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Storia Antica Storia MedievaleVerso l'Impero RomanoSTORIA ANTICA - VERSO L'IMPERO ROMANO - LA GUERRA CONTRO LA MACEDONIA E LA SIRIA - L'ORDINAMENTO PROVINCIALE - LA VITA A ROMA - LA SCUOLA A ROMA - LA RIFORMA DEL CALENDARIO - LE INFLUENZE ELLENISTICHE - TIBERIO GRACCO
Verso l'Impero RomanoSTORIA ANTICA - VERSO L'IMPERO ROMANOLA GUERRA CONTRO LA MACEDONIA E LA SIRIALe difficili campagne contro i Cartaginesi, in cui vennero spese notevoli energie, avevano lasciato la penisola italica devastata dai saccheggi degli uomini di Annibale e lacerata da contrasti interni sorti a causa del malcontento popolare. La repubblica romana aveva così bisogno di un periodo di pace durante il quale risanare i danni subiti e riordinare e riorganizzare le varie terre sotto il suo dominio: dovevano essere stabiliti nuovi rapporti con le popolazioni italiche e con le genti dei Paesi appena conquistati, come i Celtiberi della Spagna. La Spagna, conquistata da Scipione l'Africano, fu divisa in due province: la Hispania Citerior, che comprendeva il bacino dell'Ebro e la costa orientale sino a Cartagine, e la Hispania Ulterior, che si estendeva sui territori al di là della Sierra Morena e comprendeva parte dell'entroterra della penisola iberica e le coste affacciate sull'Oceano Atlantico. Le due province erano governate da due pretori e per molto tempo (sino alla metà del II secolo a.C.) i Romani dovettero fronteggiare le ribellioni dei Lusitani, un popolo molto bellicoso che non vedeva di buon occhio il fatto di essere sottomesso allo straniero. Roma fu inoltre impegnata nella riconquista dell'Italia settentrionale che, dopo il passaggio di Annibale, era stata occupata ancora una volta dagli instancabili Galli. La riconquista fu, ad ogni modo, rapidissima e i Galli furono costretti alla fuga per l'ennesima volta. Vista l'importante posizione strategica della Pianura Padana, il Senato decise di fondare altre tre colonie in difesa di questo territorio: Parma, Modena e, sul confine orientale a difesa di eventuali attacchi degli Illiri, Aquileia. Una volta sistemati i contrasti e i dissapori interni, il Senato romano non poté fare a meno di interessarsi alle questioni politiche relative ai Paesi del Mediterraneo orientale. Infatti, una volta eliminata Cartagine e conquistata la Spagna, l'unico pericolo alla sopravvivenza del dominio romano era costituito proprio dai Paesi orientali, e più precisamente dal regno di Macedonia di Filippo V e dalla Siria di Antioco III che, proprio in quegli anni, stavano vivendo un periodo di crescita e sviluppo. Mentre Roma era impegnata a Zama nelle seconda guerra punica, nel 202, Filippo V di Macedonia e Antioco III di Siria strinsero un'alleanza per attaccare l'Egitto dei Tolomei e spartire i territori conquistati. La minaccia di questa alleanza allarmò il mondo greco e i piccoli Stati autonomi, come quelli di Rodi e di Pergamo, incominciarono a temere il crescente pericolo costituito dalle vicine potenze. Verso il 200 a.C. proprio Rodi e Pergamo richiesero al Senato romano un aiuto per contrastare la minaccia macedone e siriana, ma il partito della pace, restio ad ogni intervento militare, si dimostrò molto forte e la richiesta fu respinta. Quando Scipione l'Africano ritornò a Roma, nel 200 a.C., vide subito la possibilità di ottenere in oriente una serie di vittorie, e quindi ricchezze e nuovi domini. Così, una volta convinto il Senato, nel 200 a.C. fu dichiarata la guerra a Filippo V di Macedonia; questa seconda guerra macedone (la prima risale al periodo di Annibale in Italia) fu interpretata dal Senato romano come una battaglia "preventiva", ossia tesa ad anticipare le mosse del nemico e non ad allargare in qualche modo il proprio dominio. Dopo tre anni infruttuosi, nel 197 i Romani, guidati da Tito Quinzio Flaminio, annientarono la falange macedone di Filippo