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La Divina Commedia di Dante Alighieri Inferno Canto VI.

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Note all'Inferno Canto VI

LA DIVINA COMMEDIA di Dante Alighieri INFERNO - CANTO VI

Al tornar de la mente, che si chiuse
dinanzi a la pietà d'i due cognati,
che di trestizia tutto mi confuse, (3)

novi tormenti e novi tormentati
mi veggio intorno, come ch'io mi mova
e ch'io mi volga, e come che io guati. (6)

Io sono al terzo cerchio, de la piova
etterna, maladetta, fredda e greve;
regola e qualità mai non l'è nova. (9)

Grandine grossa, acqua tinta e neve
per l'aere tenebroso si riversa;
pute la terra che questo riceve. (12)

Cerbero, fìera crudele e diversa,
con tre gole caninamente latra
sovra la gente che quivi è sommersa. (15)

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,
e 'l ventre largo, e unghiate le mani;
graffia li spirti ed iscoia ed isquatra. (18)

Urlar li fa la pioggia come cani;
de l'un de' lati fanno a l'altro schermo;
volgonsi spesso i miseri profani. (21)

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Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,
le bocche aperse e mostrocci le sanne;
non avea membro che tenesse fermo. (24)

E 'l duca mio distese le sue spanne,
prese la terra, e con piene le pugna
la gittò dentro a le bramose canne. (27)

Qual è quel cane ch'abbaiando agogna,
e si racqueta poi che 'l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pugna, (30)

cotai si fecer quelle facce lorde
de lo demonio Cerbero, che 'ntrona
l'anime sì, ch'esser vorrebber sorde. (33)

Noi passavam su per l'ombre che adona
la greve pioggia, e ponevam le piante
sovra lor vanità che par persona. (36)

Elle giacean per terra tutte quante,
fuor d'una ch'a seder si levò, ratto
ch'ella ci vide passarsi davante. (39)

"O tu che se' per questo 'nferno tratto",
mi disse, "riconoscimi, se sai:
tu fosti, prima ch'io disfatto, fatto". (42)

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E io a lui: "L'angoscia che tu hai
forse ti tira fuor de la mia mente,
sì che non par ch'i' ti vedessi mai. (45)

Ma dimmi chi tu se' che 'n sì dolente
loco se' messo, e hai sì fatta pena,
che, s'altra è maggio, nulla è sì spiacente". (48)

Ed elli a me: "La tua città, ch'è piena
d'invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena. (51)

Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:
per la dannosa colpa de la gola,
come tu vedi, a la pioggia mi fiacco. (54)

E io anima trista non son sola,
ché tutte queste a simil pena stanno
per simil colpa". E più non fé parola. (57)

Io li rispuosi: "Ciacco, il tuo affanno
mi pesa sì, ch'a lagrimar mi 'nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno (60)

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li cittadin de la città partita;
s'alcun v'è giusto; e dimmi la cagione
per che l'ha tanta discordia assalita". (63)

E quelli a me: "Dopo lunga tencione
verranno al sangue, e la parte selvaggia
caccerà l'altra con molta offensione. (66)

Poi appresso convien che questa caggia
infra tre soli, e che l'altra sormonti
con la forza di tal che testé piaggia. (69)

Alte terrà lungo tempo le fronti,
tenendo l'altra sotto gravi pesi,
come che di ciò pianga o che n'aonti. (72)

Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c'hanno i cuori accesi". (75)

Qui puose fine al lagrimabil suono.
E io a lui: "Ancor vo' che mi 'nsegni
e che di più parlar mi facci dono. (78)

Farinata e 'l Tegghiaio, che fuor sì degni,
Iacopo Rusticucci, Arrigo e 'l Mosca
e li altri ch'a ben far puoser li 'ngegni, (81)

dimmi ove sono e fa ch'io li conosca;
ché gran disio mi stringe di savere
se 'l ciel li addolcia o lo 'nferno li attosca". (84)

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E quelli: "Ei son tra l'anime più nere;
diverse colpe giù li grava al fondo:
se tanto scendi, là i potrai vedere. (87)

Ma quando tu sarai nel dolce mondo,
priegoti ch'a la mente altrui mi rechi:
più non ti dico e più non ti rispondo". (90)

Li diritti occhi torse allora in biechi;
guardommi un poco e poi chinò la testa:
cadde con essa a par de li altri ciechi. (93)

