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Le Mille e Una Notte Storia del Facchino di BagdadI Grandi ClassiciI Grandi Classici CulturaSTORIA DEL PRIMO MONACO - STORIA DEL SECONDO MONACO STORIA DELL'INVIDIOSO E DELL'INVIDIATO
Le Mille e Una Notte Storia del Facchino di BagdadLE MILLE E UNA NOTTE - STORIA DEL FACCHINO DI BAGDADSTORIA DEL TERZO MONACOOnorevolissima signora, quello che vi racconterò io è assai dissimile da quanto avete udito. I due principi, che hanno parlato prima di me, persero un occhio per puro effetto del loro destino; io invece l'ho perduto unicamente per colpa mia. Io mi chiamo Agib e son figlio di un re, che si chiamava Cassib. Dopo la sua morte presi possesso dei suoi stati, e mi stabilii nella città dove aveva dimorato. Tale città è situata sulla riva del mare, ed ha un porto bellissimo e sicuro, con un arsenale grandissimo, fornito di centocinquanta navi da guerra. Molte province componevano il mio regno che ha inoltre un gran numero di isole considerevoli, quasi tutte situate in vista della mia capitale. Dapprima visitai le province, poi feci equipaggiare la flotta e andai nelle isole per conciliarmi, colla presenza, il cuore dei sudditi. Avendo acquistata qualche conoscenza dell'arte della navigazione, risolvetti di compiere un viaggio di esplorazione al di là delle mie isole; feci equipaggiare dieci navi e, imbarcatomi, sciogliemmo le vele. La nostra navigazione fu felice per quaranta giorni di seguito, ma la notte del quarantunesimo, il vento divenne furioso, e fummo travolti da una violentissima tempesta. Nondimeno sul far del giorno il vento si calmò, le nuvole si dissiparono e ritornò il bel tempo. Approdammo in un'isola, dove ci fermammo due giorni per fare provviste; poi riprendemmo il mare. Dopo dieci giorni di navigazione cominciammo a sperare di veder terra perché, dopo la tempesta, avevo cambiato i miei progetti ed ero deciso a tornare a casa. Dopo altri dieci giorni un marinaio di guardia annunciò che a destra ed a sinistra non si vedevano che cielo e mare: ma dirimpetto, cioè dalla parte della prua, c'era una gran macchia nera. A tale notizia il pilota scolorò in viso; con una mano gettò il turbante sulla tolda e battendosi il volto con l'altra esclamò: "Ah! Sire, siamo perduti! Nessuno di noi può scampare dal pericolo in cui ci troviamo, e con tutta la mia esperienza non posso evitarlo". Dicendo queste parole si mise a piangere come chi sa che la sua perdita è inevitabile e il suo dolore seminò in tutta la nave lo spavento. Gli domandai quale ragione avesse per disperarsi tanto, ed egli mi rispose: "Ah! Sire, domani a mezzogiorno ci troveremo presso quella macchia scura chiamata la Montagna Nera: essa non è altro che una miniera di minerali magnetici che già sta attirando a sé la nostra flotta, a causa dei chiodi e dei ferri che entrano nella struttura delle navi. Domani, quando saremo a una certa distanza, la forza della calamita sarà così violenta che tutti i chiodi delle nostre navi si staccheranno e andranno ad attaccarsi alla montagna. Sulla sua sommità c'è una cupola di bronzo sostenuta da colonne dello stesso metallo; al di sopra si innalza un cavallo che ha il petto coperto da una piastra di piombo, sulla quale sono incisi dei caratteri talismanici. La tradizione dice che quella statua è la causa principale per cui tanti vascelli e tanti uomini sono stati finora affondati in questo luogo". Detto ciò, il pilota si mise a piangere, e le sue lacrime provocarono quelle di tutto l'equipaggio e io non dubitai di essere alla fine dei miei giorni. Pur tuttavia ognuno pensò alla propria salvezza, e cercò qualche espediente, ma, nella incertezza dell'avvenire, tutti si nominarono vicendevolmente eredi, con un testamento in favore di chi si sarebbe salvato. L'indomani vedemmo chiaramente la Montagna Nera, e l'idea che ne avevamo concepita ce la fece vedere ancor più spaventosa di quanto non fosse. A mezzogiorno ci trovammo così vicini da sperimentare tutto quanto ci aveva predetto il pilota. Vedemmo volare verso la montagna i chiodi e tutti gli altri ferri che per la violenza dell'attrazione, si attaccavano alla roccia con un orribile fracasso. Le navi si aprirono e s'inabissarono nel mare! Tutta la mia gente affogò: ma Dio ebbe pietà di me e permise che io mi salvassi, afferrandomi a una tavola che fu spinta dal vento ai piedi della montagna. Non mi feci alcun male, avendomi la fortuna fatto approdare in un luogo dove c'erano dei gradini per salire sino alla sommità. Alla vista di quei gradini, proseguì il monaco, cominciai a salire; giunto sulla sommità senza nessun incidente, entrai sotto la cupola e prostrandomi in terra ringraziai Dio della grazia fattami. Passai la notte sotto quella cupola, e mentre dormivo mi apparve un vecchio venerabile, il quale mi disse: "Agib, ascolta: quando sarai sveglio, scava sotto i tuoi piedi la terra, vi troverai un arco di bronzo e tre frecce di piombo. Scocca le tre frecce contro la statua; il cavaliere cadrà nel mare ed il cavallo vicino a te, e tu lo sotterrerai nel luogo dove avrai trovate le frecce. Quando avrai fatto ciò, il mare si gonfierà e salirà fino ai piedi della cupola posta sulla cima della montagna; allora vedrai approdare una scialuppa, che porterà un uomo di bronzo, diverso da quello rovesciato. Imbarcati con lui senza pronunciare il nome di Dio e lasciati condurre. Ti porterà in dieci giorni in un altro mare, dove troverai il mezzo per tornare a casa tua sano e salvo, purché, come ti ho detto, tu non pronunci mai il nome di Dio". Tale fu il discorso del vecchio, e, quando mi fui svegliato, mi alzai estremamente