V nella battaglia di Cinocefale (in Tessaglia), costringendo i vinti alla resa. Con la pace di Tempo del 196, Filippo fu obbligato a rinunciare alle conquiste e a consegnare la flotta. Nel 196 poi, in occasione dei Giochi Istmici di Corinto, il console Flaminio annunciò la decisione del Senato romano, ammiratore della civiltà ellenica, di concedere la libertà a tutte le città greche, che così avevano la possibilità di riorganizzarsi secondo gli ordinamenti locali. Questo generoso provvedimento, dettato dal crescente ellenismo della società romana, che incominciava in quegli anni ad interessarsi alle arti greche, portò ad un avvicinamento a Roma delle città elleniche, molto utile in vista dello scontro con Antioco III il Grande di Siria. Anche Antioco III, consigliato da Annibale che in quegli anni era rifugiato in Siria, si rese conto che lo scontro con Roma era ormai inevitabile, soprattutto a causa del malcontento delle colonie in Asia Minore. Fu proprio il re di Pergamo (in Asia Minore) a sollecitare l'intervento romano contro il re di Siria nel 191. La guerra siriaca impegnò i Romani per tre anni. Il primo scontro fra i due eserciti avvenne alle Termopili e fu vinto dai legionari romani che, nel 189, sbarcarono in Asia Minore sbaragliando l'esercito siriaco nella battaglia di Magnesia. L'anno dopo (188) venne stipulata la pace di Apamea, che obbligava re Antioco a rinunciare ai territori in Tracia e in Asia Minore e a ridurre gli armamenti. Alcuni anni più tardi, e precisamente verso il 170 a.C., la Macedonia, guidata da Perseo V, figlio di Filippo, tentò incautamente di guadagnarsi l'indipendenza dal dominio romano: nel 168, i legionari del console Emilio Paolo, irruppero in forze e con la vittoria di Pidnia sbaragliarono le forze macedoni. Anche la città di Rodi, sospettata di aver aiutato e condiviso l'operazione macedone, venne occupata e privata del centro commerciale. Il Regno di Macedonia fu così eliminato e il suo territorio diviso in quattro piccole repubbliche tributarie dipendenti dal Senato romano. Nel 149 a.C. si registrò un altro tentativo di rivolta da parte dei Greci: guidate da un certo Andrisco, alcune poleis cercarono di ribellarsi, ma furono ben presto ricondotte alla ragione. Nel 146 i Romani distrussero la famosa città di Corinto, anch'essa insorta. Dopo queste ultime vittorie anche la Grecia fu dichiarata provincia del regno romano e, con il nome "Acaia", fu posta sotto il comando del governatore di Macedonia.L'ORDINAMENTO PROVINCIALEDopo le ultime conquiste Roma si trovò padrona di un territorio i cui confini coprivano gran parte delle terre affacciate sul Mar Mediterraneo. Nel 133 a.C. il Senato estese la sua sfera d'influenza alla città di Pergamo che, dopo la morte dell'ultimo re Attalo III, passò ai Romani: lo Stato abbracciò così una notevole porzione dell'Asia Minore che, ordinata a provincia, prese il nome di Asia. Durante il II secolo i Romani riuscirono ad annettere i territori italiani del nord-est, in possesso dei Veneti, e la zona costiera fra la Liguria, le Alpi e i Pirenei. L'affermarsi di Roma come capitale del Mediterraneo portò non pochi problemi al Senato, che dovette cercare di riorganizzare lo Stato. Come abbiamo visto nei paragrafi precedenti, l'atteggiamento di Roma nei confronti delle città sottomesse mutò radicalmente dopo la fine della prima guerra punica: infatti le città umbre, greche e sannite, conquistate negli anni precedenti, erano state associate alla confederazione romano-italica ed avevano mantenuto le proprie leggi e magistrature autonome; menre la Sicilia, conquista della prima guerra punica, fu ridotta a provincia. In seguito, furono costituite a provincia anche la Sardegna, la Corsica, la Gallia (divisa in Cisalpina e Narbonense), la Spagna (divisa in Ulteriore e Citeriore), l'Illiria, la Macedonia, la Grecia (con il nome di Acaia), l'Africa e