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Storia Antica La Civiltà ROMANA

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Storia Antica La Civiltà ROMANA

 

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Storia Antica La Civiltà ROMANA

STORIA ANTICA - LA CIVILTÀ ROMANA

IL LAZIO ANTICO

Negli stessi anni in cui la civiltà etrusca giungeva a piena maturità, nel territorio costiero pianeggiante in prossimità del fiume Tevere nasceva e acquistava coscienza di sé la civiltà dei popoli latini. Le loro terre, denominate Latium vetus (e cioè «Lazio antico»), comprendevano la grande pianura che dal basso Tevere si apriva a meridione, le Paludi Pontine, il promontorio del Circeo, i Colli Albani e, in generale, tutta la zona compresa fra il Tevere e il Golfo di Terracina. I Latini, prima della nascita dei primi nuclei cittadini, vivevano in piccole comunità rurali, disseminate nella vasta regione e facenti capo, talvolta, ad un villaggio. I villaggi, nonostante avessero linguaggi e usanze simili, mantenevano ognuno la propria autonomia e il proprio territorio su cui praticavano le attività economiche di sostentamento (agricoltura e pastorizia). Tra il X e l'VIII secolo a.C., un villaggio in particolare assunse un ruolo determinante all'interno della comunità latina: Alba. Secondo quanto narra Plinio il Vecchio, durante questo periodo sui Colli Albani esistevano ben trenta popoli albensi. La comunità di Alba rappresentava così il primo vero e proprio insediamento umano di una certa importanza. Nelle lingue preindoeuropee il nome Alba era legato al concetto di «altura», tant'è vero che anche il Tevere in un primo tempo fu chiamato Albula, ovvero «fiume tra i monti». Le origini della città di Roma tuttavia sono ancora legate alla tradizione: le ricerche archeologiche hanno dimostrato l'esistenza di un insediamento già nel XIV secolo a.C., in piena Età del Bronzo, ma nonostante questo non si hanno prove sicure sul come sia nata la città. Il luogo prescelto dimostra che sin da allora fu compresa l'importanza strategica di quel punto; in prossimità del Palatino, ed esattamente di fronte all'isola Tiberina, il guado del fiume era facilitato e da lì si poteva avere un controllo della via fluviale sino al mare.

Trapani L'Italia nei primi anni della fondazione di Roma

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LA LEGGENDA DELLA FONDAZIONE