consolato, e non mancai di seguire il suo consiglio. Dissotterrai l'arco e le frecce, e le scagliai contro il cavaliere. Con la terza freccia lo rovesciai nel mare, e il cavallo cadde vicino a me. Lo sotterrai dov'erano prima l'arco e le frecce e nel frattempo il mare si gonfiò a poco a poco. Quando fu arrivato ai piedi della cupola, vale a dire alla sommità della montagna, vidi avvicinarsi una scialuppa: benedissi Dio, vedendo che le cose succedevano proprio come mi aveva detto il vecchio del sogno. La scialuppa approdò, e vidi l'uomo di bronzo che mi era stato descritto. M'imbarcai, guardandomi bene dal proferire il nome di Dio: anzi non dissi neppure una sola parola. Mi sedetti e l'uomo di bronzo cominciò a vogare allontanandosi dalla montagna. Remò senza posa fino al nono giorno, quando vidi delle isole che mi fecero sperare di poter essere fuori pericolo. L'eccesso della gioia mi fece dimenticare la proibizione fattami, e dissi: "Dio sia benedetto! Dio sia lodato!". Avevo appena terminate tali parole, che la scialuppa affondò con l'uomo di bronzo. Io restai in acqua, e nuotai per tutto il giorno, dirigendomi verso terra. Venne la notte, e non sapendo dove andare, nuotai a caso, finché le mie forze si esaurirono, e disperai di salvarmi; ma essendosi levato il vento, un'onda più alta d'una montagna mi gettò su una spiaggia. Il giorno dopo il sole mi asciugò l'abito: lo indossai e mi incamminai per scoprire dove fossi. Mi accorsi ben presto che ero in una piccola isola disabitata, bellissima e piena di molte specie di alberi da frutto. Mentre affidavo a Dio la mia vita, perché ne facesse ciò che voleva, scoprii un piccolo bastimento che veniva a gonfie vele verso terra. Ignorando però se la gente che portava fosse amica o nemica credetti opportuno non mostrarmi subito. Salii sopra un albero foltissimo, da dove potevo, non visto, osservare ogni cosa. Il bastimento si fermò in una insenatura; sbarcarono dieci schiavi, che portavano una pala ed altri strumenti adatti a lavorare la terra. Camminarono verso il centro dell'isola, poi li vidi arrestarsi e smuovere per qualche tempo il terreno: dai loro atti mi parve che sollevassero una botola. Tornarono poi al bastimento, sbarcarono molte provviste ed ognuno se ne caricò una parte che portò dove avevano smossa la terra, e discesero: compresi che là doveva esserci un sotterraneo. Li vidi un'altra volta andare sulla nave ed uscirne con un vecchio, che conduceva un giovane bellissimo di quattordici o quindici anni. Tutti discesero nella botola, e quando furono risaliti l'abbassarono, la coprirono di terra e poi si diressero verso la nave. Mi accorsi allora che il giovane non era con loro, e perciò conclusi che doveva essere rimasto nel sotterraneo; ne restai meravigliato. Il vecchio e gli schiavi s'imbarcarono, e il bastimento, sciolte le vele, riprese la via del continente. Quando lo vidi abbastanza lontano da non poter essere visto dall'equipaggio, scesi dall'albero e andai difilato nel luogo ove avevo veduto smuovere la terra. La smossi io pure, finché, trovata una pietra di due o tre piedi quadrati, l'alzai e vidi che copriva l'entrata di una scala pure di pietra; scesi, e mi trovai in una grande stanza, con un tappeto e con un sofà guarnito di cuscini di ricca stoffa, su cui stava seduto un giovane con un ventaglio in mano. Questi fu sorpreso nel vedermi, ma, per rassicurarlo, gli dissi entrando: "Chiunque siate, o signore, non temete nulla. Un re, figlio di re, come io sono, non è capace di farvi offesa. Al contrario è la vostra buona sorte che mi manda per trarvi da questa tomba, dove siete stato sotterrato per ragioni che io ignoro. Ma ciò che più mi stupisce e che non posso comprendere (perché io sono stato testimonio di quanto avvenne dacché siete nell'isola), è che vi siate lasciato seppellire senza resistenza".Il giovane si rassicurò a tali parole, e mi pregò con volto ridente di sedermi vicino a lui; poi mi disse: "Principe, v'intratterrò di cose che vi faranno meraviglia, tanto sono singolari. Mio padre è mercante di gioielli e ha acquistato molti beni con le sue fatiche e con la sua abilità. Possiede molti schiavi e commissionari, che fanno viaggi per mare su navi che gli appartengono, per mantenere la corrispondenza con varie corti alle quali fornisce le pietre preziose di cui abbisognano. Da lungo tempo era ammogliato senza avere figlioli, quando fu avvertito in sogno che avrebbe avuto un figlio, la cui vita però non sarebbe stata di lunga durata. Alcuni giorni dopo, mia madre annunciò di essere incinta; pensava di aver concepito proprio nel giorno del sogno. Poi nacqui io e si fecero in famiglia grandi feste. Mio padre che aveva esattamente osservato il momento della mia nascita, consultò gli astrologhi, e quali gli dissero: "Vostro figlio vivrà senza incidenti fino all'età di quindici anni: ma allora correrà il rischio di perdere la vita. A quel tempo", aggiunsero, "la statua di bronzo, che è sulla cima della Montagna Nera, sarà rovesciata in mare dal principe Agib, figlio del re Cassib, e gli astri annunciano che cinquanta giorni dopo vostro figlio dovrà essere ucciso da quello stesso principe". Siccome questa predizione concordava col sogno di mio padre, egli ne fu veramente commosso e addolorato. Non lasciò tuttavia di prendere molta cura della mia educazione fino a quest'anno, che è il quindicesimo della mia vita. Ha saputo ieri che il cavaliere di bronzo è stato gettato in mare dal principe. Tale notizia gli è stata causa di tante lacrime da non essere più riconoscibile nello stato in cui si trova. Basandosi sulle predizioni degli