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ALFABETIZZAZIONE
Acquisizione sociale di un linguaggio che si esprime attraverso una scrittura dotata di un alfabeto fonetico e comunque di un sistema di segni grafici codificato. Per secoli le competenze letterarie furono appannaggio di una minoranza di specialisti che, pur non coincidendo necessariamente con il gruppo detentore del potere politico, ne costituiva spesso uno degli apparati. In queste condizioni si aveva una situazione di alfabetismo limitato a pochi e di "incompiutezza alfabetica", più forte nelle campagne che nelle città, nelle aree meno favorite che in quelle economicamente solide, restando comunque ferme le differenze fra ceti. L'analfabetismo non è necessariamente sintomo di una condizione esistenziale o sociale arretrata, né l'alfabetizzazione è meccanicamente coincidente con la crescita economica. Diversità di modello di sviluppo e di tessuto culturale comportano fluttuazioni tali da rendere difficile una suddivisione della storia dell'alfabetismo secondo sicuri intervalli cronologici. Dall'antichità alle soglie dell'età moderna non mancarono iniziative di alfabetizzazione, anche se poco riducibili a sintesi. Per lungo tempo si considerò alfabeta chi sapeva anche semplicemente decifrare un testo scritto; in epoche successive e in luoghi diversi la competenza fu riconosciuta a chi sapeva anche scrivere e, per seguire la definizione canonica, fare di conto.

ALFABETIZZAZIONE E SVILUPPO. In età moderna la Riforma protestante e la Controriforma individuarono nella diffusione di appositi testi, predisposti in modo da renderne agevole la fruizione, un utile mezzo di propaganda. Più energica fu l'opera dei protestanti delle diverse confessioni: il principio, che essi avevano in comune, del libero esame dei testi sacri presupponeva una diffusione popolare delle competenze alfabetiche. Nel Settecento le riforme dell'assolutismo illuminato e l'influenza delle idee della rivoluzione francese provocarono, sia pure in modo non uniforme, un rinnovato interesse per i problemi educativi. Il deciso aumento dell'alfabetismo di massa verificatosi in molti paesi occidentali nell'Ottocento viene in genere considerato una conseguenza della rivoluzione industriale. Ma a sua volta l'industrialismo fu accompagnato, almeno in una prima fase, anche da fenomeni contrastanti con il diffondersi dell'alfabeto: forti migrazioni dalle campagne o da zone economicamente deboli verso centri urbani, uso indiscriminato di forza-lavoro infantile, ripetitività delle operazioni lavorative richieste. Le ragioni dell'alfabetizzazione vanno quindi cercate in altri fattori, quali, per esempio, l'affermarsi di principi democratici e di un'attiva coscienza sociale. Il punto di partenza, condizione necessaria, è la padronanza dello strumento alfabetico, o meglio alfanumerico. L'alfabetizzazione, in quanto volta a fornire un sapere di base, non si limita però in età contemporanea alle tre "r" anglosassoni (reading, writing, reckoning) del leggere, scrivere e far di conto (alfabeto "minore" o "strumentale"), ma prevede abilità utili per intraprendere attività produttive (alfabeto "maggiore" o "funzionale"). Le prime servono comunque per acquisire qualche nozione storica, geografica, scientifica, sociale, economica e quant'altro. In età contemporanea la diffusione delle conoscenze alfabetiche fu affidata a sistemi educativi formalmente strutturati, non insensibili al clima politico prevalente e non senza contestuali interventi d'indottrinamento morale-comportamentale costruiti sulla base di valori civici e, spesso, religiosi. Tra Otto e Novecento, in clima positivistico, si aggiunse alla formazione di base qualche proposta sul linguaggio corporeo, collocandolo sotto l'etichetta dell'igiene o dell'improprio termine ginnastica, poi meglio definita educazione fisica. L'alfabetizzazione seguì due linee fondamentali: una rivolta alla fascia di età che va dall'infanzia all'adolescenza mediante l'istruzione obbligatoria; l'altra finalizzata al recupero (récyclage) di analfabeti in età matura. Al sostantivo alfabetizzazione si associano, non di rado, aggettivi solo in apparenza impropri: per esempio si parla di alfabetizzazione tecnologica, scientifica, cinematografica, informatica ecc., per indicare il possesso delle nozioni di base relative a diversi rami del sapere. I confini dell'alfabetismo non sono infatti ben definiti (meglio sarebbe, usando il plurale, parlare di alfabetismi) perché il complicarsi degli strumenti di comunicazione e delle competenze professionali richieste, anche per compiti relativamente semplici, allontana e rende impervia la soglia oltre la quale si può ritenere compiuto un reale processo di alfabetizzazione.