l'Asia. L'ordinamento di queste province era molto semplice: i loro abitanti non erano considerati né cittadini romani né alleati, bensì sudditi. I terreni erano considerati come "agro pubblico" e il popolo romano ne disponeva come meglio credeva. I sudditi erano costretti inoltre a pagare un tributo che era in parte destinato all'amministrazione locale e in parte versato direttamente nel tesoro della repubblica. Le province furono in un primo tempo affidate a un pretore, ossia un magistrato romano, che poteva disporre della collaborazione di un questore, preposto ai problemi finanziari, e di un gruppo di aiutanti (i legati). Col tempo venne introdotta una nuova prassi e il governo delle province passò di diritto ai consoli e ai pretori uscenti di carica: vennero così istituite le cariche politiche di proconsole e propretore. Il governatore di una provincia aveva dei poteri amplissimi ed esercitava un'attività di carattere militare, giudiziario e amministrativo. Tale tendenza all'accentramento dei poteri portò ben presto ad un generale malcostume politico, costellato da una serie di abusi operati dai vari proconsoli ai danni soprattutto del sistema tributario locale. D'altra parte i governatori e i loro ufficiali aiutanti avevano infinite occasioni per esigere dai sudditi contributi eccessivi e illegali a proprio vantaggio. Nonostante questa situazione senz'altro negativa, i cittadini delle varie province poterono godere di un periodo estremamente favorevole per quanto concerne il progresso della civiltà: il mondo ellenico, i Galli e gli Iberi furono finalmente pacificati. Contemporaneamente alla nascita delle province, il Senato mutò il suo atteggiamento anche con i popoli italici alleati da secoli e con i cittadini romani residenti nelle varie colonie: la capitale divenne sempre più esigente nel richiedere il rispetto degli obblighi militari e cominciò ad essere sempre meno equa nella spartizione del bottino di guerra; i Romani fondatori di colonie rischiavano di essere confusi con i normali sudditi. Come vedremo in seguito, fu proprio l'esasperazione di questo atteggiamento che portò al crollo della repubblica.LA VITA A ROMADurante questi anni di enorme sviluppo della società romana, la vita economica subì alcune trasformazioni: il crollo della classe dei piccoli agricoltori e possidenti; l'intensificarsi dell'attività finanziaria e commerciale; l'enorme aumento di schiavi, che scatenò numerose rivolte (le cosiddette guerre servili). La classe dei piccoli proprietari terrieri, che aveva costituito il nucleo dell'esercito romano, tornata in patria venne colpita da una grave crisi economica. L'assenza per il prolungato periodo delle guerre aveva minato l'attività delle piccole aziende agricole, che ora dovevano fronteggiare l'importazione di grano straniero in grandi quantità. Furono così sempre più numerosi i piccoli proprietari costretti a vendere il proprio terreno coltivabile. Persa la proprietà, essi erano poi costretti a lavorare come braccianti o emigravano verso la capitale in cerca di una migliore occupazione; ma, non avendo un'adeguata preparazione tecnica, andavano incontro a molte difficoltà. L'aumento dei traffici commerciali e finanziari portò ad una crescita del capitale mobile e ad un conseguente aumento delle speculazioni. Nacque così il latifondismo: approfittando della dissoluzione della classe dei piccoli proprietari, i più ricchi aumentarono notevolmente le loro proprietà fondiarie. Anche i senatori, cui era vietata ogni attività di tipo economico e speculativo, approfittarono della situazione, e con l'aiuto di prestanome, si impadronirono di numerosi terreni agricoli. Questa prosperità economica favorì la nascita di una nuova classe sociale: i cavalieri (equites). Questi ultimi, grazie ai fruttuosi scambi commerciali e all'enorme giro di affari sviluppatosi, riuscirono a guadagnarsi un posto di rilievo