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Letteratura Le StanzeIL QUATTROCENTO - I CARATTERI DELLA COLTURA DEL '400 - CONTRASTO FRA IL LATINO E IL VOLGARE IL PULCI E LE SUE OPERE - L'UOMO PIU' COLTO DEL TEMPO - LE OPERE DI L.B. ALBERTI
Letteratura Le StanzeCULTURA - LETTERATURA - LE «STANZE»IL QUATTROCENTOSiamo al secolo decimoquinto. Il mondo greco-latino si presenta alle immaginazioni come una specie di Pompei, che tutti vogliono visitare e studiare. L'Italia ritrova i suoi antenati, e i Boccacci si moltiplicano; l'impulso dato da lui e dal Petrarca diviene una febbre, o, per dir meglio, quella tale corrente elettrica che in certi momenti investe tutta una società e la riempie dello stesso spirito. Quella stessa attività che gittava l'Europa crociata in Palestina e più tardi, spingendola verso le Indie, le farà trovare l'America, tira ora gl'italiani a disseppellire il mondo civile, rimasto per così lungo tempo sotto le ceneri della barbarie. Quella lingua era la lingua loro, e quel sapere era il loro sapere: agl'italiani pareva avere riacquistato la conoscenza e il possesso di se stessi, essere rinati alla civiltà. E la nuova èra fu chiamata il Rinascimento. Né questo era un sentimento che sorgeva improvviso. Per lunga tradizione Roma era capitale del mondo, gli stranieri erano barbari, gl'italiani erano sempre gli antichi romani, erano sangue latino, e la loro lingua era il latino, e la loro lingua parlata era chiamata il latino volgare, un latino usato dal volgo. Questo sentimento, legato in Dante con le sue opinioni ghibelline, ispirava più tardi l'Africa, e latinizzava anche le facezie del Boccaccio. Ora diviene il sentimento di tutti e dà la sua impronta al secolo. La storia ricorda con gratitudine gli Aurispi, i Guarini, i Filelfi, i Bracciolini, che furono i Colombi di questo mondo nuovo. Gli scopritori sono insieme professori e scrittori. Dopo le lunghe peregrinazioni in Oriente e in Occidente, vengon le letture, i comenti, le traduzioni. Il latino e già così diffuso, che i classici greci si volgono in latino, perchè se ne abbia notizia, come i dugentisti volgevano in volgare i latini. Pullulano latinisti e grecisti: la passione invade anche le donne. Grande stimolo è non solo la fama, ma il guadagno. Diffusa la coltura, i letterati moltiplicano e si stringono intorno alle corti e si disputano i rilievi ringhiando. Sorgono centri letterari nelle grandi città: a Roma, a Napoli, a Firenze, più tardi a Ferrara, intorno agli Estensi. E quei centri si organizzano e diventano accademie. Sorge la pontaniana a Napoli, l'accademia platonica a Firenze, quella di POMPONIO LETO e di PLATINA a Roma. Illustri greci, caduta Costantinopoli, traggono a Firenze. GEMISTIO spiega Platone a' mercanti fiorentini. MARSILIO FICINO, il traduttore di Platone, lo predica dal pulpito, come la Bibbia. PICO DELLA MIRANDOLA, morto a trentun anno, stupisce l'Italia con la sua dottrina, ed, oltrepassando il mondo greco, cerca in Oriente la culla della civiltà.I caratteri di questa coltura sono palpabili. I CARATTERI DELLA COLTURA DEL '400Innanzi tutto ti colpisce la sua universalità. Il centro del movimento non è più solo Bologna e Firenze. Padova gareggia con Bologna. Il Mezzodì dopo lungo sonno prende il suo posto nella storia letteraria, e il PANORMITA fa già presentire il Pontano e il Sannazzaro. Roma è il convegno di tutti gli eruditi, attirati dalla liberalità di Nicolò V. La coltura acquista una fisionomia nazionale, diviene italiana. Anche il volgare, trattato dalle classi colte ed atteggiato alla latina, si scosta dagli elementi locali e municipali, e prende aria italiana.Ma è l'Italia de' letterati, col suo centro di gravità nelle corti. Il movimento è tutto sulla superficie, e non viene