astrologhi, egli ha cercato il mezzo di smentire il mio oroscopo e conservarmi la vita. Da molto tempo ha fatto costruire questa dimora per tenermi nascosto durante cinquanta giorni da quando la statua sarebbe stata rovesciata. Perciò, quando ha saputo la notizia, è venuto subito a nascondermi qui, promettendomi che verrà a riprendermi, quando sarà passato il pericolo. Per me, nutro buone speranze, e non credo che il principe Agib venga a cercarmi sottoterra in mezzo a un'isola disabitata. Ecco, signore, ciò che avevo da dirvi". Mentre il figlio del gioielliere mi parlava in tal modo, io mi burlavo fra me degli astrologhi che avevano predetto che io gli avrei tolto la vita, e senza alcun timore che si avverasse la predizione, gli dissi con trasporto: "Caro signore, confidate nella bontà di Dio, e non temete di nulla. Sono lieto, dopo aver fatto naufragio, di trovarmi felicemente qui per difendervi contro chiunque volesse attentare ai vostri giorni. Io non vi abbandonerò durante tutto questo tempo, aiutandovi per quanto dipenderà da me; dopo profitterò dell'occasione di ritornare sul continente, imbarcandomi in vostra compagnia sul vostro bastimento, col permesso di vostro padre; e quando sarò di ritorno nel mio regno, non dimenticherò gli obblighi che ho verso di voi, e cercherò di mostrarvi la mia riconoscenza come si conviene". Con tal discorso rassicurai il figlio del gioielliere, e me ne conquistai la fiducia. Per paura di spaventarlo, non gli dissi che ero il temuto Agib, ed ebbi cura di non dargliene alcun sospetto. C'intrattenemmo su molte cose fino alla notte, e mi accorsi che il giovane aveva molto ingegno. Mangiammo insieme delle sue provviste, perché ne aveva in abbondanza e gliene sarebbero avanzate anche se avesse avuto più ospiti. Dopo la cena continuammo ad intrattenerci per qualche tempo, e poi ci riposammo. Il mattino gli presentai il catino e l'acqua ed egli si lavò. Poi preparai il pranzo e lo servii quando fu il momento. Dopo pranzo inventai un giuoco per divertirci quel giorno e i giorni seguenti. Preparai la cena come il pranzo, e cenammo e ci coricammo come il giorno innanzi. Durante questi giorni stringemmo una grande amicizia, e accortomi che egli aveva molta simpatia per me, come io per lui, dissi sovente a me stesso, che gli astrologhi, che avevano predetto quel destino, erano impostori. Insomma, in quel sotterraneo passammo trentanove giorni col più gran piacere del mondo. Giunse il quarantesimo, e la mattina il giovane svegliandosi, mi disse allegramente: "Principe, eccomi oggi al quarantesimo giorno, e grazie a Dio e alla vostra buona compagnia non sono ancora morto. Mio padre non mancherà di mostrarvi la sua riconoscenza, e di fornirvi tutti i mezzi necessari per ritornare nel vostro regno! Intanto", soggiunse, "vi supplico di voler scaldare un poco d'acqua per lavarmi tutto il corpo in un bagno portatile; mi voglio ripulire, e cambiare, per meglio ricevere mio padre". Posi l'acqua sul fuoco, e quando fu tiepida ne riempii il bagno portatile; il giovane vi si immerse e lo lavai e asciugai io stesso. Poi egli si coricò nel suo letto e lo coprii bene. Quando fu riposato ed ebbe dormito qualche tempo, mi disse: "Principe, compiacetevi di portarmi un melone e dello zucchero per rinfrescarmi". Dei molti meloni che ci restavano, scelsi il migliore e lo posi su un piatto; e siccome non trovavo un coltello per tagliarlo, domandai al giovane se sapesse dove fossero. "Ve n'è uno", mi rispose, "su questa cornice al di sopra della mia testa." Infatti lo vidi; mi affrettai talmente per prenderlo, che, quando l'ebbi in mano inciampai in modo tale nella coperta, che caddi sul giovane, e, involontariamente, lo colpii col coltello al cuore; egli spirò all'istante. A tale spettacolo mandai un grido di dolore: mi percossi la testa, il viso e il petto, mi lacerai l'abito e mi gettai a terra piangendo disperatamente. Poi, alzando la testa e le mani al cielo, esclamai: "Signore, vi domando perdono, e se sono colpevole della morte di questo giovane non mi lasciate vivere più a lungo!". Ciò nonostante, riflettendo che le mie lacrime non potevano far rivivere il giovane, e che sarei stato sorpreso da suo padre, uscii dal sotterraneo, abbassando la grossa pietra sull'entrata, e coprendola di terra. Appena terminato questo lavoro, volgendo l'occhio verso il mare scorsi il bastimento che veniva a riprendere il giovane. Pensando al partito da prendere, dissi a me stesso: "Se mi faccio vedere, il vecchio mi farà uccidere dai suoi schiavi, quando troverà suo figlio ucciso. Tutto quello che potrei dire per giustificarmi, non lo persuaderebbe mai della mia innocenza, e poiché ne ho l'opportunità, val meglio sottrarmi al suo risentimento, anziché affrontarlo". Vi era vicino al sotterraneo un grande albero, le cui fronde foltissime mi parvero adatte per nascondermi; mi arrampicai in modo da non poter esser scoperto ed aspettai gli eventi. Il vecchio e gli schiavi sbarcarono e tosto avanzarono verso il sotterraneo, ma quando videro la terra smossa di fresco, impallidirono, poi alzarono la pietra e scesero. Chiamano il giovane per nome, ma non risponde; si raddoppia il loro timore; lo cercano e lo trovano finalmente sul letto, col coltello in mezzo al cuore, poiché non avevo avuto il coraggio di strapparglielo. A tale vista ruppero in grida di dolore; il vecchio cadde svenuto; gli schiavi, per fargli prender aria, lo portarono ai piedi dell'albero su cui mi trovavo. Ma ad onta di tutte le loro cure lo sventurato padre restò a lungo in quello stato, e fece più d'una volta temere per la sua vita. Alla fine però rinvenne