premier Haniyeh ha invece chiesto all’Onu di intervenire per fermare Israele. La strage degli Athamah ha avuto un impatto negativo sul negoziato in corso tra il presidente Abu Mazen e Ismail Haniyeh per il nuovo governo di unità nazionale, dichiarato sospeso dal premier. In ogni caso tutta la dirigenza dell’Anp ha chiesto l’intervento della comunità internazionale e dell’Onu perché imponesse a Israele il rispetto della legalità internazionale senza escludere la possibilità di un intervento con una forza d’interposizione come accaduto in Libano, forza di interposizione che però necessita del benestare di tutte le parti in campo. Dal canto suo, Israele ha continuato i suoi raid mirati dentro Gaza. Il 17 novembre l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha approvato con 156 voti favorevoli e 7 contrari una risoluzione che chiede la fine delle operazioni dell’esercito israeliano nella Striscia di Gaza e del lancio dei razzi da parte dei palestinesi verso il Sud di Israele. La risoluzione chiede inoltre una Commissione d’inchiesta sull’uccisione dei civili a Beit Hanun. Il governo israeliano ha inizialmente respinto la risoluzione, ma il 25 novembre Israele e Anp hanno concluso un accordo sul cessate il fuoco nella Striscia di Gaza. I gruppi armati palestinesi si sono impegnati a mettere fine al lancio di razzi e in cambio l’esercito israeliano si è ritirato dalla Striscia. Ciononostante una fazione delle Brigate dei martiri di Al Aqsa e un gruppo minore, l’Esercito dell’Islam, hanno proseguito con il lancio dei razzi mettendo in pericolo la tregua. Infine il confronto tra Hamas e Al Fatah ha rischiato di degenerare in guerra civile quando la sera del 14 dicembre il premier Haniyeh, a Rafah, è stato il bersaglio di un attentato (fallito), mentre stava rientrando con gli aiuti raccolti da un tour che lo aveva portato in Iran e in altri Paesi arabi: il convoglio sul quale viaggiava è stato attaccato nell’area sotto il diretto controllo di Forza 17, la guardia presidenziale di Abu Mazen (ferito gravemente il figlio e un consigliere di Haniyeh). La dirigenza di Hamas ha accusato Mohammed Dahlan, l’uomo forte di Al Fatah a Gaza di essere implicato nell’accaduto. A Khan Younis, la città da cui Dahlan proviene e che ancora rimane la sua roccaforte, quattro giorni prima dell’attentato contro Haniyeh è stato ucciso un giudice legato ad Hamas, il giorno dopo l’esecuzione dei tre figli di Baha Balousheh, l’ufficiale della sicurezza legato ad Abu Mazen.
Dopo che l’Hezbollah (la formazione sciita libanese) ha bombardato le postazione dell’esercito israeliano al confine tra Israele e Libano, uccidendo almeno tre soldati e sequestrandone altri due (12 luglio), il governo israeliano ha ordinato un’offensiva aerea e terrestre nel Sud del Libano. I caccia di Tel Aviv hanno martellato le postazioni di Hezbollah lungo il confine, ma anche nei pressi delle due principali città costiere di Tiro e Sidone. Colpite anche infrastrutture nella valle della Beqaa, così come gli aeroporti militari di Riyaq e Qolei’at e quello civile della capitale. Le bombe hanno distrutto in un paio di giorni palazzi e depositi di carburante. Israele ha deciso anche di isolare via terra il Paese, lanciando i suoi caccia contro l’autostrada che collega Beirut alla vicina Siria (14 luglio). Centinaia i morti. Intanto, dal governo libanese, che ha preso le distanze dall’operazione di Hezbollah, giungeva la richiesta di un cessate il fuoco. Tuttavia i razzi sparati dal Sud del Libano hanno colpito Haifa, la terza città israeliana. Com’era prevedibile la risposta di Israele non si è fatta attendere. Paradossalmente Israele ha attaccato per fermare il terrorismo, ma si tratta di una scelta destinata a produrre effetti opposti come hanno dimostrato le vicende degli ultimi anni. Di fatto questa politica ha dato credibilità e ora anche il potere politico, a gruppi come Hamas ed Hezbollah, che hanno come primo obiettivo la lotta contro l’occupazione israeliana nei rispettivi Paesi. Sia i libanesi sia i palestinesi hanno reagito agli attacchi sempre più duri di Israele contro i civili sostenendo leadership in grado di proteggerli e nello stesso tempo di garantire i servizi essenziali. Infine la campagna di resistenza contro Israele ha conquistato consensi politici non solo in Medio Oriente, ma in buona parte del resto del mondo, facendo il gioco di Siria e Iran ispiratori ideologici e finanziatori di Hamas ed Hezbollah. Il 19 luglio è stato colpito per la prima volta il centro della capitale Beirut, mentre Hezbollah proseguiva senza sosta il lancio di missili verso il Nord di Israele. L’Onu ha chiesto un cessate il fuoco immediato, proponendo l’invio di una forza di pace, ma il premier israeliano Olmert, sostenuto dagli Usa, ha respinto la tregua accusando Siria e Iran di essere coinvolti. Il 13 agosto è stata approvata all’unanimità la risoluzione 1.701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite che ha chiesto l’“immediata cessazione delle ostilità tra Hezbollah e Israele” con il dispiegamento di circa 15.000 Caschi blu dell’Unifil per appoggiare l’esercito libanese e il contemporaneo ritiro progressivo delle forze israeliane e di Hezbollah a Nord del fiume Litani. Il 14 luglio è entrato quindi in vigore il cessate il fuoco: circa 1.300 libanesi, in maggioranza civili, e più di 150 israeliani sono morti nel conflitto. Compito principale dei Caschi blu – 7.000 dei quali saranno forniti dall’Ue e il contingente più numeroso è quello inviato dall’Italia – sarà quello di far rispettare la tregua. Ciononostante il 19 agosto Israele ha compiuto un raid aereo nell’Est del Libano per impedire la consegna di armi ad Hezbollah da parte dell’Iran e della Siria. Questo mese di guerra ha avuto un’enorme importanza politica per il Medio Oriente. Se Israele e Stati Uniti si prefiggevano di umiliare Siria e Iran, hanno fallito il loro scopo, mentre la reputazione di Hezbollah è cresciuta in tutto il mondo arabo. L’appoggio incondizionato di Washington alla campagna militare israeliana ha finito per unire sciiti e sunniti in un unico fronte antiamericano; ha rafforzato le milizie filoiraniane in Iraq; ha distolto l’attenzione dal nucleare iraniano; ha definitivamente compromesso l’immagine di Washington come imparziale mediatore tra israeliani e arabi e ha alimentato il terrorismo. Sia i militari israeliani che i sostenitori di Hezbollah si sono autoproclamati vincitori di questa guerra. In Israele il quotidiano “Ha’aretz” ha pubblicato un editoriale in cui si chiedevano le dimissioni del capo di Stato maggiore Dan Halutz, accusato di aver commesso molti errori (16 agosto). Il vero problema è che non è stato raggiunto l’unico obiettivo che potesse ripagare lo Stato d’Israele della decisione di aprire un secondo fronte in Libano, proprio mentre sulla Striscia di Gaza infuriava l’operazione “Pioggia d’estate”: la distruzione della rete degli Hezbollah. Il movimento sciita ha certamente subito un colpo durissimo ma è riuscito nell’intento di serrare le fila, proteggere il suo leader Hassan Nasrallah e guadagnarsi il sostegno di una parte del mondo arabo e islamico. In compenso, Israele ha dovuto pagare un prezzo molto alto a livello d’immagine e di opinione pubblica internazionale, con le immagini della strage di Cana che hanno fatto il giro del mondo. Senza contare le perdite di Tsahal, l’esercito israeliano, che sono state cospicue (emblema di queste perdite sarà il giovane Uri Grossman, il figlio dello scrittore David, che per la prima volta si era schierato a favore della risposta armata). Così come quello militare anche il bilancio politico è stato poco soddisfacente per Israele. Dopo il plebiscito iniziale che ha accompagnato l’attacco a Hezbollah, la maggioranza degli israeliani ha criticato la condotta delle operazioni da parte del ministro della Difesa Peretz e si è detta insoddisfatta della tregua, accettata senza la preventiva liberazione dei due militari catturati il 12 luglio. L’operato di Olmert e del suo governo ha finito per scontentare tutti, sia i sostenitori di Kadima che i laburisti di Peretz. Yossi Sarid, deputato dell’opposizione di sinistra del partito Meretz, ha colto subito l’occasione per attaccare il Partito laburista, chiedendosi come possa definirsi di sinistra la squadra di Peretz. Dall’altra parte, l’opposizione di destra guidata da Benjamin Netanyahu ha sottolineato come la politica del ritiro unilaterale da Gaza e dal Libano non abbia garantito la sicurezza d’Israele. Il Libano, che stava faticosamente ritornando alla normalità dopo 15 anni di guerra civile, ha pagato un prezzo altissimo per il conflitto con circa mille civili morti, migliaia di persone che hanno perso la propria casa e il proprio lavoro. La situazione è disastrosa: solo per le infrastrutture, il danno per le casse libanesi è di oltre 2,5 miliardi di dollari. Al danno economico va aggiunto quello ambientale, con circa 120 dei 220 km di costa compromessi dall’enorme quantità di combustibile e olio riversata in mare dalla distruzione della centrale elettrica di Jiyyeh. Anche l’assetto politico libanese è stato sconvolto da questa guerra. Il principale risultato ottenuto dalla politica di pacificazione del dopo guerra civile era stato l’ingresso di Hezbollah nel governo, con due ministri. Sembrava così avviata una conversione della milizia sciita filoiraniana in un partito tradizionale. Con il ritiro dell’esercito siriano era iniziata la stagione delle autobomba, che era costata la vita all’ex premier Rafik Hariri e a tanti altri esponenti del fronte antisiriano, ma anche questa fase sembrava avviata alla conclusione: proprio per il 12 luglio, data d’inizio delle ostilità, era in programma una seduta decisiva del Dialogo nazionale, un tavolo di negoziati dove sedevano sciiti, sunniti, filosiriani, antisiriani, cristiani e drusi. Non è ancora chiaro se Hezbollah abbia deliberatamente provocato Israele per legittimarsi di nuovo come movimento di resistenza ed evitare così il disarmo, o è stato costretto a farlo dall’Iran, desideroso di distogliere gli occhi del mondo dal suo programma nucleare. Comunque Hezbollah si è di nuovo accreditato come bastione contro la violenza di Israele. Al contrario di ogni previsione israeliana, l’opinione pubblica libanese si è ricompattata, con sunniti e cristiani che hanno accolto gli sciiti in fuga dal Sud. Beirut si è persino riavvicinata a Damasco, da cui si era allontanata dopo l’omicidio Hariri. Il 14 agosto è partito il programma di indennizzi di Hezbollah, che ha già distribuito denaro a numerose famiglie, erogato con fondi provenienti da donatori africani, sudamericani, statunitensi e ovviamente iraniani. Sul piano strettamente politico in novembre si sono dimessi sei parlamentari vicini ad Hezbollah che hanno abbandonato l’esecutivo dopo la decisione del governo di approvare la creazione di un tribunale internazionale incaricato di giudicare i responsabili dell’omicidio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri (decisione giudicata illegittima dal presidente filosiriano Emile Lahoud). Il ritiro dei sei parlamentari ha fatto fallire per l’ennesima volta i colloqui interreligiosi, rimandati a data da destinarsi. Il premier libanese Fuad Sinora ha respinto le dimissioni, ma i sei hanno ribadito le loro decisioni. Secondo la maggioranza antisiriana, le dimissioni sono la mossa orchestrata da Siria e Iran, per bloccare l’istituzione del Tribunale internazionale per l’omicidio di Hariri, prevista dalla risoluzione 1.701 delle Nazioni Unite. Ma il 13 novembre il Parlamento libanese è comunque riuscito ad avere la maggioranza in aula e ha approvato l’istituzione della Corte. Il tribunale verrà istituito fuori dal Libano (probabilmente a Cipro), si baserà sulla legislazione libanese e internazionale e dovrà tenere conto delle indagini svolte dalla commissione delle Nazioni Unite. L’ultimo rapporto non è stato reso pubblico, ma secondo indiscrezioni, il documento contiene accuse esplicite a Damasco. L’anno si è chiuso con l’uccisione a Beirut da parte di un commando armato del ministro dell’Industria Pierre Gemayel, membro di una delle famiglie maronite più potenti in Libano (21 novembre). I funerali del ministro (23 novembre), alla presenza di una folla imponente e ingenti misure di sicurezza, sono stati trasformati dalle “forze del 14 marzo” (Hariri, Jumblatt e Geagea), in cui i falangisti di Gemayel si riconoscono, in una vera e propria manifestazione contro la Siria, il presidente libanese Lahoud, e l’opposizione al governo (Hezbollah, Amal e Aoun). Ritratti di Lahoud, Assad e Ahmadinejad sono stati bruciati, mentre la folla ha scandito e urlato slogan fortemente antisiriani. L’uccisione di Gemayel ha riportato alla luce vecchi contrasti tra i cristiani: da una parte i falangisti e dall’altra gli shebeb (i ragazzi) di Aoun. Prima dell’uccisione di Gemayel, il Paese già viveva una crisi politica, acuita dalle dimissioni dei sei ministri (cinque sciiti membri dei partiti filosiriani Hamas ed Hezbollah e uno cristiano ortodosso). Il governo di Fuad Sinora, a giudizio di molti, appare incostituzionale in quanto appoggiato solo dalla coalizione sunnita, drusa e cristiana, cosiddetta del “14 marzo” mentre, secondo gli Accordi di Taef del 1989 (che posero fine alla guerra civile), le decisioni del governo sono valide con la maggioranza dei due terzi dei suoi membri. Attualmente dei 24 membri del governo Sinora ne sono rimasti solo 17, inferiori quindi ai due terzi. Il 1° dicembre infine centinaia di migliaia di persone hanno partecipato a una manifestazione di Hezbollah a Beirut per costringere Sinora alle dimissioni e ottenere un nuovo governo di unità nazionale. La mobilitazione è proseguita ad oltranza e Sinora ha accusato Hezbollah di voler attuare un colpo di Stato.
Da sei anni il presidente della Siria Bashar el-Assad vive nel solco tracciato dal padre, senza prendere nessuna iniziativa personale. Aveva promesso riforme economiche chiedendo la collaborazione di specialisti siriani della Banca mondiale, ma è subito diventato chiaro che una trasformazione profonda avrebbe colpito gli interessi di personaggi influenti e le riforme si sono arenate. Il presidente più di una volta ha ordinato la liberazione di prigionieri politici e ha autorizzato alcuni gruppi della società civile a riunirsi. Ma poi ha anche ordinato lo scioglimento di queste organizzazioni, così come l’arresto di centinaia di attivisti. Il 12 settembre le forze di sicurezza hanno sventato un attacco alla sede diplomatica Usa a Damasco: quattro i morti (tre terroristi e un uomo della sicurezza).
