LE CONSEGUENZE DEI MOTI DEL 1848-49
Come abbiamo visto, i
moti rivoluzionari del 1848-49 ebbero esito diverso a seconda delle Nazioni che
vi furono coinvolte. In generale, comunque, essi segnarono la sconfitta del
movimento democratico radicale e l'affermazione della borghesia moderata.
Nei vent'anni che seguirono, la borghesia riuscì infatti a conquistare il
potere in quasi tutti gli Stati europei, in maniera così radicale che il
nuovo ordine politico e sociale rifletté in maniera speculare l'ideologia
della nuova classe egemone. Gli Stati divennero così gelosi tutori degli
interessi di una borghesia che si identificava in un nazionalismo piuttosto
gretto, ben diverso dal generoso nazionalismo romantico, tipico della prima
metà del secolo.
In Francia e in Inghilterra, Paesi industriali
evoluti e di grandi tradizioni democratiche, la borghesia non subì
involuzioni particolari. Ma in Austria e in Prussia, la nascente borghesia
riuscì appena a scalfire il regime assolutistico. I sistemi tradizionali
rimasero invece in pieno vigore solo nella Russia zarista.
Dopo i moti del
1848-'49, l'oppressione si mantenne nei territori e tra le popolazioni soggette
al dominio straniero, come ad esempio nel Lombardo-Veneto, che rivendicava
l'indipendenza dall'Austria insieme a riforme istituzionali liberali e
democratiche.
Queste aspirazioni vennero infatti represse duramente dagli
Austriaci, che nel 1851 condannarono a morte, per propaganda mazziniana, Amatore
Sciesa e don Giovanni Grioli. L'anno successivo salirono invece sul patibolo a
Mantova don Enrico Tazioli e altri quattro patrioti (i martiri di Belfiore).
Vennero infine giustiziati Tito Speri e Pier Fortunato Calvi.
La
repressione fu dura anche nei ducati emiliani e nel Granducato di Toscana,
governato da Leopoldo II. Nell'opera di repressione si distinsero anche papa Pio
IX, che aveva abbandonato ogni velleità democratica, e soprattutto i
Borboni di Napoli, che incarcerarono e perseguitarono i nomi più illustri
della classe intellettuale partenopea, fra cui Luigi Settembrini, Silvio
Spaventa e Carlo Poerio. L'unico Stato in cui rimasero in vigore le concessioni
costituzionali del 1848 fu il Regno di Sardegna, dove la dinastia sabauda,
grazie all'abile politica di Vittorio Emanuele II, avrebbe assunto la guida
della lotta per l'indipendenza dall'Austria, divenendo il punto di riferimento
per buona parte dell'opinione pubblica italiana. Il Piemonte, dopo aver ottenuto
dall'Austria favorevoli condizioni di pace col Trattato di Milano (6 agosto
1849), poiché a Vienna si pensava di attirare il Regno tra le potenze
reazionarie, rimase fedele allo Statuto Albertino ed il Parlamento, ispirandosi
ad esso, si fece promotore di numerose riforme.
Il Governo moderato
presieduto da Massimo D'Azeglio, in particolare, fece approvare le leggi
Siccardi, che riducevano notevolmente i privilegi del clero e la cui
approvazione ebbe vasta eco in tutta la penisola.
Ben più ampie
erano tuttavia le innovazioni di cui il Piemonte avrebbe avuto bisogno e per
realizzarle occorreva una compatta maggioranza parlamentare. Tale esigenza fu
compresa da un giovane parlamentare liberal-moderato, il conte Camillo Benso di
Cavour che, alleatosi con Rattazzi, leader della sinistra moderata, formò
la nuova maggioranza (novembre 1852), destinata ad imprimere una svolta decisiva
alla politica del Regno di Sardegna.
LE LEGGI SICCARDI
Le leggi Siccardi (che presero il nome dal
ministro della giustizia G. Siccardi) furono approvate nel 1850, durante il
Governo di Massimo D'Azeglio. Esse compromisero seriamente i rapporti tra il
Governo liberale piemontese e il clero, in quanto sancivano la soppressione del
diritto d'asilo e del foro ecclesiastico, vale a dire due privilegi secolari
della Chiesa.