dal lungo svenimento. Allora gli schiavi portarono via il corpo di suo figlio, scavarono una fossa e lo seppellirono. Il vecchio, sostenuto da due servi, col viso bagnato di lacrime, gettò sopra il cadavere un pugno di terra, poi gli schiavi riempirono la fossa. Fatto ciò imbarcarono le provviste rimaste e il vecchio, oppresso dal dolore, non potendo sostenersi, fu posto su una specie di lettiga e trasportato a bordo. Subito il bastimento partì. Dopo la partenza del vecchio, degli schiavi e del naviglio, io restai solo, disse il terzo monaco. Passavo la notte nel sotterraneo che non era stato coperto, e di giorno camminavo intorno all'isola. Dopo un mese di simile vita, avvertii che il mare calava considerevolmente, e che non rimaneva più tra il continente e me che un piccolo tratto d'acqua. Tosto lo attraversai, scorgendo in lontananza un gran fuoco, che mi diede qualche letizia. Senonché avvicinandomi scoprii di essere in errore: invece d'un fuoco era un castello di rame rosso, che i raggi del sole facevano parere infiammato, vedendolo da lontano. Mi sedetti vicino a quell'edificio, sia per osservarne la struttura ammirabile, sia per rimettermi dalla stanchezza. Tosto vidi dieci giovani che venivano verso di me; erano tutti ciechi dall'occhio destro ed accompagnavano un vecchio di alta statura e di aspetto venerando. Si accostarono a me, manifestando una grande gioia nel vedermi, e domandandomi quale motivo mi avesse condotto là. Risposi che la mia storia era un po' lunga, e che se volevano prendersi la pena di sedersi, avrei appagato il loro desiderio. Si sedettero, ed io narrai ciò che m'era accaduto dacché ero uscito dal mio regno fino ad allora. Quand'ebbi terminato il mio discorso, questi giovani signori mi pregarono di entrare nel castello, ed io accettai la loro offerta. Attraversammo un'infinità di sale, di anticamere e di salotti elegantemente arredati, e giungemmo in un gran salotto dove c'erano dieci piccoli sofà turchini che potevano servire tanto per sedersi e riposarsi durante il giorno, quanto per dormirvi la notte. In mezzo a quel circolo c'era un altro sofà, meno elevato e del medesimo colore, sul quale si sdraiò il vecchio di cui si è parlato, mentre i giovani si sedettero sugli altri dieci. Siccome ogni sofà non poteva contenere più d'una persona, uno di quei giovani mi disse: "Amico, sedetevi qui in mezzo su questo tappeto, ma non fateci domande su ciò che ci riguarda né sulla ragione per cui siamo tutti ciechi dell'occhio destro: contentatevi di vedere, e non spingete più oltre la vostra curiosità". Il vecchio si alzò ed uscì, ritornando con la cena per tutti; mi diede pure la mia, e, sul finire del pasto, presentò ad ognuno una tazza di vino. La mia storia era loro sembrata così straordinaria, che me la fecero ripetere alla fine della cena. Poi il vecchio si alzò ed entrato in un gabinetto portò sulla testa dieci catini, l'uno dopo l'altro, tutti coperti di stoffa turchina, e ne pose uno davanti a ciascuno di quei giovani, con una fiaccola. Ciascuno scoprì il suo catino; in essi c'era della cenere, del carbone polverizzato, e del nero fumo. Mescolarono tutte quelle sostanze e cominciarono a fregarsi e macchiarsi il viso, così da far orrore a vederli. Dopo essersi tinti così, si misero a piangere ed a battersi la testa ed il petto, gridando incessantemente: "Ecco il frutto del nostro ozio e della nostra sregolatezza!". Passarono quasi tutta la notte in quella strana occupazione; alla fine cessarono, ed il vecchio portò loro dell'acqua, con la quale si lavarono il viso e le mani; poi si spogliarono dei loro abiti sudici e ne indossarono altri puliti. Il giorno appresso, appena fummo alzati, uscimmo per prendere aria, ed allora dissi loro: "Qualunque sventura possa accadermi, non saprei trattenermi dal chiedervi perché tutti quanti avete un occhio solo". Mi risposero che ciò non mi riguardava minimamente. Passammo la giornata intrattenendoci su cose indifferenti, e, quando venne la notte, dopo aver cenato separatamente, il vecchio portò di nuovo i catini e i giovani s'imbrattarono, piansero, si batterono il petto e gridarono: "Ecco il frutto del nostro ozio e della nostra sregolatezza". Il giorno appresso e l'altro ancora, fecero lo stesso. Infine io non potei resistere alla mia curiosità, e li pregai seriamente di appagarla, o d'insegnarmi per quale via potessi ritornare al mio regno. Uno di loro mi rispose per tutti gli altri: "Non ti meravigli la nostra condotta: se finora non abbiamo ceduto alle tue preghiere, è stato per pura amicizia verso di te, per risparmiarti la sventura di esser ridotto nel nostro stato. Se vuoi provare il nostro crudele destino, dillo, e ti daremo la soddisfazione che domanderai". Risposi che ero pronto a ogni avvenimento. "Ancora una volta", riprese lo stesso uomo, "ti consigliamo di moderare la curiosità: ne va della perdita del tuo occhio destro." "Non importa", ripresi, "vi dichiaro che se mi tocca simile sventura non vi riterrò colpevoli, e la imputerò a me solo." Mi disse ancora che quando anche avessi perduto l'occhio non potevo sperare di rimanere con loro, supposto che io nutrissi simile pensiero, perché il loro numero era compiuto e non poteva essere aumentato. Replicai che non avrei voluto separarmi da gente così gentile, ma che se la necessità lo richiedeva ero anche pronto a sottomettermici perché volevo che mi accontentassero a qualunque condizione. I dieci signori, vedendomi irremovibile nella mia risoluzione, presero un montone e lo scannarono; dopo avergli tolta la pelle, mi presentarono il coltello di cui s'erano serviti, dicendomi: "Prendi