L’11 febbraio il presidente dello Yemen Alí Abdallah Saleh ha operato un vasto rimpasto di governo, rimpiazzando molti ministri con tecnocrati. I 32 ministri appartengono, come prima, al partito di governo del presidente, il Congresso generale del popolo (General People’s Congress, Gpc). Il rimpasto ha fatto seguito all’evasione di 23 terroristi di Al Qaeda dal carcere di Sana’a. La questione è rilevante per due ragioni. La prima è che il ministro dell’Interno del precedente governo, che molti ritenevano avrebbe pagato per la fuga dei terroristi, è rimasto al suo posto, ed è stato anche promosso a vice premier. Inoltre, è rimasto al suo posto il direttore della prigione teatro della fuga. Con ciò confermando l’impopolarità della guerra al terrorismo. La seconda ragione è il motivo politico che ha originato il rimpasto: secondo molti analisti esso è stato fatto per aumentare la popolarità del presidente Saleh in vista delle elezioni presidenziali di settembre. Elezioni presidenziali a cui aveva detto che non si sarebbe ripresentato (luglio 2005), per poi annunciare di doversi “piegare” alle pressioni popolari per una sua ricandidatura “per il bene della nazione” (il 17 dicembre 2005, al congresso del suo partito). Saleh aveva promesso di non farlo: ma siccome la guerra al terrorismo segna il passo, gli Usa non hanno potuto abbandonarlo e hanno dovuto sostenerlo. Il 20 settembre si sono dunque tenute le elezioni e il presidente uscente Saleh, in carica da 28 anni, si è trovato per la prima volta a confrontarsi con un avversario vero. Il presidente ha incentrato la campagna elettorale su modernizzazione, sicurezza e apertura graduale all’Occidente, mentre le opposizioni hanno criticato la lentezza del processo democratico e la corruzione dilagante nelle istituzioni. Saleh ha fatto leva sulla necessità di contenere il radicalismo islamico nel Paese, sottolineando i vantaggi derivanti dall’alleanza con gli Stati Uniti, stretta all’indomani dell’11 settembre. Oltre al rischio terrorismo, un altro problema per la sicurezza è il ripetersi dei rapimenti di turisti, fenomeno che minaccia il turismo nazionale e un sintomo del malessere delle tribù che abitano le zone rurali del Paese. Proprio al termine della campagna elettorale, il governo ha annunciato di aver raggiunto un accordo di cooperazione con gli Usa, che doneranno 1,76 milioni di dollari per combattere la corruzione e promuovere la trasparenza di governo, a condizione che il presidente sia ancora Saleh. Il principale avversario di Saleh era Faysal bin Shamlan, candidato della coalizione dei partiti di opposizione (Joint Meeting Parties) il cui slogan era un velato attacco al presidente “Un presidente per lo Yemen, non uno Yemen per il presidente”. Secondo diversi osservatori yemeniti, il progetto di Saleh di democratizzare il Paese è fallito; ciononostante alcuni partiti di opposizione si sono mostrati riluttanti a contestare il suo potere e diverse formazioni, tra cui Islah, il partito islamico, non hanno presentato un proprio candidato, sostenendo tiepidamente bin Shamlan. Il Gpc era in testa nei sondaggi anche perché alcuni esponenti dell’opposizione in esilio sono rientrati nel Paese per sostenere il presidente uscente: lo sceicco Abdullah al Ahmar, presidente del partito islamico Islah, Abdul Rahman al Jafri e Muhsen bin Fareed del Partito dei Figli dello Yemen, Ray. Questi cambi di campo hanno suscitato non poche polemiche tra gli avversari del Gpc, che hanno accusato il partito del presidente di non essersi limitato alla campagna elettorale e di aver tentato di portare dalla propria parte alcuni avversari politici. Il giorno del voto da più parti si sono levate denunce di intimidazione degli elettori. Per evitare di compromettere le elezioni con brogli o violenze, la Commissione elettorale nazionale ha richiesto alla Commissione europea l’invio di osservatori. Le consultazioni sono terminate con la vittoria di Saleh che ha ottenuto il 77,17% dei voti contro il 21,82% del suo principale avversario, Faysal bin Shamlan. Le opposizioni hanno denunciato irregolarità ma per la prima volta il voto è stato caratterizzato dalla presenza di più di un candidato. Intanto lo Yemen è sottoposto a forti tensioni cominciate nel giugno del 2004: uno scontro tra il governo centrale e un gruppo tribale della provincia di Saada, al confine con l’Arabia Saudita, la cosiddetta Gioventù credente (responsabile degli ultimi rapimenti di turisti) seguace dello Zaidismo, una forma di sciismo radicata negli altipiani dello Yemen del Nord. Lo scontro si intreccia con motivi tribali e di potere locale, ma ha anche motivazioni religiose e regionali. Le motivazioni locali risiedono nel fatto che il regime teme che la Gioventù credente voglia il ritorno dell’imamato zaidita, che ha regnato nello Yemen del Nord per mille anni, fino al 1962, quando fu deposto e nacque la repubblica. Da allora fra gli sciiti zaiditi (35% degli yemeniti) hanno perso terreno i religiosi e hanno preso il sopravvento i laici, tra cui il presidente Saleh, anch’egli uno zaidita. Ma oggi a questo scontro se ne unisce uno regionale: Saleh si è schierato con gli Usa e la loro guerra al terrorismo, perché ha bisogno del loro sostegno per rimanere al potere, mentre l’élite religiosa e il popolo sono contrari, per il motivo opposto. Così in un Paese dove la difesa assorbe il 40% del Pil, ma la stessa percentuale di popolazione vive sotto il livello di povertà, si è riacceso lo scontro politico sul ruolo degli sciiti e di chi debba guidarli. L’intervento in Iraq inoltre ha rafforzato gli sciiti religiosi e regionalizzato lo scontro.
Passiamo ora all’Asia centrale e al Caucaso. La guerra in Afghanistan, che a fine 2001 sembrava finita, è ripresa poco dopo e, anno dopo anno, sta crescendo in intensità. Intere regioni del Sud sono di nuovo sotto il controllo dei talebani e tutto il Paese è a rischio attentati. A distanza di cinque anni dall’11 settembre, non solo non è stata vinta la guerra “non convenzionale” contro il terrorismo, ma neppure quelle convenzionali contro l’Afghanistan e l’Iraq. L’Afghanistan è ben lungi dall’essere pacificato perché la resistenza armata dei talebani non è stata sconfitta e anzi in quest’ultimo anno si è rafforzata. I primi tre anni di “dopoguerra” hanno visto un progressivo indebolimento della resistenza talebana e un conseguente calo dell’intensità dei combattimenti: 1.500 morti nel 2002, 1.000 nel 2003, 700 nel 2004. Ma i talebani, rifugiatisi in Pakistan, riorganizzatisi grazie al sostegno dei servizi segreti di Islamabad (Isi), all’appoggio dei movimenti integralisti pachistani e alle armi acquistate con gli incassi eccezionali del raccolto d’oppio del 2004 e del 2005, sono dilagati dal confine pachistano riprendendo sostanzialmente il controllo di tutto l’Afghanistan meridionale e infiltrandosi anche nelle maggiori città. Il 2005 si è chiuso con un bilancio di oltre 2.000 morti e il 2006 non si è aperto sotto migliori auspici (750 morti solo nei primi 4 mesi dell’anno), anzi con l’aggravante del ricorso agli attentati suicidi da parte dei talebani. Il drastico aumento delle perdite nel corso del 2005 (unite a quelle irachene) ha costretto gli Usa a ritirarsi dalle zone più pericolose (Kandahar, Helmand e Uruzgan), lasciando agli alleati della Nato il compito di combattere i talebani al posto loro, accettando dopo cinque anni le offerte di aiuto che l’Alleanza offrì alla Casa Bianca dopo l’11 settembre 2001. Di qui il cambiamento di fatto della missione Isaf, la forza multinazionale della Nato in Afghanistan: da missione di pace e stabilizzazione a missione di guerra. Un cambiamento che in alcuni Paesi coinvolti ha suscitato aspri dibattiti e incontrato non poche resistenze, messe però a tacere. Londra, Ottawa e Amsterdam hanno invitato nel Sud dell’Afghanistan 7.400 soldati, consentendo agli Stati Uniti, già impegnati in Iraq, di smobilitare migliaia di soldati. I talebani hanno accolto i nuovi arrivati con agguati, attentati suicidi, attacchi missilistici, che hanno causato diversi morti. Anche l’Italia si è trovata coinvolta in questa nuova guerra in quanto membro della Nato. Il 5 maggio un ordigno ha fatto saltare in aria un convoglio italiano, a sud-est di Kabul, uccidendo il tenente Manuel Fiorito, II reggimento Alpini di Cuneo, e il maresciallo ordinario Luca Polsinelli del IX reggimento Alpini dell’Aquila. Le truppe italiane presidiano Kabul da tre anni, ma se fino a ieri le tre province considerate a rischio-attentati erano quelle più a Sud (Uruzgan, Helmand e Kandahar), ora l’intero Paese deve stare in allerta. Così più passano i giorni e più l’Afghanistan assomiglia all’Iraq: nella settimana del 25 maggio per la prima volta, ha superato l’Iraq per numero di morti: 392 contro 174. L’escalation degli attacchi talebani si spiegherebbe con la nomina, da parte del mullah Omar, di Jalaluddin Haqqani come nuovo comandante generale delle operazioni militari talebane. Haqqani, stratega della guerriglia fin dai tempi della jihad contro i sovietici, sarebbe stato messo al comando delle operazioni talebane per rinvigorire l’offensiva di primavera. A Haqqani sarebbe stato dato il compito di mobilitare i quadri talebani anche nell’Est dell’Afghanistan in collaborazione con Gulbuddin Hekmatyar, attivo in quelle regioni. Più in generale, in tutte le zone pashtun del Paese i vertici talebani stanno cercando di mobilitare i signori della guerra per promuovere una rivolta armata generale contro il governo di Kabul e le forze straniere. L’obiettivo della Coalizione di garantire sicurezza e sviluppo all’Afghanistan sta dunque fallendo. La vittoria delle forze alleate in Afghanistan nel 2001 è stata fulminante. Sbaragliato il regime talebano, il Paese si è dato una Costituzione, un presidente e un Parlamento. Tuttavia la promessa ricostruzione non è mai iniziata mettendo così in discussione il senso stesso della presenza militare occidentale. Di qui l’incremento drammatico degli attacchi terroristici contro la Coalizione mentre i talebani hanno occupato diversi distretti costringendo i rappresentanti locali del governo alla fuga. A cinque anni dalla sconfitta del regime talebano, l’Afghanistan rimane tra i cinque Paesi più poveri al mondo con un vita media pari 46 anni d’età. Nel Sud del Paese la povertà dilaga ed è esasperata dalle frequenti carestie che colpiscono gli sfollati costretti ad abbandonare i villaggi distrutti nei combattimenti. Agli sfollati, privi di assistenza umanitaria, si aggiungono i coltivatori d’oppio che hanno perso la loro fonte di reddito. Le statistiche in realtà dicono che il 2006 è stato un anno record per la produzione d’oppio, record che si deve paradossalmente alle province dove è più forte la presenza talebana; dove invece sono stati implementati i programmi antioppio occidentali, i contadini fanno la fame. D’altro canto in Afghanistan la spesa militare della comunità internazionale supera del 90% quella per la ricostruzione. I principali organismi umanitari internazionali denunciano poi un forte calo dei finanziamenti, e tra i fondi stanziati, gran parte vengono sprecati per garantire sicurezza ai dipendenti dei programmi umanitari. E ancora, solo il 10% della popolazione ha accesso all’acqua: manca per le coltivazioni e forse questa è una delle ragioni alla base dell’impennata nella produzione di oppio, che non ha bisogno di irrigazione per crescere. Manca l’elettricità: ne usufruisce solo il 20 % della popolazione. Il risultato è che dopo cinque anni di presenza in Afghanistan, gli afghani cominciano a chiedersi cosa abbiano da guadagnare dalla presenza militare straniera sul proprio territorio. Una presenza in grado di non fare nulla di significativo per migliorare le loro condizioni di vita. Servono ospedali, scuole, strade e soprattutto lavoro e sviluppo economico. Sul crescente malcontento dei cittadini afghani pesa anche la scia di odio creata dalle troppe vittime civili morte sotto i bombardamenti: ed è questo il terreno politico grazie al quale i talebani stanno riconquistando consensi tra la popolazione. Per far fronte all’emergenza la Nato ha chiesto più soldati per intensificare lo sforzo bellico. A far crescere la tensione, il 29 maggio un autotreno militare Usa, passando tra la folla ha investito delle auto civili provocando morti e feriti. La popolazione è scesa in piazza contro i militari statunitensi che hanno cominciato a sparare sulla folla uccidendo un numero imprecisato di persone. Nonostante il dispiegamento in forze dell’esercito afghano, dalla periferia i manifestanti sono confluiti verso il centro di Kabul dove hanno fatto irruzione nel palazzo del Parlamento. Il presidente Hamid Karzai ha deliberato che i funzionari pubblici restassero chiusi nelle loro case e l’ambasciata statunitense è stata evacuata. Eppure è stato ripetuto che il Paese è pacificato, che l’intervento occidentale contro i talebani è stato un successo e un grande passo avanti verso la pace. Mentre Kabul bruciava, dal Sud del Paese continuavano a giungere notizie di guerra. L’aviazione Usa ha bombardato una moschea nella provincia di Helmand, distretto di Kajaki, ed è stata diffusa la notizia che sono stati uccisi “una cinquantina di talebani”, in realtà ha ucciso almeno una trentina di civili, comprese donne e bambini. Si sono moltiplicati bombardamenti aerei, stragi di civili e attentati suicidi, in un clima di crescente insofferenza popolare verso le truppe d’occupazione straniere. Il 15 giugno il comando delle forze Usa ha lanciato la più grande offensiva militare mai vista dal 2001, la cosiddetta “Offensiva di montagna”: oltre undicimila soldati delle forze speciali statunitensi, britanniche, canadesi e afghane hanno attaccato con artiglieria pesante, mezzi corazzati e supporto aereo, le roccaforti dei talebani nelle province di Helmand, Kandahar, Uruzgan e Zabul. Obiettivo strategico dell’operazione era quello di estendere fino a qui l’autorità del governo centrale di Kabul ma soprattutto quello di “bonificare” la zona e “creare le condizioni adatte” in vista del passaggio del controllo del Sud dell’Afghanistan dagli Usa alla Nato-Isaf, avvenuto il 30 luglio. Il 19 luglio i talebani hanno conquistato i distretti di Garamser e Nawa-i-Barakzayi, nel Sud della provincia di Helmand, arrivando così a soli 20 km dal capoluogo, Lashkargah, dove si trova il quartier generale delle forze Nato-Isaf britanniche. Le locali forze di sicurezza afghane sono fuggite davanti all’avanzata dei combattenti del mullah Omar, che hanno quindi preso il controllo di uffici governativi e caserme. Temendo i bombardamenti