Il diritto d'asilo infatti, riservato a chiese e conventi,
prevedeva che chiunque trovasse rifugio in un sacro edificio fosse sottratto
alla giurisdizione locale. Il foro ecclesiastico sottraeva invece i membri del
clero che si fossero macchiati di qualche colpa alla giustizia locale,
rimettendoli a tribunali esclusivamente clericali. L'approvazione di queste
leggi creò inevitabilmente un'opposizione nell'area cattolica piemontese
che, più avanti, si sarebbe staccata definitivamente dai programmi
governativi. Esse infatti suscitarono il risentimento di papa Pio IX e del suo
segretario di Stato, il cardinale conservatore Antonelli.
Contro
l'applicazione delle leggi Siccardi svolse la sua battaglia il giornale
cattolico, l'«Armonia della religione colla civiltà», molto
diffuso in Piemonte, diretto da Don Giuseppe Margotti: fu il più
importante organo clericale italiano, di tendenza nettamente conservatrice, che
sostenne sempre gli interessi morali e temporali della Chiesa. Il quotidiano,
fortemente combattuto dal Cavour, cessò le sue pubblicazioni nel
1866.
LA GUERRA DI CRIMEA
La favorevole situazione internazionale,
unita ad un'accorta politica economica, permise a Napoleone III di conseguire
notevoli successi, non ultimo dei quali, anche se imprevisto, il miglioramento
delle condizioni generali delle classi lavoratrici. Sul versante interno,
tuttavia, la politica dell'imperatore fu pesantemente condizionata dall'alta
borghesia che, avendone appoggiato l'ascesa al trono, pretendeva una rigida
tutela dei propri interessi. Per contro, in politica estera, Napoleone III fu
più libero di agire secondo il proprio programma e questo lo portava a
intravedere la possibilità di una egemonia francese su un'Europa
finalmente svincolata dalla supremazia delle potenze che ne avevano deciso
l'assetto con il Congresso di Vienna.
L'occasione di un'azione militare
volta a tal fine, venne offerta all'imperatore dal riproporsi della questione
d'Oriente che, proprio in quel momento, stava conducendo alla disgregazione del
blocco reazionario composto da Austria, Russia e Prussia, Nazioni che avevano in
quell'area interessi diversi e contrapposti.
La situazione comunque
andò incontro ad una svolta decisiva quando, improvvisamente, nel 1853,
lo zar di Russia Nicola I occupò i principati di Valacchia e Moldavia,
vassalli dell'Impero Ottomano, dopo aver invano cercato di convincere la
diplomazia inglese della necessità di spartirsi le spoglie dell'Impero
stesso. In risposta all'attacco, Francia e Inghilterra dichiararono guerra alla
Russia, che rimase isolata dopo che l'Austria, contrariamente alle speranze
dello zar, conservò la neutralità.
Si trattò di una
guerra piuttosto dura: famoso l'assedio alla base navale di Sebastopoli, sulla
punta meridionale della penisola di Crimea, che resistette per quasi un anno,
dall'ottobre 1854 al settembre 1855. Gravissime furono le perdite delle truppe
alleate, decimate, oltreché dai conflitti, dal tifo, dal colera e dal
freddo. La guerra costò la vita a circa mezzo milione di uomini,
trecentomila dei quali russi.
Nel 1855, a fianco di Inghilterra e Francia,
era intervenuto anche il Piemonte. L'intervento era il frutto di un ben
calcolato piano di politica estera programmato dal primo ministro Cavour. Lo
statista piemontese aveva infatti immediatamente intuito che la guerra di
Crimea, pur non chiamando direttamente in causa gli interessi del Regno sabaudo,
rappresentava un'occasione da non lasciar sfuggire, per i vantaggi di natura
diplomatica che da essa il Piemonte avrebbe potuto trarre. E di questo, come
vedremo più avanti, se ne ebbe conferma al termine della guerra durante
il Congresso di Parigi, allorché Cavour riuscì a mettere sul
tappeto delle questioni internazionali il problema dell'unificazione
italiana.
Tornando alla guerra, essa ebbe una svolta decisiva in seguito
alla morte dello zar Nicola I, in quanto il suo successore, Alessandro II, sotto
la minaccia di un intervento austriaco, si decise ad avviare trattative di pace.