LE CAMPAGNE INTERNAZIONALI E NAZIONALI. Nel Novecento furono promosse grandi campagne di alfabetizzazione. Già la Società delle nazioni (1919) aveva, tra i suoi obiettivi umanitari e pacifisti, quello di promuovere iniziative in tale direzione. Ma soprattutto l'Onu, dopo la Seconda guerra mondiale, intraprese attraverso l'Unesco specifici interventi rivolti sia all'infanzia che agli adulti analfabeti (educazione permanente). Accordi e conferenze internazionali diedero luogo a importanti imprese, sostenute da finanziamenti concessi sulla base di piani mirati ad alcune specifiche situazioni. Gran parte di tali progetti si concluse però con un fallimento attribuibile spesso all'indifferenza o all'inerzia dei regimi politici. Si ebbero risultati migliori quando le condizioni politiche consentirono una partecipazione attiva delle popolazioni interessate. Venne generalmente impiegata una strategia fondata sull'approccio "selettivo-intensivo", che aveva maggiori probabilità di successo se, a fianco dei tecnici provenienti dai paesi a più alto sviluppo tecnologico, vi era la cooperazione volontaria di cittadini del luogo, così da attivare meccanismi moltiplicativi e di trascinamento. Ancora più efficaci furono i risultati ottenuti in presenza di forti motivazioni di carattere sociale o ideologico. Fra gli esempi più noti vi è quello di Cuba negli anni sessanta dopo la rivoluzione guidata da F. Castro. La campagna di alfabetizzazione interessò con successo 700.000 persone delle campagne, con corsi della durata di tre mesi tenuti da studenti e intellettuali. Altrettanto emblematica fu l'esperienza promossa da Paulo Freire nel Nordeste del Brasile negli anni sessanta del Novecento. Fondandosi sulle istanze individuali e sociali di liberazione e sfidando condizioni di estrema miseria e oppressione, ottenne livelli elementari di alfabetismo attraverso incontri, di durata non superiore a 40 ore, con piccoli gruppi di illetterati di età diverse. Iniziative analoghe, applicate alle periferie dei grandi agglomerati urbani in America e in Europa, trovarono ostacoli nell'assenza di comuni elementi culturali nella popolazione. Grandi campagne di alfabetizzazione erano state intraprese, del resto, anche dai governi comunisti dell'Unione sovietica, dove la percentuale di analfabeti, che superava ancora il 50% nel 1921, era scesa al 7% nel 1951. Nello stesso trentennio la percentuale di analfabeti scese dal 50,5 al 25% in Iugoslavia. Nel cinquantennio tra il 1901 e il 1951 la Romania passò dal 78 al 20%, la Bulgaria dal 70 al 20%; il Portogallo dal 73 al 44%, la Grecia dal 55 al 26%, la Spagna dal 59 al 17%; i paesi dell'Europa centrale e nordoccidentale, partiti da posizioni più avanzate, si attestarono nel 1951 intorno al 3% e in molti casi (Austria, Germania, Svizzera, Olanda, Danimarca e paesi scandinavi) su posizioni prossime allo zero; gli Usa passarono dall'11% del 1901 al 3% nel 1951.

L'ALFABETIZZAZIONE IN ITALIA. Nel 1861, anno dell'unificazione nazionale, la percentuale di analfabeti dichiarati era del 78%, ma le statistiche non distinguevano, tra i restanti, i semianalfabeti (coloro cioè che erano in grado, in qualche modo, di leggere, ma non di scrivere se non difficoltosamente la propria firma), che stime attendibili identificano nel 19,5% riducendo così i veri alfabeti a solo il 2,5% (altre stime più ottimistiche li valutano in non più del 9%). Il problema dell'analfabetismo fu correttamente sentito, in quegli anni, dalla classe politica come legato a quello della diffusione della lingua nazionale in una popolazione ancora per la stragrande maggioranza dialettofona e quindi legata a una cultura orale; ma la sua gestione, ostacolata dall'indifferenza delle autorità religiose (nel 1868 la rivista dei gesuiti "Civiltà cattolica" si oppose recisamente al progetto di estendere la lingua italiana ai branchi di zotici contadinelli che popolavano le campagne del paese e soprattutto del sud), dal divario economico e sociale tra regioni e tra ceti e dalla discriminazione delle donne nella scolarità, oltre che dal cattivo funzionamento della macchina scolastica nel suo insieme, diede risultati lenti e disuguali. L'analfabetismo calò dal 78% del 1861 al 62% nel 1881, al 38% nel 1911, al 21% nel 1931 (ma in quell'anno era superiore al 38% nel Mezzogiorno), al 13% nel 1951 (ma con il 28% nel Mezzogiorno e, a livello nazionale, con il 21% di semianalfabeti, rilevati separatamente per la prima volta in quel censimento). Nel 1961, a un secolo dall'unificazione del paese, gli analfabeti erano l'8,4%, ma più del 15% nel Mezzogiorno e, a livello nazionale, il 6,6% dei maschi e il 10,1% delle femmine. I decenni successivi avvicinarono l'Italia alla situazione dell'Europa continentale: nel 1971 la percentuale era scesa al 5,2 e nel 1981 al 3,1.

A. Pizzitola.

C. M. Cipolla, Istruzione e sviluppo. Il declino dell'analfabetismo nel mondo occidentale, UTET, Torino 1971; C. Offe, Lo Stato nel capitalismo maturo, Etas Libri, Milano 1977; A. Petrucci, Scrivere e no. Politiche della scrittura e analfabetismo nel mondo, Editori Riuniti, Roma 1987; H.J. Graff, Storia dell'alfabetizzazione occidentale, Il Mulino, Bologna 1989; D. Marchesini, Il bisogno di scrivere. Usi della scrittura nell'Italia moderna, Laterza, Roma-Bari 1992.
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