nella società romana. Nonostante ciò, non appartenendo alle grandi famiglie senatoriali, non erano ammessi alle alte magistrature. Di fronte all'onnipotenza politica del Senato, i cavalieri adottarono un atteggiamento molto ambiguo: appoggiavano sì il malcontento della popolazione, ma a patto che non venissero messi in discussione i loro privilegi. Questo clima di tensione interna era sensibilmente aggravato dalla sovrabbondanza di schiavi, frutto delle ultime invasioni. Non bisogna dimenticare che gli schiavi, pur essendo privi di ogni diritto, rappresentavano la vera base della manodopera: i lavori agricoli, edili e minerari erano svolti completamente dagli schiavi; i più preparati potevano svolgere anche mansioni meno umili, come quelle di medico, di maestro e di amministratore. Nelle case padronali romane erano costretti a dedicarsi a funzioni quasi completamente improduttive, come quelle di portiere, parrucchiere, sguattero, fattorino e simili. Gli schiavi erano trattati come una merce qualsiasi e venivano venduti in mercati appositi; quello più famoso sorgeva sull'isola di Delo. La sovrabbondanza di schiavi (che nelle città più importanti corrispondevano alla metà della popolazione) provocò un crescente malumore che, in alcune occasioni, sfociò in vere e proprie rivolte. Ma lo strapotere del Senato e la solidità delle istituzioni riuscì sempre a ristabilire l'assetto sociale. La tensione scaturita da tutti questi malcontenti col passar del tempo portò alla caduta della repubblica e all'istituzione della monarchia, che fu ritenuta la forma di governo più ovvia per garantire una maggior giustizia e una certa uguaglianza tra i sudditi dell'Impero.LA SCUOLA A ROMALa scuola, come la intendiamo noi oggi, nacque a Roma intorno al II secolo a.C.. In quell'epoca i ragazzi romani di età compresa fra i sette e i tredici anni incominciarono a frequentare delle scuole private in cui venivano insegnate la scrittura, la lettura e i primi rudimentali principi di matematica. La scuola occupava i ragazzi dalle prime luci dell'alba sino a mezzogiorno e durava tutto l'anno, tranne pochi periodi di vacanza. Tutto ciò di cui aveva bisogno allora uno scolaro era: un calamaio per l'inchiostro, un pennino e una tavoletta di cera. Il popolo romano aveva già appreso l'uso del papiro e della pergamena, ma questi materiali, molto costosi e non riutilizzabili, non trovarono largo impiego nelle attività scolastiche. Le tavolette di cera erano più funzionali poiché, dopo aver scritto con il pennino, era possibile lisciare tutta la superficie rendendola pronta a ricevere altre iscrizioni. Gli "stili" utilizzati dagli scolari romani erano da una parte appuntiti, per scrivere, e dall'altra a forma di spatola per cancellare, lisciando la cera, eventuali errori. I maestri erano pagati pochissimo e quasi sempre erano costretti, per vivere, a svolgere l'umile professione di scrivano pubblico; la maggior parte della popolazione non sapendo né scrivere né leggere era costretta a rivolgersi a terze persone in caso di necessità. Lo Stato incominciò a preoccuparsi di riconoscere la professione dell'insegnante a partire dal 425 d.C., con l'introduzione di salari adeguati.LA RIFORMA DEL CALENDARIOUn'altra importante innovazione dal punto di vista scientifico introdotta da Caio Giulio Cesare fu la riforma del calendario che, promossa nel 46 a.C., fu elaborata dall'astronomo Alessandrino Sosigene. Questa importante riforma, che violava antiche e tenaci superstizioni, eliminò il divario di ben 90 giorni fra l'anno civile e l'anno astronomico e, per evitare il ripetersi di questo evento, introdusse l'anno bisestile ogni quattro anni. Sino ad allora il calendario dei Romani era composto da 12 mesi lunari di 29 giorni l'uno; poiché questi ultimi non bastavano a completare un anno, venivano inseriti ad intervalli dei periodi intercalari stabiliti dai pontefici