La tradizione narra che Enea, sfuggito all'incendio di Troia, approdò dopo sette anni di navigazione sulle coste del Lazio e fu accolto ospitalmente dal re Latino, che gli diede in moglie la propria figlia Lavinia. Alla morte di Enea, il figlio Ascanio fondò sui Colli Albani una nuova città, Alba Longa, sulla quale regnarono ereditariamente diciannove suoi discendenti. L'ultimo di questi re, Numitore, fu spodestato dal fratello Amulio che, per assicurare ai suoi discendenti il trono, costrinse l'unica figlia di Numitore, Rea Silvia, a farsi sacerdotessa di Vesta. Rea Silvia sposò segretamente il dio Marte e da questi ebbe due gemelli: Romolo e Remo. Re Amulio, venuto a conoscenza del fatto, fece seppellire viva Rea Silvia e ordinò che i due gemelli fossero gettati nel Tevere. Tuttavia la nutrice a cui furono affidati, non potendo contraddire gli ordini del re, mise i due neonati in una cesta, che adagiò nelle acque del fiume. La cesta che conteneva i due bambini, trasportata a riva dalla corrente, fu ritrovata da una lupa che, visti i gemelli, li svezzò e nutrì con il proprio latte. Più tardi Romolo e Remo furono adottati dal pastore Faustolo, che li allevò come se fossero suoi figli. Diventati adulti e conosciuta la loro origine, Romolo e Remo alla guida di un gruppo di pastori armati assassinarono re Amulio e rielessero il vecchio Numitore, il quale per riconoscenza concesse loro di fondare una città. Per stabilire quale dei due fratelli dovesse tracciare il primo solco e dare il nome alla città, consultarono il volo degli uccelli: Remo dal colle Aventino vide sei avvoltoi, mentre Romolo dal Palatino ne vide dodici. Toccò quindi a Romolo tracciare il perimetro della città: dopo aver fatto un sacrificio agli dei e aver gettato nel solco un pugno di terra di Alba Longa egli innalzò un altare e vi accese un fuoco sacro. Remo, che fu sorpreso a saltare il solco per scherno, fu ucciso dal fratello, o da un suo luogotenente chiamato Celere. La leggenda ci fornisce anche la data precisa della fondazione di Roma, e cioè il 21 aprile dell'anno 753 a.C. Romolo naturalmente fu eletto primo re di Roma e furono invitati uomini dai territori circostanti per accrescere la popolazione della nuova città. Nonostante l'afflusso di molte persone, Romolo si rese conto che le donne erano un'esigua minoranza; decise allora di invitare i popoli vicini ad assistere a solenni giochi in onore del dio Nettuno e, durante lo spettacolo, fece rapire le figlie dei Sabini, popolo confinante. Il ratto causò una guerra fra Romani e Sabini che si concluse solo con l'intervento delle donne sabine, le quali riuscirono ad unire i contendenti in un patto di comune cittadinanza. Di fronte a queste due leggende (quella di Romolo e quella del Ratto delle Sabine) la critica storica si è sempre mostrata piuttosto perplessa; nonostante ciò si può sottolineare la validità sostanziale di queste storie. Infatti negli anni indicati dal racconto leggendario vi fu effettivamente un salto qualitativo nei territori corrispondenti agli insediamenti abitati del Lazio e sul suolo di Roma in particolare. Questo sviluppo naturalmente non si verificò all'improvviso, ma fu il frutto della maturazione di quei popoli, grazie anche ad altri due fattori: il fiorire della civiltà villanoviana, con la premessa della nascita delle grandi città etrusche, e l'arrivo dei Greci in occidente in cerca di terre per fondare colonie. Già a quell'epoca i villaggi sparsi intorno al guado del fiume Tevere dimostrarono di intuire la fondamentale importanza della loro posizione di passaggio e del particolare momento storico caratterizzato da numerose trasformazioni. La nascita delle città, tra cui Roma, coincise inoltre con un aumento della potenzialità agricola e con lo sviluppo delle attività artigianali e commerciali che, in un secondo tempo, costituirono la base per la nascita del centro commerciale urbano.