Le clausole di pace, come abbiamo già anticipato, furono stabilite nel
Congresso di Parigi (25 febbraio - 17 aprile 1856). In quella sede venne
riaffermata l'indipendenza della Turchia e proclamata la parziale
smilitarizzazione russa dal Mar Nero. La Russia rinunciava invece alla
Bessarabia, annessa alla Moldavia, che insieme al Principato di Valacchia
costituì nel 1859 uno Stato unitario, nucleo originale della odierna
Romania. Venne stabilito inoltre che anche il Principato della Serbia avrebbe
goduto di una certa indipendenza, pur rimanendo sotto la sovranità
dell'Impero Ottomano.
CAMILLO BENSO CONTE DI CAVOUR
L'uomo che, negli anni Cinquanta,
indirizzò la politica del Piemonte alla guida del processo di liberazione
e unificazione del territorio italiano, fu il conte Camillo Benso di
Cavour.
Nato a Chieri nel 1918 da una famiglia dell'aristocrazia piemontese, aveva a
lungo viaggiato in tutta Europa e sino al 1850 si era dedicato soprattutto
all'amministrazione delle sue terre, adottando più moderne e scientifiche
tecniche di coltivazione. Convinto che l'espansione del moderno capitalismo,
rappresentato da ferrovie, fabbriche, banche, imprese commerciali e nuovi metodi
di conduzione agricola, fosse la strada che anche l'Italia dovesse seguire, nel
1850 aveva avuto l'incarico di ministro dell'Agricoltura, del Commercio e della
Marina nel Governo piemontese. In questa veste aveva concluso una serie di
trattati commerciali con Gran Bretagna, Francia e Belgio. Dopo aver assunto il
ministero delle Finanze, nel novembre del 1852 divenne presidente del Consiglio,
perseguendo una politica tesa a creare nuove vie di collegamento stradale e
ferroviario, a sviluppare il commercio e a consolidare le finanze dello Stato.
Intensificò il suo programma di rinnovamento economico dopo la guerra di
Crimea, approvando tra l'altro il traforo del Moncenisio e trasformando Genova e
La Spezia in grandi porti commerciali.
In politica estera, Cavour
sviluppò un'azione al tempo stesso efficace e lungimirante: comprese,
infatti, che il Piemonte ben difficilmente sarebbe riuscito a liberare la
penisola da solo. Solo internazionalizzando la questione italiana e portandola
all'attenzione delle grandi potenze europee, il Piemonte sarebbe riuscito a
piegare la forza dell'Austria.
L'occasione, come abbiamo avuto modo di
osservare, gli fu data dallo scoppio della guerra di Crimea, che gli permise di
esporre al Congresso di Parigi, di fronte alle altre potenze vincitrici, la
questione italiana. Pur non riuscendo a guadagnare l'esplicito appoggio della
Francia e dell'Inghilterra, in quella sede Cavour segnò un punto
importante in favore della causa italiana dimostrando che la soluzione della
questione non poteva più essere differita.
Nei mesi seguenti,
infatti, le trattative avviate a Parigi tra Napoleone e Cavour si
intensificarono e, sul finire del 1857, approdarono ad una intesa
franco-piemontese che si proponeva come fine la guerra all'Austria. Gli accordi
raggiunti vennero tuttavia messi in grave pericolo nel gennaio dell'anno
seguente, allorché un repubblicano italiano, Felice Orsini, compì
un attentato contro Napoleone III (gennaio 1858). L'imperatore ne uscì
miracolosamente illeso, ma per un momento sembrò che l'episodio dovesse
far naufragare l'interessamento francese per le sorti dell'Italia.
Ancora
una volta però l'abilità politica e diplomatica di Cavour si
rivelò decisiva. In poco tempo infatti il primo ministro piemontese
riuscì a convincere l'imperatore che proprio per prevenire nuove
agitazioni democratiche occorreva intraprendere quanto prima la guerra
all'Austria.