massimi e calcolati molto approssimativamente a causa della loro ignoranza in campo astronomico. Sosigene attribuì invece all'anno la durata esatta di 365 giorni e 6 ore e aggiunse un giorno in più ogni quattro anni per evitare divari fra anno civile e anno astronomico. Il nuovo calendario iniziava il 1° gennaio e non più il 1° marzo come si usava prima, e i mesi di luglio e agosto, prima chiamati Quintile e Sestile, vennero dedicati a Giulio Cesare (Iulius " Luglio) e ad Ottaviano Augusto (Augustus " Agosto). Vale la pena di sottolineare una piccola curiosità: i mesi di settembre, ottobre, novembre e dicembre conservano il loro nome dall'antico calendario romano, che usava elencare i mesi secondo il loro numero d'ordine. Ma mentre poteva essere logico allora, dato che l'anno cominciava in marzo, chiamare il settimo mese "settembre" e l'ottavo mese "ottobre", è piuttosto strano chiamare oggi l'undicesimo mese "novembre" e il dodicesimo "dicembre".LE INFLUENZE ELLENISTICHEA partire dal III secolo a.C., l'influenza della cultura ellenistica cominciò a penetrare nel mondo romano. La cultura greca era portata a Roma da ambasciatori, emigrati, maestri e prigionieri di guerra: la filosofia di Socrate e Platone, le riflessioni politiche di Aristotele, le tragedie, le satire e i poemi epici incominciarono così ad entrare nelle case romane che sino ad allora li avevano ignorati. Le commedie di Plauto e di Terenzio e le satire di Lucilio furono alcune delle opere letterarie romane nate sull'onda dell'influenza dell'ellenismo. Questo fervido movimento culturale non si sviluppò senza resistenze: l'austero Catone, legato alla tradizione arcaica e nemico delle raffinatezze e sottigliezze greche, vedeva come un pericolo questa novità; mentre Scipione, sensibile al movimento artistico ellenizzante ne favorì la crescita e lo sviluppo. La corrente ellenistica non ebbe ripercussioni solo culturali, ma anche sociali; la figura del pater familias era ormai in declino e la famiglia cominciava a sgretolarsi; i ricchi costruirono case più ampie e lussuose; anche l'arte culinaria si andava raffinando in cerca di sapori più vari e delicati. Le feste e i divertimenti popolari si moltiplicarono e nacquero i primi spettacoli sportivi. Oltre alle gare di corsa e di velocità con le bighe vennero introdotti nuovi giochi atletici di origine greca e le famose battaglie fra gladiatori e con le belve. La cultura ellenistica in alcuni casi influì anche sulla morale religiosa dei romani; la penetrazione dei culti orientali e soprattutto delle orge bacchiche in onore di Dioniso, assolutamente incompatibili con la tradizione romana, portarono le autorità ad adottare sanzioni piuttosto severe. Nel 186 a.C. 7.000 persone vennero sottoposte a giudizio perché colpevoli di comportamento amorale, mentre il Senato restrinse drasticamente le libertà concesse al culto di Bacco. Soprattutto Catone si impegnò fervidamente a combattere l'ellenismo che, secondo lui, era sinonimo di corruzione e degrado morale. Così fra il 184 e il 183 riuscì a espellere un gran numero di senatori, sotto l'accusa di comportamento amorale, e aumentò di circa trenta volte le imposte sui beni di lusso, sull'abbigliamento, sugli ornamenti femminili e sulle portantine. A tutte queste imposizioni si oppose la famiglia degli Scipioni, che, sostenitrice del rinnovamento, ospitava filosofi e letterati greci.