Usa, centinaia di civili hanno lasciato i villaggi lungo le rive del fiume Helmand, dirigendosi a Nord verso Lashkargah. Anche tutte le Ong internazionali che ancora operavano nella provincia di Helmand hanno evacuato la zona, tranne l’organizzazione italiana Emergency, che a Lashkargah ha un ospedale. I talebani controllano quindi ormai tutta la provincia di Helmand, tranne il capoluogo ancora sotto controllo delle forze afghane e britanniche. Situazione analoga nel vicino distretto di Naw Zad, dove le truppe britanniche continuano ad essere attaccate in forza dai talebani nonostante i massicci bombardamenti aerei effettuati sui loro nascondigli. Bombardamenti che finiscono per colpire anche civili e strutture come scuole o ospedali (a Naw Zad è stato bombardato l’ospedale locale). Le stragi di civili non fanno che aumentare il risentimento popolare verso le truppe d’occupazione straniere e la simpatia verso la resistenza talebana, che ora offre un salario di 400 dollari al mese ai giovani dei poverissimi villaggi pashtun che si arruolano per combattere gli stranieri. Il 25 agosto, gli aerei della coalizione internazionale hanno bombardato il villaggio di Musa Qala, nel Nord della provincia di Helmand, colpendo una festa di matrimonio: dodici civili sono rimasti uccisi. Il 28 agosto una bomba è esplosa nel bazar di Lashkargah: almeno 20 i morti, di cui 2 bambini, e 40 feriti arrivati in condizioni disperate al locale ospedale di Emergency. Il 2 settembre le forze Isaf canadesi hanno dato il via a una massiccia offensiva aerea e terrestre, l’operazione “Medusa”, contro le roccaforti talebane nel distretto di Panjwayi, provincia di Kandahar. In due settimane di scontri e bombardamenti aerei si sono contati più di 500 morti: tutti talebani secondo la Nato, in gran parte civili secondo talebani e fonti locali. L’8 settembre altri due attentati, uno a Kabul e uno a Farah, hanno insanguinato l’Afghanistan: nella capitale, nelle vicinanze dell’ambasciata degli Stati Uniti, è esplosa un’autobomba provocando la morte di almeno 16 persone, tra cui tre soldati statunitensi (si è trattato dell’attentato più grave nella capitale dalla caduta dei talebani nel 2001); a Farah, nella regione Ovest invece, una pattuglia italiana è rimasta coinvolta in un attacco, colpita dall’esplosione di un ordigno posto ai bordi di una strada. La bomba ha provocato il ferimento di quattro soldati. Lo stesso giorno circa 250 ribelli talebani sono morti in un’offensiva della coalizione nella provincia di Kandahar. Era appena terminata l’operazione “Medusa”, quando il 17 settembre il comando Usa, ancora in carico per le operazioni nell’Est del Paese, annunciava l’inizio dell’operazione “Furia montana”, un’altra imponente offensiva militare (3.000 soldati Usa e 4.000 soldati afghani) nelle province meridionali di Khost, Paktia, Paktika e Ghazni, le uniche non ancora toccate dalle offensive della coalizione. La mattina del 12 ottobre è stato rapito il fotoreporter italiano Gabriele Torsello lungo la strada tra Lashkargah e Kandahar: uno dei tragitti più pericolosi di tutto l’Afghanistan, in quanto attraversa un territorio controllato dai talebani e infestato da bande armate criminali. L’ipotesi che Torsello fosse nelle mani dei talebani è stata ripetutamente smentita dal portavoce ufficiale del loro movimento, Qari Yussef Ahmadi, il quale ha anzi dichiarato che Torsello si era recato a Musa Qala proprio grazie agli “ottimi rapporti” esistenti tra il fotoreporter e i guerriglieri afghani. Gli stessi rapitori hanno poi dichiarato di essere un “gruppo armato islamico indipendente”che combatte “contro le truppe straniere”. Torsello è stato poi liberato il 3 novembre: una telefonata all’ospedale di Emergency a Lashkargah ha indicato che il fotoreporter poteva essere recuperato sulla strada per Kandahar e così è stato. All’inizio di ottobre la Nato ha esteso le sue operazioni a tutto il Paese, assumendo il controllo della regione orientale, l’unica ancora sotto il comando diretto degli Usa. Gli attacchi dei ribelli si sono moltiplicati in seguito al pesante bombardamento Nato del 24 ottobre sulla provincia di Kandahar che ha provocato decine di morti tra cui 12 civili. Dopo mesi di silenzio, Gulbuddin Hekmatyar, il capo storico dell’Hezb-e-Islami (Partito dell’Islam), movimento armato integralista alleato dei talebani e attivo nell’Est dell’Afghanistan, il 22 ottobre si è rifatto vivo con un comunicato in cui afferma che “le truppe straniere saranno presto costrette a ritirarsi dall’Afghanistan” e invita “tutti gli afghani a unirsi ai mujaheddin nella jihad per un Afghanistan indipendente e islamico”. Al momento, i guerriglieri di Hekmatyar combattono le truppe Usa nelle province orientali del Paese, in particolare in Kunar e in Nuristan, tradizionali roccaforti dell’Hezb-e-Islami. Ma la sua influenza è forte anche nelle province attorno a Kabul (Nangarhar, Logar, Laghman, Wardak) e nelle città di Jalalabad e Kandahar.
In Azerbaigian il 10 dicembre il 98,6% degli elettori del Nagorno-Karabakh, l’enclave armena in territorio azero, ha votato a favore di una Costituzione che definisce la regione “uno Stato di diritto, sovrano e democratico” (il Nagorno-Karabakh si è dichiarato indipendente nel 1991). Sul piano strettamente politico, il presidente Ilham Aliev continua a reggere il Paese con un regime quasi dittatoriale con la carcerazione di tutti gli oppositori politici, la chiusura dei giornali critici e il potenziamento degli apparati di sicurezza, ovvero con la cancellazione di fatto delle libertà civili dei cittadini azeri. Il 25 novembre la polizia ha sfrattato dai suoi uffici della capitale Baku il Fronte popolare, principale partito di opposizione, e i dipendenti del quotidiano “Azadliq”. La ragione starebbe nel mancato pagamento dell’affitto, ma secondo i leader dell’opposizione si è trattato dell’ennesima mossa del presidente per reprimere il dissenso. Nonostante questa immagine poco presentabile dal punto di vista democratico, il presidente azero è stato invitato negli Stati Uniti per una visita di stato, la prima da quando è stato eletto nel 2003 (23 aprile). L’iniziativa della Casa Bianca si può spiegare con il fatto che gli Stati Uniti hanno bisogno di poter contare sull’Azerbaigian, e sulle sue basi, in caso di intervento armato contro il vicino Iran. In cambio, Washington ha deciso di sostenere le pretese dell’Azerbaigian sul Nagorno-Karabakh. Dopo il fallimento, a febbraio, dei colloqui francesi di Rambouillet tra Aliev e il presidente armeno Robert Kocharyan, gli Usa hanno quindi dato il via a un’intensa attività diplomatica unilaterale con Baku, escludendo la controparte armena.
A più di due anni dalla “rivoluzione delle rose”, la Georgia si è trovata di nuovo immersa in un’ondata di proteste. Le promesse fatte dal governo non sono state mantenute: la di-soccupazione è cresciuta; gli stipendi sono molto bassi; la riforma fiscale non ha migliorato la situazione degli imprenditori e la crisi nei rapporti con Mosca è di ostacolo all’esportazione dei prodotti georgiani. Il governo di Mikhail Saakashvili ha rifiutato qualsiasi dialogo con l’opposizione, nonostante i consensi del partito di governo, il Movimento nazionale unito, siano scesi al minimo storico (7%). Gli imprenditori hanno accusato il governo di esercitare pressioni indebite sulle imprese e sui media. Secondo la Federazione degli imprenditori, il ministero dell’Interno avrebbe creato dei fondi neri che gli imprenditori sarebbero costretti a finanziare con delle tangenti. Inoltre il governo Saakashvili, già da tempo accusato per il suo dispotismo, ha approfittato della crisi in Abkhazia per far passare una legge che imprime una svolta nettamente autoritaria al Paese: la legge prevede il carcere per il reato di “estremismo politico”, cioè per chi viene accusato di essere un “nemico dello Stato”. Per quanto riguarda invece la situazione nella Repubblica separatista di Abkhazia, a fine luglio l’esercito georgiano ha portato a termine una serie di operazioni militari nella Gola di Kodori, al confine con l’Abkhazia: circa 1.500 soldati di Tbilisi sono entrati nella gola, controllata da un comandante georgiano ribelle al governo del presidente Saakashvili, Emzar Kvitsiani, per riprendere possesso della zona. La mossa ha suscitato la protesta di Mosca, che ha in Abkhazia una sua forza di interposizione e che ha accusato Tbilisi di voler destabilizzare la situazione ed esporre il Paese a una nuova guerra etnica. La Gola di Kodori, amministrativamente parte della secessionista Abkhazia, era fino alla ribellione di Kvitsiani sotto il controllo della Georgia. In agosto sono cessati i combattimenti nella Gola, ma la tensione non è scemata, tensione che ha avuto ripercussioni anche nella Repubblica separatista dell’Ossezia del Sud, il cui presidente Eduard Kokoiti ha promesso appoggio all’Abkhazia in caso di conflitto aperto con Tbilisi. Il presidente Saakashvili ha continuato ad ammassare truppe e mezzi da combattimento nella zona e ha annunciato il reinsediamento del governo abkazo che dal 1993 (anno in cui i separatisti abkazi vinsero la guerra contro la Georgia) è in esilio a Tbilisi. Mentre la Russia ha promesso all’Abkhazia di intervenire militarmente in sua difesa in caso di attacco georgiano. Intanto gli abkazi hanno denunciato che la Georgia sta cercando di aprire un altro fronte nel distretto di Gali (attualmente controllato dai peacekeeper russi), a sud della Gola di Kodori, dove Tbilisi starebbe infiltrando centinaia di miliziani georgiani per destabilizzare la situazione e creare il pretesto per un nuovo intervento militare. Per quanto riguarda invece l’autoproclamata Repubblica dell’Ossezia del Sud, riconosciuta solo dalla Russia, il 12 novembre si sono tenute doppie elezioni, creando una frattura che renderà ancora più difficile una soluzione negoziale del conflitto che si trascina ormai da quindici anni. Le autorità della Repubblica hanno organizzato elezioni solo nei villaggi sotto il loro controllo, quelli a maggioranza osseta: si votava per un referendum sull’indipendenza dalla Georgia e per l’elezione del nuovo “presidente della repubblica”. Secondo il governo di Tskhinvali (“capitale” dell’Ossezia del Sud) al referendum ha stravinto il “sì” e alla presidenza è stato confermato il leader indipendentista Kokoity. Stati Uniti, Nato e Unione europea non hanno riconosciuto il voto, mentre la Russia, che sostiene apertamente i separatisti osseti, ritiene che risultati di queste elezioni non potranno essere ignorati. Parallelamente alle elezioni indipendentiste, il governo di Tbilisi ha organizzato un voto nei villaggi sud-osseti sotto il suo controllo, ovvero quelli a maggioranza georgiana. Il risultato è stato la vittoria schiacciante dei “sì” a un’Ossezia del Sud integrata con la Georgia e l’elezione di Dimitri Sanakoev come “presidente alternativo” . Il presidente georgiano Saakashvili lo riconoscerà come l’unico legittimo, indebolendo così il peso politico delle autorità separatiste e dimostrando che in Ossezia del Sud c’è anche chi vuole rimanere in Georgia con il rischio, però, di una formale spaccatura della regione su base etnica.
Il 13 febbraio in Kazakistan è stato trovato ucciso il leader del partito d’opposizione Naghyz Ak Zhol, Altynbek Sarsenbaev. Sarsenbaev era un ex alto funzionario del governo che nel 2003 aveva rotto i rapporti con il presidente Nursultan Nazarbaev per entrare nell’opposizione. Il 21 febbraio cinque membri delle unità militari speciali Arystan sono stati arrestati con l’accusa di essere gli assassini di Sarsenbaev e poco dopo il capo dei servizi segreti, Nartay Dutbaev, braccio destro del presidente e responsabile delle unità speciali, è stato costretto a rassegnare le dimissioni. Dopo l’omicidio tutti gli esponenti politici hanno cercato di occupare le posizioni migliori in previsione del momento in cui si sceglierà il prossimo presidente.
In Kirghizistan il regime di Kurmanbek Bakiyev, salito al potere nel 2005 con la “rivoluzione dei tulipani” (appoggiata da Washington in funzione antirussa), è tornato nell’orbita di Mosca. Così, dopo essere stati cacciati dall’Uzbekistan con la chiusura forzata della base di Karshi-Khanabad, gli Stati Uniti rischiano ora di perdere la loro ultima base militare in Asia centrale, quella di Manas in Kirghizistan. Bakiyev ha proposto agli Usa (19 aprile) di pagare entro il 1° giugno un clamoroso aumento di affitto (da 2 a 200 milioni di dollari) oppure la revisione degli accordi bilaterali del 4 dicembre 2001, con i quali il governo kirghizo aveva concesso l’utilizzo della base. E questo con la gioia di Mosca (che in cambio ha promesso a Bakiyev un miliardo di dollari in investimenti e pieno sostegno politico in caso di nuove intromissioni statunitensi) e della Cina, che non gradisce avere la flotta aerea americana vicino alle sue rampe di missili nucleari nello Xinjiang. Dal canto suo la Russia non paga nulla d’affitto a Biskek per la base militare di Kant, in quanto struttura comune del Trattato di sicurezza collettiva della Csi. La perdita della base di Manas significherebbe per Washington il fallimento definitivo della strategia di espansione in Asia centrale, iniziata con l’intervento in Afghanistan del 2001. Per questo Washington ha ritenuto conveniente cercare di abbattere il regime di Bakiyev, cominciando a creare tensioni tra Bakiyev e il suo primo ministro Felix Kulov, ma soprattutto promuovendo la formazione di un nuovo blocco d’opposizione filoccidentale, la Coalizione popolare delle forze democratiche (Cpfd), formata da 25 partiti (tra cui quello di Kulov) e 9 Ong finanziate dagli Stati Uniti. La Cpfd ha già organizzato diverse manifestazioni di protesta (le principali l’8 e il 29 aprile), chiedendo le dimissioni di Bakiyev per aver tradito le promesse della “rivoluzione dei tulipani” in tema di riforme economiche e lotta alla criminalità mafiosa. Alla fine in cambio di 150 milioni di dollari di aiuti il presidente Bakiyev ha autorizzato il governo Usa a continuare a usare la base militare. Sul piano strettamente politico, il 2 maggio il governo ha annunciato le dimissioni dopo un voto di sfiducia del Parlamento, ma il presidente Bakiyev le ha respinte. Infine dopo sei giorni di manifestazioni di protesta, il presidente Bakiyev ha convocato una sessione straordinaria del Parlamento per approvare una nuova Costituzione che riduce i suoi poteri (8 novembre). Il presidente non potrà più scegliere il primo ministro né licenziare, senza l’approvazione del Parlamento, il procuratore generale e il capo della Commissione elettorale centrale.