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I SETTE RE

La tradizione ci parla di sette re che avrebbero regnato nella città di Roma dalla sua fondazione sino all'instaurazione della Repubblica, per un arco di tempo quindi di duecentocinquant'anni. Il primo di questi re fu naturalmente Romolo che, oltre ad aver fondato la città, condusse alcune guerre contro il popolo dei Sabini conclusesi con un patto di alleanza che prevedeva l'associazione al trono dei due re. Il popolo dei Sabini contribuì in modo decisivo alla costituzione del nucleo originario della città. Il secondo re fu Numa Pompilio: di origine sabina, si distinse per l'introduzione delle prime istituzioni religiose. Egli stesso emanò delle norme religiose, fondò dei collegi sacerdotali, fece costruire alcuni templi in onore delle divinità e introdusse nella civiltà romana il primo calendario. Il successore di Numa Pompilio fu il romano Tullo Ostilio, cui vengono attribuite le prime guerre di conquista. La più importante fu quella contro Alba Longa, che venne risolta dal leggendario scontro fra i tre fratelli romani Orazi e i tre fratelli albani Curiazi, scesi in campo in rappresentanza delle due rispettive comunità. Nei decenni successivi alla seconda metà del VII secolo a.C. la città di Roma visse un momento di particolare importanza e di grande sviluppo sotto la guida del re sabino Anco Marzio. Questo valido regnante si dedicò sostanzialmente ad opere di pace, sviluppando e migliorando le opere pubbliche. Sotto il suo governo fu costruito il primo ponte stabile sul Tevere, che comportò la conseguente occupazione della riva destra del fiume, sino ad allora territorio etrusco. Inoltre Anco Marzio fondò il primo porto sulle foci del Tevere, sul luogo dove oggi sorge la città di Ostia: la conquista di uno sbocco sul mare fu senza dubbio un'operazione positiva vista l'importanza dei traffici marittimi in quell'epoca. Nel VII secolo, e più precisamente nel 616 a.C., la civiltà romana subì il predominio degli Etruschi che, interessati al controllo della posizione strategica della città di Roma, imposero la loro sovranità. Quando parliamo di predominio etrusco, non bisogna pensare semplicisticamente che Roma sia stata occupata dalle truppe etrusche o che sia diventata una loro città: il mondo etrusco era troppo diviso per poter agire in perfetto accordo con tutte le sue parti, quindi l'occupazione di Roma fu probabilmente condotta da avventurieri che agivano a titolo personale o al massimo rappresentavano la propria città (come nel caso di Tarquinio Prisco, proveniente da Tarquinia). Il primo re etrusco, Tarquinio Prisco, non si impose come un sovrano straniero e governò con molta saggezza e buon senso combattendo vittoriosamente contro i nemici esterni ed arricchendo la città con importanti opere pubbliche. Durante il suo governo furono bonificate le valli paludose della città, fu costruita la Cloaca Maxima, fu creato un punto di incontro pubblico, il Foro, fu organizzata l'acropoli (il Campidoglio) e cominciarono i lavori per la realizzazione del Circo Massimo e del Tempio Capitolino. Dopo la morte di Tarquinio Prisco, assassinato dai figli di Anco Marzio, il potere fu conquistato da Servio Tullio, un condottiero etrusco molto vicino al re ucciso. Durante il suo regno la supremazia di Roma si rafforzò notevolmente e furono intraprese importanti iniziative politico-istituzionali. Ispirato probabilmente dalla costituzione di Solone, Servio Tullio ristrutturò la società romana, introducendo importanti riforme: organizzò la popolazione in comizi centuriati aventi lo scopo di attribuire la pienezza dei diritti politici a tutti i cittadini; divise la città in quattro regioni amministrative (Palatina, Esquilina, Suburana e Collina) che segnarono il superamento dell'antica ripartizione della popolazione in base a principi gentilizi; fece costruire intorno alla città un sistema di fortificazioni (le mura serviane) che abbracciava una superficie di 400 ettari; ed infine fece cominciare i lavori per la realizzazione sul Campidoglio del tempio a Giove Capitolino, il più grande ed importante monumento etrusco a noi noto. L'ultimo re, Tarquinio il Superbo, che salì al trono dopo aver ucciso lo stesso Servio Tullio, regnò imitando i regimi tirannici greci, che in quegli anni stavano moltiplicandosi, e si rese odioso al popolo. L'indebolimento del potere etrusco e il contemporaneo sviluppo economico delle classi aristocratiche romane comportarono un sempre maggior allontanamento dei due popoli e il crescere del malcontento popolare. Nel 509 a.C. questo malcontento si trasformò in rivolta: il popolo, capeggiato da Lucio Collatino e Giunio Bruto, si ribellò agli abusi del re etrusco e, dopo averlo cacciato, decretò la fine della monarchia e la nascita della repubblica. Il passaggio dalla monarchia alla repubblica non fu comunque frutto di una semplice rivolta ma il risultato di una graduale evoluzione dell'ordinamento politico primitivo di Roma. Infatti, man mano che lo Stato si ingrandiva e che il patriziato acquistava coscienza della propria forza, il potere monarchico era soggetto ad un controllo del suo operato sempre maggiore, che causò la perdita di una parte dei poteri originariamente attribuiti al re. Non bisogna infatti sottovalutare il fatto che il re doveva rispondere del suo operato al Senato, composto da patrizi, il quale aveva un'autorità abbastanza ampia. La figura del re comunque non scomparve del tutto, ed anche nell'età repubblicana esisteva un rex sacrificulus o rex sacrorum, che assolveva a funzioni esclusivamente religiose ed era ormai privo di ogni attribuzione politica.

