La Divina Commedia di Dante Alighieri Inferno Canto XXXIII.

LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri (INFERNO) - CANTO XXXIII

La bocca sollevò dal fiero pasto
quel peccator, forbendola a' capelli
del capo ch'elli avea di retro guasto. (3)

Poi cominciò: «Tu vuo' ch'io rinovelli
disperato dolor che 'l cor mi preme
già pur pensando, pria ch'io ne favelli. (6)

Ma se le mie parole esser dien seme
che frutti infamia al traditor ch'i' rodo,
parlare e lagrimar vedrai insieme. (9)

Io non so chi tu se' né per che modo
venuto se' qua giù; ma fiorentino
mi sembri veramente quand' io t'odo. (12)

Tu dei saper ch'i' fui conte Ugolino,
e questi è l'arcivescovo Ruggieri:
or ti dirò perché i son tal vicino. (15)

Che per l'effetto de' suo' mai pensieri,
fidandomi di lui, io fossi preso
e poscia morto, dir non è mestieri; (18)

però quel che non puoi avere inteso,
cioè come la morte mia fu cruda,
udirai, e saprai s'e' m'ha offeso. (21)

Breve pertugio dentro da la Muda,
la qual per me ha 'l titol de la fame,
e che conviene ancor ch'altrui si chiuda, (24)

m'avea mostrato per lo suo forame
più lune già, quand' io feci 'l mal sonno
che del futuro mi squarciò 'l velame. (27)

Questi pareva a me maestro e donno
cacciando il lupo e ' lupicini al monte
per che i Pisan veder Lucca non ponno. (30)

Con cagne magre, studïose e conte
Gualandi con Sismondi e con Lanfranchi
s'avea messi dinanzi da la fronte. (33)

In picciol corso mi parieno stanchi
lo padre e ' figli, e con l'agute scane
mi parea lor veder fender li fianchi. (36)

Quando fui desto innanzi la dimane,
pianger senti' fra 'l sonno i miei figliuoli
ch' eran con meco, e dimandar del pane. (39)

Ben se' crudel, se tu già non ti duoli
pensando ciò che 'l mio cor s'annunziava;
e se non piangi, di che pianger suoli? (42)

Già eran desti, e l'ora s'appressava
che 'l cibo ne solëa essere addotto,
e per suo sogno ciascun dubitava; (45)

e io senti' chiavar l'uscio di sotto
a l'orribile torre; ond' io guardai
nel viso a' mie' figliuoi sanza far motto. (48)

Io non piangëa, sì dentro impetrai:
piangevan elli; e Anselmuccio mio
disse: "Tu guardi sì, padre! che hai?" (51)

Perciò non lagrimai né rispuos' io
tutto quel giorno né la notte appresso,
infin che l'altro sol nel mondo uscio. (54)

Come un poco di raggio si fu messo
nel doloroso carcere, e io scorsi
per quattro visi il mio aspetto stesso, (57)

ambo le man per lo dolor mi morsi;
ed ei, pensando ch'io 'l fessi per voglia
di manicar, di sùbito levorsi (60)

e disser: "Padre, assai ci fia men doglia
se tu mangi di noi: tu ne vestisti
queste misere carni, e tu le spoglia". (63)

Queta'mi allor per non farli più tristi;
lo dì e l'altro stemmo tutti muti;
ahi dura terra, perché non t'apristi? (66)

Poscia che fummo al quarto dì venuti,
Gaddo mi si gittò disteso a' piedi,
dicendo: "Padre mio, ché non m'aiuti?"». (69)

Quivi morì; e come tu mi vedi,
vid' io cascar li tre ad uno ad uno
tra 'l quinto di e 'l sesto; ond' io mi diedi, (72)

già cieco, a brancolar sovra ciascuno,
e due dì li chiamai, poi che fur morti.
Poscia, più che 'l dolor, poté 'l digiuno». (75)

Quand' ebbe detto ciò, con li occhi torti
riprese 'l teschio misero co' denti,
che furo a l'osso, come d'un can, forti. (78)

Ahi Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove 'l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti, (81)

muovasi la Capraia e la Gorgona,
e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch'elli annieghi in te ogne persona! (84)

Che se 'l conte Ugolino aveva voce
d'aver tradita te de le castella,
non dovei tu i figliuoi porre a tal croce. (87)

Innocenti facea l'età novella,
novella Tebe, Uguiccione e 'l Brigata
e li altri due che 'l canto suso appella. (90)