In Tagikistan l’apertura di una base aerea indiana ad Ayni ha complicato la situazione geopolitica in Asia centrale: alcuni interessi strategici indiani coincidono con quelli statunitensi altri invece sembrano incoraggiare legami più stretti con la Russia. L’apertura della base indica la volontà dell’India di estendere il suo potere nell’Asia centrale e svolgere un ruolo nel garantire la sicurezza della zona. Ayni fa parte anche degli sforzi di Delhi per promuovere la stabilità in Afghanistan e aumentare la capacità dell’India di tenere a bada il terrorismo islamico in Asia meridionale e centrale. Tuttavia la decisione indiana di estendere il suo potere in Asia centrale è legata anche al controllo dell’accesso alle fonti energetiche della regione: New Delhi vuole ottenere il petrolio e il gas del Kazakistan e partecipare ai progetti quali l’oleodotto che dovrebbe attraversare Iran, Afghanistan, Pakistan e India e quello che potrebbe collegare Turkmenistan, Afghanistan, Pakistan e India. Infine l’apertura della base di Ayni si inserisce nella militarizzazione della regione: il moltiplicarsi di basi straniere in Asia centrale, già in atto prima dell’11 settembre, si è rafforzato dopo quella data. Sul piano politico il presidente uscente Emomali Rakhmonov ha vinto le elezioni presidenziali aggiudicandosi il 76,4% dei voti (6 novembre). Alle spalle di Rakhmonov si è piazzato Olimdzhon Boboyev del Partito delle riforme economiche con il 6,2%, seguito da Amir Karakulov del Partito agrario con il 5,3%, da Ismoil Talbakov del Partito comunista con il 5,1% e da Abdukhalim Gaffarov del Partito socialista con il 2,8%. L’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa (Osce) ha però denunciato brogli e irregolarità.
In Turkmenistan il 21 dicembre è morto il presidente Saparmuryad Niyazov a capo della Repubblica ex sovietica da 21 anni. Si attendono ora le elezioni presidenziali fissate per febbraio 2007.
Spostandoci nel Subcontinente indiano vediamo che il Bangladesh, in attesa delle elezioni che dovrebbero tenersi nel gennaio 2007, ha attraversato una fase di turbolenza politica. Dal 2001 a oggi il Paese è stato guidato dal Partito nazionalista del Bangladesh (Bnp), formazione conservatrice e militarista, alleato con il Jamaat-e-Islami, il maggiore partito islamista del Paese. Il mandato del governo e del primo ministro Begum Khaleda Zia è scaduto il 27 ottobre. Per organizzare il voto (in calendario per gennaio 2007), il governo, come previsto dalla Costituzione, viene sostituito tre mesi prima da un esecutivo ad interim. Ed è proprio la nomina del capo di questo governo, l’ex giudice della Corte suprema K. M. Hasan, che è stata alla base dei primi disordini. L’opposizione, una coalizione di 14 partiti di sinistra guidati dalla Lega Awami di Sheikh Hasina, si è opposta a questa scelta perché la posizione filogovernativa di Hassan lo renderebbe incompatibile con il compito a lui assegnato. L’opposizione ha quindi dato il via a una serie di proteste sfociate in violenti scontri fra manifestanti e polizia: in cinque giorni, dal 27 ottobre, si sono contati 25 morti e centinaia di feriti. La carica ad interim è stata poi assunta dal presidente bengalese Iajuddin Ahmed, ma i problemi non sono finiti. Agli inizi di novembre la leader della Lega Awami ha rivolto al governo 11 richieste tese a garantire l’imparzialità del voto. Fra le altre cose, è stato chiesto il rifacimento delle liste elettorali, la rimozione dai posti di potere di 300 ufficiali fedeli al Bnp, l’eliminazione dagli edifici pubblici dei ritratti del premier uscente. Ma, soprattutto, la Lega Awami ha chiesto di riorganizzare completamente la Commissione elettorale, rimuovendone il direttore, M.A. Aziz, accusato di aver aggiunto almeno dieci milioni di nomi falsi sulle liste elettorali. Al governo è stato quindi posto un ultimatum: se le richieste non fossero state accettate entro il 12 novembre, la Lega Awami avrebbe organizzato un blocco totale dei trasporti e delle comunicazioni. E così è stato: per quattro giorni, la capitale Dhaka è rimasta isolata dal resto del Paese. La polizia ha cercato di disperdere i manifestanti e negli scontri di piazza che ne sono seguiti sono morte almeno due persone. Il 16 novembre il blocco è stato sospeso per consentire al Paese di riprendere fiato ma le proteste dell’opposizione non si sono fermate e fino alla fine dell’anno è stato un continuo braccio di ferro, con scioperi, barricate, centinaia di arresti e almeno 34 morti negli scontri fra manifestanti e polizia. Alla fine la Lega Awami e i suoi alleati hanno deciso di ritirare i propri candidati dalle elezioni: si presenteranno quindi solo i candidati del governo uscente con il rischio di nuove violente proteste dopo il voto. Ha destato non poche preoccupazioni anche la decisione del presidente Ahmed che a metà dicembre ha dispiegato l’esercito in numerose città. Infine ricordiamo che Muhammad Yunus, economista bengalese inventore del sistema del microcredito e della Grameen Bank (la “banca del villaggio” fondata in Bangladesh nel 1976 e da lì diffusasi in vari Paesi del mondo) ha vinto il premio Nobel per la pace 2006. Questo riconoscimento assegnato a un economista sottolinea quanto le condizioni economiche e conseguentemente sociali delle popolazioni costituiscano il terreno principale del processo di pace.
In India Sonia Gandhi, presidente del Partito del Congresso, ha rassegnato le dimissioni dal Parlamento indiano (23 marzo) dopo essere stata accusata dall’opposizione di avere un secondo impiego statale, violando le regole del Parlamento (la Gandhi, che si è dimessa anche dall’incarico in questione, ha annunciato la sua candidatura alle elezioni suppletive per l’assegnazione del seggio rimasto vacante ed è stata poi rieletta, 11 maggio). L’opposizione di destra, guidata dal Bjp (Bharatiya Janata Party), è rimasta confusa dall’annuncio delle dimissioni così come lo era stata quando, dopo le elezioni del 2004, la Gandhi aveva rinunciato all’incarico di primo ministro aprendo la strada a Singh (il Bjp, pronto a scatenare una grande campagna politica contro il premier “straniero” si ritrovò davanti, come primo ministro, un autorevole tecnocrate sikh). Sonia ancora una volta ha lanciato un forte messaggio all’opinione pubblica indiana e il Congresso, impegnato nelle campagne elettorali di Stati importanti come il West Bengala, il Kerala, l’Assam e il Tamil Nadu, ha ripreso vigore e forza civile. Le elezioni di maggio in questi Stati e nel Pondicherry, territorio dell’Unione, hanno attribuito al Partito comunista (Cpi-M Partito comunista marxista d’India) il risultato più importante della sua storia. In particolare nel West Bengala la coalizione di sinistra, il Left Front (alla sua settima vittoria consecutiva, grazie soprattutto ai buoni risultati dati dalle riforme agricole), e il Left Democratic Front in Kerala, guidati dal Cpi-M, hanno ottenuto vittorie importanti. In West Bengala, la sinistra ha conquistato una maggioranza dei tre quarti dei seggi, vedendo riconfermato il governo statale, in Kerala ha battuto la coalizione del locale Congresso, lo United Democratic Front. La sinistra è andata molto bene anche nel Tamil Nadu, dove ha vinto la coalizione guidata dal locale Dmk (di cui la sinistra era alleata) contro un altro partito locale, l’Aiadmk. Le vittorie hanno rafforzato il ruolo dei partiti di sinistra a livello nazionale. Il Bjp, alla guida dell’Nda, l’Alleanza democratica nazionale delle opposizioni, non ha avuto risultati significativi. Esaminando i risultati il Congresso ha concluso di essere percepito come anticontadino, antimusulmano e antitribale. Secondo i suoi leader, l’agenda politica del Congresso dovrà dunque cambiare in senso sociale. D’altro canto non è detto che questo implichi uno spostamento a sinistra del governo dal momento che il Cpi-M in West Bengala ha vinto non sulla base di un programma ultrasocialista, ma sulla base di progetti neoliberali: è stata la classe media urbana a votare per la sinistra. È più probabile invece che cambiamenti più significativi ci possano essere per quanto riguarda la politica internazionale, dal momento che sinistra e musulmani sono stati particolarmente critici in proposito verso il governo Singh, contestando fortemente le intese con gli Usa e l’atteggiamento governativo sulla questione iraniana, ritenuto troppo vicino a Washington. In ogni caso in queste elezioni e nelle precedenti elezioni del Bihar, si sono rafforzati partiti diversi dai due partiti leader delle coalizioni, quello del Congresso e il Bjp. In particolare si sono rafforzati i partiti più autonomi, ma che non sono o non appaiono particolarmente opportunistici: quando hanno potuto gli elettori hanno premiato partiti secolari, riformatori, attenti ai temi sociali ma non nemici di politiche neoliberali, costruttori di alleanze fondate su programmi. Per quanto riguarda le relazioni internazionali, il 2 marzo, in occasione della visita del presidente statunitense George W. Bush (accompagnata da imponenti manifestazioni di protesta che hanno impedito al presidente statunitense di intervenire al Parlamento indiano), India e Usa, per consolidare l’accordo sullo scambio di tecnologia nucleare che i due governi avevano trattato nel luglio 2005, hanno sottoscritto uno storico accordo di cooperazione per il nucleare civile. In base all’accordo l’India (che non ha mai aderito al Trattato di non proliferazione nucleare, Tnp) dovrà separare i suoi impianti civili da quelli militari, sottoponendoli ai controlli dell’Aiea (Agenzia internazionale per l’energia atomica). Gli Usa hanno condizionato l’accordo nucleare a una netta divisione del nucleare indiano tra progetti a scopo pacifico e impianti di tipo militare, ma il primo ministro è stato anche abbastanza chiaro sul fatto che sarà solo New Delhi a stabilire cosa sia civile e cosa militare. Nondimeno il governo indiano ha continuato a tenere in piedi la cosiddetta politica del “doppio forno” (ovvero del “doppio allineamento” sia con la Russia e con la Cina sia con gli Stati Uniti e l’Occidente), senza fare passi indietro, ad esempio, sul famoso gasdotto che dovrà portare energia dall’Iran all’India via Pakistan (Musharraf è della stessa idea) e non si è comunque associata alla crociata delle sanzioni contro Teheran. E infatti a gennaio il primo ministro Singh annunciava una ristrutturazione del gabinetto governativo, con lo spostamento ad altro incarico del ministro del Petrolio Mani Shankar Aiyer, spostamento che ha rafforzato l’orientamento filo-Usa nel governo di Manmohan. Da un lato dunque l’India ha evitato di votare con Usa e Ue contro l’Iran, e dall’altro lato ha spostato ad altro incarico un ministro fortemente esposto in senso filoiraniano come Mani Shankar Aiyer, il maggiore sostenitore del gasdotto della pace Iran-India. Ma se è vero che New Delhi continua a praticare il “doppio forno”, è anche vero che nel governo si sta rafforzando l’indirizzo filoccidentale. D’altro canto una cosa è il partito di Singh e di Sonia Gandhi, un’altra cosa è l’alleanza multipartitica che appoggia il primo ministro. Se infatti il Congresso tende a diventare filoccidentale, la sinistra e i partiti vicini alla sinistra sono di tutt’altro avviso. Intanto il 7 marzo un triplice attentato nella città santa indù di Benares ha causato la morte di almeno 23 persone: gli attentati sono stati rivendicati dal gruppo islamista Lashkar-e-Kahar, probabilmente legato al gruppo separatista Lashkar-e-Taiba, attivo nel Kashmir. Per evitare vendette da parte degli estremisti indù, il governo ha rafforzato le misure di sicurezza. Nel Kashmir le violenze sono diminuite da quando India e Pakistan hanno avviato i negoziati nel gennaio 2004. Tuttavia il 14 aprile cinque persone sono morte in una serie di attacchi dei separatisti a Srinagar, capitale estiva del Kashmir indiano e il 30 aprile altri 34 civili indù sono morti in due attacchi dei separatisti islamici sempre nel Kashmir indiano (si tratta del più grave attentato dalla firma del trattato di pace tra India e Pakistan nel 2003). L’11 luglio a Bombay, nell’ora di punta del ritorno a casa, sono scoppiate sette bombe nelle stazioni, sui treni e sulla metropolitana: almeno duecento i morti. Gli attentati sono stati attribuiti ai separatisti islamici di Lashkar-e-Taiba che hanno negato ogni responsabilità. Ugualmente il Pakistan ha negato ogni coinvolgimento negli attentati anche se è noto che da tempo il Paese ospita i gruppi terroristici e il Kashmir è diventato il terreno di coltura per terroristi le cui mire vanno ben oltre la regione (molti degli attacchi dei ribelli afghani vengono lanciati proprio dal territorio pakistano). In ogni caso subito dopo gli attentati l’India ha sospeso il processo di pace con il Pakistan chiedendo a Islamabad di assumersi un impegno deciso contro i terroristi mentre i leader occidentali riuniti nel G8 hanno assunto un atteggiamento cauto senza citare chiaramente il Pakistan.