Nel luglio dello stesso anno, Cavour e Napoleone III
firmarono così, a Plombieres-les-Bains, un accordo segreto che gettava le
basi dell'alleanza militare franco-piemontese. Secondo l'intesa raggiunta, la
Francia sarebbe intervenuta al fianco del Piemonte, qualora l'Austria lo avesse
attaccato. Nell'accordo venivano poi contemplati il matrimonio della principessa
Clotilde, figlia di Vittorio Emanuele, con il cugino dell'imperatore Gerolamo
Bonaparte (in modo da stringere un legame dinastico tra i due Stati), e un
progetto per il futuro assetto della penisola italiana. Tale piano prevedeva la
costituzione di un regno dell'Italia Settentrionale, sotto i Savoia, e di due
regni, nell'Italia centrale e meridionale, sotto sovrani francesi. Roma e il
territorio circostante sarebbero rimasti sotto la sovranità del papa. Non
venne invece data una soluzione definitiva al problema dell'annessione alla
Francia di Nizza e della Savoia.
Ritratto di Camillo Benso, conte di Cavour
LA SECONDA GUERRA D'INDIPENDENZA
Dopo che Francia e Piemonte si furono
assicurati la neutralità russa e inglese, ebbe inizio la mobilitazione.
Volontari provenienti da ogni parte d'Italia affluirono in Piemonte e vennero
incorporati nell'esercito regolare.
All'ultimatum che imponeva il disarmo
immediato, intimato dall'Austria il 23 aprile 1859, il Piemonte rispose con un
rifiuto ed ebbe inizio la guerra. Gli Austriaci, comandati dal generale Gyulai,
passarono il Ticino il 29 aprile, penetrando nel territorio piemontese,
avanzando lentamente a causa degli allagamenti provocati dai Piemontesi.
Dopo l'arrivo delle truppe francesi attraverso i passi alpini e il porto di
Genova, il comando dell'esercito alleato franco-piemontese venne affidato a
Napoleone III. Verso la fine di maggio gli Austriaci avevano già subito
le sconfitte di Montebello e Palestro.
Oltre il Ticino, nei pressi di
Magenta, avvenne il primo scontro decisivo tra i Franco-Piemontesi e gli
Austriaci: questi, subendo la sconfitta, abbandonarono Milano l'8 giugno,
ritirandosi nelle fortezze del Quadrilatero. Il 24 giugno, sulle alture di San
Martino e Solferino avvenne un altro scontro tra i due eserciti: le pesanti
perdite subite da ambo le parti ridimensionarono però la vittoria dei
Franco-Piemontesi. Nel frattempo i Cacciatori delle Alpi, guidati da Garibaldi,
dopo le vittoriose battaglie di Varese e San Fermo, occupavano Como, Bergamo e
Brescia. Il richiamo a nord delle truppe austriache di stanza a Parma, a Modena
e nelle legazioni pontificie provocò una serie di insurrezioni
popolari.
Si costituirono allora Governi provvisori in Toscana sotto la
presidenza di Bettino Ricasoli, in Emilia sotto quella di Carlo Farini, mentre
venivano represse le agitazioni in Umbria e nelle Marche. Quando ormai la totale
disfatta dell'Austria sembrava vicina, l'imprevedibile Napoleone effettuò
uno dei suoi consueti e improvvisi mutamenti politici e, preoccupato della
mobilitazione prussiana ai confini francesi, l'11 luglio si incontrò con
l'imperatore Francesco Giuseppe a Villafranca, concludendo un accordo sulla base
del quale l'Austria avrebbe rinunciato solo alla Lombardia che, ceduta alla
Francia, sarebbe poi passata ai Piemontesi: inoltre, i sovrani spodestati dalle
rivolte democratiche sarebbero ritornati sui loro troni. Napoleone III, dal
canto suo, rinunciava alle annessioni di Nizza e della Savoia. Cavour, appresa
la notizia dell'accordo e indignato per non esserne stato tempestivamente
informato, si dimise dalla presidenza del Consiglio.
La pace di Zurigo del
2 novembre 1859 ribadì gli accordi di Villafranca con la modifica di
alcune condizioni, poiché era divenuto improponibile il ritorno dei
sovrani detronizzati: nei ducati emiliani e in Toscana, infatti, i patrioti si
erano organizzati militarmente per resistere ad eventuali spedizioni
austriache.
Cavour ritornò al potere nel gennaio del 1860 e
riuscì a convincere Napoleone III ad accettare l'annessione al Piemonte
di questi Stati, in cambio di Nizza e della Savoia.