Trapani La costituzione romana al tempo della Monarchia

Trapani Diritti civili e politici dei patrizi

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L'ORDINAMENTO REPUBBLICANO

La repubblica (da res publica e cioè «cosa di tutti») era retta in origine da tre organi: il Comizio, il Senato e i due consoli. Il Comizio consisteva in un'assemblea popolare e aveva il compito di eleggere i due magistrati-consoli e di approvare le leggi da essi proposte. Il Senato era senza dubbio l'organo più importante e rappresentativo, in quanto era l'assemblea dei capi del popolo, cioè dei rappresentanti della comunità: esso aveva il compito di assistere i consoli nell'esercizio dei loro poteri e aveva la capacità di approvare o respingere le loro deliberazioni. I due consoli, eletti dall'assemblea popolare, esercitavano il potere esecutivo e giudiziario in Roma e il potere militare in caso di guerra. La decisione di eleggere due consoli fu presa per tutelare la società dal pericolo di eventuali usurpazioni di potere; la collegialità della carica comportava il reciproco controllo e aiuto dei consoli. Questi, che in sostanza avevano tutte le funzioni che in passato erano state attribuite al re, governavano un mese ciascuno e rimanevano in carica per un solo anno. Quando apparivano in pubblico erano sempre preceduti da dodici littori portanti un fascio di verghe di olmo, simbolo dell'autorità consolare; se il console era nel suo mese di governo, i fasci erano sormontati da una scure, per indicare che egli poteva pronunziare sentenze di morte. In caso di estremo pericolo per la repubblica i due consoli potevano essere sostituiti da un dittatore. Il regime di dittatura rappresentava per il popolo romano una specie di magistratura straordinaria e non aveva assolutamente il significato che attribuiamo noi oggi a questa forma di governo. I due consoli nell'esercizio delle loro funzioni erano naturalmente aiutati da una serie di collaboratori: da tribuni militari nel comando dell'esercito; da questori e da giudici nell'amministrazione della giustizia. I primi due consoli della storia della repubblica romana furono Lucio Collatino e Giunio Bruto, ovvero gli autori dell'insurrezione popolare che portò alla cacciata dei Tarquini e alla caduta della monarchia. Con il passare del tempo il Senato si rese conto della necessità di istituire nuove magistrature per assolvere alle crescenti esigenze della pubblica amministrazione e per assicurare un servizio più efficiente. Fra queste ricordiamo: la Pretura, la Censura, la Questura e l'Edilità. I pretori avevano il compito di amministrare la giustizia, limitatamente ai delitti per i quali non era stabilita la pena di morte, la cui applicazione spettava ai consoli e al Comizio. I pretori erano due, uno detto «urbano» e l'altro «peregrino»: il primo si occupava delle cause fra i cittadini romani, mentre il secondo delle cause fra Romani e stranieri. I censori avevano l'incarico di tenere aggiornati i registri dello stato civile, cioè delle nascite, dei matrimoni, delle morti e del censo; inoltre riscuotevano le imposte, stabilivano il servizio militare, vigilavano sui costumi di tutti i cittadini (compresi i magistrati), rivedevano ogni cinque anni l'elenco dei membri del Senato ed avevano la facoltà di espellere i senatori reputati indegni. I questori curavano l'amministrazione pubblica dell'erario e custodivano le chiavi del tesoro. Gli edili avevano in appalto la cura delle strade, delle piazze e degli esercizi pubblici; inoltre sorvegliavano il traffico, i trasporti, il mercato e l'ordine pubblico. Tutte queste magistrature erano elettive, di durata temporanea, collegiali e gratuite, cioè non era previsto un compenso per la prestazione di questi servizi.