In Nepal il 1° febbraio il re Gyanendra ha confermato le elezioni municipali dell’8 febbraio difendendo il colpo di Stato dello scorso anno (presentato come l’unica via per reprimere la rivolta maoista che da dieci anni combatte contro la monarchia) quando, dopo aver licenziato il governo e fatto arrestare in massa i principali avversari politici, si era messo alla guida di un gabinetto formato da fedelissimi, sospendendo le libertà fondamentali. Le consultazioni sono state contestate dai partiti costituzionali nepalesi perché, per il sovrano, esse avrebbero dovuto dare legittimità al regime golpista. Il 5 febbraio è quindi iniziato lo sciopero generale promosso dalla guerriglia maoista e il giorno seguente un poliziotto è rimasto ucciso. I maoisti nepalesi alla fine del 2005 avevano sottoscritto con i partiti costituzionali del regno la dichiarazione di Delhi   e  con lo sciopero hanno voluto dimostrare la loro forza popolare dopo che il 2 gennaio il leader dei ribelli Prachanda aveva annunciato la fine della tregua unilaterale durata quattro mesi. I partiti dell’opposizione, d’accordo con i ribelli, si sono astenuti dal voto e le consultazioni sono terminate con la vittoria scontata degli uomini del re, facendo crescere la tensione nel Paese. Il 5 aprile, poche ore prima di un nuovo atteso sciopero generale di quattro giorni, i ribelli hanno ripreso le ostilità con un’incursione nella città di Malangwa: ventidue i morti. I guerriglieri hanno attaccato con bombe e artiglieria pesante alcuni edifici governativi e basi dell’esercito. Quindi, dopo aver preso in ostaggio il capo dell’amministrazione locale e una ventina di poliziotti, hanno assaltato il carcere e liberato gli oltre cento detenuti. Nelle stesse ore a Kathmandu centinaia di persone erano in piazza per protestare contro il regime di Gyanendra. La polizia è intervenuta duramente operando centinaia di arresti. Nonostante l’estensione del coprifuoco, in tutto il Nepal sono proseguite in aprile le manifestazioni contro il re e gli scontri con la polizia ed è stata interrotta la linea ferroviaria del Patna-Gaya, distretto che si trova nel cuore del territorio controllato dai maoisti, che qui godono del pieno sostegno della poverissima popolazione locale, composta in gran parte da contadini senza terra e dalit (i “non privilegiati”, una comunità fortemente discriminata, simile ai dalit indiani, i cosiddetti “intoccabili”). La polizia ha sparato contro i manifestanti uccidendo tre persone (8-9 aprile). Dopo 16 giorni di proteste, scioperi e coprifuoco, re Gyanendra ha parlato ai nepalesi dichiarando il ritorno alla democrazia, offrendo ai partiti politici di nominare di comune accordo un nuovo primo ministro, ma senza fissare alcuna data per le future elezioni. A molti dei manifestanti il discorso del sovrano è parso poco credibile e i leader dei sette principali partiti politici hanno annunciato altre proteste e manifestazioni, nonostante il permanere del coprifuoco. Si sono così registrati nuovi scontri in diverse aree della città e parallelamente i maoisti hanno attaccato le forze armate a Chautara, 100 km ad est di Kathmandu (23 aprile). Infine la notte del 24 aprile re Gyanendra ha annunciato alla nazione di accettare le richieste del suo popolo, ripristinando l’ordinamento democratico e affidando a Girija Prasad Koirala, designato dai sette partiti dell’opposizione, l’incarico di primo ministro. Inoltre governo e ribelli maoisti hanno proclamato un cessate il fuoco per permettere la formazione di un’Assemblea costituente (28 aprile). Il nuovo governo ha annullato tutte le nomine decise da re Gyanendra dall’ottobre 2002, comprese quelle di dodici ambasciatori e, per favorire il processo di pace, ha liberato due capi maoisti. Il 18 maggio il Parlamento ha approvato all’unanimità un progetto di riforma costituzionale che limita i poteri della monarchia: il re non avrà più il controllo dell’esercito e il governo potrà dire la sua nella scelta dell’erede al trono. Il 16 giugno Koirala, che si è impegnato a rimuovere dai ribelli l’etichetta di terroristi, e il leader dei ribelli maoisti Prachanda hanno raggiunto un accordo per mettere fine alla guerra civile, accordo che prevede lo scioglimento del Parlamento, l’elezione di un’Assemblea costituente e la formazione di un governo di un’unità nazionale. Prachanda si è anche impegnato a disarmare i ribelli dopo il voto. Intanto la popolazione è stremata dagli abusi commessi da entrambe le parti in conflitto. Da una parte i ribelli, che controllano due terzi del Nepal, hanno seminato il terrore nelle zone rurali e montagnose, con uccisioni di civili, estorsioni e reclutamento di minori. Dall’altra l’esercito si è reso colpevole di esecuzioni sommarie, sparizioni, arresti e detenzioni senza processo. Un Alto commissariato dovrà garantire lo svolgimento di elezioni libere e corrette, con una ridefinizione delle aree elettorali (mai fatta finora). E il Parlamento dovrà trovare formule pratiche per combattere le discriminazioni delle minoranze e fra le caste. Duecentomila persone hanno partecipato il 2 giugno alla prima riunione pubblica dei maoisti a Kathmandu. Il 7 novembre infine dopo 14 ore di negoziato ininterrotto, governo e guerriglia maoista hanno raggiunto uno storico accordo (ratificato il 21 novembre) che ha posto fine a dieci anni di guerra civile costata la vita a oltre tredicimila persone. L’accordo prevede l’ingresso di tutti i guerriglieri maoisti in sette accampamenti, la chiusura di tutte le loro armi in tre magazzini sorvegliati da soldati delle Nazioni Unite, sistemi di allarme e telecamere a circuito chiuso. Lo stesso varrà per le armi dell’esercito governativo. Dal punto di vista politico è previsto lo smantellamento, entro il 26 novembre, delle strutture di governo parallelo create dai maoisti nelle zone da essi controllate, l’immediata espansione del numero dei parlamentari per permettere l’ingresso di 73 deputati maoisti (due in meno di quelli del partito di governo), la formazione, entro il 1° dicembre, di un governo di transizione del quale faranno parte anche i maoisti e l’elezione, entro giugno 2007, di un’Assemblea costituente che deciderà il futuro della monarchia nepalese con votazioni a maggioranza semplice. Si tratta del terzo accordo di pace con i maoisti: i primi due, del 2001 e del 2003, sono falliti e sono stati seguiti da nuove violente fasi di conflitto.
Il 5 settembre dopo due mesi di negoziati e di tregua nei combattimenti, il governo del Pakistan e i guerriglieri waziri hanno raggiunto un accordo sulla cessazione definitiva della guerra cominciata nel marzo 2004 e costata la vita ad almeno 3.000 waziri e a 950 militari governativi, contrassegnata da innumerevoli stragi di civili, uccisi per rappresaglia dall’esercito pakistano (strage nel bazar di Wana, settembre 2004) o morti nei raid missilistici della Cia contro i villaggi in cui era segnalata la presenza di esponenti di Al Qaeda. Guerra che il presidente Pervez Musharraf è stato costretto a fare dagli Stati Uniti, stanchi dell’ambiguità del governo di Islamabad, che da una parte si dichiarava un alleato nella lotta contro il terrorismo e dall’altra continuava ad ospitare in Waziristan talebani e capi di Al Qaeda. Per soddisfare le richieste di Washington, Musharraf si è inimicato i settori fondamentalisti del potere religioso e militare, senza i quali in Pakistan è difficile governare e per questo ha ricevuto non solo durissime critiche ma è sfuggito anche a numerosi attentati. Per questo Musharraf ha sempre cercato il dialogo con i talebani del Waziristan nella speranza di chiudere il prima possibile la partita. Il rischio è che Musharraf, pur di mettere fine ai combattimenti, abbia accettato un accordo che non verrà mai rispettato dalla controparte, se non per il cessate il fuoco in quanto tale. Capi tribali, religiosi e militari del Waziristan, hanno annunciato che il governo di Islamabad cesserà le operazioni militari nella regione, toglierà i posti di blocco dell’esercito e libererà tutti i prigionieri di guerra catturati durante il conflitto. In cambio i capi tribù, gli ulema e i comandanti militari waziri dovranno garantire la fine degli attacchi contro forze e obiettivi governativi da parte dei combattenti talebani waziri, la restaurazione dell’autorità governativa nella regione, la chiusura dei campi d’addestramento dei talebani che combattono in Afghanistan, lo stop alle incursioni compiute oltre confine e l’allontanamento di tutti gli stranieri presenti nella regione, ovvero dei militanti di Al Qaeda. Ma è difficile credere che i talebani waziri rinuncino al loro potere, decretando la fine dello Stato islamico del Waziristan (proclamato in marzo) e che smettano di reclutare ragazzi nelle madrase locali e di addestrarli nei campi della regione per alimentare la resistenza afghana. Il rischio insomma è che, benché la guerra in Waziristan sia finita, la regione continui ad essere la roccaforte dei talebani che combattono in Afghanistan e il rifugio di Al Qaeda. L’accordo di pace è stato vissuto a Washington come un tradimento che mette in discussione l’alleanza antiterrorismo che dopo l’11 settembre 2001 gli Stati Uniti imposero al Pakistan (perché senza le sue basi logistiche la guerra in Afghanistan sarebbe stata impossibile); un tradimento tanto più grave perché arrivato in un momento molto difficile per le truppe Usa e Nato in Afghanistan alle prese con la rimonta dei talebani. Proprio pochi giorni prima dell’accordo il segretario di Stato Usa, Donald Rumsfeld, aveva lanciato un chiaro avvertimento al Pakistan, affermando che nessun governo ha il diritto di negoziare “paci separate” con i terroristi. Ora, dopo l’accordo con i neotalebani, il Pakistan appare sempre più come l’anello debole della guerra al terrorismo. Dopo l’11 settembre George Bush riuscì a ottenere dal Congresso un notevole aumento della spesa militare americana verso il Pakistan e rinsaldò l’immagine di Musharraf sullo scenario mondiale. Dal canto suo Musharraf credeva davvero a una nuova politica pakistana che tagliasse il legame che aveva unito sia la leadership di Benazir Bhutto sia quella di Nawaz Sharif agli islamisti che, proprio durante il governo di Benazir, avevano alimentato con le cure dei servizi segreti, il fenomeno degli studenti delle scuole coraniche, ovvero i talebani. Tuttavia Musharraf, dopo essersi impegnato nella guerra ai mujaheddin ha poi dovuto fare i conti con l’opposizione interna. Nelle due province del Nord-Ovest e del Balucistan (al confine con l’Afghanistan) è al governo una coalizione di cinque partiti islamisti (Muttahida Majlis-e-Amal o Mma), anche con l’appoggio del partito vicino a Musharraf, la Lega musulmana del Pakistan (Pml, Quaid-e-Azam). In vista delle prossime elezioni, per evitare troppe ribellioni nelle aree tribali della frontiera ed evitare di perdere altri soldati impegnati nella guerra sul confine, il governo ha preferito il negoziato che nel Waziristan ha probabilmente evitato ulteriori guai all’esercito pakistano ma non ha impedito alla guerriglia che ha base in Pakistan di continuare a lanciare attacchi in Afghanistan. La scelta negoziale è stata molto criticata perché ha rivelato una sorta di “doppio gioco” del presidente: contro i radicali sulla scena internazionale, disposto a scendere a patti coi talebani in patria. Insomma ancora una volta Musharraf si è trovato diviso tra diverse necessità: quella di rispondere alle richieste dei suoi alleati occidentali e quella di negoziare nelle aree tribali per riportare un po’ di pace e il desiderio di guadagnare appoggi per la rielezione. L’ultima novità è la legge approvata dall’assemblea della provincia della Frontiera del Nord-Ovest, la controversa Hasba Bill, passata anche con i voti dei cosiddetti “partiti liberali”, tra cui quello di un deputato della Lega musulmana. La legge, seppur rivista dopo una prima bocciatura della Corte suprema nel 2005, grazie anche alle pressioni di Musharraf, istituisce una sorta di controllore della virtù che ha il compito di proteggere i valori dell’Islam, non solo dai cattivi fedeli ma anche dalle azioni governative o amministrative ritenute lesive dei codici della sharia. Intanto è riesploso il conflitto tra indipendentisti baluci e governo centrale. Il 26 agosto l’esercito pakistano, in un’offensiva sulle montagne del distretto di Dera Bugti, ha ucciso Nawab Akbar Bugti, leader dei ribelli indipendentisti baluci, simbolo delle ingiustizie del governo militare (insieme a lui sono morti altri 17 ribelli e 7 soldati). A Quetta, capitale del Balucistan, nemmeno il coprifuoco imposto dall’esercito e gli arresti di massa del 28 agosto hanno fermato le violente proteste antigovernative: il 29 gli studenti sono tornati in piazza dando alle fiamme le sedi degli uffici governativi e sfidando la polizia che ha cominciato a sparare. Le proteste si sono estese non solo a tutto il Balucistan ma anche oltre, nel Sindh e perfino a Karachi. L’uccisione del leader della guerriglia indipendentista balucia ha rischiato di trasformarsi in un disastro per il regime di Musharraf, già alle prese con l’opposizione dei partiti religiosi fondamentalisti che sostengono i talebani in Waziristan e in Afghanistan. L’opposizione democratica ha condannato l’assassinio, proclamando per il 1° settembre uno sciopero generale nazionale. La guerriglia indipendentista balucia iniziò nel 1947, subito dopo l’annessione forzata del Balucistan da parte del neonato Pakistan, ed è ripresa un anno e mezzo fa con violenti scontri armati e centinaia di morti. I baluci si sono sempre opposti a quello che considerano un regime di occupazione militare e allo sfruttamento delle risorse locali (gas naturale in primis) che Islamabad ha portato avanti senza dare nulla in cambio: il Balucistan, nonostante le sue ricchezze, è sempre rimasta la regione più povera del Pakistan.
Nello Sri Lanka dalle elezioni del novembre 2005 si è registrata un’escalation di violenze nel Nord e nell’Est del Paese. La situazione è precipitata dopo l’arrivo dello tsunami e la controversia sulla gestione dei fondi per la ricostruzione. I tamil hanno preteso di occuparsi delle zone dove effettivamente controllano il territorio. Ma il governo, nonostante le aperture dell’ex presidente Chandrika Kumaratunga, non l’ha concesso. Le cose sono peggiorate con la vittoria alla presidenza di Mahinda Rajapakse, alleato con i nazionalisti della maggioranza buddista (Jhu, Jathika Hela Urumaya) e cingalese (Jvp, Janatha Vimukhti Peramuna). Già premier nel precedente governo, Rajapakse ha detto di voler negoziare con l’Ltte (Tigri per la liberazione del Tamil Eelam), ma è contrario a concedere un’ampia autonomia nelle regioni del Nord e dell’Est a maggioranza tamil: a lui si deve l’irrigidimento che lo ha fatto litigare anche con Kumaratunga. Nonostante le dichiarazioni di apertura al suo insediamento, l’inizio della sua presidenza è di fatto coinciso con una chiusura nei confronti della guerriglia che si è sempre più irrigidita. Il 12 aprile un attentato al mercato di Trincomalee, città portuale sulla costa orientale, ha causato la morte di 16 persone. Benché gli indipendentisti abbiano negato la paternità dell’attentato, nei giorni seguenti bande di estremisti cingalesi hanno cominciato a bruciare, per rappresaglia, diverse case abitate dai tamil, provocando decine di feriti. In seguito alle violenze, circa mille persone sono state costrette a lasciare le loro case. Trincomalee, popolata da indù, buddisti e musulmani, si è trovata immersa in un clima di violenza e tensioni comunitarie che hanno reso necessaria l’imposizione del coprifuoco e costretto alcuni operatori di organizzazioni non governative straniere, che si occupano della ricostruzione nel dopo-tsunami, ad abbandonare almeno temporaneamente la zona. Il 25 aprile un attentato suicida ha colpito il quartier generale dell’esercito a Colombo causando 8 morti (tra i quali il generale Sarath Fonseka, nominato dal neopresidente Mahinda Rajapakse per sedare con metodi più duri la ribellione). La risposta del governo non si è fatta attendere: aviazione, marina e artiglieria sono state tutte mobilitate per bombardare le basi dei ribelli intorno a Trincomalee. Questi ultimi attentati hanno fatto temere un ritorno alla guerra civile o a una situazione simile a quella antecedente il cessate il fuoco proclamato da governo e ribelli nel febbraio 2002. Benché la tregua non sia stata rispettata del tutto, non si erano però più verificati bombardamenti nelle zone di guerriglia. Anche i negoziati di pace, ripresi in febbraio a Ginevra con la mediazione della Norvegia, si sono interrotti perché in aprile i ribelli si sono rifiutati di partecipare al secondo round in quanto il governo non aveva soddisfatto alcune condizioni, prima fra tutte il di-sarmo dei paramilitari e dell’esercito di Karuna, una frangia di guerriglieri distaccatasi nel marzo 2004, che potrebbe, a loro giudizio, aver trovato l’appoggio del governo. Le Tigri hanno anche chiesto la cessazione degli attacchi contro la popolazione tamil. Con il passare dei giorni i combattimenti tra esercito e ribelli si sono fatti sempre meno sporadici. Solo in aprile le violenze tra tamil ed esercito hanno ucciso almeno 200 persone, mentre altre battaglie navali si sono svolte nello specchio di mare antistante le zone tamil. Secondo la missione di monitoraggio la responsabilità sarebbe soprattutto delle tigri, perché, stando agli accordi siglati nel negoziato, il mare è sotto l’autorità del governo di Colombo e cercare di controllarlo significa violare le regole e provocare di fatto l’esercito governativo. Dopo un attacco kamikaze a una caserma e la risposta dell’aviazione che ha colpito le zone tamil del Nord mettendo in fuga migliaia di civili, l’11 maggio si è registrata l’ennesima battaglia navale al largo delle coste orientali, la più grave da quando nell’isola sono ripresi i combattimenti (almeno 45 i morti) segno che ormai la tregua è lettera morta. La situazione ha continuato a deteriorarsi e all’inizio di agosto si poteva parlare di vera e propria guerra nel Nord e nell’Est del Paese. Il 1° agosto la Finlandia ha deciso di ritirare i suoi membri dalla missione di monitoraggio della tregua (Slmm), costituita da osservatori di cinque Paesi del Nord Europa. Proprio le Tigri avevano chiesto agli osservatori di andarsene entro il 1° settembre dopo che l’Ue li aveva definiti “terroristi”. Il 2 agosto le Tigri hanno attaccato alcune postazioni dell’esercito nei pressi del porto di Trincomalee, un giorno dopo l’attacco a una nave di soldati che stava entrando nel porto. Negli stessi giorni l’aviazione cingalese ha bombardato la zona controllata dalle Tigri nel distretto di Trincomalee. A metà ottobre i combattimenti più intensi dal 2002 hanno portato alla morte di almeno 129 soldati e circa duecento ribelli delle Tigri in un’offensiva lanciata nella penisola di Jaffa: l’offensiva ha rischiato di compromettere la ripresa dei negoziati di pace prevista per il 28 ottobre in Svizzera. Il 16 ottobre poi almeno 10 soldati sono morti in un attentato suicida nel distretto di Trincomalee (da dicembre 2005 a metà ottobre 2006 i morti sono più di 2.300). Alla fine di ottobre i rappresentanti del governo di Colombo e dei ribelli hanno abbandonato i colloqui di pace a Ginevra, senza fissare una data per la ripresa dei negoziati.
