I MILLE PERCHÉ - TECNOLOGIA - LE MACCHINE CHE PENSANO

PERCHÉ ALCUNE MACCHINE SI CHIAMANO «CERVELLI» ELETTRONICI?

Che la macchina sia in grado di sostituire l'uomo nel lavoro muscolare, è un fatto che possiamo ormai verificare in tutte le aziende, mentre suscita ancora qualche perplessità lo impiego diffuso di calcolatori elettronici nelle operazioni di carattere logico e matematico.
È sorta una scienza specifica, che ha come suo scopo di realizzare macchine in grado di sostituire alcune operazioni del cervello umano, come eseguire calcoli, guidare veicoli terrestri, navali, spaziali, secondo date rotte e modalità, ecc. Questa scienza è la cibernetica.
Antesignano della cibernetica fu, già nel 1642, Blaise Pascal, che inventò la macchina calcolatrice. Nel 1850 veniva ideata la prima macchina calcolatrice a tastiera, da cui derivano le moderne calcolatrici meccaniche, che comandano elettricamente i vari movimenti di rotazione.
Queste calcolatrici meccaniche, nell'eseguire i calcoli, hanno bisogno del continuo intervento dell'uomo e non sono sufficienti per affrontare dei calcoli complessi.
Il cervello elettronico può invece compiere difficilissimi calcoli a velocità prodigiosa, perché in esso sono contenuti dispositivi elettronici, e quindi il lavoro non è svolto da ingranaggi o meccanismi vari, ma dagli elettroni, emessi da filamenti accesi.
Nel cervello elettronico vengono immesse enormi quantità di dati, che costituiscono la «memoria» della macchina. I dati sono registrati su schede o nastri variamente perforati.
Per far sì che la macchina esegua il lavoro richiesto, bisogna trasmetterle l'ordine mediante impulsi elettrici di comando. A seconda delle disposizioni ricevute, il cervello elettronico fa una rapida cernita dei dati, li elabora e raggiunge una determinata conclusione.
Consideriamo la prodigiosa attività di un cervello elettronico come l'UNIVAC mod. 1: esso può eseguire in un minuto 1905 somme o sottrazioni di dodici cifre, 465 moltiplicazioni, 257 divisioni, 2750 comparazioni di uguaglianza.
Oltre ad avere un largo impiego nel campo della ricerca scientifica, i calcolatori trovano un vastissimo campo d'applicazione nelle aziende, per l esecuzione di lavori contabili e amministrativi di grossa mole. Recentemente una grande industria automobilistica italiana ha pensato di risolvere, con l'ausilio di un elaboratore elettronico, il grave problema della distribuzione dei pezzi di ricambio presso le filiali e i centri periferici.
L'elaboratore elettronico Olivetti Elea 9003, installato presso la direzione ricambi, controlla i movimenti giornalieri e la situazione contabile di 93000 pezzi di ricambio. L'Elea tiene sott'occhio la posizione dei pezzi presso il magazzino centrale e i 25 magazzini periferici, provvede alla fatturazione, segnala automaticamente la necessità di rifornire con urgenza un dato cliente, emette gli ordini alla produzione, esegue, insomma, con fulminea rapidità, tutte le operazioni necessarie alla gestione di questo importante servizio.
Si fanno sempre più frequenti i tentativi di affidare a calcolatori automatici compiti tradizionalmente assolti dall'uomo, come, per esempio, il reperimento di informazioni (in elenchi, cataloghi, bibliografie ecc.); la dimostrazione di teoremi e ricerca delle possibili soluzioni di problemi; la traduzione automatica di un testo scritto in una lingua, in un testo scritto in un'altra lingua. A quest'ultimo proposito, va citata una macchina del Numerical Automation Department del Birbeck College di Londra, che può registrare nella sua memoria 10.000 parole in ogni singola lingua e varie grammatiche, dando la possibilità di eseguire traduzioni in brevissimo tempo.
È evidente che alcuni complessi cibernetici operano con celerità, precisione, sicurezza ben superiori al cervello umano che li ha creati. Ma ciò non vuol dire che un cervello elettronico possa soppiantare il cervello umano.
Tra l'uomo e la macchina, c'è un incolmabile divario qualitativo. Infatti la cibernetica ha come scopo legittimo quello di realizzare congegni che si sostituiscano a quella parte di attività puramente operativa e quindi non volontaria del cervello, mentre non può prefiggersi di invadere la sfera dello spirito umano.
È vero che i cervelli elettronici hanno una «memoria di ferro» e sono rapidissimi nel rispondere a tono alle questioni di loro pertinenza. Ma provate un po' ad esulare sia pure di poco dai circuiti della loro memoria, e vedrete che resteranno muti. Niente c'è in loro, se non quello che i loro padroni vi hanno deposto.
Provate a far tradurre una sentenza morale ad un calcolatore elettronico!
Per l'appunto, l'esperimento è stato effettivamente tentato, ma il risultato è stato modesto. Il cervello elettronico non è riuscito a cogliere il vero significato delle parole, s'è rivelato rozzo e insensibile alle sfumature, bravo a cogliere la lettera, ma non lo spirito.
Si trattava di volgere in inglese la frase italiana: «Lo spirito è forte, ma la carne è debole». E come ha tradotto il «cervello d'acciaio»?... «Il whisky è buono, ma il roast-beef è stanco».

PERCHÉ IL CARILLON SUONA SEMPRE LO STESSO MOTIVO?

Il carillon era un tempo il solo sistema di riproduzione di un motivo musicale, mentre adesso sopravvive unicamente come soprammobile.
Nella sua semplicità, presenta analogie di funzionamento con i calcolatori elettronici. Contiene infatti un meccanismo che svolge un «programma» (ma non più di un «programma») secondo l'ordine prestabilito.
Di solito la cassetta armonica è sormontata da una ballerina che gira su se stessa finché dura la carica. Il motivo musicale è prodotto da una serie di lamelle metalliche (ance) di lunghezza diversa, tutte terminanti di fronte ad un tamburo sulla cui superficie sono opportunamente disposti dei piccoli denti (il «programma» prestabilito). Quando, mediante un congegno a orologeria, il tamburo viene posto in rotazione, i denti fanno vibrare ora questa ora quella lamella: la successione dei suoni semplici emessi da ciascuna di esse riproduce allora il motivo, che è sempre lo stesso, ed è ovvio, perché il tamburo e le lamelle non sono sostituibili. Ed è giusto che sia così, perché un carillon costituisce di solito un souvenir o un pezzo d'antiquariato: non si può cambiare qualcosa senza sciuparlo.
 

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