Trapani Schema dell'ordinamento repubblicano

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GLI SCONTRI DEL V SECOLO

Nel V secolo a.C. la giovane repubblica romana dovette affrontare una serie di scontri con alcune popolazioni confinanti: prima fra tutte quella degli Etruschi che, dopo la cacciata dei Tarquini, intendeva riaffermare la propria influenza su Roma. Il primo tentativo etrusco di tornare in Roma ci è stato narrato attraverso la leggenda di Porsenna, lucumone di Chiusi. Porsenna fu allontanato da Roma per merito di Orazio Coclite, di Muzio Scevola e della giovane Clelia, le cui leggendarie gesta furono tramandate come esempio di alto eroismo. Orazio Coclite, cui era stato affidato il comando del presidio a difesa del ponte Sublicio, riuscì a fermare da solo l'avanzata degli Etruschi, mentre i suoi compagni si occupavano del crollo del ponte. Poi, gettatosi nel Tevere, raggiunse incolume l'altra sponda lasciandosi alle spalle i nemici. Caio Muzio penetrò travestito da guerriero etrusco nell'accampamento nemico, che aveva posto l'assedio a Roma, con il preciso intento di uccidere Porsenna. Erroneamente però uccise un suo segretario e fu catturato e portato da Porsenna, di fronte al quale egli pose la mano destra sopra un braciere ardente per punirla dell'errore compiuto. Porsenna, ammirato da tanto coraggio, liberò Caio Muzio (che da allora fu soprannominato Scevola, cioè «mancino»), stabilì una tregua con i Romani e si fece consegnare dieci ragazze e dieci ragazzi in ostaggio. La giovane Clelia, che guidava un gruppo di ostaggi, riuscì a sfuggire alla sorveglianza delle guardie e rientrò con tutto il gruppo in Roma. La leggenda narra che i Romani a questo punto, non volendo mancare di parola, riconsegnarono gli ostaggi a Porsenna il quale, stupito da tanta lealtà, stipulò la pace e tornò a Chiusi. Come si può notare, tutto il racconto è stato abbellito in modo oltremodo lusinghiero per i Romani, ma gli episodi nascondono una ben più dura realtà: la temporanea occupazione della città da parte di Porsenna. Si tratta solo di una supposizione, non è ancora documentata con prove inconfutabili: ad ogni modo l'allontanamento degli Etruschi è una realtà e dobbiamo supporre che i Romani si siano battuti con estremo eroismo e valore. La fine dell'influenza etrusca permise ai Romani un periodo di pace che fu molto utile per la vita commerciale della città: risale infatti a questo periodo la stipulazione di un accordo commerciale con la città di Cartagine. Nel frattempo i Latini, preoccupati dall'espansionismo romano, crearono una Lega Latina tra le maggiori città (Tuscolo, Lanuvio, Pomezia e Tivoli), con il preciso fine di contrastare lo sviluppo della repubblica. Lo scontro diretto fra Roma e la Lega si verificò nel 499 a.C. con la battaglia del lago Regillo, che si concluse con una vittoria romana. Nel 493 a.C. comunque i due popoli stipularono un patto di amicizia, il foedus Cassianum, secondo il quale i due contraenti erano obbligati al reciproco aiuto in caso di un attacco proveniente dall'esterno. L'alleanza con i Latini risultò di molto aiuto per i Romani che, proprio in quel periodo, stavano assistendo alla pericolosa crescita della città etrusca di Veio; mentre un secondo pericolo era costituito dalle scorrerie degli Equi e dei Volsci, due popoli abbastanza arretrati che dalle montagne del Lazio minacciavano gli abitanti delle città della pianura. Per assoggettare questi popoli, Roma dovette intraprendere una lunga serie di guerre, durate con alterne vicende per quasi un secolo e conclusesi con l'unificazione di tutto il territorio del Lazio sotto il dominio romano. La città di Veio, situata ad una ventina di chilometri da Roma e rappresentante il massimo centro etrusco nel Lazio, fu definitivamente sconfitta nel 396 a.C. dopo un assedio durato dieci anni. Durante questi anni l'esercito romano si scontrò anche con gli Equi e con i Volsci. Durante la guerra contro gli Equi, l'esercito romano fu accerchiato e cadde in mano al nemico: la leggenda narra che a questo punto il Senato elesse come dittatore Cincinnato il quale, giunto di soppiatto alle spalle degli Equi, inflisse loro una terribile sconfitta. Una volta costretti gli Equi alla resa, Cincinnato depose la dittatura e tornò a dedicarsi alla coltivazione del suo campo. Questa leggenda celebra, attraverso la figura di Cincinnato, la semplicità e la modestia contadina che allora erano considerate le tipiche virtù del perfetto romano: soldato e contadino insieme. Le lotte contro gli Equi e i Volsci si conclusero solo nel 430 a.C. Stabilito l'ordine, il Senato della repubblica decise di fondare delle colonie, abitate da Romani, sul territorio dei pericolosi vicini, al fine di prevenire un eventuale ritorno offensivo. Queste città, che in un primo tempo avevano un compito di diretto controllo, finirono con il facilitare il processo di fusione e di avvicinamento dei popoli. All'inizio del IV secolo a.C. quindi la situazione di Roma è senza dubbio favorevole: il suo dominio copre una superficie di quasi 25.000 kmq e i Latini, suoi alleati, ne controllano altrettanti. La civiltà romana incomincia ad essere una realtà, e da città più importante del Lazio Roma diviene la maggiore dell'Italia centrale. Ma il V secolo, congiuntamente alle operazioni militari sopracitate, porta anche una serie di complicazioni a livello sociale. I plebei, da sempre esclusi dalla vita politica, cominciano a rivendicare i propri diritti e a far valere le proprie ragioni.