questo coltello, ti servirà presto. Noi ti cuciremo in questa pelle, poi un uccello di enorme grandezza chiamato Roc apparirà nell'aria e prendendoti per un montone piomberà su di te e ti alzerà fin sulle nubi. Ma non temere; egli riprenderà il volo verso la terra e ti poserà sulla cima d'una montagna; allora col coltello sbarazzati dell'involucro, cammina finché non sarai giunto a un castello di una grandezza prodigiosa, tutto coperto di lamine d'oro, di grossi smeraldi e di altre pietre preziose. Presentati alla porta che è sempre aperta, ed entra. Noi siamo stati tutti in quel castello; non ti diciamo nulla di ciò che vi abbiamo veduto, né di quello che ci è capitato, perché lo vedrai da te. Ti basti sapere che per essere stati là abbiamo perso l'occhio destro e dobbiamo fare la penitenza di cui sei stato testimonio. La storia di ciascuno di noi in particolare è piena di avventure straordinarie, e se ne farebbe un grosso libro; ma noi non possiamo dirti di più!". Dopo tale discorso m'avviluppai nella pelle di montone, e m'impadronii del coltello; quei giovani si presero la pena di cucirmici dentro, mi lasciarono là e si ritirarono nel loro salone. Il Roc, di cui mi avevano parlato, non tardò a farsi vedere, piombò su me, mi prese fra gli artigli come un montone, e mi trasportò sulla sommità di una montagna. Quando mi sentii a terra, feci uso del coltello, e mi sbarazzai della pelle, correndo difilato al castello. L'uscio era aperto, entrai in un cortile quadrato e vastissimo con novantanove porte di legno di sandalo e di aloe e una d'oro, senza contare quelle alla sommità di molte scalinate magnifiche, che conducevano agli appartamenti superiori, ed altre ancora che non vedevo. Le cento porte in questione si aprivano su giardini e luoghi meravigliosi a vedersi. Scorsi di fronte a me una porta aperta, per la quale entrai in un gran salone, dove erano sedute quaranta donzelle di una bellezza così perfetta da superare ogni ammirazione. Appena mi videro, si alzarono tutte insieme e, senza aspettare i miei complimenti, mi dissero con grandi dimostrazioni di gioia: "Bravo, signore, siate il benvenuto!". Dopo molta resistenza da parte mia, mi obbligarono a sedermi in un posto un po' più elevato del loro, e siccome dimostravo di averne rincrescimento, mi dissero: "Questo è il vostro posto; da questo momento voi siete il nostro signore, il nostro padrone, il nostro giudice: e noi siamo vostre schiave, pronte a ricevere i vostri comandi". Nulla al mondo, o signora, mi meravigliò tanto come l'ardore di quelle belle ragazze, a rendermi ogni specie di favori. Una portò dell'acqua calda e mi lavò i piedi; un'altra mi versò dell'acqua profumata sulle mani; le altre portarono tutto quanto era necessario per farmi mutare di vestito, mi prepararono una colazione magnifica. Io bevvi e mangiai, poi feci loro un esteso racconto delle mie avventure. Quando ebbi terminato di raccontare la mia storia alle quaranta donne, alcune di loro, sedute più vicine a me, restarono per intrattenermi, mentre le altre si alzavano per andare in cerca di lumi; ne portarono tanti da uguagliare meravigliosamente la chiarezza del giorno. Altre donne apparecchiarono una tavola di frutta secca, di confetti e di bevande; altre ne caricarono un'altra di molte specie di vini e liquori, ed altre infine comparvero con strumenti musicali. Quando tutto fu pronto m'invitarono a prender posto. Dopo la cena, i concerti ed il ballo, una delle donne mi disse: "Voi siete stanco per il cammino fatto oggi; è tempo di riposarvi. Il vostro appartamento è preparato: ma prima di ritirarvi scegliete fra noi una che vi serva". Io risposi che mi sarei guardato bene dal fare la scelta, poiché erano tutte ugualmente belle, spiritose, degne del mio rispetto e dei miei servigi e che mai non avrei commesso l'inciviltà di preferire l'una all'altra. "Siamo persuase", replicò lei, "della vostra gentilezza, e vediamo bene che il timore di far nascere gelosia fra noi vi trattiene: ma non temete: vi avvertiamo che la vostra scelta non farà nascere gelosie, perché è convenuto che ogni giorno, una dopo l'altra, avremo il medesimo onore. Scegliete dunque liberamente." Dovetti cedere alla loro insistenza; tesi la mano alla donna che parlava a nome delle altre; ella mi diede la sua e mi condusse in un magnifico appartamento. Così passò quella notte. Al mattino dopo, avevo appena terminato di vestirmi, quando le altre trentanove donne vennero nel mio appartamento, tutte ornate diversamente dal giorno innanzi. Mi condussero al bagno, ove esse medesime, mio malgrado, mi rendettero tutti i servigi di cui avevo bisogno: e quando ne uscii, mi fecero indossare un altro abito assai più bello del primo. Passammo il giorno quasi sempre a tavola: e quando venne l'ora del riposo mi pregarono di fare la mia scelta. Infine, signora, per non tediarvi ripetendo sempre la stessa cosa, vi dirò che passai un anno intero in quel modo, e che durante tutto quel tempo la mia vita fu interamente felice. Alla fine dell'anno (nulla poteva sorprendermi di più), le quaranta donne, invece di presentarsi a me con l'ordinaria gaiezza, e domandarmi come stessi, entrarono una mattina nel mio appartamento con le guance bagnate di pianto. Vennero ad abbracciarmi teneramente una dopo l'altra e mi dissero: "Addio, caro principe, addio! Bisogna abbandonarvi". Le loro lacrime m'intenerirono: ed io le pregai di dirmi la causa del loro dolore, e della separazione di cui mi parlavano. "In nome di Dio, ditemi se è in mio potere di consolarvi, o se il mio soccorso è inutile!" "Molti cavalieri prima di voi ci hanno fatto l'onore di