E 'l duca disse a me: "Più non si desta
di qua dal suon de l'angelica tromba,
quando verrà la nimica podesta: (96)

ciascun rivederà la trista tomba,
ripiglierà sua carne e sua figura,
udirà quel ch'in etterno rimbomba". (99)

Sì trapassammo per sozza mistura
de l'ombre e de la pioggia, a passi lenti,
toccando un poco la vita futura; (102)

per ch'io dissi: "Maestro, esti tormenti
crescerann' ei dopo la gran sentenza,
o fier minori, o saran sì cocenti?". (105)

Ed elli a me: "Ritorna a tua scienza,
che vuol, quanto la cosa è più perfetta,
più senta il bene, e così la doglienza. (108)

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Tutto che questa gente maladetta
in vera perfezion già mai non vada,
di là più che di qua essere aspetta". (111)

Noi aggirammo a tondo quella strada,
parlando più assai ch'i' non ridico;
venimmo al punto dove si digrada:
quivi trovammo Pluto, il gran nemico. (115)

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NOTE AL CANTO VI

(1-2) Al tornar, ecc.: al riaversi della mente, che, per la compassione de' due cognati, si chiuse all'impressione degli oggetti esterni; mente: "Consciousness" Lf.); dinanzi: il Torelli intese poc'anzi; il Blanc lo approva. Ma il Cesari, col quale consentono i più, spiega: "alla vista della pietà, del tormento, ecc.".
(5-7) come ch'io mi mova, ecc.: ovunque mi muova, mi volga e mi guardi; terzo cerchio: "il passaggio dal secondo al terzo cerchio s'è fatto durante lo svenimento del Poeta" (B. B.); piova: pioggia.
(9) regola e qualità, ecc.: "sempre cade d'un modo" (B.).
(10) tinta: torba. "In qualche luogo della Toscana chiamasi acqua tinta una pioggia con vento quasi gelata" (B. B.). 12. "pute: da putire: puzza; questo miscuglio riceve" (B. B.).
(13-15) Cerbero: cane a tre teste, che, secondo la mitologia pagana, stava a guardia dell'Inferno. Qui è demonio; diversa: strana; canínamente: il Petrarca "Nemica naturalmente di pace". "Sono versi - dice l'Affò - senza cesura, ma l'accento si trasporta sulla sesta sillaba, pronunziando quegli avverbi come divisi"; sopra la gente: i golosi; sommersa: nel fetido fango prodotto dalla pioggia.
(16-18) vermigli: "Ponli con gli occhi rossi a modo di racia, siccome avviene alli golosi, alli quali comunemente per lo soverchio bere e mangiare si getta loro una superfluità d'umori sanguinolenti negli occhi" (O.); unta: proprio de' golosi; atra: nera; unghiate le mani (le zampe): così chiama Plinio le zampe anteriori dell'orso; iscuoia: scortica. Il Boccaccio e il Buti leggono ingoia, lezione difesa dal Blanc; isquatra: squarta.
(20-21) schermo: riparo; volgonsi spesso: mutano spesso lato; profani: reprobi. Ov.: "Nam templa profanus Invia cum Phlegyis faciebat Delphica Phorbas".

(22) il gran vermo: d'un gran serpente feroce il Pulci (Morg., IV, 15) disse: "E conoscea che questo crudel vermo L'offendea troppo col fiato e col caldo". Johnson a quel passo dell'Antonio e Cleopatra di Shakespeare:

"Hast thou the pretty worm of Nilus there
That kills and pains not. . . ."

