INTRODUZIONE
L'ultima voce di questo
secolo è FRANCO SACCHETTI, l'uomo discolo e grosso. Di mezzana coltura,
d'ingegno poco al di là del comune, ma di un raro buon senso, di poca
iniziativa e originalità, ma di molta semplicità e naturalezza,
era nella sua mediocrità la vera eco del tempo. Gli facea cerchio la
turba de' rimatori, ripetizione stanca del passato: il lucchese Guinigi e Matteo
da San Miniato, e ANTONIO DA FERRARA, e Filippo Albizi, e Giovanni d'Amerigo, e
Francesco degli Organi, e Benuccio da Orvieto, e Antonio da Faenza, e Astorre
pur da Faenza, e Antonio Cocco, e Angelo da san Geminiano, e Andrea Malavolti e
Antonio Piovano, e GIOVANNI DA PRATO, e Francesco Peruzzi, e Alberto degli
Albizi, e Benzo de' Benedetti, che lo chiama eroe gentile, e parecchi altri. E
il nostro Eroe gentile riceveva e mandava sonetti, cambiando lodi con lodi.
Ultime voci de' trovatori italiani. Luoghi comuni e forma barbara annunziano un
mondo tradizionale ed esaurito. Ci trovi anche sentimenti morali e religiosi, ma
insipidi e freddi come un'avemaria ripetuta meccanicamente tutt'i giorni. Per
questo lato il Sacchetti continua il passato, fa perché gli altri fanno,
pensa così perché gli altri così pensano, piglia il mondo
come lo trova, senza darsi la pena di esaminarlo. Questa è la sua parte
morta. Ma ci è una parte viva, quella a cui partecipa e che suona nel suo
spirito, quella in cui apparisce la sua personalità; ed è appunto
quel mondo di cui il Boccaccio è così vivace
espressione.
FRANCO SACCHETTI
Franco è il vero uomo della
tranquillità. Il Boccaccio sdegnava l'epiteto, e talora voleva sonare la
tromba e rappresentare azioni e passioni eroiche. Franco non ha pretensioni e si
mostra com'è, ed è contento di esser così. E' uomo stampato
all'antica in tempi corrotti, buon cristiano e insieme nemico degl'ipocriti e
mal disposto verso i preti e i frati, diritto ed intero nella vita, alieno dalle
azioni, benevolo a tutti, talora mordace ma senza fiele modesto estimatore di
sé e lontanissimo di mettersi allato a' grandi poeti di quel tempo, che
erano, secondo lui e i contemporanei, Zanobi da Strada, il Petrarca e il
Boccaccio. Quali erano i desideri del nostro brav'uomo? Menare una vita
tranquilla e riposata; ed era il più contento uomo del mondo, quando in
villa o in città potea darsi buon tempo fra le allegre brigate
motteggiando, novellando, sonetteggiando. Ci è in lui dell'idillico e del
comico. Ama la villa, perché in città
Mal vi si dice, e
di ben far vi è caro;
e nelle sue cacce, nelle sue ballate
senti non di rado la freschezza dell'aura campestre, come è quella
così briosa delle donne che givano cogliendo fiori per un boschetto, e
l'altra delle montanine, di una grazia così ingenua. In città
è un burlone pieno il capo di motti, di facezie, di fatterelli, e te li
snocciola come gli escono, con tutto il sapore del dialetto, e con un'aria di
bonomia che ne accresce l'effetto. I suoi sonetti e le canzoni sono molto al di
sotto de' madrigali e ballate o canzoni a ballo, di un andare svelto e allegro,
dove non mancano pensieri galanti e gentili: dietro il poeta senti l'uomo che ci
piglia gusto e vi si sollazza e sta già con l'immaginazione nella lieta
brigata dove i versi saranno cantati, tra musica e ballo. Veggasi la ballata del
pruno e il madrigale del falcone.