visitarci, ma nessuno ebbe mai la grazia, la dolcezza e la giocondità vostra; non sappiamo come vivere senza di voi." Terminando queste parole, ricominciarono a piangere amaramente. "Mie amabili donne", ripresi allora, "per carità, non mi fate languire di più! Ditemi la ragione del vostro dolore." "Ahi", risposero, "quale altra ragione sarebbe capace di affliggerci, se non quella di separarci da voi? Forse non vi rivedremo mai più! Se però lo vorrete, e se ne avrete abbastanza dominio su voi stesso non sarebbe impossibile ricongiungerci." "Donne", ripresi, "non comprendo nulla di ciò che dite; vi prego di parlare più chiaro." "Ebbene", disse una di loro, "per soddisfarvi, vi diremo che siamo tutte principesse, figlie di re. Viviamo qui insieme in letizia come avete veduto: ma alla fine di ogni anno siamo obbligate ad allontanarci per quaranta giorni, onde soddisfare a certi doveri indispensabili, che non ci è permesso rivelare; poi ritorniamo in questo castello. L'anno è finito ieri; bisogna oggi lasciarvi; questa è la ragione della nostra afflizione. Prima di uscire vi lasceremo tutte le chiavi, in particolare quella delle cento porte, così troverete di che soddisfare la vostra curiosità e raddolcire la vostra solitudine durante la nostra assenza. Ma per il nostro bene e per il nostro comune interesse vi raccomandiamo di non aprire la porta d'oro: se l'aprirete non vi vedremo mai più! Speriamo che terrete a mente questa raccomandazione; ne va del nostro riposo e della felicità della vostra vita. Vi scongiuriamo dunque di non commettere simile errore e di darci la consolazione di trovarvi qui dopo quaranta giorni. Porteremmo con noi la chiave della porta d'oro se non fosse un'offesa per voi dubitare della vostra discrezione." Il discorso di quelle belle principesse mi diede molta pena. Non mancai di dir loro che quella assenza mi addolorava assai, e, ringraziandole del buon avvertimento datomi, le rassicurai che ne avrei tenuto conto, e che avrei fatto cose ancora più difficili per procurarmi il piacere di passare il resto dei miei giorni con donne di tale merito. I nostri addii furono tenerissimi; le abbracciai una dopo l'altra, poi partirono ed io restai solo nel castello. La piacevole compagnia, il buon trattamento, i concerti, le gioie mi avevano talmente occupato tutto l'anno, che non avevo avuto il tempo né il desiderio di vedere le meraviglie di quel castello incantato. Non avevo fatto neppure attenzione ai mille oggetti ammirabili che avevo tutti i giorni innanzi agli occhi, tanto ero stato rapito dalla bellezza delle donne e dal piacere di vederle occupate unicamente di me. Fui vivamente afflitto della loro partenza e, quantunque la loro lontananza dovesse essere solo di quaranta giorni, mi parve di dover passare un secolo senza di loro. Mi ripromettevo di non dimenticare l'avvertimento importante, di non aprire cioè la porta d'oro; ma siccome, salvo quell'eccezione, mi era permesso di soddisfare la mia curiosità, presi, secondo l'ordine in cui erano messe, la prima chiave. Aprii la prima porta ed entrai in un frutteto, al quale credo nessun altro al mondo possa paragonarsi: e penso che quello che ci viene promesso dopo la morte dalla nostra religione non possa essere più bello. La simmetria, l'eleganza, la mirabile disposizione degli alberi, l'abbondanza e la diversità dei frutti di mille specie sconosciute, la loro freschezza, la loro bellezza; tutto incantava la vista. Non debbo omettere, signora, di farvi osservare che questo giardino delizioso era irrigato in modo assai singolare. Rigagnoli scavati con arte e proporzione, portavano abbondante acqua alle radici degli alberi che ne avevano bisogno per far spuntare le prime foglie e i fiori, altri ne portavano meno a quelli dove i frutti erano già formati; altri anche meno a quelli dove i frutti ingrossavano, altri portavano solo lo stretto necessario a quelli i cui frutti avevano acquistato la giusta grossezza ed aspettavano la maturazione, ma tale grossezza sorpassava assai quella dei frutti ordinari dei nostri giardini. Gli altri rigagnoli infine che terminavano agli alberi i quali avevano i frutti maturi, non avevano se non l'umidità necessaria per conservarli nel medesimo stato senza corromperli. Io non cessavo di esaminare e di ammirare quel luogo così bello, e non ne sarei uscito mai, se non avessi desiderato scoprire le altre bellezze non ancora viste. Uscii coll'animo pieno di quelle meraviglie, chiusi la porta, e aprii quella che veniva dopo. Invece di un frutteto, trovai un giardino che non era meno singolare nel suo genere. Era uno spazio grandissimo, irrigato, non con la medesima profusione del precedente, ma con maggior cura, perché non si desse acqua ai fiori più del bisogno. Rose, gelsomini, violette, narcisi, giacinti, anemoni, tulipani, ranuncoli, garofani, e un'infinità d'altri fiori, che altrove sbocciano in tempi diversi, qui si trovano fioriti insieme, e non v'è cosa più dolce dell'aria che si respira in quel giardino. Aprii la terza porta, e trovai una vastissima uccelliera. Era lastricata di marmo e la gabbia era di sandalo e di legno d'aloe; racchiudeva un'infinità di usignoli, cardellini, canarini, lodolette, e altri uccelli ancora più armoniosi, dei quali non avevo mai sentito parlare in tutta la mia vita. I vasi per il cibo erano di diaspro o d'agata. Inoltre quell'uccelliera era elegantissima; vedendo la sua grandezza giudicai che occorressero non meno di cento persone per tenerla pulita: eppure non vidi nessuno! Il sole era al tramonto e io mi ritirai dal soave canto di quella moltitudine di uccelli, tornando al mio