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Hai tu recato il gentil verme "l'aspide" del Nilo che uccide senza dolore) nota: Worm (verme) è il nome teutonico di serpente; noi diciamo ancora blind-worm e slow-worm, e i Norvegi chiamano un mostro enorme che si vede talora nell'oceano settentrionale, il verme marino (the sea-worm). Il Blanc osserva: "Da' tempi più antichi gli uomini ebbero un mistico orrore de' serpenti e de' rettili che li somigliano. A quest'idea reggesi altresì il racconto del serpente nel Genesi, cap. III, onde si raffigurarono i demonj in forme di serpenti, di draghi. Era eziandio fede universale nell'età di mezzo che i pagani nella loro cecità avessero adorato i demonj, e proprio secondo questa credenza Dante mise in iscena nell'Inferno le persone della mitologia pagana, certo di aver loro dato la vera forma. Così pure gli dei di nobil figura umana dovettero vestire nell'Inferno dantesco una forma tra fiera ed uomo, come, p. e., Caronte, Plutone, ecc. Per la stessa ragione il suo Cerbero, mostro codato, mezzo cane e mezzo dragone, non somiglia punto al Cerbero di Virgilio, e a buon diritto il poteva dir vermo. Così egli chiama Lucifero (Inf., XXXIV, 108) il vermo reo che 'l mondo fóra, tuttoché lo dipinga di forme umane con tre faccie, seí ale, e altrettante braccia". Apollodoro di Cerbero: "Hunc autem terna canum capita, et draconis caudam, et in dorso serpentum omnium generum capita habuisse fertur". Cerbero co' suoi latrati è simbolo della rea coscienza, della quale Isaia: "Vermis eorum non morietur", LXVI, 24.
(23) sanne (zanne): dall'all. zahn, dente. Inf. XXII, 55-56: ...a cui di bocca uscia - d'ogni parte una sanna come a porco.
(25-27) distese le sue spanne: "Aperse le sue mani dal dito pollice al mignolo; a guisa che fa colui che alcuna cosa con la grandezza della mano misura" (B.). "Spanna è il palmo, cioè l'apertura della mano" (Buti); terra: mostra la viltà della fiera, cioè del vizio. Qui meglio s'intende quello del canto I: Non ciberà terra; con piene le pugna: con le pugna piene; bramose canne: fameliche gole.

(28-30) agugna: agogna. "Agognare è propriamente quel desiderare, il quale alcun dimostra veggendo ad alcuno altro mangiare alcuna cosa, quantunque s'usi in qualunque cosa l'uomo vede con aspettazione disiderare; ed è questo atto proprio di cani, li quali davanti altrui stanno quando altri mangia" (B.); intende e pugna: "Lo strappare e l'affaticarsi del cane intorno a un osso o altro" (G. Giusti). Seneca, nel Tieste, del cane da caccia: "Praeda quum propior fuit Cervice tota pugnat (nititur)".
(32-36) 'ntrona: stordisce co' suoi latrati; adona: "prieme e macera" (B.). "Fa stare giù e doma" (Buti); sopra lor vanità (vide apparence; Ls.): sopra la loro ombra vana che par persona, che ha sembianza di corpo umano.
(38-39) ratto - ch'ella, ecc.: tosto ch'ella ci vide passare davanti a sé.
(42-44) Costruisci: tu fosti fatto prima ch'io (fossi) disfatto: tu nascesti prima ch'io morissi; ti tira fuor de la mia mente: della mia ricordanza; fa sì che io non t'abbia in mente.
(48) maggio: maggiore. "In Firenze abbiamo Via Maggio, cioè Via Maggiore, e Rimaggio, fuor di Firenze, cioè Rivus major" (Salvini); nulla: niuna.
(50-51) già trabocca il sacco: già con dolorosi effetti la versa fuori. G. Villani, VIII, 49: "Essendo pregna (Firenze) dentro del veleno della setta de' Bianchi e dei Neri, convenne che partorisse doloroso fine"; in la vita serena: nel mondo.
(52) Ciacco: "si nomina per lo nomignolo" (Buti). "Ciacco val Porco, simbolo dei golosi, detto così dallo strepito che fa nello schiacciare la ghianda" (Salvini). L'Ottimo commento: "Fu questo Ciacco molto famoso in dilettazione dei ghiotti cibi: e ebbe in sé, secondo buffone, leggiadri costumi, e belli motti usò con li valenti uomini e dispettò li cattivi". Il Fraticelli lo crede un nome proprio, e nota che v'ha tuttora in Firenze la famiglia de' Ciacchi. Brunone Bianchi osserva che Ciacco è altresì corruzione di Jacopo (cfr. il Dec. G. IX, N. 8).
(53-54) dannosa: dispendiosa. Orazio: "Damnosa libido", il lusso dispendioso. Così lo Strocchi. Il Bianchi meglio: "dannosa agli averi, alla salute e alla chiarezza della ragione"; mi fiacco: "fiaccarsi si dicono gli alberi o dai pomi, o dalla neve e dal ghiaccio. Scoscendersi dal peso. Son rotto dalla pioggia" (S.).
(59) mi pesa: mi grava, mi rammarica tanto che m'induce a piangere.
(60-62) a che verranno: a qual termine si ridurranno? "Où en viendront" (Ls.); partita: Firenze divisa in fazioni; v'è giusto: "amatore di giustizia: il quale riguardi al ben comune, e non alla singolarità d'alcuna setta" (B.).
(64) Dopo lunga tencione: contesa. Riotta di parole.