dal popolo e non cala nel popolo. O, per dir meglio, popolo non ci è. Cadute sono le repubbliche; mancata è ogni lotta intellettuale, ogni passione politica. Hai plebe infinita, cenciosa e superstiziosa, la cui voce è coperta dalla romorosa gioia delle corti e de' letterati, esalata in versi latini. A' letterati fama onori e quattrini, a' principi incensi, tra il fumo de' quali sono giunti a noi papa Nicolò, Alfonso il magnanimo, Cosimo padre della patria, e più tardi Lorenzo il magnifico, e Leone X e i duchi di Este. I letterati facevano come i capitani di ventura: servivano chi pagava meglio: il nemico dell'oggi diveniva il protettore del dimani. Erranti per le corti, si vendevano all'incanto. Questa fiacchezza e servilità di carattere, accompagnata con una profonda indifferenza religiosa, morale e politica, di cui vediamo gli albori fin da' tempi del Boccaccio, è giunta ora a tal punto, che è costume e abito sociale, e si manifesta con una franchezza che oggi appare cinismo. Una certa ipocrisia c'è quando si ha ad esprimere dottrine non ricevute universalmente; ma quanto alla rappresentazione della vita, ti è innanzi nella sua nudità. E' una letteratura senza veli, e più sfacciata in latino che in volgare. Ne nasce l'indifferenza del contenuto. Ciò che importa non è cosa s'ha a dire, ma come s'ha a dire. I più sono secretari di principi, pronti a vestire del loro latino concetti altrui. La bella unità della vita, come Dante l'aveva immaginata, la concordia amorosa dell'intelletto e dell'atto, è rotta. Il letterato non ha obbligo di avere delle opinioni, e tanto meno di confermarvi la vita. Il pensiero è per lui un dato, venutogli dal di fuori, quale esso sia: a lui spetta dargli la veste. Il suo cervello è un ricco emporio di frasi, di sentenze, di eleganze; il suo orecchio è pieno di cadenze e di armonie; forme vuote staccate da ogni contenuto. Così nacque il letterato e la forma letteraria. Il movimento iniziato a Bologna era intellettuale: si cercava negli antichi la scienza. Il movimento ora è puramente letterario: si cerca negli antichi la forma. Sorge la critica, circondata di grammatiche e di rettoriche; il gusto si raffina; gli scrittori antichi non sono più confusi in una eguale adorazione; si giudicano, si classificano, pigliano posto. Questi lavori filologici ed eruditi sono la parte più seria e più durevole di questa coltura. Spiccano fra tutti le Eleganze di LORENZO VALLA. Il titolo ti dà già la fisonomia del secolo. Effetti di questa coltura cortigiana e letteraria, coi suoi vari centri in tutta Italia, sono una certa stanchezza di produzione, l'inerzia del pensiero, l'imitazione delle forme antiche come modelli assoluti, l'uomo e la natura guardati attraverso di quelle forme. E' una nuova trascendenza, il nuovo involucro. Lo scrittore non dice quello che pensa o immagina o sente, perché non è l'immagine che gli sta innanzi, ma la frase di Orazio o di Virgilio. Vede il mondo non nella sua vista immediata, ma come si trova rappresentato da' classici; a quel modo che Dante vedea Beatrice attraverso di Aristotile e di san Tommaso. Ma non ci è guscio che tenga incontro all'arte. Dante poté spesso rompere quel guscio, perché era artista. E se in questa coltura fossero elementi seri di vita intellettuale e di elevate ispirazioni, non è dubbio che vedremmo venire il grande artista, destinato a farne sentire il suono pur tra queste forme latine. Ciò che ferve nell'intimo seno di una società tosto o tardi vien su e spezza ogni involucro. Si dà colpa al latino che questo non sia avvenuto. E se il medio evo non ha potuto sviluppare tra noi tutte le sue forme, se il mondo interiore della coscienza s'è infiacchito, la colpa è de' classici, che paganizzarono la vita e le lettere! La verità