Restano infine da esaminare il Sud-Est asiatico e l’Estremo Oriente. Dopo mesi di crisi e tensioni alla fine di febbraio Cina e Giappone hanno ripreso a parlarsi: i rappresentanti dei due governi si sono incontrati a Pechino per fare il punto sullo stato delle relazioni bilaterali. La ragione di fondo di questa ripresa dei contatti sta nel continuo rafforzamento dei legami economici, finanziari e tecnologici fra i due Paesi. Tuttavia il capo di Stato e segretario del partito comunista cinese, Hu Jintao, ha detto chiaramente a Tokyo che fino a quando il primo ministro giapponese continuerà a visitare il sacrario di Yasukuni, il tempio scintoista di Tokyo dedicato ai caduti in guerra tra i quali anche alcuni criminali di guerra nipponici, non ci saranno incontri bilaterali ad alto livello tra Cina e Giappone. In ogni caso i rapporti commerciali sino-giapponesi vivono un vero e proprio boom. Nel 2005 il volume degli scambi tra Tokyo e Pechino ha raggiunto un nuovo record, e nel primo trimestre del 2006 non meno del 38% di tutta la tecnologia cinese è stata importata dal Giappone. In marzo anche il presidente russo Vladimir Putin era a Pechino, quando Russia e Cina hanno siglato un elevato numero di accordi, sul gas, sui gasdotti, sull’energia, sul nucleare e sulla cooperazione politica: Mosca e Pechino hanno deciso di far fronte comune contro la crisi nucleare iraniana. I legami economici e strategici fra i due vecchi nemici si stanno dunque rafforzando anche se rimangono divergenze e problemi: dai contrasti derivanti dalla bassa qualità della tecnologia russa, alla sfida posta dalla fortissima pressione demografica cinese sulla Siberia russa. Ma attualmente Mosca e Pechino hanno messo da parte le inimicizie nel nome della lotta all’unipolarismo dell’amministrazione Bush. La Sco, l’alleanza politico-militare tra Russia, Cina e Asia centrale che dal 2005 si è esplicitamente proposta come blocco antagonista all’espansione dell’influenza Usa sugli Stati ex sovietici, sulle loro basi militari e sui loro enormi giacimenti di petrolio e gas, rappresenta lo strumento principe, assieme alla cooperazione energetica, del nuovo rapporto sino-russo. Sul piano delle relazioni internazionali è comunque l’India, per potenzialità e crescita, il primo e più importante interlocutore di Pechino. India e Cina hanno potenzialità pressoché uguali ed economie fortemente complementari; da qualche anno, ovvero da quando la crisi irachena ha messo India e Cina dalla stessa parte, questi rapporti sono diventati più stretti, anche se ovviamente non sono superate diffidenze e rivalità reciproche. All’inizio di giugno i ministri della Difesa indiano e cinese si sono incontrati a Pechino per sottoscrivere un importante memorandum per esercitazioni militari congiunte e programmi di addestramento. Si tratta di un fatto importante perché conferma l’indisponibilità indiana a qualsiasi strategia di contenimento politico o strategico contro la Cina. India, Russia, Giappone sono tutte potenze che, in teoria, secondo certi ambienti americani, avrebbero potuto far parte della “cintura di contenimento” contro la Cina. La tendenza che però emerge è evidente: il contenimento verso Pechino non sembra funzionare in questa direzione. Tuttavia se è vero che Russia, India e Giappone, non accettano o non accetteranno più opzioni di contenimento, è altrettanto vero che tutte e tre queste potenze non intendono consegnarsi in toto ad un’egemonia cinese, ma tendono semmai ad applicare, ognuna a loro modo, una strategia complessa di rapporti multipli. Esemplificativa in tal senso è la politica dell’India, la cosiddetta politica del “doppio forno”, ovvero cooperazione con la Cina e forte partnership con Washington (negli stessi giorni del memorandum New Delhi parlava con Washington per l’accordo nucleare, firmando con gli americani altre intese di cooperazione spaziale, e siglando accordi militari con la Cina, accettava il gasdotto turkmeno senza rinunciare definitivamente al gasdotto iraniano). India e Stati Uniti hanno firmato anche importanti accordi di cooperazione fra le rispettive agenzie spaziali. Tutto queste firme mostrano ancora una volta la strategia indiana di rafforzamento delle proprie posizioni in tutti i possibili campi tecnologici avanzati. Prosegue intanto la forte crescita economica cinese, facendo temere a Pechino il crollo di un sistema sempre più squilibrato. Nel primo trimestre del 2006 il Pil è stato superiore del 10,3% rispetto allo scorso anno e nei primi cinque mesi dell’anno i prestiti bancari interni sono aumentati dell’80% rispetto allo stesso periodo del 2005. L’eccesso di investimenti e debiti generato dalla crescita fa temere a Pechino il crollo di alcuni settori. Così le autorità cinesi stanno cercando di rallentare l’economia con gli stessi strumenti impiegati nel 2004 quando si verificò una situazione analoga: controlli sugli investimenti in determinati settori e inasprimento della politica monetaria. Oltre alle misure già in vigore per contenere la spesa in settori come l’alluminio, l’acciaio e il cemento, a fine giugno il primo ministro Wen Jiabao ha invitato le amministrazioni locali e le banche a non concedere crediti facili al settore edilizio. Ad aprile la Banca centrale ha alzato il tasso d’interesse dello 0,27% e il 16 giugno ha chiesto alle banche commerciali di aumentare di mezzo punto percentuale la quota di utili che è obbligatorio accantonare come riserva.
La Corea del Nord ha lanciato sette missili a media e lunga gittata (4 luglio). Il più temibile, il Taepodong-2, studiato per percorrere una distanza di 6.000 km e quindi in grado di raggiungere l’Alaska e le Hawaii, si è però schiantato subito dopo il lancio. Altri, a medio raggio, sono caduti nel Mare del Giappone. Durissime le reazioni degli Stati Uniti e dei Paesi vicini alla Corea del Nord e soprattutto del Giappone che ha chiesto, immediatamente, misure internazionali severissime contro il regime comunista di Pyeongyang, parlando anche di “interventi militari preventivi”. Secondo alcuni analisti, la Corea del Nord avrebbe voluto in questo modo attirare l’attenzione e smuovere lo stallo dei negoziati sul nucleare, che dura ormai dal novembre 2005, negoziati che coinvolgono, oltre alla Corea del Nord, Stati Uniti, Corea del Sud, Giappone, Cina e Russia. Nel settembre 2005 sembrava di essere arrivati a uno sblocco, ma poi la situazione è precipitata. Pyeongyang aveva accettato di smantellare il suo programma nucleare, di accogliere gli ispettori Onu e di rientrare nel programma di non proliferazione da cui era uscita nella primavera 2003: in cambio gli Usa avrebbero dovuto riconoscere il governo di Pyeongyang. Tuttavia l’amministrazione dei falchi statunitensi ha dimostrato di non volere le trattative: con un pretesto, ha denunciato una situazione che durava ormai da tempo (il riciclaggio di dollari americani da parte di Pyeongyang) e ha impedito a tutte le banche di fare affari con la Corea del Nord. Un modo per portare al collasso il regime di Kim Jong-Il, uno dei più chiusi al mondo. Ma c’è stato un altro fattore a scatenare la rabbia di Pyeongyang: il fatto che gli Usa abbiano adottato una posizione più morbida nei confronti dell’Iran, cui hanno concesso l’uso dell’uranio a scopi civili. Il lancio dei missili ha avuto l’effetto negativo di rafforzare le correnti più oltranziste di tutta l’area e soprattutto negli Stati Uniti e in Giappone. Il 15 luglio il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha quindi approvato, all’unanimità, una risoluzione che chiede a Pyeongyang di mettere fine agli esperimenti missilistici e sancisce l’embargo sulla vendita di componenti militari al regime nordcoreano. La risoluzione del Consiglio (che ricalca sostanzialmente la bozza sino-russa) è molto importante perché rappresenta un messaggio forte al regime di Pyeongyang e perché è frutto di una decisione unanime della Comunità internazionale; infine perché apre la strada a un ulteriore tentativo della diplomazia cinese. La risoluzione, che non comprende né sanzioni economiche né un riferimento al capitolo 7 del Trattato Onu (che prevede l’uso della forza), è stato stilato con non poche difficoltà ed è il prodotto di un confronto aperto in Consiglio tra Cina e Giappone. Tokyo, infatti, aveva chiesto che venissero previste sanzioni economiche internazionali contro Pyeongyang e ci fosse anche il riferimento al capitolo 7. Ora tocca ancora una volta alla Cina cercare di far ripartire i colloqui a sei. Se nel confronto su questa crisi internazionale particolarmente delicata la diplomazia di Pechino ha avuto la meglio, rifiutando l’impostazione diplomatica di Tokyo, non ha mancato negli stessi giorni, di mandare segnali di cooperazione al vicino nipponico e di siglare accordi riguardanti l’aviazione civile con il Giappone. Pyeongyang ha respinto la risoluzione e il 9 ottobre ha effettuato un test nucleare sotterraneo. Il 14 ottobre il Consiglio di sicurezza ha quindi adottato delle sanzioni economiche e commerciali contro Pyeongyang. La risoluzione 1.718 non contiene alcun riferimento all’uso della forza, ma chiede al governo di non effettuare altri test e di riprendere i negoziati a sei sul programma nucleare: il governo nordcoreano ha definito la risoluzione una dichiarazione di guerra. Tuttavia, dopo un incontro informale a Pechino tra i rappresentanti di Usa e Cina, Pyeongyang ha dato la disponibilità ad abbandonare le attività nucleari se Washington cancellerà le sanzioni economiche. In attesa di decidere se applicare contro Pyeongyang le sanzioni Onu, la Cina ha cominciato a erigere lungo il confine barriere di cemento armato sormontate da filo spinato. Ma sarà molto difficile che il commercio tra i due Paesi subisca limitazioni o interruzioni. Circa il 40% dei commerci nordcoreani viene scambiato con Pechino, che a sua volta fornisce l’80% del petrolio di cui Pyeongyang necessita. Più che a dare esecuzione all’embargo, limitando il passaggio di merci, la barriera servirà ad arginare la piena dei profughi che si teme investirà la Cina settentrionale se l’isolamento della Corea dovesse essere totale, provocando una forte instabilità demografica nella zona al confine. D’altro canto il tentativo di offrire un programma di aiuti economici e l’offerta di fare uscire il Paese dal suo attuale isolamento, è già stato fatto, e senza successo, in diversi incontri tra la stessa Corea del Nord, gli Stati Uniti, la Corea del Sud, la Cina e il Giappone. Tali riunioni si sono tenute tra il 2003 e il 2005 e si sono poi interrotte per volontà di Pyeongyang. è rimasta la linea dura, ma qui gli interessi delle potenze interessate divergono. Sia Pechino, sia Seul, infatti temono un crollo violento del regime, la conseguente fuga di milioni di profughi verso i loro rispettivi Paesi e una destabilizzazione permanente dell’intera regione. Per gli Stati Uniti, i timori sono soprattutto due: primo, che Pyeongyang, che rifornisce già dei suoi missili l’Iran e la Siria si metta a vendere la sua tecnologia nucleare a movimenti terroristici; secondo, che l’incapacità dell’Onu di fermare la Corea del Nord si rifletta anche sui programmi nucleari dell’Iran. Per il Giappone e per la Corea del Sud, che da sempre teme la potenza militare del Nord è soprattutto una questione di equilibri strategici. Se l’Onu non riuscirà a fermare Pyeongyang, è probabile che anche Tokyo e Seul decideranno di dotarsi dell’atomica, stabilendo un “equilibrio del terrore” regionale.