Noi passammo oltre, là 've la gelata
ruvidamente un'altra gente fascia,
non volta in giù, ma tutta riversata. (93)

Lo pianto stesso lì pianger non lascia,
e 'l duol che truova in su li occhi rintoppo,
si volge in entro a far crescer l'ambascia; (96)

ché le lagrime prime fanno groppo,
e sì come visiere di cristallo,
riempion sotto 'l ciglio tutto il coppo. (99)

E avvegna che, sì come d'un callo,
per la freddura ciascun sentimento
cessato avesse del mio viso stallo, (102)

già mi parea sentire alquanto vento;
per ch'io: «Maestro mio, questo chi move?
non è qua giù ogne vapore spento?». (105)

Ond' elli a me: «Avaccio sarai dove
di ciò ti farà l'occhio la risposta,
veggendo la cagion che 'l fiato piove». (108)

E un de' tristi de la fredda crosta
gridò a noi: «O anime crudeli
tanto che data v'è l'ultima posta, (111)

levatemi dal viso i duri veli,
si ch'ïo sfoghi 'l duol che 'l cor m'impregna,
un poco, pria che 'l pianto si raggeli». (114)

Per ch'io a lui: «Se vuo' ch'i' ti sovvegna,
dimmi chi se', e s'io non ti disbrigo,
al fondo de la ghiaccia ir mi convegna». (117)

Rispuose adunque: «I' son frate Alberigo
i' son quel da le frutta del mal orto,
che qui riprendo dattero per figo». (120)

«Oh», diss' io lui, «or se' tu ancor morto?».
Ed elli a me: «Come 'l mio corpo stea
nel mondo sù, nulla scïenza porto. (123)

Cotal vantaggio ha questa Tolomea,
che spesse volte l'anima ci cade
innanzi ch'Atropòs mossa le dea. (126)

E perché tu più volontier mi rade
le 'nvetrïate lagrime dal volto,
sappie che, tosto che l'anima trade (129)

come fec' ïo, il corpo suo l'è tolto
da un demonio, che poscia il governa
mentre che 'l tempo suo tutto sia vòlto. (132)

Ella ruina in sì fatta cisterna;
e forse pare ancor lo corpo suso
de l'ombra che di qua dietro mi verna. (135)

Tu 'l dei saper, se tu vien pur mo giuso:
elli è ser Branca Doria, e son più anni
poscia passati ch'el fu sì racchiuso». (138)

«Io credo», diss' io lui, «che tu m'inganni;
ché Branca Doria non morì unquanche,
e mangia e bee e dorme e veste panni». (141)

«Nel fosso sù», diss' el, «de' Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancora giunto Michel Zanche, (144)

che questi lasciò il diavolo in sua vece
nel corpo suo, ed un suo prossimano
che 'l tradimento insieme con lui fece. (147)

Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi». E io non gliel' apersi;
e cortesia fu lui esser villano. (150)

Ahi Genovesi, uomini diversi
d'ogne costume e pien d'ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi? (153)

Ché col peggiore spirto di Romagna
trovai di voi un tal, che per sua opra
in anima in Cocito già si bagna,
e in corpo par vivo ancor di sopra. (157)