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I PLEBEI

Come abbiamo già accennato, la nascita della repubblica fu merito dei patrizi, cioè della classe dei maggiori possidenti terrieri, che, dopo aver allontanato i re etruschi, avevano organizzato la città di Roma in modo, secondo il loro punto di vista, più democratico. Così l'aristocrazia romana si assicurò l'esercizio incontrastato del potere politico, in quanto solo i patrizi potevano accedere alle alte magistrature, al Senato e alle cariche sacerdotali. Essi inoltre poterono contare sul fatto che le leggi non erano scritte ma tramandate oralmente e quindi facilmente interpretabili a proprio vantaggio dai giudici, anch'essi di origine aristocratica. Il tradizionale divieto di celebrare matrimoni misti tra patrizi e plebei, aggravava il distacco fra i due gruppi di cittadini. Gli eventi militari del V secolo accentuarono il malcontento dei plebei; essi infatti erano obbligati a far parte dell'esercito, benché i territori conquistati andassero tutti nelle mani della classe dei patrizi. Inoltre gli eventi bellici provocarono una crisi dell'economia romana e soprattutto dei commerci, unica fonte di guadagno dei plebei commercianti e artigiani. Non è infatti corretto pensare ad una plebe necessariamente povera: questa classe sociale era composta da tutte quelle persone che non erano grandi possidenti terrieri (i patrizi). Erano plebei quindi i piccoli possidenti, gli agricoltori, i commercianti e gli artigiani; e come tutti sappiamo, a quell'epoca i commerci erano notevolmente sviluppati e molti uomini dedicandosi a queste attività avevano racimolato delle fortune, meritandosi il titolo di benestanti. Le lotte interne del V secolo avevano quindi un fine non economico ma politico: cioè i plebei non chiedevano di poter guadagnare di più o di poter migliorare il proprio stile di vita, ma rivendicavano il loro diritto civile di partecipazione alla vita politica dello Stato. Il metodo di lotta adottato dalla plebe, guidata dai plebei benestanti, fu quello della secessione, cioè dell'abbandono in massa della città allo scopo di costringere i patrizi alle concessioni di carattere giudiziario ritenute indispensabili. Il primo esodo di massa si verificò nel 494 (durante la guerra contro i Volsci), quando i plebei per protesta si ritirarono sul Monte Sacro (e nel 471 sull'Aventino) con l'intenzione di fondare una nuova città abitata solo da plebei. Il Senato, preoccupato da questa situazione che comportava la perdita di un gran numero di braccia atte al lavoro e alla difesa della patria, inviò sul Monte Sacro il patrizio Menenio Agrippa, uomo benvoluto da tutti per la sua generosità, in veste di ambasciatore. In quest'occasione Menenio Agrippa pronunciò il famoso apologo delle membra del corpo umano: paragonando i patrizi allo stomaco e i plebei alle braccia, egli sostenne che i due gruppi non potevano vivere separati, ma dovevano essere necessariamente uniti per il comune interesse. Dopo l'intervento di Menenio Agrippa, la plebe accettò di rientrare in città in cambio di una serie di concessioni stabilite da un accordo, detto Legge Macra, con i patrizi. In occasione della secessione sul Monte Sacro, il popolo si era dato dei rappresentanti, chiamati «tribuni della plebe», che con la Legge Macra vennero riconosciuti ufficialmente come magistrati veri e propri. La legge stabilì inoltre che le due assemblee potevano prendere delle decisioni, dette «plebisciti», e deliberare su problemi riguardanti sia gli interessi specifici della plebe, sia quelli più generali dello Stato. Ma la conquista più importante fu la facoltà dell'«intercessio» ottenuta dai tribuni della plebe.