è che i classici di questo fatto sono innocentissimi. Certo il mondo di Omero e di Virgilio, di Tucidide e di Livio non è un mondo fiacco e frivolo. E se i latinisti non poterono riprodurre che l'esterno meccanismo, e se sotto a quel meccanismo ci è il vuoto, gli è che il vuoto era nell'anima loro, e nessuno dà ciò che non ha. Un cuore pieno trova il modo di spandersi anche nelle forme più artificiali e più ripugnanti. Leggete questi latinisti. Cosa c'è lì dentro che viva e si mova? Lo spirito del Boccaccio, che aleggia in quei versi e in quelle prose: la quiete idillica e il sale comico, in una forma elegante e vezzosa. Questo studio dell'eleganza nelle forme, accompagnato co' tranquilli ozi della villa e i sollazzevoli convegni della città, era in iscorcio tutta la vita del letterato. CONTRASTO FRA IL LATINO E IL VOLGARECosì, quando il secolo era travagliato da mistiche astrazioni e da disputazioni sottili, il latino fu scolastico. E ora che il naturalismo idillico del Boccaccio è il vero e solo mondo poetico, il latino è idillico: dico il latino artistico e vivo. La grande orchestra di Dante è divenuta già nel Petrarca la flebile elegia. In questo latino elegante il dolore è elegiaco, e il piacere è idillico. La vita è tutta al di fuori, è un riso della natura e dell'anima: la stessa elegia è un rapimento voluttuoso de' sensi. Sulle rive di Mergellina il PONTANO canta gli Amori e i Bagni di Baia, ora tutto vezzeggiativi e languori, ora motteggevole e faceto. Mergellina, Posilipo, Capri, Amalfi, le isole, le fonti, le colline escono dalla sua immaginazione pagana ninfe vezzose, e allegrano le nozze della sua Lepidina. La crassa sensualità è vaporizzata fra le grazie dell'immaginazione e i deliziosi profumi dell'eleganza. La sua musa come la sua colomba, fugit insulsos et parum venustos, odit sorditiem nega i suoi doni a quelli che sono illepidi atque inelegantes, e gaudet nitore, e rassomiglia alla sua puella di cui nessuna vivit mundior elegantiore. Spirito ed eleganza, questo è il mondo poetico di una borghesia colta e contenta, che cantava i suoi ozi, e passava il tempo tra Quintiliano, Cicerone, Virgilio, e i bagni e le cacce e gli amori. Ne senti l'eco tra le delizie di Baia e tra le villette di Fiesole. Il Pontano scrivea la Lepidina tra i sussurri della cheta marina; il Poliziano scrivea il Rusticus tra le aure della sua villetta fiesolana. In tutte e due ispiratrice è la bella natura campestre, con più immaginazione nel Pontano, con più sentimento nel Poliziano. Piace la cerula ninfa Posilipo e la candida Mergellina; e quel voler esser uccello per cascarle in grembo è un bel tratto galante, una sensualità dell'immaginazione. Il Pontano è figurativo, tutto vezzi e tutto spirito; il Poliziano è più semplice, più vicino alla natura, e te ne dà l'impressione:Hic resonat blando tibi pinus amata susurro; Hic vaga coniferis insibilat aura cupressis: Hic scatebris salit et bullantibus incita venis Pura coloratos interstrepit unda lapillos. Questo latino, maneggiato con tanta sveltezza, modulato con tanta grazia, non cade nel vuoto come lingua morta, e questi canti non sono lavori di pura erudizione e imitazione. Lorenzo Valla chiama il latino la lingua nostra.;- nessuna cosa di qualche importanza non si scrivea se non in latino; e metteasi a fuggire il volgare quello studio che oggi si mette a fuggire il dialetto. Dante stesso era detto poeta da calzolai e da fornai. Non pareva impossibile continuare il latino, come i greci continuavano il greco, parlare la lingua universale, la lingua della scienza e della coltura, essere intesi da tutti gli uomini istruiti. Ma queste tendenze trovavano naturale resistenza a Firenze, dove il volgare aveva messo salde radici, illustrato da tanta gloria, né