NOTE AL CANTO XXXIII

(2-12) forbendola: nettandola; del capo: cfr.: XXXII, 126 e segg.; già pur pensando: al solo pensarvi; dien: denno, debbono; parlare e lacrimar, ecc.: Inf., V, 126: farò come colui che piange e dice; quand'io t'odo: accenna alle parole dettegli (XXXII, 13 3 e segg.), che al modo e alla pronunzia il manifestavano fiorentino. Gfr. Inf., X, 25.
(13-18) conte Ugolino: «Ugolino della Gherardesca, conte di Donoratico, nobile pisano, di parte guelfa, di concordia con l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldin., cacciò di Pisa Nino de' Visconti, giudice di Gallura, nato d'una sua figlia, che se n'era fatto signore, occupando il luogo di lui. Ma poi l'arcivescovo, o per invidia, o per odio di parte, o per vendicare un suo nipote, uccisogli da Ugolino, alzata la croce, con l'aiuto de' Gualandi, de' Sismondi e de' Lanfranchi, nobili famiglie pisane, a furore di popolo, avendo dato a credere che per denaro quegli avesse renduto a' Fiorentini e a' Lucchesi alcune castella, assalì le case del conte, e lo fece prigioniero con due figli, Gaddo e Uguccione, e due nipoti, Ugolino, detto il Brigata, ed Anselmuccio. Dipoi lo fece, insieme co' suoi, rinchiudere nella torre dei Gualandi, alle sette vie, e dopo sette mesi gettarne le chiavi in Arno, perché si morissero, come infatti morirono, di fame» (B. B.). «Est ergo sciendum, quod in 1288, nata erat magna dissensio in civitate pisana. Nam unius sectae Guelphorum erat princeps judex Ninus de Gallura de Scottis (de' Visconti; G. V.); alterius vero sectae Guelphorum erat princeps comes Ugolinus de Gherardeschis: tertiae vero partis Gibellinae erat dux archiepiscopus Rogerius de Ubaldinis, cum Lanfranchis, Gualandis et Sismondis. Comes vero Ugolinus, ut solus posset principari in urbe illa, adhoesit archiepiscopo Rogerio et prodidit Ninum, filium sororis suae (figliuolo della figliuola; G. V.). Et ordinavit, quod pelleretur de Pisis. Quare judex Ninus sentiens se impotentiorem, recessit cum sequacibus suis ad unum suum castellum, et colligavit se cum Florentinis et Lucensibus. Comes igitur Ugolinus ficte recesserat de civitate (a Settimo; G. V.), ut cederet expulsioni judicis Nini. Quo expulso, cum magno gaudio rediit Pisas. Fertur etiam quod fecit venenari comitem Anselmum de Capraria, consortem suum; ne eriperet sibi dominium... Archiepiscopus, cujus favore se fultum sperabat, statuit depellere ipsum de dominio. Et in furore populi fecit ipsum invali ad palatium: dans intelligere populo, qualiter ipse comes Ugolinus volebat prodere Pisas, dando castella Florentinis atque Lucanis. In tumulto autem fuit interfectus filius unus naturalis ejus et unus nepos. Comes vero dedit se captivum: et cum duobus filiis et duobus nepotibus traditus est carceri. Et omnes ejus consortes et familiares pulsi sunt, et eorum sequaces, sicut Obriachi (Visconti, Ubizzinghi; G. V.), Guatani et aliae familiae guelphorum nobilium. Ex praedictis patet quomodo comes Ugolinus prodidit consanguinitatem, civitatem et partialitatem. Ideo proditor proditus est a proditore» (Benv.). Il Tronci, negli Annali Pisani, all'anno 1284, narra come alla battaglia della Meloria, Ugolino, quando era maggiore il pericolo dei Pisani e il bisogno d'aiuto, fuggì con tre galee, scorando i soldati ed agevolando ai Genovesi la piena vittoria. Anche guastava le pratiche di pace, perché non tornassero quei cittadini di conto ch'egli aveva aiutato a far cadere in mano ai nemici. Invece s'aggraduiva i Fiorentini, e a quelli di maggiore autorità mandava fiaschi pieni di fiorini d'oro invece di greco, e quel che più rileva, dava pegni di fede guelfa. Così fu quasi signore di Pisa, finché gli venne la mala meccianza predettagli da Marco Lombardo. V. G. Vill., VII, 121 e 128; tal vicino: sì molesto vicino. «Perch'io li fo questo» (B.). Cfr. Inf., XXXII, 125; mai pensieri: perfidi consigli; fidandomi di lui: come Astiage d'Arpago, non pensando all'offesa fattagli. V. sopra al v. 13; dir non è mestieri: come notissimo.