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(65-66) verranno al sangue: all'effusione del sangue. Dante ha immaginato che le anime vedano le cose future. Vedilo più chiaramente al canto X, 100-105; la parte selvaggia, ecc.: "Nell'anno 1300, al quale Dante riporta la sua visione, Firenze era quasi tutta de' Guelfi, però divisa nelle parti dei Neri e de' Bianchi, gli ultimi de' quali guelfissimi. Capo de' Bianchi era Vieri de' Cerchi, uomo di molte ricchezze, ma di nobiltà nuova, e di poco animo; la sua famiglia era poco prima venuta alla città, da Val di Sieve, onde forse il poeta diede alla sua parte il nome di selvaggia. Capitano de' Neri era Corso Donati, di non soverchia ricchezza e di antica nobiltà; e per l'invidia reciproca delle loro famiglie i cittadini furono divisi. Dopo lunga tencione, massime pel conferimento de' più alti uffici del comune, le due parti vennero al fine ad aperta battaglia (verranno al sangue), e i Priori, fra i quali Dante, a serbare la pace cacciarono dalla città alcuni de' principali d'ambe le parti, Corso Donati e Guido Cavalcanti, l'amico di Dante. Il Cardinale d'Acquasparta fu mandato a pacificare i cittadini, ma non gli riuscì per l'ostinatezza de' Bianchi, i quali allora tenevano la signoria, e non tutti i Neri avevano mandati in esiglio, comeché li avessero privati delle loro cariche (caccerà l'altra). Intanto in Roma, dove era andato Corso Donati, si stabilì di mandare a Firenze con forze bastevoli Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello, sotto nome di paciere, ma in fatto per guadagnare ai Neri la signoria. Ciò accadde nel 1301; nel quale anno al 1° di Novembre i Bianchi pazzamente lasciarono entrar Carlo in città, e questi comandò ritornassero i Neri, fossero confinati molti de' Bianchi, tra' quali Dante, saccheggiati e disfatti i loro palagi ed i beni (Poi appresso convien, ecc.)" (Bl.). G. Villani, VIII, 39: "I Cerchi erano di grande affare e possenti e di grandi parentadi, e ricchissimi mercatanti, che la loro compagnia era delle maggiori del mondo; uomini erano morbidi e innocenti, salvatichi e ingrati, siccome genti venute di piccolo tempo in grande stato e podere... I Donati erano gentili uomini e guerrieri e di non soperchia ricchezza. Vicini erano in Firenze e in contado e per la conversazione della loro invidia colla bizzarra salvatichezza, nacque il superbo sdegno tra loro". Dino Compagni: "Veggendo i Cerchi salire in altezza, avendo murato e cresciuto il palagio (de' conti Guidi, comprato da loro e presso alle case de' Donati), e tenendo gran vita, cominciarono avere i Donati grande odio contro loro"; offensione: Dino Compagni: "Tutti i Ghibellini tennono coi Cerchi, perché speravano aver da loro meno offesa". Il Bocc. spiega: "mali, oppressioni e condannagioni pecuniarie grandissime".
(67) caggia: dello Stato e della maggioranza.

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(68) tre soli: tre anni, cioè tre corsi solari. "Dal plenilunio di marzo del 1300, epoca della visione, all'aprile del 1302, quando i Bianchi furono totalmente cacciati, corrono venticinque mesi, sicché si avvera la profezia prendendosi il terzo anno incominciato per finito" (B. B.).