In marzo una serie di
plebisciti consacrò l'annessione dei territori dell'Italia
centro-settentrionale al Piemonte. Nei mesi seguenti anche i restanti territori
della penisola, ad eccezione del Veneto e di Roma, vennero annessi al nuovo
Regno d'Italia grazie all'impresa dei Mille.
Un ritratto di Napoleone III
LA SPEDIZIONE DEI MILLE
Esauritasi la fase diplomatica, Cavour e i
liberali si trovarono di fronte a un'impasse, non avendo modo di estendere a
tutta la penisola il processo unitario. Le grandi potenze (Austria, Russia e la
stessa Francia) non avrebbero infatti tollerato aggressioni allo Stato
Pontificio e al Regno delle Due Sicilie. Riprese vigore e coraggio, a questo
punto, il movimento democratico che, fidando nella tattica insurrezionale, non
era evidentemente condizionato da una linea moderata e diplomatica.
In un
primo tempo, i democratici pensarono di attaccare lo Stato Pontificio, ma la
rivolta di Palermo, scoppiata il 4 aprile e capeggiata dai mazziniani Rosolino
PILo e Francesco Riso, li persuase che sarebbe stato meno arduo organizzare
un'azione di forza contro il regime borbonico dell'Italia Meridionale. Il Regno
delle Due Sicilie versava infatti in condizioni di isolamento internazionale e
di immobilismo politico.
Anche il malcontento delle masse contadine, che
nasceva da una condizione di assoluta miseria e di oppressione sociale, era
decisamente orientato contro il potere borbonico. Esistevano quindi le
condizioni ideali per un tentativo insurrezionale. Vi era però la
consapevolezza, nel fronte democratico, che il tentativo dovesse essere
preparato e organizzato dall'esterno, col sostegno di un vero e proprio
esercito, ben equipaggiato e pronto a sostenere una vera e propria guerra.
L'esperienza di Carlo Pisacane, nel 1857, aveva infatti dimostrato che senza
queste condizioni ogni insurrezione era destinata al fallimento.
I
democratici affidarono allora a Garibaldi l'incarico di organizzare una
spedizione armata contro il Regno borbonico. Il corpo dei volontari in camicia
rossa, composto da intellettuali, professionisti, artigiani e studenti,
partì dal porto di Quarto, presso Genova, la notte fra il 5 e il 6 maggio
1860. Il Governo piemontese, pur appoggiando tacitamente l'iniziativa,
ufficialmente mantenne un atteggiamento distaccato tanto più che era
risaputa l'opposizione del Cavour, ostile all'impresa, nonostante l'assenso del
re.
La spedizione, imbarcata sui piroscafi Lombardo e Piemonte della
società Rubattino, dopo aver raggiunto Talamone ed essersi rifornita di
armi, giunse a Marsala l'11 maggio. Assunta la dittatura dell'isola a Salemi,
nel nome di Vittorio Emanuele, il 15 maggio Garibaldi sconfisse le truppe
borboniche a Calatafimi e quindi, il 27 giugno, liberò Palermo con
l'appoggio delle bande dei picciotti. Nelle settimane successive, si unirono
alla spedizione 15.000 volontari e, approfittando dei moti antiborbonici
scoppiati in diverse località, Garibaldi riuscì a completare
l'occupazione dell'isola dopo la battaglia di Milazzo (20 giugno).
Il 19
agosto Garibaldi sbarcò in Calabria, a Melito, e, favorito dalle
popolazioni locali e dallo sbandamento dell'esercito borbonico, si diresse verso
Napoli raggiungendola il 7 settembre. La giornata precedente, Francesco II aveva
lasciato la città e si era rifugiato nella fortezza di Gaeta; i resti del
suo esercito vennero definitivamente annientati da Garibaldi sul Volturno il 2
ottobre.
Cavour, nell'incalzare degli avvenimenti, si rese subito conto
che non poteva differire l'intervento diretto dell'esercito regio, anche
perché i capi del movimento democratico, tra cui lo stesso Mazzini, si
trovavano già a Napoli per impedire l'annessione al Piemonte e sfruttare
l'ondata rivoluzionaria.