(19-24) quel che non puoi avere inteso: come avvenuto nel segreto della mia carcere; Breve pertugio: piccola finestra; muda: quel chiuso ove tengonsi gli uccelli a mudare, a mutar le penne (l'innamoramento ed il canto; L.). Secondo il Buti vi si tenevano a mudare le aquile del Comune; conviene ancor ch'altri si chiuda: per gli alterni trionfi e le furiose vendette delle parti civili.
(25-27) forame: pertugio; più lune già: «La luna s'era rinnovata più volte. Eran trascorsi parecchi mesi: dall'agosto 1287 al marzo 1288», secondo G. Villani. Altri: più lume; che del futuro, ecc.: che mi svelò l'avvenire.
(28-37) Questi: l'arcivescovo; maestro e donno: capo e signore. «Major et dominus in venatione. Nam Pisani fecerunt eum capitaneum et ducem eorum» (Benv.); cacciando, ecc.: in atto di cacciare al monte San Giuliano, posto tra Pisa e Lucca; onde vieta che le due città si possano vedere. «Quae (Lucca) tamen est eis vicina per decem milliaria, et saepe exspoliata et subjugata, juxta illud vulgare proverbium: Buona terra è Lucca, Ma Pisa la pilucca» (Benv.); Con cagne magre: Queste sono lo popolo minuto, che comunemente è magro e povero; magre: fameliche; studïose: «sollicite, desiderose» (B.); conte: ammaestrate, «gaunt and eager and welltrained» (Lf.); s'avea messi dinanzi da la fronte: spingendoli primi alla caccia, i Gualandi, i Sismondi e i Lanfranchi; lo padre e i figli il lupo e i lupicini; scane: zanne. «Scane sono li denti pungenti del cane, ch'elli ha da ogni lato, coi quali elli afferra. - Che fossono forati per li fianchi coi denti delle cagne, significava lo rubamento de' lor beni e la loro morte» (B.); innanzi la dimane: «innanzi che fosse chiara mattina» (B.); ora dei sogni veraci. Inf., XXVI, 7.
(41-53) ch 'l mio cor: altri: ch'al mio cor; s'appressava: altri: trapassava. «Cioè della terza» (B.). Appropinquabat hora, qua eramus soliti prandere antequam essemus capti. Vel dic: hora, qua solebat nobis afferri cibus, antequam poneremur in turri. Quia non statim fuerunt adjudicati huic supplicio extremo, nisi post adventum comitis Guidonis de Montefeltro, qui factus est capitaneus Pisarum cum ampla potestate. «Elessono per loro capitano di guerra il conte Guido di Montefeltro, dandoli grande giurisdizione e signoria. E giunto il detto conte del mese di marzo, feciono chiavare la porta della torre e le chiavi gittare in Arno, e vietare a' pregioni ogni vivanda. Domandando con grida il conte Ugolino penitenzia, non gli concedettono frate o prete che 'l confessasse» (G. V., VII, 128); e per suo sogno: «ch'avean fatto, che significava che dovea essere tolto loro il cibo» (B.); e io: ed ecco ch'io; chiavar: inchiodare. Altri: chiovar. «Intellige: cum clavis ferreis, ne amplius aperiretur. Quia jam clavatum fuerat cum clavibus, quas abjecerant in Arnum» (Benv.); guardi sì: sì fiso; tutto quel giorno, ecc.: «per unam diem naturalem» (Benv.).
(57-66) per quattro visi il mio aspetto stesso: «e per la somiglianza di famiglia e per esser tutti del pari pallidi, macilenti e spauriti» (F.); fessi: facessi; manicar: mangiare; levorsi: si alzarono. Il Chaucer espresse questo luogo così: «His children wenden, that for hunger it was; That he his armes gnowe, and not for wo, - And sayden: fader, do not so, alas! - But rhater ete the flesh upon us two. - Our flesh thou yaf us, take our flesh us fro. - And ete ynough». E così un gran poeta allungava, abbreviando, e guastava: «the grete poete of Itaille, - That highte Dante»; Queta' mi: mi quietai; perché non t'apristi?: «a inghiottire noi, per levarci di tanta miseria, o per inghiottire coloro che ciò ci faceano sostenere?» (B.).