potea parer vergogna scrivere nella lingua di Dante e del Petrarca. Ivi una classe colta nettamente distinta non era, e popolo grasso e popolo minuto era ancora il popolo, con una comune fisonomia. Grandissima l'ammirazione de' classici: frequentatissimi gli studi del LANDINO del CRISOLORO, del Poliziano; si udiva a bocca aperta Gemistio e il Ficino e il Pico; si disputava di Platone, di Aristotile - discussioni erudite, senza conclusione e serietà pratica - si applaudiva al Poliziano, quando cantava la bellezza e la morte dell'Albiera o gli occhi di Lorenzo, purus apollinei sideris nitor, come fossero gli occhi di Laura. Ma insieme si difendeva il volgare come gloria nazionale; e il FILELFO spiegava Dante, e il Landino sponeva il Petrarca, e LIONARDO BRUNI sosteneva essere il volgare lo stesso latino antico com'era parlato a Roma, e Lorenzo de' Medici preferiva il Petrarca a' poeti latini, chiamava unico Dante, celebrava la facondia e la vena del Boccaccio, e di Cino e di Cavalcanti e di altri minori scrivea le lodi con acume e maturità di giudizio. Ci erano gli oppositori, i grammatici, i pedanti, che dicevano Dante uno spropositato, un ignorante, rerum omnium ignarum, e che scrivea così male il latino. Ma in Firenze non attecchivano. Cristofaro Landino nel suo studio, dove spiegava a un tempo Dante e Virgilio, pigliando a esporre il Petrarca, insegnava non esser la lingua toscana al di sotto della latina, e non altrimenti che quella doversi sottoporre a regole di grammatica e di rettorica. Certo, il vezzo del latino introduceva nel volgare, caduto in mano a' pedanti, vocaboli e frasi e giri, di cui si sentono gli effetti fino nella prosa del Machiavelli; ma quella barbara mescolanza per la sua esagerazione divenne ridicola, e non poté alterare le forme del volgare, così come erano state fissate negli scrittori e si mantenevano vive nel popolo. Né l'uso fu mai intermesso; e Lionardo scrivea in volgare la vita di Dante e del Boccaccio, e in volgare Feo Belcari scrivea le vite de' santi e le rappresentazioni, e si continuavano i rispetti, gli strambotti, le frottole, le cacce, le ballate, tutt'i generi di lirica popolare legati con le feste e gl'intrattenimenti pubblici e privati, le mascherate, le giostre, le serenate, le rappresentazioni, i giuochi, le sfide. Non era cosa facile guastare o sopraffare una lingua legata così intimamente con la vita. La forza della lingua volgare era appunto in questo: che rifletteva la vita pubblica e privata, divenuta parte inseparabile della società nelle sue usanze e ne' suoi sentimenti. Onde, se gli uomini colti, trasportati dalla corrente comune, scrivevano in latino per procacciarsi fama, nell'uso vario della vita adoperavano il volgare, condotto oramai al suo maggior grado di grazia e di finezza, e parlato e scritto bene generalmente. Un gran mutamento era però avvenuto nella letteratura volgare. Il mondo ascetico-mistico-scolastico del secolo passato non era potuto risorgere di sotto a' colpi del Petrarca e più del Boccaccio, ed era tenuto rozzo e barbaro, e continuava la sua vita come un mondo fatto abituale e convenzionale a cui è straniera l'anima. Al contrario era in uno stato di produzione e di sviluppo il mondo profano, la gaia scienza, e dava i suoi colori anche alle cose sacre. Le laude erano intonate come i rispetti, e i misteri acquistavano la tinta romanzesca delle novelle e romanzi allora in voga. La Stella ricorda in molte parti le avventure della bella sventurata Zinevra, sei anni andata tapinando per lo mondo. Spesso c'entra il comico e il buffonesco, e ti par d'essere in piazza e sentir le ciane che si accapigliano. La lauda tende al rispetto; la leggenda tende alla novella.
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