appartamento, deciso ad aprire le altre porte nei giorni seguenti a eccezione della centesima. L'indomani andai ad aprire la quarta, e se quello che avevo visto il giorno innanzi era stato capace di entusiasmarmi, quello che vidi allora mi rapì in estasi. Posi il piede in un grande cortile circondato da un edificio di meravigliosa architettura, di cui non farò la descrizione, essendomi ciò impossibile. Quell'edificio aveva quaranta porte tutte aperte: ciascuna delle quali conduceva a un tesoro; ne vidi alcuni che valevano più d'un grandissimo regno. Il primo conteneva mucchi di perle, e, ciò che sorpassa ogni immaginazione, perle preziosissime, grosse come uova di piccione; nel secondo tesoro vi erano diamanti, carbonchi e rubini; nel terzo smeraldi, nel quarto oro in verghe, nel quinto oro monetato, nel sesto argento in verghe, nei due seguenti monetato; gli altri contenevano ametiste, crisoliti, topazi, opali, turchesi, e tutte le altre pietre che conosciamo, senza parlare dell'agata, del diaspro, della corniola, del corallo, di cui v'era un magazzino pieno. Dopo aver veduto tutte quelle ricchezze, esclamai: "No, se tutti i tesori di tutti i regni della terra fossero uniti in un medesimo luogo, non potrebbero uguagliare questi". Io non mi arresterò, o signora, a farvi la narrazione di tutte le cose rare che vidi nei giorni seguenti; ma vi dirò soltanto che non mi bastarono meno di trentanove giorni per aprire le novantanove porte ed ammirare tutto ciò che si offerse alla mia vista. Giunse il quarantesimo giorno dopo la partenza delle principesse - seguitò a dire il terzo monaco - oh, se avessi saputo mantenere quel giorno il controllo della mia volontà sarei oggi il più felice di tutti gli uomini, invece di essere il più sventurato! Esse dovevano arrivare il mattino dopo, e il piacere di rivederle avrebbe dovuto frenare la mia curiosità: ma per una debolezza, di cui non cesserò mai di pentirmi, soccombetti alla tentazione del demonio, il quale non mi diede riposo finché non mi liberai della pena che provavo. Aprii la porta fatale, che avevo promesso di non aprire, e non appena ebbi mosso il piede per entrare, un odore piacevolissimo, ma contrario al mio gusto, mi fece cadere svenuto. Tornai in me, e invece di profittare di questo avvertimento, chiudere la porta e vincere per sempre il desiderio di soddisfare la mia curiosità, entrai, dopo aver aspettato che l'aria pura avesse moderato quell'odore così da non esserne più infastidito. Trovai un luogo vasto a volta, con pavimento sparso di zafferano. Molti candelieri d'oro massiccio, coi lumi accesi, mandavano un odore d'aloe e ambra grigia, e quella illuminazione era ancora aumentata da lampade d'oro e d'argento, ripiene d'olio, misto a diverse specie di profumi. Fra un numero molto grande di oggetti che attiravano la mia curiosità, scopersi un cavallo nero, così bello che non se ne può trovare uno migliore. Mi avvicinai per ammirarlo, e trovai che aveva sella e briglie d'oro massiccio; la sua mangiatoia era piena d'orzo netto e di sesamo, e per bere aveva acqua di rose. Lo presi per la briglia e lo trassi fuori. Vi montai su, e volli farlo camminare: ma non si muoveva; allora lo percossi con uno scudiscio che avevo preso nella magnifica scuderia. Appena si sentì colpito cominciò a nitrire con orribile strepito: poi, spiegando due ali, di cui non mi ero accorto, si levò nell'aria. Io pensai a tenermi saldo e, a onta dello spavento che mi aveva assalito, riuscii a sostenermi. Ripreso il suo volo verso la terra, si fermò sul terrazzo d'un castello, dove senza darmi tempo di metter piede a terra, mi scrollò via così violentemente, che mi fece cadere indietro, e coll'estremità della coda, mi cavò l'occhio destro. Ecco in qual modo sono diventato cieco; mi ricordai allora di quello che mi avevano predetto i dieci giovani. Il cavallo riprese il suo volo e scomparve. Io mi rialzai afflittissimo della sventura di cui ero il solo responsabile. I dieci giovani ciechi non erano nel salone; li aspettai finché, poco tempo dopo, giunsero col vecchio. Essi non parvero meravigliati di rivedermi, né della perdita del mio occhio, e mi dissero: "Siamo ben dolenti di non poterci felicitare per il tuo ritorno, come desideravamo: ma non siamo noi la causa della tua sventura". "Avrei torto se ve ne accusassi", risposi loro, "me la sono attirata da me, e a me solo do tutta la colpa." "Se è un conforto per gli sventurati", ripresero, "avere dei compagni di sventura, il nostro esempio può dartene. E' avvenuto a noi ciò che hai esperimentato tu pure. Noi abbiamo provato tutti i piaceri per un anno intero, ed avremmo continuato a godere della stessa felicità, se non avessimo aperto la porta d'oro durante l'assenza delle principesse. Non sei stato più saggio di noi ed hai sofferto la stessa pena. Vorremmo tenerti qui per fare la stessa penitenza che facciamo noi, e di cui non sappiamo la durata: ma ti abbiamo già dichiarato la ragione che ce lo impedisce. Perciò va alla corte di Bagdàd, ove troverai chi deve decidere del tuo destino." M'insegnarono la via che dovevo percorrere e mi separai da loro. Durante il cammino mi feci radere la barba e le sopracciglia e presi l'abito da monaco. E' molto tempo che cammino, e oggi all'inizio della notte sono giunto in questa città. Ho incontrato alla porta questi monaci miei confratelli, e tutti e tre fummo sorpresi di vederci ciechi del medesimo occhio. Non potemmo però trattenerci sulla disgrazia comune; abbiamo avuto appena il tempo di venire a implorare quel soccorso che voi ci avete generosamente accordato. Il terzo monaco aveva così terminato di