Le novelle del Sacchetti hanno per
materia lo stesso mondo boccaccevole in un aspetto più borghese e
domestico: frizzi, burle, amorazzi, ipocrisie fratesche, aneddoti, pettegolezzi
vengon fuori; bassa vita popolana in forma popolana. Alcuni le pregiano
più che il Decamerone per lo stile semplice e naturale e rapido, non
privo di malizia e di arguzia fiorentina. Ma la naturalezza del Sacchetti
è quella dell'uomo a cui le muse sono avare de' loro doni. Non è
artista, e neppure d'intenzione. Gli manca ogni sorta d'ispirazione. Quel mondo,
con tanta magnificenza organizzato nel Decamerone, è qui un materiale
grezzo, appena digrossato. Perciò delle sue trecento novelle si ricorda
appena qualche aneddoto; nessun personaggio è rimasto vivo.
L'ELOGIO FUNEBRE DEL TRECENTO
Il Sacchetti sopravvisse al secolo. Nel suo buon
umore ci è una nota malinconica, che all'ultimo manda più lugubre
suono. Non piace al brav'uomo un mondo, in cui chi ha più danari vale
più, e grida che virtù con pecunia non si acquista, e che
gentilezza e virtù son nella mota. Dipinge al vivo gli avvocati de' suoi
tempi:
Legge civile e ragion canonica
Apparan bene, ma nel mal
spesso l'usano:
Difendono i ladroni e gli altri accusano.
Chi ha
danari e chi più puote scusano:
Tristo a colui che con costor
s'incronica,
Se non empie lor man sotto la tonica!
Ora se la
piglia con le vecchie; ora è tutto stizzoso per le nuove fogge di vestire
portate a Firenze da altri paesi. Grida contro la turba de' rimatori e de'
cantori:
Pieno è il mondo di chi vuol far rime:
Tal
compitar non sa, che fa ballate,
Tosto volendo che sieno
intonate.
Così del canto avvien: senz'alcun'arte
Mille
Marchetti veggio in ogni parte.
E quando muore il Boccaccio, copioso
fonte di eleganze, esclama:
Ora è mancata ogni poesia,
E
vòte son le case di Parnaso...
S'io piango o grido, che miracol
fia,
Pensando che un sol c'era rimaso,
Giovan Boccacci: ora è
di vita fore?...
... Quel duol che mi pugne
E' che niun riman,
nè alcun viene
Che dia segno di speme
A confortar che io
salute aspetti,
Perchè in virtù non è chi si
diletti...
Sarà virtù già mai più in altrui,
O starà quanto medicina ascosta ,
Quando anni cinquecento
perdè il corso
... Chi fia in quella etate,
Forse
vedrà rinascer tal semenza;
Ma io ho pur temenza,
Che prima
non risuoni l'alta tromba,
Che si farà sentir per ogni tomba...
Ne' numeri ciascuno ha mente pronta,
Dove moltiplicando s'apparecchia
Sempre tirare a sé on la man destra...
E le meccaniche arti
Abbraccia chi vuol esser degno ed alto...
Ben veggio giovinetti assai
salire
Non con virtù, perchè la curan poco,
Ma tutto
adopron in corporea vesta;...
... già mai non cercan loco
Dove
si faccia delle muse festa...
Come deggio sperar che surga Dante,
Che
già chi il sappia legger non si trova ?
E Giovanni, che è
morto, ne fe' scola...
Fra il Sessanta e l'Ottanta esser il
mondo
Pieno di svari e fortunosi giorni,
Vidon che si dovean perder le
tempre
Di ciascun valoroso e gire al fondo.
E questo è quel
che par che non soggiorni...
E, s'egli è alcun che guardi,
Gli
studi in forni vede già conversi...
Questa canzone di cui
abbiamo citati alcuni brani è l'elogio funebre del Trecento, pronunziato
dal più candido e simpatico de' suoi scrittori, l'ultimo trecentista.
Sulla fine del secolo il vecchio burlone gitta uno sguardo malinconico indietro,
e gli si affaccia la grande figura di Dante, e l'Africa col suo alto poeta, e
Giovan Boccacci non col suo festevole Decamerone, ma co' dotti e magni volumi
latini, De' viri illustri Delle donne chiare e il terzo:
Buccolica;
il quarto: Monti e fiumi
Il quinto: Degli iddii e lor
costumi.