Altri erano però i piani di Cavour, che
aveva accettato la spedizione garibaldina a cose avvenute, ma non intendeva
mettersi in urto con la Francia e con le altre grandi potenze, temendo inoltre
che la leadership del movimento nazionale potesse passare ai repubblicani.
Pertanto, d'accordo con Napoleone III, egli decise che l'esercito piemontese
avrebbe invaso le Marche, giustificando l'azione con la necessità di
salvare i territori delle Marche e dell'Umbria dal pericolo rivoluzionario,
proseguendo poi la marcia verso sud, per congiungersi con le truppe
garibaldine.
Dopo aver sconfitto le truppe pontificie a Castelfidardo (18
settembre), Vittorio Emanuele si incontrava con Garibaldi a Teano. L'incontro
segnava la fine delle speranze dei democratici, che oltretutto non erano
riusciti a guadagnare le simpatie della borghesia agraria meridionale né
quelle dei contadini, delusi per la mancata ridistribuzione delle terre. Tutto
dunque favoriva la politica annessionistica del Piemonte: gradatamente il corpo
dei volontari garibaldini fu sciolto, ma non incorporato nell'esercizio regio.
Deluso e amareggiato, Garibaldi si ritirava nell'isola di Caprera seguito da un
pugno di seguaci. Caduta la fortezza di Gaeta il 17 marzo 1861, il primo
Parlamento nazionale, riunitosi a Torino, ratificò l'unificazione
proclamando la nascita del Regno d'Italia.
Ritratto di Giuseppe Garibaldi
GARIBALDI E I CACCIATORI DELLE ALPI
I cacciatori delle Alpi costituivano il
corpo volontario (2 battaglioni di 6 compagnie ciascuno) organizzatosi nel 1848
per la difesa di Vicenza e di Venezia, al comando di Pier Fortunato Calvi. Nel
1859 in Piemonte si radunarono in questo corpo moltissimi volontari, guidati da
Giuseppe Garibaldi, che si distinsero in numerose battaglie durante la seconda
guerra di Indipendenza. La loro uniforme era costituita da un giubbetto rosso
con alamari neri (da cui il nome «camicie rosse»), pantaloni grigi e
berretto rosso. Alla guida del loro comandante, divennero il simbolo del
Risorgimento italiano. Come Garibaldi, anche i cacciatori delle Alpi presero
corpo nelle leggende popolari: i volontari divennero eroi nazionali, forti e
generosi, ed incarnarono le migliori virtù dell'umanità.
D'altronde presso le masse del Mezzogiorno, Garibaldi godeva di un particolare
favore: gli si attribuivano poteri quasi divini, a lui si indirizzavano
preghiere modulate sul Pater noster («Dalle caserme e dai campi di
battaglia sarà fatta la tua volontà. Dacci le nostre munizioni
quotidiane. Non indurci nella tentazione di contare il numero dei nemici, ma
liberaci dagli Austriaci e dai preti»). Non ci deve quindi stupire se molti
giovani nel Meridione nutrissero come unica ambizione quella di entrare a far
parte dei cacciatori delle Alpi. È fuor di dubbio che i successi ottenuti
dal corpo garibaldino in tutta Italia furono anche dovuti allo spirito di unione
e di solidarietà che legava il generale ai suoi soldati. Indicativa
è la testimonianza di un soldato militante nei cacciatori, che scrisse:
«La nostra fiducia in lui era così grande, che se egli ci avesse
comandato di arrampicarci sui tetti, lungo i muri, noi l'avremmo
fatto».
PICCOLO LESSICO
Nazionalismo
Dottrina in base alla
quale la Nazione può attuare una politica dettata dalla considerazione
della propria grandezza e della propria potenza contro qualsiasi ingerenza
esterna che ne limiti il campo d'azione. Può facilmente degenerare
nell'esasperazione del sentimento nazionale, che porta al culto della razza,
alla mania di grandezza, all'imperialismo territoriale.
Impasse
Francesismo che indica propriamente un vicolo
cieco, una situazione difficile, da cui non si sa come uscire.
Picciotto
Voce dialettale siciliana che significa
giovanotto. Questo termine stava ad indicare i militanti delle squadre armate
siciliane che combatterono, nell'aprile del 1860, contro l'esercito borbonico
nelle campagne siciliane.