(69) con la forza di tal che testé piaggia: "Dicesi appo i Fiorentini colui piaggiare il quale mostra di volere quello ch'egli non vuole, o di che egli non si cura che avvenga, la qual cosa vogliono alcuni in questa discordia aver fatta papa Bonifazio, cioè d'aver mostrata egual tenerezza di ciascuna delle parti" (B.). "Intende qui con la forza di papa Bonifacio VIII, il quale regnava in quel tempo che fu questa cacciata de' Bianchi, e che ne fu cagione e che testé piaggia; cioè ora si sta di mezzo et indifferente; cioè non dà vista d'esser dall'una parte né dall'altra, perché piaggiare è andare fra la terra e l'alto mare" (Buti). "Essendo che il vero significato di piaggiare (da plaga, plagia ne' medii tempi, spiaggia di mare) non può essere altro che di tenersi alla spiaggia, e specialmente con animo ostile quasi di chi spia tempo e luogo per approdare, dimandasi ora a chi si debba attribuire siffatto portamento verso Firenze. Tutti gl'interpreti moderni, e Benvenuto, L'Ottimo e le Chiose fra gli antichi, intendono che il tal sia Carlo di Valois. E' però quasi impossibile che al principio del 1300, tempo della visione, Carlo di Valois potesse aver pur sentore di quella chiamata, occupato com'era nella guerra di Fiandra, e d'altra parte non v'ha ragione per dire che, quando egli moveva per Firenze, andasse e tornasse di qua e di là (piaggiare) per aspettare il tempo opportuno. A miglior conto questo modo di governarsi ambiguo e scaltro conviene a maraviglia alla politica del papa, e a lui rivolse il poeta queste parole, come appunto il Boccaccio e il Buti la intesero, e riferma il passo Par., XVII, 49:

Questo si vuole e questo già si cerca,
e tosto verrà fatto a chi ciò pensa
là dove Cristo tutto dì si merca" (Bl.).

(70-72) Alte terrà, ecc.: La fazione de' Neri terrà alta la fronte, si mostrerà orgogliosa e superba per molti anni, sebbene l'altra, la parte Bianca, si dolga e si rechi ad onta una sì iniqua oppressione; sotto gravi pesi: Dino Compagni: "Vacante l'impero per la morte di Federico II, coloro che a parte d'impero attendeano, tenuti sotto gravi pesi e quasi venuti meno in Toscana e in Sicilia".

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(73-76) Giusti con due: probabilmente accenna sé e l'amico suo Guido Cavalcanti, che Benvenuto disse: "Alter oculus Florentiae tempore Dantis"; intesi: ascoltati; "non è alcun lor consiglio creduto" (B.). Dino Compagni: "Aveano i Guelfi bianchi ambasciatori in corte di Roma, ma non erano intesi"; sono: ragionamento.
(79-84) Farinata degli Uberti, e il Tegghiaio Aldobrandi; che fuor sì degni d'onore, quanto è al giudicio de' volgari; Iacopo Rusticucci, Arrigo Giandonati, e 'l Mosca de' Lamberti, e li altri nostri cittadini ch'a ben far corteseggiando e onorando altrui, non a ben fare secondo Iddio, puoser li 'ngegni, cioè ogni loro avvedimento e sollecitudine. Costui che più non si trova mentovato, è Arrigo Fifanti, uno di quelli a cui fu commessa l'uccisione di Buondelmonte; Tegghiaio: "leggi Tegghiai'. Le due sillabe finali aio, oio, oia vennero dai poeti toscani valutate per una; così Primaio (Purg., XIV), uccellatoio (Par., XV), e Pistoia nel verso del Petrarca: Ecco Cin da Pistoia, Guitton d'Arezzo, si proferiscono primai', uccellatoi', Pistoi'" (Salvini); li addolcia: con dolcezza consola; li attosca: riempie d'amaritudine e di tormento.
(85-86) più nere: più viziose; diverse colpe, ecc.: "perciocché per lo disonesto peccato della soddomia Tegghiaio Aldobrandi e Iacopo Rusticucci son puniti dentro alla città di Dite (nel c. XVI di questo libro), Farinata per eresia (nel c. X), e 'l Mosca perché fu scismatico (nel c. XXVIII); i quali peccati, perché sono più gravi assai che non è la gola, gli aggrava e fa andare più giuso verso il fondo dell'inferno" (B.).
(87) se tanto scendi quanto essi son giuso.