Oimè! Dante è morto, morto è Boccacci.
Petrarca muore. Chi rimane? E l'ultimo trecentista guarda intorno e risponde: -
Nessuno. - Ricorda le infauste profezie, nunzie di sciagure fra il Sessanta e
l'Ottanta e gli pare venuto il finimondo. La forte semenza da cui uscirono i tre
grandi e tanti altri dottissimi, teologi, filosofi, legisti, astrologi, è
perita per sempre, o risorgerà dopo cinquecento anni, come fu della
medicina? o non verrà prima il giudizio finale? Il mondo è dato
all'abaco e alle arti meccaniche: nuda è l'adorna scuola da tutte sue
parti:
Non si truova fenestra
Che valor dentro
chiuda.
La nuova generazione è tutta dietro alle mode e a'
sollazzi e al guadagno, e non cura virtù, e spregia le Muse, e non
è chi sappia leggere Dante, e gli studi sono mutati in forni. Il poeta
accomiata la canzone in questo modo:
Orfana, trista, sconsolata e
cieca,
Senza conforto e fuor d'ogni speranza,
Se alcun giorno
t'avanza,
Come tu puoi, ne va' peregrinando,
E di' al cielo: - Io mi
ti raccomando. -
Con questi tristi presentimenti si chiude il secolo.
Il Dugento finisce con Cino e Cavalcanti e Dante già adulti e chiari:
finisce come un'aurora entro cui si vede già brillare la vita nuova, una
nuova era. Il Trecento finisce come un tristo tramonto, così tristo e
oscuro che il buon Franco pensa: - Chi sa se tornerà il
sole?
Antonio da Ferrara, sparsasi voce della morte del Petrarca, intuona
anche lui un poetico Lamento. Piangono intorno al grand'uomo Gramatica,
Retorica, Storia, Filosofia; e lo accompagnano al sepolcro di
Parnaso
Virgilio, Ovidio, Giovenale e Stazio,
Lucrezio, Persio,
Lucano e Orazio
E Gallo.
E Pallas Minerva, venuto dall'angelico
regno, conserva la sua corona. In ultimo della mesta processione spunta l'autore
col suo nome, cognome e soprannome:
E' Anton de' Beccar, quei da
Ferrara,
Che poco sa ma volentieri impara.
E' anche un brav'uomo
costui, vede anche lui tutto nero:
Del mondo bandita è
concordia e pace
Per l'universo la discordia trona:
Sommerso
è ogni bene,
L'amor di Dio ha bando,
E parmi che la fè
vada mancando.
Sono lamenti senili di uomini superficiali e mediocri,
dove non trovi alcuna profondità di vista e non forza di mente o di
sentimento. Pur vi trovi, ancorché in forma pedantesca, la fisonomia del
secolo negli ultimi giorni della sua esistenza.
Quella nota malinconica
è la stessa forza che tirò alla Certosa il vecchio Boccaccio, e
volse a Maria gli ardori del Petrarca, e rattristò le ultime ore di
Franco Sacchetti, e piegò le ginocchia di Giovanna innanzi a Caterina da
Siena. Perché quella forza, contraddetta e negata nella vita, occupava
ancora l'intelletto, e tra le orgie di una borghesia arricchita e gaudente
comparirà talora come un rimorso, e chiamerà gli uomini alla
penitenza.
La fede va mancando, grida il ferrarese, e gli studi si
convertono in forni, nota il fiorentino. Non si potea meglio dipingere la
fisonomia che andava prendendo il secolo, e che comunicava alla nuova
generazione. Possiamo disegnarla in brevi tratti.
FISONOMIA DEL SECOLO NUOVO
Come il popolo grasso piglia il sopravvento in
Firenze, così nelle altre parti d'Italia la borghesia si costituisce, si
ordina, diviene una classe importante per industrie, per commerci, per
intelligenza e per coltura. E lo stacco si fa profondo tra la plebe e la classe
colta. La coltura non è privilegio di pochi, ma si allarga e si diffonde,
e fa del popolo italiano il più civile di Europa.