TIBERIO GRACCONegli anni successivi al 150 a.C. Roma fu impegnata in numerose lotte, provocate dai contrasti sociali, che minarono la struttura repubblicana dello Stato. I primi malcontenti si verificarono in alcune province in cui la popolazione, stanca del dominio romano, cominciò ad insorgere nel tentativo di conquistare un'autonomia assoluta. In Spagna, i Celtiberi e i Lusitani manifestarono il loro malcontento; in Macedonia il popolo, guidato da Andrisco, insorse contro il dominio romano e le poleis greche rivendicarono la loro indipendenza. Ma il valido esercito romano non trovò difficoltà nel reprimere queste rivolte: nel 148 la Macedonia fu dichiarata provincia romana; nel 146 le poleis greche furono sottomesse per la seconda volta e la città di Corinto fu addirittura distrutta; nel 138 i Lusitani furono costretti alla resa; nel 133 Scipione Emiliano penetrò nella città di Numanzia, capitale della resistenza celtibera. Nel frattempo, e più precisamente fra il 136 e il 132 a.C., in Sicilia incominciava una vasta ribellione di schiavi che, partendo da Enna, coinvolse progressivamente più di diecimila insorti. I Romani caduti nelle mani dei rivoltosi vennero uccisi sul posto e l'esercito della repubblica subì numerose umiliazioni. Nel 132 a.C. però, quando si resero disponibili le truppe impegnate nell'assedio di Numanzia, il console Publio Rupilio riuscì ad avere la meglio e ristabilì l'ordine nell'isola. Gli schiavi che avevano partecipato alla coraggiosa impresa vennero orrendamente trucidati e i superstiti crocefissi nelle campagne circostanti ad Enna. Negli anni successivi la società romana fu costretta ad occuparsi anche dei problemi sorti con la crisi economico-politica dello Stato. La dissoluzione della piccola proprietà, già citata precedentemente, era al centro del programma di Tiberio Gracco. Questi, che con la sua attività politica si oppose tenacemente allo strapotere dell'oligarchia senatoriale, apparteneva ad una delle famiglie nobili più rispettate di Roma: suo padre, Tiberio Sempronio Gracco, era stato un valido generale e in seguito censore e console; sua madre, Cornelia, era la figlia di Scipione l'Africano; mentre sua sorella si era legata in matrimonio con Scipione Emiliano. Eletto tribuno della plebe nel 133 a.C., Tiberio Gracco, influenzato dall'educazione ricevuta dai maestri greci e dal circolo culturale filoellenico degli Scipioni, agì in difesa delle classi popolari e cercò di restituire alla carica di tribuno la sua importanza, e il significato originario di "portavoce dei poveri". Inviato come questore in Spagna, all'epoca delle rivolte dei Celtiberi, egli si rese conto delle pesanti conseguenze della crisi dell'agricoltura sull'esercito. I legionari infatti non erano più solidi ed affidabili contadini, ma profittatori spinti dall'unico intento di arricchirsi con i bottini di guerra, a spese della repubblica. Così nel 133 Tiberio Gracco, nel tentativo di risolvere i problemi legati alla piccola proprietà, propose una legge agraria molto organica, a tutto vantaggio della popolazione meno abbiente. Come tutti sappiamo l'ager publicus era costituito da tutte quelle terre frutto delle conquiste dell'esercito romano; il Senato assegnava parte di questi territori dietro adeguato compenso e le assegnazioni di fondi agrari erano aperte a tutti i cittadini romani. In realtà con il passare del tempo questa regola degenerò e i nobili si impossessarono di gran parte delle terre pubbliche a danno della popolazione meno abbiente; inoltre, contravvenendo alle disposizioni originarie che prevedevano il semplice possesso delle terre, gli aristocratici considerarono i fondi agrari ottenuti come una vera e propria proprietà privata. Le proposte avanzate da Tiberio Gracco nella sua riforma agraria tendevano ad eliminare questa situazione ingiusta e ad instaurare un nuovo regime di controllo e di ripartizione dei terreni destinati all'agricoltura. Tiberio stabilì innanzitutto che tutti i terreni dell'ager publicus usurpati e resi privati venissero restituiti all'amministratore della repubblica; fissò un limite al possesso individuale di terreno, quantificabile in 500 iugeri a testa (circa 125 ettari) e aumentabile di 250 iugeri per ogni figlio, sino ad un massimo di 1.000 iugeri; ordinò che i terreni così recuperati venissero suddivisi in lotti da 30 iugeri l'uno e assegnati ai cittadini meno