Prosegue nelle Filippine la crisi politico-istituzionale apertasi nel 2005 dopo che la presidente Gloria Macapagal Arroyo (subentrata all’ex presidente Joseph Estrada, in seguito a una rivolta popolare ed eletta poi nel 2004) ha subito pesanti accuse di corruzione e brogli elettorali, evitando per un soffio l’impeachment (in Parlamento il Lakas, il suo partito, che detiene la maggioranza, l’ha salvata). La credibilità interna della presidente è stata intaccata e la sua figura ne è uscita fortemente indebolita sul piano internazionale. Il malcontento popolare, oltre che alle persistenti accuse di manipolazione delle elezioni del 2004, è dovuto all’incapacità della presidente di cambiare le sorti del Paese che continua ad essere tra i più corrotti al mondo, a soffrire di gravi disuguaglianze sociali e di abusi dei diritti umani. Questa crisi politica ha come conseguenza la stagnazione economica con aumento della disoccupazione (11%) e crescita della povertà. In occasione del 20° anniversario della fine della dittatura di Ferdinando Marcos (23 febbraio), un massiccio corteo di protesta ha attraversato le strade della capitale. Il giorno seguente la presidente, dopo le voci di un golpe sventato dalle forze dell’ordine (golpe in cui sarebbero coinvolti personaggi legati all’ex presidente Estrada come il generale Danilo Lim, agli arresti con altri alti ufficiali), ha dichiarato lo stato d’emergenza. La tensione è rimasta alta le manifestazioni sono proseguite, nonostante la dura reazione della polizia. Quello che si teme ora è la strumentalizzazione che alcuni settori della politica e dell’esercito potrebbero fare del malcontento popolare per liberarsi della Arroyo e impadronirsi del potere. La Arroyo, proclamando lo stato di emergenza (poi revocato il 3 marzo), si è posta sulla scia di Marcos (prima legittimamente eletto, poi divenuto dittatore, imponendo la legge marziale), e si è inimicata irrimediabilmente la popolazione che, per almeno il 40%, vive sotto la soglia di povertà. Intanto da mesi ormai non si contano più le uccisioni di militanti e dirigenti di sinistra. Nelle Filippine infatti sono attivi da anni non solo vari movimenti separatisti e islamisti, ma anche forti movimenti di sinistra e di sinistra estrema che vertici ed apparati militari considerano una minaccia gravissima alla sicurezza nazionale. Il numero degli attivisti politici uccisi nell’arcipelago nel 2006 è drammaticamente aumentato. Secondo Amnesty International almeno 51 attivisti sono stati uccisi nei primi sei mesi dell’anno, la maggior parte per mano di motociclisti mascherati. L’organizzazione teme che negli omicidi possano essere coinvolti soldati e poliziotti e la presidente Arroyo ha costituito una commissione d’inchiesta per far luce sulla questione. Il 21 settembre migliaia di agricoltori e attivisti di sinistra hanno marciato a Manila in occasione del 34° anniversario della legge marziale imposta dall’ex dittatore Marcos, per chiedere alla presidente Arroyo di fermare gli omicidi politici e di non cambiare la Costituzione per prolungare il proprio mandato. I manifestanti ritengono che ciò che successe 34 anni fa con la legge marziale stia succedendo ancora sotto l’attuale amministrazione. Intanto il 28 giugno sono cominciati gli scontri nel Sud del Paese tra i ribelli musulmani del Milf (Fronte islamico di liberazione Moro) e le forze di polizia che dovevano arrestare due comandanti del Milf, sospettati di aver progettato l’attentato dinamitardo di giugno contro il governatore di Maguindanao, rimasto illeso, attentato in cui sono morte 7 persone. In seguito agli scontri circa 1.500 civili sono stati costretti a fuggire dalle loro abitazioni a causa dei combattimenti. Il Milf rappresenta il più grande gruppo di separatisti musulmani nell’isola meridionale di Mindanao. Attivo fin dal 1978, ha poi aperto negoziati di pace con Manila. Infine ricordiamo che all’inizio di dicembre il passaggio del tifone Durian nell’Est delle Filippine ha provocato oltre 400 vittime e circa 600 dispersi. Per il tifone una valanga di fango si è staccata dal vulcano Mayon e si è riversata sui villaggi alle sue pendici. La presidente Arroyo ha proclamato lo stato di calamità naturale e autorizzato l’immediato utilizzo di 20 milioni di dollari per sistemare le zone colpite dall’uragano.
In Giappone il primo ministro Junichiro Koizumi leader del Pld, il Partito liberaldemocratico, di destra, vincitore assoluto delle elezioni anticipate del settembre 2005, pur avendo conquistato per il suo partito una maggioranza che da tempo non si vedeva nel Parlamento di Tokyo, aveva confermato la sua decisione di lasciare il governo nel 2006. Da quel momento è partita la corsa alla successione mentre una serie di scandali hanno messo in crisi il premier. Al centro di tutto c’era la crisi finanziaria del gruppo Livedoor e il coinvolgimento del ministero della Difesa in questo scandalo. Ecco allora che la popolarità è crollata e la corsa alla successione è diventata durissima e si è giocata sul tema dei rapporti internazionali. Nel corso della crisi politico-diplomatica seguita al lancio dei missili nordcoreani, il capo di gabinetto del governo, Shinzo Abe si è mosso con forza per imporre una linea politica estera particolarmente dura. Grazie a questa impostazione Abe si è rafforzato nella corsa alla successione a Koizumi, in cui era contrapposto all’ex capo di gabinetto Yasuo Fukuda, fautore di una politica internazionale ben diversa da quella di Abe (Fukuda vuole rapporti migliori con la Cina e una nuova apertura ai Paesi asiatici, in linea con la “dottrina Fukuda”, inaugurata dal padre). Il 20 settembre Shinzo Abe ha preso il posto di Koizumi alla guida del Pld e subito dopo alla guida del governo nazionale giapponese. Taro Aso è stato confermato ministro degli Esteri. Il nuovo premier ha diviso gli animi: gli avversari lo hanno definito un pericoloso nazionalista mentre per i sostenitori sarà colui che riporterà il Giappone sulla scena mondiale. Come vice capo di gabinetto, Abe accompagnò Koizumi nel suo storico viaggio a Pyeongyang nel 2002. Dopo i test missilistici nordcoreani di luglio, Abe si è detto molto favorevole alle sanzioni economiche contro la Corea del Nord e alla necessità di sviluppare la capacità offensiva del Giappone per garantirne la sicurezza. La crisi ha rappresentato un punto di rottura nella tradizionale politica pacifista giapponese e i cittadini si sono avvicinati alla visione di Abe che un tempo sarebbe stata considerata troppo di destra. Da Pechino si guarda con interesse al cambio al vertice giapponese. Il nuovo corso nazionalista inaugurato da Abe prevede il potenziamento dell’esercito, mentre l’ala più conservatrice del Pld, preme per creare un arsenale nucleare come deterrente alla minaccia nordcoreana. In occasione dell’incontro tra il neopremier Abe e il presidente George W. Bush (Hanoi, 14 novembre), il primo ministro giapponese si è detto pronto ad attivare la propria contraerea nel caso fossero rilevati missili in transito sul proprio territorio. Il problema riguarda però i limiti imposti dalla Costituzione giapponese alle possibilità di intervento delle forze di autodifesa. Già Koizumi, aveva fatto una deroga al controverso articolo 9, autorizzando l’invio di un contingente prima in Afghanistan e poi in Iraq. Ma le intenzioni di Abe andrebbero ben oltre la semplice forzatura: il premier ha infatti parlato della precisa volontà di redigere un nuovo testo costituzionale che consenta al Paese di potenziare il proprio apparato di difesa. D’altro canto il governo statunitense da tempo sta esercitando pressioni su Tokyo per ottenere una revisione dell’articolo 9 in modo da potersi garantire un bastione difensivo nei confronti delle “nuove minacce asiatiche”. La crisi innescata dai test nucleari nordcoreani ha rafforzato questa posizione e l’ala conservatrice del Pld ha chiesto l’apertura di un dibattito parlamentare sul tema dello sviluppo nucleare del Paese, ritenendolo l’unico deterrente efficace contro la politica aggressiva di Pyeongyang. A riprova della nuova impostazione di Abe, il Senato ha approvato una legge, promossa dal premier, che istituisce, per la prima volta dal dopoguerra, un ministero della Difesa in sostituzione dell’attuale Agenzia della difesa.
In Indonesia, a due anni dallo tsunami che portò morte e distruzione in tutto il Sud-Est asiatico, permangono molti problemi, no-nostante l’arrivo di nuovi finanziamenti e l’apertura di nuovi cantieri. Ad Aceh, provincia indonesiana di Sumatra, la più sconvolta di tutto il Sud-Est asiatico (126.000 morti accertati, oltre 90.000 dispersi), mezzo milione di rifugiati vivono ancora in casa dei parenti sopravvissuti, nelle tende dell’Alto commissariato Onu o nelle baracche della Mezzaluna Rossa. Il direttore del Brr, l’agenzia governativa per la ricostruzione di Aceh e Nias fondata per coordinare il lavoro delle associazioni umanitarie ed evitare sovrapposizioni tra i progetti, ha denunciato la disonestà e la mancanza di professionalità di alcune organizzazioni non governative impegnate nella ricostruzione (alcune delle Ong, tra le più grandi e famose, avrebbero mentito circa i progressi raggiunti nei progetti loro affidati dal governo indonesiano). Un’altra catastrofe si è abbattuta su Giava il 27 maggio quando un terremoto ha causato quasi 6.000 morti. Il terremoto ha colpito una zona molto popolata vicino alla città di Yogyakarta, lungo la costa sud di Giava, con danni alle costruzioni in tutte le aree circostanti e nelle città di Klaten, Kulon e Bantul. L’epicentro del terremoto è stato localizzato nell’Oceano Indiano, 37 km a sud di Yogyakarta, ma fortunatamente non ha dato origine a un’onda anomala. Il 17 luglio infine l’incubo dello tsunami è tornato proprio su alcune di quelle terre che già l’avevano vissuto: l’isola di Giava, è stata travolta da un’onda che ha raggiunto i 4 m di altezza abbattendosi nella zona di Pangandaran, località turistica situata a sud dell’isola. Un terremoto sottomarino pari a 7,2 gradi sulla scala Richter al largo dell’isola indonesiana, ha dato il via al fenomeno: più di 300 morti, almeno 500 feriti e centinaia di dispersi, senza contare gli oltre 50.000 senzatetto. Sono quindi divampate le polemiche sulla mancata prevenzione di un fenomeno che il Paese aveva già sperimentato con effetti catastrofici. Dopo lo tsunami del dicembre 2004, il governo indonesiano aveva deciso di dotare l’arcipelago di un sofisticato sistema di allarme che prevedeva la messa in opera di alcune boe galleggianti fisse, in grado di avvertire in tempo reale dell’arrivo dell’onda anomala. Ma finora solo due delle previste 25 boe di segnalazione sono state attivate e nessuna nelle acque di Giava. E intanto pochi giorni prima la Tsunami Evaluation Coalition (Tec), organizzazione con il compito di monitorare l’utilizzo dei soldi raccolti a favore delle popolazioni indonesiane, aveva lanciato l’allarme sul cattivo utilizzo dei fondi. Intanto il 26 gennaio il presidente indonesiano Ausilio Bambang Yudhoyono ha presentato in Parlamento un progetto di legge che concede un’ampia autonomia alla provincia di Aceh, come previsto dall’accordo di pace firmato con i ribelli del Gam (movimento Aceh libera) il 15 agosto 2005 a Helsinki. L’11 dicembre si sono tenute le prime consultazioni libere in questa provincia indonesiana, elezioni storiche dopo 29 anni di guerra civile che ha visto opporsi il Gam alle feroci squadre speciali dell’esercito indonesiano. Era stato proprio lo tsunami ad accelerare la ricerca di un accordo di pace per porre fine a un conflitto indipendentista costato la vita ad almeno 15.000 persone. Accordo che contemplava l’amnistia per i ribelli, la consegna delle armi da parte di questi ultimi, il ritiro delle truppe di occupazione, l’autonomia per la provincia e diritto a godere del 70% dei proventi delle risorse minerarie (gas e petrolio) di cui la provincia è ricca. Il Gam si è presentato diviso tra coloro che fanno capo agli esuli rifugiatisi in Europa durante la guerra civile e quelli che invece sostengono coloro che scelsero di rimanere a combattere. Ai primi facevano riferimento Human Hamid e Hasbi Abdullah, del Partito islamico moderato, il Ppp (Partai Persatuan Pembangunan), ai secondi il favorito Yusuf Irwandi e Muhammad Nazar, che correvano come indipendenti (fatto storico questo, per l’Indonesia, dove la partecipazione alle elezioni è consentita solo a membri di partiti). Poche erano le speranze appuntate sul candidato filogovernativo, l’ex generale dell’esercito Djali Yusuf, che ha impostato la campagna elettorale sulla distensione e la concordia con gli ex ribelli. Alcuni candidati hanno promesso una più rigida ed estesa applicazione della sharia ma gli abitanti di Aceh considerano la legge islamica come la minore delle preoccupazioni. La popolazione chiede una migliore istruzione, una sanità efficiente, miglioramenti economici e, soprattutto, una decisiva accelerazione nel processo di ricostruzione. Le consultazioni sono terminate con l’elezione a governatore della provincia di Yusuf Irwandi, ex leader del Gam. Se ad Aceh la pace sembra tornata, il 22 settembre ad Atambua, a Timor Ovest, centinaia di cristiani armati di machete e bastoni hanno bruciato auto, saccheggiato negozi, attaccato uffici governativi e assaltato un carcere, liberando tutti i detenuti. I fatti sono accaduti non lontano dal luogo d’origine dei tre cattolici giustiziati il giorno precedente, dopo essere stati riconosciuti responsabili delle violenze antimusulmane avvenute nell’isola di Sulawesi nel maggio 2000 e costate la vita a 70 persone. Secondo il tribunale che li ha condannati a morte i tre guidarono le milizie cattoliche che seminarono la morte in quelle drammatiche giornate della stagione di violenze interreligiose, durata in Sulawesi dal 1998 fino al 2002. Per gli oltre mille morti di quei massacri – ci furono vittime di entrambe le religioni – nessun musulmano è stato condannato alla pena capitale. Per questo, la fucilazione dei tre cristiani è stata vissuta dalla comunità cattolica come una discriminazione da parte di un governo dominato dalla maggioranza musulmana. Nella zone dove sono scoppiate le violenze i cristiani sono la maggioranza, al contrario dell’isola di Sulawesi, in cui rappresentano una ristretta minoranza. Sul piano strettamente politico, tra marzo e aprile si sono svolte delle imponenti manifestazioni contro la riforma del mercato del lavoro annunciata dal governo. In seguito alle proteste all’inizio di aprile si è tenuto un incontro tra i rappresentanti sindacali e il vicepresidente Jusuf Kalla che ha assicurato ai lavoratori che le loro ragioni saranno tenute presenti nella stesura della legge.
In Mongolia il 13 gennaio il Partito rivoluzionario e popolare mongolo (Prpm, ex comunista) ha fatto cadere il governo guidato dal liberale Tsakhigiin Elbegdorj (una coalizione tra ex partito comunista e unione dei partiti democratici di ispirazione socialdemocratica e liberale), ritirando i suoi dieci ministri dalla coalizione che era al potere dal 2004. Gli ex comunisti hanno accusato il primo ministro di non aver fatto abbastanza per combattere la corruzione e la povertà. Tuttavia la crisi aperta dal Prpm non è stata ben accolta dalla popolazione che ha manifestato contro gli ex comunisti accusandoli a loro volta di corruzione e cattiva gestione economica. Secondo i liberali il Prpm avrebbe provocato la crisi per ostacolare le misure contro la corruzione volute dal governo e richieste dagli investitori stranieri presenti nel Paese. Il 16 gennaio il Prpm ha designato quale nuovo premier l’ex sindaco di Ulan Bator, Miyeegombo Enkhbold, da molti considerato come uno degli uomini più corrotti del mondo politico mongolo. Gli esponenti della coalizione democratica hanno annunciato che si rifiuteranno di partecipare ad un governo che sembra essere nato solo ed esclusivamente per perpetrare il clima di corruzione instaurato dal Prpm.