(89) priegoti ch'a la mente, ecc.: "L'autore finge l'anime delli infernali desiderare fama, per accordarsi con Virgilio, che pone che Palinuro godesse, quando intese lo promontorio dover essere denominato da lui; et allegoricamente di quelli del mondo, che, quanto più sono viziosi e vili, più fanno procaccio d'esser nominati" (Buti).
(91-95) Li diritti occhi, ecc.: "Dante nulla dice dello stato intellettuale di questi sciagurati, ma per siffatto portamento di Ciacco è lecito immaginare che siano in condizione bassissima, a mo' di bestie, e quasi prive di conoscenza, e che il solo Ciacco, affiatandosi ad un vivente, sia risvegliato a maggiore attività d'intelletto, la quale cessa di nuovo, non appena finisce il colloquio concessogli dal cielo. Come gli epilettici al sopravvenire del male stralunano gli occhi e piombano a terra così Ciacco, assalito dalla sua mala ventura, ricade nello stato di prima. Tuttoché noi sappiamo assai bene che Dante non conosceva Omero che per fama, e che non avrà certamente letto l'Odissea, non di meno questo passo ci rammentò sempre mai il canto XI di quel poema, ove le ombre son fatte forti e deste ad intendere chiaramente, a parlare, a profetare soltanto dopo aver gustato il sangue delle vittime; e come quivi nell'ombre l'assaggio del sangue, così qui fa l'effetto in Ciacco la presenza di Dante" (Bl.). di qua dal suon, ecc.: "innanzi che sia il dì del giudicio, quando li due angeli soneranno due trombe; l'una per li giusti e l'altra per li dannati, che vengano all'ultimo giudicio" (Buti). "Quando uno agnolo mandato da Dio verrà, e con altissima voce, quasi sia una tromba, e' dirà: Surgite, mortui, et venite ad judicium" (B.).
(96) la nimica podesta: "Cristo giudice che verrà in potestate magna et majestate" (Ces.).
(97) rivederà la trista tomba: ritornerà alla sua sepoltura.
(99-102) quel: la sentenza. Matth., XXV, 41: "Itene da me, maledetti, nel fuoco eterno"; la vita futura: "dello stato dell'anime dopo la risurrezione" (Buti).
(105) sì cocenti: cocenti come son ora, né più né meno.
(106-108) Ritorna a tua scïenza: domandane la tua scienza (filosofia aristotelica); che vuol: che insegna; quanto la cosa è più perfetta: "come sarà l'anima congiunta col corpo, che sarà più perfetta che separata" (Buti); il bene e... la doglienza: il piacere e il dolore.

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(109-110) Tutto che, ecc.: "Parla qui de' dannati; questo dice perché sono due perfezioni: l'una vera, la quale è de' beati che hanno le quattro doti che danno la glorificazione al corpo; cioè agilità, sottilità, clarità et impassibilità, e l'altra falsa, che è dei dannati che non le hanno" (Buti).
(111-112) di là: aspetta di essere più perfetta di là dal suono, dopo il suono dell'angelica tromba, che di qua da esso, che prima di esso. "Cum fiet resurrectio carnis et bonorum gaudium majus erit et malorum tormenta majora" disse santo Agostino; Noi aggirammo, ecc.: "Dopo parlato con Ciacco non andarono per mezzo il cerchio, ma sull'orlo" (T.).
(114-115) si digrada: si discende nell'altro cerchio; quivi trovammo Pluto: "Che Dante, parlando qui de' prodighi e degli avari, di quelli cioè che non tennero giusto modo nel godimento de' beni del mondo, abbia scelto quale personaggio mitologico e custode del cerchio il Plutus dei Romani, è una supposizione che può facilmente piacere. E di fatto, fuorché il Giuliani, l'accettarono tutti gli espositori moderni. D'altra parte, negli antichi non v'ha, diremmo, cenno alcuno di cotale opinione, stante che tutti quanti conoscevano soltanto Plutone, il Dio dell'Inferno, fratello di Giove e di Nettuno. Il solo Guiniforto pensa che Dante abbia saputo che "plútos" significa ricchezza, e abbia perciò trasportato qui l'antico e ben noto Pluto il quale, come Dio dell'Inferno, disponesse de' tesori sotterra. - Noi portiamo opinione che Dante non abbia pensato ad altri che a Plutone, Dio dell'Inferno, e assegnatogli un uffizio secondario, perché così volle la rappresentazione cristiana di Satanasso. Il "plútos" de' Greci, che infine fu un essere allegorico più che vero, è sì di rado menzionato nella letteratura romana, che Dante appena appena può averne udito cenno" (Bl.).

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