Primo Parlamento Italiano
Tenne la sua prima seduta il 17 marzo 1861, a
Torino, proclamando Vittorio Emanuele II re d'Italia. Esso comprendeva 85 membri
dell'aristocrazia sabauda (marchesi, duchi, principi), 74 avvocati, 53 dottori,
28 ufficiali e 5 abati, per un totale di 247 deputati. Essi erano stati eletti
da circa 200.000 elettori, cioè dall'1% della popolazione
italiana.
PERSONAGGI CELEBRI
Vittorio Emanuele II
Re di Sardegna (Torino
1820 - Roma 1878). Figlio di Carlo Alberto e Maria Teresa degli Asburgo-Lorena
di Toscana, partecipò alla I guerra d'indipendenza, distinguendosi
particolarmente nella battaglia di Goito e, in seguito alla abdicazione del
padre, salì al trono di Sardegna la sera del 23 marzo 1849 (giorno della
battaglia di Novara). Nel cosiddetto «decennio di preparazione»
(1849-1859), perseguì una politica fermamente antiaustriaca, assecondando
i piani strategici del primo ministro Cavour, e sul piano interno si mantenne
sempre fedele allo Statuto. Nel 1860, contro il parere del suo stesso primo
ministro, appoggiò segretamente l'impresa dei Mille di Garibaldi,
guadagnandosi così la simpatia dei democratici italiani. Divenuto primo
re d'Italia, restò successivamente sempre rispettoso della Costituzione
del 1876 e non ostacolò l'avvento al potere della Sinistra di
Depretis.
Carlo Pisacane
Patriota e scrittore italiano (Napoli 1818 - Sanza
1857). Prestò per qualche tempo servizio nell'esercito del Regno delle
Due Sicilie. Dopo aver disertato, nel 1848 partecipò alla I guerra di
indipendenza e, in seguito, alla difesa della Repubblica Romana. Di idee
repubblicane e mazziniane, nel 1857, insieme ad un piccolo gruppo di patrioti,
si impadronì del piroscafo «Cagliari», dirigendosi quindi verso
l'isola di Ponza. Dopo aver liberato un gruppo di oppositori borbonici (circa
trecento) si diresse verso Sapri, con l'intenzione di promuovere una
insurrezione armata. Ma né le organizzazioni segrete né le
popolazioni locali aderirono al suo tentativo. Le truppe borboniche poterono
così facilmente avere la meglio sul suo piccolo gruppo di rivoltosi.
Pisacane, vistosi perduto, si uccise con un colpo di pistola.
Felice Orsini
Patriota italiano (Meldola 1819 - Parigi 1858). Di
idee repubblicane, aderì giovanissimo alla mazziniana Giovine Italia. Nel
1848 partecipò alla I guerra d'Indipendenza e poi alla difesa della
Repubblica Romana. Rientrato in Italia dopo qualche anno, venne di nuovo
arrestato per attività cospirativa nel 1855, riuscendo però a
fuggire dal carcere l'anno seguente. Rifugiatosi in Inghilterra, si
dedicò da quel momento alla progettazione di un attentato da compiere
contro Napoleone III che accusava di aver tradito la causa italiana. L'attentato
venne poi compiuto, a Parigi, la sera del 13 gennaio 1858: causò molti
morti e feriti, ma l'imperatore rimase miracolosamente illeso. Orsini, arrestato
e processato, venne condannato a morte. La sentenza venne eseguita il 13
marzo.
RIASSUNTO CRONOLOGICO
1851:
Vengono emanate le leggi
Siccardi. Cavour è ministro dell'Agricoltura.
1852:
Cavour è presidente del
Consiglio.
1854:
Guerra di Crimea.
1855:
Partecipazione piemontese alla guerra di
Crimea.
1856:
Congresso di Parigi.
1858:
Felice Orsini attenta alla vita di Napoleone III.
Convegno di Plombières.
1859 (aprile):
Seconda guerra di Indipendenza
italiana.
1859 (luglio):
Armistizio di Villafranca fra Napoleone III e
Francesco Giuseppe.
1859 (novembre):
Pace di Zurigo.
1860:
Annessione della Toscana, dell'Emilia e dei
Ducati al regno di Sardegna.
1860 (maggio):
Spedizione dei Mille.
1861 (marzo):
Proclamazione del Regno
d'Italia.