In Myanmar, senza tener conto delle proteste della comunità internazionale, la giunta militare guidata dal generale Than Shwe ha prorogato gli arresti domiciliari per la leader della Lega nazionale per la democrazia e premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi (27 maggio). Il regime dell’ex Birmania continua a sorreggersi grazie alla compiacenza del resto del mondo occidentale che, in cambio degli accordi economici e dello sfruttamento del lavoro forzato del popolo birmano, impegnato nella costruzione di gasdotti e nel disboscamento del teak, ha chiuso gli occhi di fronte alla violenza e alla cancellazione di ogni minimo diritto sindacale, che la giunta perpetuava a danno della popolazione anche a vantaggio degli interessi delle multinazionali. Il mondo occidentale ha protestato quando il potere birmano veniva meno agli accordi del Wto (Organizzazione mondiale del commercio), ma tace di fronte alla perpetuazione dell’abuso e della repressione. Ricordiamo infine che il 27 marzo la giunta militare ha spostato la capitale da Yangon a Pyinmana, che è stata ufficialmente rinominata Naypyidav, cioè “sede dei re”.
Il presidente di Taiwan, Chen Shui-bian, leader del Partito democratico progressista, fautore dell’indipendenza dell’isola dalla madrepatria, alla fine di gennaio in un discorso politico ha accennato a una modalità di “formalizzazione” dell’indipendenza di Taiwan suscitando le ire di Pechino che considera qualsiasi prospettiva di indipendenza inaccettabile. Chen, in particolare, ha accennato al fatto che è giunto il momento di considerare lo smantellamento del National Riunification Council, l’organismo istituito a suo tempo da Taipei per esaminare la possibilità di riunificazione. Da quando Chen è arrivato al potere l’organismo non si è mai riunito, proprio in omaggio alla politica del Pdp pro-indipendenza, ma un suo formale smantellamento significherebbe un messaggio politico chiaro alla Cina. Pechino non intende accettare alcun passo verso una formale indipendenza dell’isola e, pur di isolare politicamente Chen e porre le basi per una futura riunificazione pacifica, ha stretto contatti e legami con i vecchi nemici del partito nazionalista. Dal canto suo Chen è in declino di popolarità e quindi cerca di rilanciare il tema dell’indipendenza per riaffermarsi presso l’opinione pubblica taiwanese vicina al suo partito. Il 13 novembre due membri del Partito progressista democratico (Dpp, al potere), Lee Wem-chung e Lin Cho-shui, si sono dimessi dal Parlamento per protestare contro il presidente, coinvolto in uno scandalo di corruzione. Chen, da mesi sotto accusa per appropriazione indebita, ha rischiato di essere destituito. Tuttavia il Parlamento ha respinto la mozione dell’opposizione su un referendum per destituirlo (24 novembre).
Il primo ministro Thaksin Shinawatra, importante imprenditore thai di un grande impero di telecomunicazioni, aveva vinto ampiamente le ultime elezioni parlamentari in Thailandia, assicurandosi per il partito da lui stesso fondato, Thai Rak Thai (“i thailandesi amano i thailandesi”), 375 dei 500 seggi dell’Assemblea nazionale. Il successo della sua politica economica, una strategia di forte sostegno al mondo rurale e di riforma sanitaria in senso assistenziale, facevano prevedere un periodo di stabilità politica. Il premier, nel suo discorso di insediamento al Parlamento, aveva anche annunciato l’impegno a migliorare i diritti civili. Le principali organizzazioni umanitarie lo hanno condannato per violazione dei diritti umani in più di una occasione: per combattere il narcotraffico ha permesso l’uccisione di 2.275 persone in esecuzioni extragiudiziali e l’imprigionamento di molte altre nei cosiddetti “detox camp”, campi di disintossicazione più simili a carceri di massima sicurezza. Nel Sud, poi, dove si verificano da oltre due anni attentati da parte dei radicali musulmani, ha ordinato alla polizia di usare ogni mezzo per riportare l’ordine. Contrariamente alle premesse, il primo ministro ha fatto di nuovo ricorso alle leggi speciali per cercare di sedare la crisi nel Sud senza tener in alcun conto le raccomandazioni degli organismi umanitari. Non solo, Shinawatra ha anche cercato di attaccare la libertà di informazione. Ma la goccia che ha fatto traboccare il vaso è stato l’annuncio, all’inizio del 2006, della vendita delle quote di famiglia della sua società Shin Corporation, ad una finanziaria di Singapore, la Tamasek Holdings. Il tutto senza pagare tasse. A questo punto la società civile di Bangkok, guidata dalla cosiddetta Alleanza del popolo per la democrazia (People’s Alliance for Democracy, Pad, molto più vivace dell’opposizione parlamentare del Partito democratico) si è ribellata. Per tre domeniche, grandi folle di manifestanti si sono radunate nella piazza del Palazzo Reale chiedendo le dimissioni di Thaksin, accusato di corruzione, abuso di potere e insider trading. Di fronte al crescere delle proteste, il premier prima ha sciolto il Parlamento (24 febbraio) e ha indetto elezioni anticipate per il 2 aprile (con tre anni di anticipo rispetto alla scadenza del mandato), poi ha convocato una manifestazione di suoi seguaci a Bangkok, andando nei distretti rurali dove gode ancora di un forte appoggio popolare, e infine ha ripetutamente respinto le richieste di dimissioni. Dopo lo scioglimento del Parlamento le manifestazioni di protesta si sono fatte sempre più consistenti e i partiti di opposizione, guidati dai democratici, hanno annunciato il boicottaggio delle elezioni. I seguaci del premier contavano sul fatto che, mentre Bangkok gli è fortemente ostile, il mondo contadino gli è ancora largamente favorevole. Una bomba è scoppiata davanti all’abitazione di un ex primo ministro thailandese, ora capo dei consiglieri del re, aggravando ulteriormente la crisi politica e molte forze, della stessa opposizione, hanno spinto per un intervento della monarchia contro il primo ministro che, nonostante le proteste incessanti, ha continuato la campagna elettorale. Anche nel corso dell’ultimo week-end preelettorale, migliaia di manifestanti si sono riversati nelle strade di Bangkok, chiedendo le dimissioni di Shinawatra. Subito dopo il premier ha annunciato la disponibilità del Thai Rak Thai a formare un governo di unità nazionale con la partecipazione dell’opposizione, ma solo nel caso in cui il suo partito non avesse ottenuto almeno il 50% più uno dei voti. L’opposizione ha respinto l’ipotesi che ha scatenato le veementi reazioni dei vari schieramenti in gioco. Le consultazioni sono terminate con la vittoria del Thai Rak Thai che ha ottenuto il 57% dei voti, un risultato inferiore alle aspettative e che non avrebbe garantito al primo ministro un mandato “forte” per formare un nuovo governo. Shinawatra, tenuto conto del forte astensionismo nella capitale, oltre che di quello nel Sud, dove dal gennaio 2004 è in corso un’insurrezione musulmana contro le comunità buddhiste (il maggior sostegno al premier è venuto dalle campagne e dal Nord, le zone più povere del Paese, catturate dalla sua politica populista), il 4 aprile ha annunciato le sue dimissioni dopo un incontro, decisivo, con il re Bhumibol Adulyadej. Thaksin ha detto di aver preso la decisione per rispetto del re che quest’anno festeggia i sessant’anni sul trono. Ma la vera ragione è che Thaksin non ha ricevuto quel consenso popolare a cui puntava: il suo partito ha ottenuto la maggioranza dei suffragi, ma l’astensionismo ha raggiunto il 40% e, nonostante l’assenza di partiti di opposizione, il Thai Rak Thai ha conquistato meno seggi di quanti ne aveva conquistati nelle ultime elezioni del 2005. Dopo l’annuncio delle dimissioni, la Borsa di Bangkok ha immediatamente guadagnato più di tre punti percentuali: dimostrazione che anche il mondo dell’economia e della finanza avevano perso fiducia in Thaksin. Con le dimissioni del primo ministro da un lato si è chiusa una fase della crisi politica, dallla ricerca di una nuova unità della nazione è parsa complicata. Thaksin infatti è stato battuto dai ceti colti della capitale, ma i contadini hanno continuato a sostenerlo e il suo partito resta maggioritario. L’8 maggio la Corte costituzionale ha annullato le legislative del 2 aprile giudicandole non valide in quanto Thaksin aveva scelto la data del voto senza consultazioni, non era stata garantita la segretezza del voto e la Commissione elettorale aveva certificato il risultato in modo irregolare. La Corte ha poi indetto nuove elezioni entro 60 giorni. Infine il 19 settembre, mentre Shinawatra era a New York per l’Assemblea generale dell’Onu, carri armati si sono mossi verso il centro di Bangkok, bloccando le vie di accesso al quartier generale del governo. Facendo leva sul malcontento popolare e sul sostegno dell’opposizione guidata dai democratici, il comandante dell’esercito, il generale Sonthi Boonyaratglin, ha preso il potere: dopo aver giurato fedeltà al re, Sonthi ha sospeso la Costituzione e il Parlamento, decretando la legge marziale. Ha imposto la censura sulla stampa nazionale ed estera “per bloccare la disinformazione” e ha insediato al potere una giunta militare provvisoria da lui presieduta, denominata Consiglio per la riforma amministrativa (Arc), promettendo la nomina di un governo civile che avrà il compito di scrivere una nuova Costituzione e di indire elezioni nell’ottobre del 2007. La gran parte dei thailandesi ha appoggiato questo incruento colpo di Stato ed è grata al generale per aver tolto di mezzo il primo ministro Thaksin Shinawatra. Non v’è più dubbio che si siano mossi all’unisono militari e casa reale, col tacito avallo dell’opposizione e l’appoggio di gran parte della popolazione. Proprio la tiepida opposizione del leader del Partito democratico Abhisit Vejjajiva, conferma che si è trattato di un golpe istituzionale appoggiato da re Bhumibol. La giunta militare ha quindi nominato primo ministro il generale in pensione Surayud Chulamont (1° ottobre).
A quattro anni dall’indipendenza dall’Indonesia, il degrado sociale e l’instabilità continuano ad affliggere Timor Est. Il 17 marzo oltre un terzo dei soldati regolari (circa 600 persone) sono stati licenziati in massa dal primo ministro, Mari Alkatiri, dopo che non si erano presentati per un mese in caserma per protestare per i bassi salari e il nepotismo. I soldati licenziati, il 40% delle Forze armate, lamentavano anche discriminazioni su base etnica. La maggior parte dei comandanti che occupano i posti chiave è originaria dell’Ovest del Paese e appartiene all’etnia lorosae. Le reclute invece, quelle che sono scese in sciopero, originarie dell’Est e di etnia loramonu, hanno denunciato di essere vittime di discriminazioni, essendo meno pagate degli altri militari. Un malcontento analogo riguarda la maggior parte della popolazione, che si aspettava di più dal presidente José Alexandre Xanana Gusmao. Secondo il rapporto del Programma di sviluppo delle Nazioni Unite il 40% degli abitanti di Timor Est è povero; l’accesso a educazione e cure mediche è inadeguato e 60 bambini su 1.000 muoiono entro il primo anno di età; l’aspettativa di vita è di 55 anni e metà della popolazione non ha l’acqua potabile. La situazione è drammatica soprattutto nelle campagne, dove l’80% delle famiglie vive grazie ai proventi dell’agricoltura di sussistenza. La situazione si è fatta incandescente alla fine di aprile quando la polizia ha represso violentemente una manifestazione in sostegno dei soldati ribelli (5 persone sono morte), guidati dal maggiore della polizia militare Alfredo Alves Reinado, ribelli che hanno trovato rifugio sulle colline a Sud di Dili dichiarando guerra alle autorità governative. All’interno del Fretilin, il partito nato dal movimento che ha combattuto contro il dominio indonesiano, è in corso una lotta di potere. I “riformatori”, cioè gli esponenti più anziani, hanno chiesto le dimissioni di Alkatiri, perché non sarebbe stato in grado di gestire la rivolta militare e di porre fine a disoccupazione e povertà. Il 20 maggio mentre si celebrava il quarto anniversario dell’indipendenza di Timor Est dall’Indonesia, l’Australia posizionava per precauzione navi da guerra nelle sue acque settentrionali pronte a intervenire qualora lo avessero chiesto Dili e le Nazioni Unite. Migliaia di persone sono fuggite terrorizzate dalla capitale devastata dai disordini e i morti sono stati almeno una ventina. Il ministro degli Esteri José Ramos-Horta ha chiesto l’intervento di truppe straniere e dalla sera del 25 maggio, i militari australiani hanno preso possesso dell’aeroporto e pattugliato con blindati il centro cittadino. Violenti scontri si sono verificati nella notte del 30 maggio, soprattutto nel quartiere orientale di Becora: nove poliziotti ribelli sotto protezione Onu sono stati uccisi e 27 persone sono rimaste ferite. L’Indonesia ha chiuso la frontiera con Timor Est e il presidente Gusmao ha proclamato lo stato d’emergenza. Il 26 giugno il primo ministro Alkatiri si è dimesso dopo un braccio di ferro con il presidente Xanana Gusmao che ha chiesto anche le dimissioni del ministro della Difesa Roque Rodrigues a causa della discriminazione del gruppo etnico dei loramonu da parte dei lorosae. Secondo alcuni analisti il vero problema non sarebbe etnico, ma economico e riguarderebbe il controllo politico delle vaste riserve di petrolio e gas naturale del Paese. I sostenitori del premier hanno reagito minacciando di marciare su Dili dove sono scoppiate nuove violenze. Ci sono stati attacchi contro le minoranze etniche e decine di edifici sono stati dati alle fiamme. La crisi politica si è risolta l’8 luglio con la nomina a primo ministro del premio Nobel per la pace José Ramos-Horta, che svolgeva le funzioni di coordinamento dei ministri dopo le dimissioni di Alkatiri. Ramos-Horta dovrà guidare il Paese fino alle elezioni generali del 2007.
In Vietnam l’Assemblea nazionale ha eletto capo dello Stato Nguyen Minh Triet, un riformatore, in sostituzione di Tran Duc Luong, che è andato in pensione, mentre Nguyen Tan Dung è il nuovo primo ministro al posto di Phan Van Khai (27 giugno): l’obiettivo del rimpasto è quello di favorire le riforme economiche e l’integrazione internazionale del Paese. Intanto l’8 aprile centinaia di persone hanno firmato e pubblicato il Manifesto per la libertà e la democrazia in Vietnam. Il gruppo si è trasformato in un movimento democratico che conta un migliaio di aderenti ed è noto come Blocco 8.4.06, così chiamato per la data in cui è stato presentato il programma. Si tratta della sfida politica più decisa lanciata al potere monolitico del Partito comunista. Il 22 agosto il movimento ha presentato una proposta in quattro fasi per la democratizzazione del Paese, chiedendo il ripristino delle libertà civili, l’istituzione dei partiti politici, la stesura di una nuova Costituzione e l’elezione democratica di un’Assemblea nazionale incaricata di avviare le riforme. Il governo ha reagito duramente all’apparizione del nuovo gruppo: molti membri del Blocco 8.4.06 sono stati fermati, interrogati e torturati. La repressione del movimento indica che i nuovi leader del Partito non hanno intenzione di realizzare nessuna riforma politica sul modello di quelle economiche e finanziarie. Il Blocco 8.4.06 ha chiesto ripetutamente alla comunità internazionale di appoggiare la sua battaglia per la democrazia.