La vita pubblica e
la vita religiosa rimane stazionaria fra l'universale indifferenza. Continuano
le stesse forme, ma, sciolte dallo spirito che le rendeva venerabili, quelle
persone, quei riti e quel linguaggio appariscono cosa ridicola e diventano il
motivo comico delle liete brigate.
La vita privata viene su. Ed è
vita socievole, spensierata, condita dallo spirito. Gli uomini si uniscono in
compagnie o brigate non per discutere, ma per sollazzarsi, in città e in
villa. E si sollazzano a spese delle classi inculte. Trovatori, cantori e
novellatori non sono più il privilegio delle castella e delle corti.
L'allegria feudale si spande anche nelle case de' ricchi borghesi, e i racconti
e i piacevoli ragionamenti condiscono i loro piaceri, e in una forma spesso
licenziosa e cinica. La licenza del linguaggio era il solletico
dell'allegria.
Così venne una letteratura sensuale e motteggiatrice,
profana e pagana. Le novelle e i romanzi tennero il campo. L'allegra vita della
città si specchiava in forme liriche svelte e graziose: rispetti,
strambotti, frottole, ballate e madrigali. L'allegra vita de' campi avea pur le
sue forme: le cacce e gl'idilli. L'anima di questa letteratura è lo
spirito comico e il sentimento idillico.
La forma dello spirito comico
è la caricatura penetrata di un'ironia maliziosa, ma non maligna. La
forma idillica è la descrizione della bella natura penetrata di una molle
sensualità. Traspare da tutta questa letteratura una certa quiete e
tranquillità interiore, come di gente spensierata e
soddisfatta.
Giovanni Boccaccio è il grande artista, che apre questo
mondo allegro della natura.
Il misticismo perisce, ma ben vendicato,
traendosi appresso religione, moralità, patria, famiglia, ogni
semplicità e dignità di vita. Vengono nuovi ideali: la
voluttà idillica e l'allegria comica. Sono le due dività della
nuova letteratura.
Ma, come l'antica letteratura vede i suoi ideali
attraverso un involucro allegorico-scolastico, così la nuova non
può trovare se stessa se non attraverso l'involucro del mondo
greco-latino.
La vita del Boccaccio è in compendio la vita
letteraria italiana come si andrà sviluppando. Comincia scopritore
instancabile di manoscritti, e tutto mitologia e storia greca e romana. Non
è ancora un artista, è un erudito. La sua immaginazione erra in
Atene e in Troia. Tenta questo e quel genere, e non trova mai se stesso. Quel
mondo è come un denso velo che muta il colore degli oggetti e gliene
toglie la vista immediata. Imita Dante, imita Virgilio, petrarcheggia e
platoneggia come il buon Sacchetti. Scrive magni volumi latini, ammirazione dei
contemporanei. E si scopre artista, quando, gittato via tutto questo bagaglio,
scrive per sollazzo, abbandonato alla genialità dell'umore. Dove cerca il
piacere, trova la gloria.
Questa vita, ne' suoi tentennamenti, nelle sue
imitazioni, nelle sue pedanterie, ne' suoi ideali, è la storia della
nuova letteratura.
NOTE
FRANCO SACCHETTI
Figlio di mercante e
mercante non fortunato egli stesso, nacque probabilmente a Ragusa nel 1330.
Viaggiò molto in Schiavonia e nel 1362 si stabilì a Firenze, ove
il Comune gli conferì incarichi ed uffici diversi. Morì nel
1400.
ANTONIO DA FERRARA (Antonio Beccari o del Beccaio)
Poeta cortigianesco definito dal Petrarca vir non
mali ingenii, sed vagi. Visse tra il 1315 e il 1370 e frequentò le corti
dei Pepoli degli Ordelaffi, dei Carraresi e dei Visconti.
GIOVANNI DA PRATO (Giovanni Gherardi)
Pratese vissuto tra il 1367 e i1 1442- '47. Fu
lettore di Dante in Santa Maria del Fiore, a Firenze, ed autore de «Il
Paradiso degli Alberti».