(67-71) al quarto dì venuti: dal dì che fu chiavato l'uscio; mi si gettò, ecc.: venendo meno per la fame; dicendo, ecc.: «Odi parole accoratorie che l'autore finge!» (B.); Quivi morì: e nel luogo ove cadde, morì; come tu mi vedi: «come tu vedi me» (B.); li tre: gli altri tre.
(73-75) già cieco, ecc.: «Pel digiuno mancategli le forze e anche il vedere, si diede a cercare tastando con le mani intorno - per conoscere s'eran vivi, o per modo d'uom vicino a morire» (T.); a brancolar: «idest, ad palpandum» (Benv.); e due dì li chiamai: «Et sic videtur comes Ugolinus vixisse octo diebus sine nutrimento cibali» (Benv.). - Nel luogo ove fu raso il palazzo di Ugolino (parrocchia di S. Sepolcro Lung'Arno), i Cavalieri di S. Stefano, padroni del suolo, fecero volgendo gli anni, fosse da conservare il grano!; poscia, più che 'l dolor, ecc.: «lo digiuno poté più che il dolore, e finì la mia vita, che non l'avea potuta finire il dolore» (B.). «Più che il dolore a sostentarmi, valse il digiuno a finirmi» (B. B.). Sulla pretesa tecnofagia di Ugolino, vedi la bella nota del Blanc, che la annulla, riassumendo la lunga controversia che ne fu tra i dotti in Italia. «Dopo li otto dì ne furono cavati e portati, inviluppati nelle stuoie, al luogo de' Frati minori a San Francesco, e sotterrati nel monimento che è al lato alli scaloni, a montare in chiesa, alla porta del chiostro, coi ferri in gamba; li quali ferri vid'io, cavati dal detto monimento» (B.).
(76-78) con li occhi torti: «torvis et inflammatis ira» (Benv.); che furo a l'osso, ecc.: che furono forti a roder l'osso come i denti d'un cane. Il Buti: che forar l'osso.
(80-90) bel paese là dove 'l sì suona: l'Italia. D., Volg. El., I, 7: «Alii hoc, alii oil, alii sì affirmando loquuntur, ut puta Hispani, Franci et Latini»; là: «riempitivo frequente ai trecentisti» (T.); i vicini: i popoli tuoi confinanti; la Capraia e la Gorgona: «isolette, non lungi dalla foce d'Arno. La Gorgona pare chiuder l'Arno, chi guardi dalla torre torta. Questa non era in piè ai tempi di Dante, ma egli deve aver fatto l'osservazione e colto l'imagine da una delle molte torri che proteggevano allora le mura di Pisa» (Ampère); e faccian siepe, ecc.: riparo, chiusura, tanto che l'Arno, ritorcendosi indietro contro Pisa, vi allaghi e sommerga ogni persona; aveva voce: «era infamato» (B.); i figliuoi con questo nome abbraccia anche i nipoti. «Lex civilis appellat filios et nepotes liberos» (Benv.); croce: supplizio; l'età novella: giovanile; novella Tebe: di atrocità. Il Buti: «Pelope, re di Tebe, venne in Italia e fece Pisa, dal nome d'una città ch'era nel regno suo»; 'l Brigata, ecc.: «Nino, detto il Brigata, era figlio del conte Guelfo, primogenito di Ugolino ed Anselmuccio, del conte Lotto, altro figliuolo. Moglie del conte Ugolino fu la contessa di Montegemoli, da Siena, ed ebbe ancora un altro figliuolo, nominato Banduccio, il quale nel 1285 sposò Manfredina figlia di Manfredi Malaspina, marchese di Villafranca» (C. Giannini); appella: nomina.
(91-99) Noi passammo oltre: alla terza sfera detta Tolomea; la gelata: il gelo; ruvidamente: «dice l'asprezza del ghiaccio, non liscio, ma rozzo e risaltante in ischeggie e quasi gropposo. Ma il maggior tormento vien loro dalla postura medesima» (Ces.); fascia: intornia; non volta in giù: come quella del primo e secondo giro; riversata: supina; e 'l duol, ecc.: le lagrime che per duolo si gittano fuori; rintoppo: «riscontro delle lagrime che sono aggelate in sulle palpole degli occhi» (B.); fanno groppo: nodo; agghiacciate serrano la via all'altre; visiere, ecc.: «le lagrime ghiacciate paiono cristallo» (B.); tutto il coppo: la cavità dell'occhio. «Tutta la tana degli occhi che è sotto il cillio» (B.).
(100-108) E avvegna che, ecc.: «Per lo freddo che laggiù era, pel viso mio era mancato ogni sentimento, quasi come avviene nella carne che ha fatto callo» (Anonimo fiorentino); cessato... stallo: sgomberare, sparire. «All sensibility Its station has abandoned in my face» (Lf.); non è quaggiù ogne vapore spento?: «La cagion del vento è il calor del sole che solleva i vapori. Però viene a dire: non è questo luogo privo dell'attività del sole? e se è privo di questa attività, ond'è che spira il vento?» (B. B.); Avaccio: presto; che 'l fiato piove: che muove questo vento.
(110-114) O anime crudeli, ecc.: Le crede di traditori; tanto che data v'è, ecc.: infino a tanto che voi siate allogati nell'ultima stanza dell'Inferno; ovvero: crudeli tanto, che, ecc.; un poco: si lega con sfoghi: ch'io pianga un poco.