abbienti contro versamento di un canone d'affitto minimo. Per l'esecuzione di questa riforma i comizi tributi avrebbero dovuto eleggere una commissione di tre membri, incaricata di individuare i terreni dell'ager publicus non ancora restituiti, di suddividerli in lotti da 30 iugeri e di assegnarli ai cittadini considerati meno abbienti. La legge agraria proposta da Tiberio Gracco (conosciuta come Lex Sempronia) avrebbe leso notevolmente gli interessi della nobiltà senatoriale romana che, indispettita, si oppose tenacemente al progetto di Tiberio. Non potendo intervenire direttamente, essa si rivolse all'altro tribuno della plebe, Marco Ottavio, spingendolo a porre il veto sulla nuova legge. Di fronte a questa situazione, che pregiudicava l'approvazione della Lex Sempronia, Tiberio Gracco ricorse al principio della sovranità popolare e, con l'approvazione dei comizi tributi, fece deporre dalla carica di tribuno della plebe Marco Ottavio, accusandolo di agire contro gli interessi del popolo. Superato così l'ostacolo posto dal veto, la riforma agraria fu approvata e Tiberio, con suo fratello Caio e suo cognato Appio Claudio, fu eletto triumviro. Il contrasto fra il Senato e Tiberio Gracco diede origine ad una serie di controversie sociali ed assunse toni molto aspri nell'estate del 133 a causa di due nuovi fattori: l'eredità di Attalo e la ricandidatura di Tiberio. Il re di Pergamo, Attalo III, alla sua morte lasciò il regno in eredità alla repubblica romana e Tiberio, in quest'occasione, propose ai comizi tributi di utilizzare il tesoro del sovrano per finanziare la riforma agraria. Nello stesso anno, Tiberio avanzò la propria ricandidatura al tribunato per l'anno successivo. Questi due avvenimenti furono presi come pretesto dalla nobiltà senatoriale romana per scatenarsi contro l'avversario. Infatti Tiberio fu accusato di aver violato la costituzione romana, che riservava al Senato ogni decisione di politica estera, e quindi anche quelle riguardanti l'eredità di Attalo. Inoltre, la candidatura per due anni successivi, pur non andando contro una legge precisa, venne considerata in contrasto con le consuetudini della repubblica, verso le quali i Romani avevano sempre dimostrato un grande rispetto. Approfittando di questa situazione, in una riunione del Senato, il pontefice massimo Scipione Nasica fece approvare la sospensione delle leggi e l'istituzione di una specie di legge marziale; quindi, alla testa di una schiera di senatori, cavalieri e schiavi, irruppe sulla piazza del Campidoglio, dove si stavano svolgendo le elezioni per i comizi tributi, e trasformò l'assemblea in uno scontro mortale. Tiberio Gracco fu ucciso insieme a trecento suoi sostenitori. Il successo della nobiltà senatoriale sulla politica democratica di Tiberio Gracco non deve stupire: innanzitutto la riforma agraria proposta da Tiberio, pur essendo molto valida, giunse troppo tardi rispetto alla crisi del latifondo e così non diede i frutti sperati. In secondo luogo, essa incontrava il favore solo di poche decine di migliaia di contadini della penisola e non risolveva la molteplicità dei problemi di carattere sociale riguardanti le altre classi romane. Tiberio, durante la sua carica, non si occupò minimamente di altre questioni fondamentali, come quelle dell'amministrazione precaria delle province, della posizione subalterna dei cavalieri nell'ambito della vita politica romana, della situazione di miseria del sottoproletariato urbano e della difficile posizione di sudditi dei popoli italici. Non bisogna però a questo punto dimenticare che Tiberio, pur non avendo avuto una visione completa e profonda della situazione economico-sociale romana, ebbe un peso decisivo nella storia della repubblica perché per primo si oppose alla supremazia della nobiltà senatoriale e coraggiosamente cercò di ostacolarla.
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