raccontare la sua storia, e Zobeida, rivolgendosi a lui ed ai suoi confratelli, disse: "Andate, siete liberi tutti e tre, ritiratevi dove più vi piace". Ma uno di essi rispose: "Signora, vi supplichiamo di perdonare la nostra curiosità e di permetterci di ascoltare la storia di questi signori che non hanno ancora parlato". Allora la donna, volgendosi al califfo, al visir Giàafar ed a Masrùr che essa non conosceva per quello che erano, disse loro: "Tocca a voi: raccontate la vostra storia". Il gran visir Giàafar rispose a Zobeida: "Signora, per obbedirvi, non abbiamo che a ripetervi ciò che vi abbiamo detto prima d'entrare in casa vostra. Noi siamo mercanti di Mussul, e veniamo a Bagdàd per negoziare le nostre mercanzie, che sono in un magazzino dentro un albergo ove siamo alloggiati. Abbiamo pranzato oggi, con molte altre persone della nostra professione, presso un mercante di questa città, il quale, dopo averci trattato con delicate vivande, e squisiti vini, ha fatto venire ballerini, ballerine, cantanti e musici. Il gran rumore che insieme facevano attirò la guardia, che arrestò una parte della brigata. Noi, per fortuna, ci salvammo: ma siccome era già tardi e la porta del nostro albergo era chiusa, non sapevamo dove ritirarci. Per caso passammo per la vostra strada e udimmo il rumore gaio che si faceva qui. Ciò ci spinse a bussare alla vostra porta, ed ecco quanto dovevamo dirvi, per obbedire ai vostri ordini". Zobeida, dopo aver ascoltato simile discorso, sembrò esitare su ciò che dovesse dire; i tre monaci se ne accorsero e la supplicarono di avere per i tre mercanti di Mussul la stessa bontà usata a loro riguardo. "Ebbene", disse, "acconsento. Voglio che tutti mi dobbiate la stessa riconoscenza. Vi faccio grazia, a condizione che usciate da questa casa subito, e vi ritiriate dove vi piacerà!" Avendo Zobeida dato quest'ordine con un tono che dimostrava che voleva essere obbedita, il califfo, il visir, Masrùr, i tre monaci e il facchino, uscirono senza replicare, perché la presenza dei sette schiavi armati gli incuteva rispetto. Quando furono fuori dalla casa e la porta fu chiusa, il califfo disse ai monaci, senza rivelare loro chi fosse: "Voi signori, che siete stranieri e giunti recentemente in questa città, dove pensate di andare?". "Signore, questo appunto ci preoccupa." "Seguiteci", rispose il califfo, "vi aiuteremo noi." Poi disse al gran visir: "Conduceteli a casa vostra, e domattina accompagnateli da me; voglio far scrivere le loro storie, meritano di avere un posto negli affari del mio regno". Il visir Giàafar condusse con sé i tre monaci; il facchino si ritirò in casa sua, ed il califfo, accompagnato da Masrùr, andò al suo palazzo. Si coricò ma non poté chiudere occhio, tanto aveva lo spirito pieno di tutto ciò che aveva veduto e udito. Soprattutto era ansioso di sapere chi fosse Zobeida, quale ragione potesse avere di maltrattare le sue cagne nere e perché Amina avesse il seno pieno di cicatrici: ed era ancora occupato in tali pensieri quando spuntò il giorno. Si alzò, andò nella sala dove teneva il suo consiglio e dava udienza, e si sedette sul trono. Il gran visir giunse qualche tempo dopo, facendogli i consueti omaggi. "Visir", gli disse il califfo, "gli affari che dobbiamo regolare adesso non sono molto interessanti: è più importante quello delle tre donne e delle cagne nere. Io non avrò l'animo in pace, prima di avere chiarito completamente quanto abbiamo visto ieri sera. Andate, fate venire quelle donne, e conducete nel medesimo tempo i monaci." Il visir, che conosceva lo spirito vivo e ardente del suo padrone, si affrettò a obbedire. Giunse in casa delle donne, espose loro in modo gentilissimo l'ordine che aveva di condurle dal califfo, senza parlare, peraltro di ciò che era accaduto in casa loro. Le donne si coprirono con veli e uscirono col visir, il quale, passando da casa sua, prese con sé i tre monaci, che avevano avuto il tempo di sapere che avevano veduto il califfo, e gli avevano parlato senza saperlo. Il visir li condusse al palazzo e si disimpegnò della sua missione con tanta diligenza, che il califfo ne fu molto soddisfatto. Questo principe, per mantenere il decoro davanti agli ufficiali della sua casa, che erano presenti, fece sistemare le donne dietro la cortina della sala che metteva nel suo appartamento, e trattenne presso di sé i tre monaci, i quali mostrarono col loro rispettoso contegno di non ignorare davanti a chi avevano l'onore di comparire. Quando le donne furono al loro posto, il califfo, rivoltosi a loro, disse: "Signore, facendovi conoscere che mi sono introdotto stanotte in casa vostra travestito da mercante, certo vi susciterò timore: temerete d'avermi offeso e crederete forse che vi abbia fatto venir qui per mostrarvi il mio risentimento: ma rassicuratevi; siate persuase che sono anzi contento della vostra condotta. Io desidererei che tutte le donne di Bagdàd avessero tanta saggezza quanta ne avete mostrata voi. Mi ricorderò sempre della vostra moderazione, dopo l'inciviltà commessa da noi. Io ero allora un mercante di Mussul, ma ora sono Harùn ar-Rashìd, il quinto califfo della gloriosa stirpe di Abbàs, che occupa il posto del nostro gran profeta. Vi ho chiamate soltanto per conoscere chi siete, e domandarvi per quale ragione, una di voi, dopo aver maltrattato le due cagne nere, ha pianto con loro; e perché un'altra di voi ha il seno coperto di cicatrici". Quantunque il califfo avesse pronunciate queste parole con voce chiara, e le tre donne le avessero intese, il visir Giàafar non tralasciò di ripeterle.
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