(116-120) s'io non ti disbrigo, ecc.: «se io non ti traggo l'impaccio del gelo dagli occhi che io possa andare al fondo di questa ghiaccia. - Restrizion mentale» (T.); Alberigo: «de' Manfredi, signori di Faenza, che in vecchiezza si rese frate gaudente. Essendo in discordia (1285) con Manfredo e col costui figlio Alberghetto, suoi consorti, finse riconciliarsi con loro, e li invitò al castello di Cerata, - e quando essi ebbono desinato tutte le vivande, elli comandò che venessono le frutta, ed allora venne la sua famiglia armata, com'elli aveva ordinato, et uccisono tutti costoro alle mense, com'erano a sedere, e però s'usa di dire: Elli ebbe delle frutta di frate Alberigo» (B.); riprendo dattero per figo: pago con usura il male fatto; figo: per fico.
(121-138) or se' tu ancor morto?: or se' anche tu morto?; «ancor: di già, sì tosto. V. Purg., XXIII» (Ces.); stea, ecc.: stia su nel mondo, lo ignoro affatto; Cotal vantaggio, ecc.: questa Tolomea ha sopra gli altri cerchj d'Inferno questo privilegio, ecc.; ironicamente. Il Buti non crede la Tolomea detta dal traditor d'Egitto, ma da Tolomeo, principe del popolo giudaico (dux in campo Jericho), lo quale, essendo nel campo di Jerico, ricevette nel tabernacolo suo Simone, principe de' Sacerdoti, suo suocero, con due suoi figliuoli, ed apparecchiato il convito, a tavola lo fece uccidere co' suoi figliuoli, per avere tutta la maggioria e l'oro e l'argento ch'avea Simone. Mach., I, 16; ci cade: cade in essa; Atropòs: la Parca che stronca il filo della vita; mossa le dea: li dia la spinta; mi rade: mi rada; 'nvetriate: vetrificate; trade: tradisce; mentre che, ecc.: fino a che il tempo che dovea star congiunto all'anima sia compiuto; cisterna: fossa; pare ancor, ecc.: si fa vedere su nel mondo il corpo dell'ombra; mi verna: «winters» (Lf.). «Sverna» (Bl.). «Trema dal freddo» (Ces.). «Grelotte» (Ls.); pur mo: pur ora; Branca d'Oria: genovese, nel 1275 uccise a tradimento Michele Zanche (XXII, 88), suo suocero, per torgli il giudicato di Logodoro in Sardegna. «Nel 1308 con Opicino Spinola, signoreggiò Genova, tenendone i Fieschi in bando, i quali rientrarono con Arrigo pacificati ai Doria e morto Arrigo, caociarono i D'Oria in esilio» (T.). Branca d'Oria s'era mostrato favorevole ad Arrigo quando entrò in Genova nel 1311, e s'unì poi segretamente coi Guelfi. Dicono altresì che quando il Poeta fu a Genova gli facesse fare male accoglienze. «Finge l'autore che frate Alberigo dica Ser Branca; imperò che fu romagnuolo, e questi romagnuoli non sanno onorare alcuno con parole; o che 'l dica per istrazio; imperò che i Genovesi tutti si chiamano messere» (B.); sì racchiuso: in questa ghiaccia.
(140-150) unquanche: unque ancora, mai; e mangia, ecc.: «In questo verso si citano tutti gl'indizj d'una vita animale, nessuno della vera vita dell'uomo» (B. B.); Nel fosso su, ecc.: cfr. Inf., XXII; questi: Branca d'Oria; un suo prossimano: congiunto - suo nipote forse; fu lui esser villano: «il non far cortesia a frate Alberigo fu cortesia» (B.).
(151-155) uomini diversi - d'ogne costume: «hommes de moeurs à part» (Ls.). «Per la loro superbia si stimano più che gli altri uomini, e pertanto si partono da ogni altro costume» (Anonimo fiorentino); magagna: vizio. «Forse che era così al tempo dell'autore; ma quanto alla fama che ora è di loro, da rubare il mare in fuori, et ancora in fare buona la ragione del cittadino loro contra ai forestieri, assai sono l'altre magagne di che sono netti». (B.). «Et heic nota quod Januenses generaliter et communiter et naturaliter sunt cupidissimi, et avaritia impellit eos ad omne malum. Tamen puntatur valentissimi in mundo» (Benv.); spersi: dispersi, sterminati; col peggiore spirto, ecc.: con frate Alberigo; di voi un tal: un tal vostro concittadino; che per sua opra: in pena della sua opera infame.

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