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Questi magistrati popolari, la cui persona fu riconosciuta sacra e inviolabile, potevano partecipare alle riunioni del Senato ed avevano la facoltà di interrompere l'attività di un magistrato o di un'assemblea imponendo il veto alle deliberazioni ritenute dannose agli interessi della plebe. La seconda importante vittoria della plebe fu ottenuta nel 451 a.C., quando essa riuscì ad imporre la codificazione scritta delle leggi, che sino a quel momento erano state tramandate oralmente. I patrizi, che dapprima si erano opposti alla proposta dei tribuni, furono costretti a cedere e acconsentirono che si mandasse una commissione di tre membri ad Atene per studiare le leggi scritte da Solone nel 594 a.C. Tra il 451 e il 450, dopo aver sospeso tutte le magistrature, un collegio di dieci uomini, chiamato «decemvirato», provvide a raccogliere le leggi romane e a riassumerle in forma scritta. Il testo redatto dal decemvirato fu inciso su dodici tavole di bronzo ed esposto al pubblico in modo che tutti ne potessero prendere diretta conoscenza e che i patrizi non potessero più approfittare dell'ignoranza popolare. Ma non si pensi alla legge delle XII Tavole come ad un progresso in campo giuridico o comunque civile: le leggi riscritte erano pressoché identiche a quelle già esistenti e rispecchiavano la condizione economica e sociale di una Roma molto rozza e primitiva, ispirata all'eccessiva severità caratteristica degli ordinamenti arcaici. Per fare esempi, le XII Tavole affermavano il diritto assoluto del pater familias di disporre della vita della moglie e dei figli; veniva riconosciuto il diritto di uccidere un ladro sorpreso sul fatto; era ribadito il divieto di celebrare matrimoni misti fra patrizi e plebei. Circa il trattamento di un debitore, il codice disponeva che, trascorsi trenta giorni dal riconoscimento del debito, l'insolvente poteva essere incatenato e tenuto prigioniero per sessanta giorni, con l'obbligo da parte del creditore di condurlo davanti al pretore per dar la possibilità ai suoi amici di garantire per lui. Se al termine dei sessanta giorni nessuno garantiva, il debitore poteva essere venduto come schiavo oppure ucciso. Esisteva anche una norma che prevedeva, nel caso il debitore fosse scoperto con più persone, la spartizione del cadavere fra tutti i creditori. L'ultima norma su cui vorremmo puntare l'attenzione è la seguente: «Se qualcuno avrà rotto un osso a qualcun altro, se con quest'ultimo non troverà una via d'accordo, valga la legge del taglione». Il mantenimento della legge del taglione (occhio per occhio, dente per dente) fu imposto dalla classe aristocratica che, durante la stipulazione delle XII Tavole, si dimostrò ben ancorata alle più arcaiche e primitive tradizioni. Ma l'uguaglianza civile e politica non tardò ad arrivare: nel 445, con l'approvazione della Legge Canuleia, fu abolito l'ormai antico divieto di matrimonio fra patrizi e plebei, facilitando in questo modo la fusione fra le due classi. Nello stesso periodo i plebei ottennero anche il diritto di accedere ad alcune magistrature. Così, grazie a questi progressi, molti uomini plebei cominciarono, nei primi decenni del IV secolo, a comparire nell'elenco dei magistrati romani, portando le esigenze dei meno abbienti nella massima assemblea. Il clima di tensione interna portò nel 367 a.C. all'approvazione delle Leggi Licinie-Sestie, dal nome dei tribuni che le proposero: Licinio Stolone e Lucio Sestio. Queste leggi portarono importanti novità nell'ordinamento romano: innanzitutto stabilivano che uno dei due consoli potesse essere plebeo. Venne inoltre attribuita parte delle funzioni dei consoli agli edili curuli che, assieme agli edili scelti dai plebei, svolgevano le funzioni di polizia urbana. Anche i censori assunsero nuove mansioni: mentre in passato si occupavano del censo dei cittadini, ora appaltavano ai privati le terre dello Stato e i lavori pubblici. I censori inoltre ebbero la possibilità di colpire i cittadini dalla condotta privata deplorevole, con una nota di demerito che precludeva la candidatura alle cariche pubbliche. Le Leggi Licinie-Sestie inoltre difesero i debitori dagli alti tassi di interesse imposti dai creditori: vennero infatti cancellati i vecchi crediti, calcolando le somme versate per gli interessi come parti di capitale restituito. Ma il provvedimento più importante fu la limitazione della distribuzione ai privati dell'ager publicus, cioè del terreno dello Stato.

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Queste terre infatti, frutto delle numerose conquiste, venivano assegnate in affitto, dietro minimo compenso, ai privati cittadini. Con il passare degli anni, questa situazione comportò la concentrazione della proprietà terriera nelle mani dei plebei benestanti che, dedicandosi al commercio, disponevano di denaro liquido. Questo monopolio, oltreché minacciare il primato economico degli stessi patrizi, finì con l'ostacolare le già misere possibilità dei plebei di modesta condizione. Le Leggi Licinie-Sestie, in definitiva, mirarono all'eliminazione totale di tutte le differenze gentilizie originarie e crearono, volontariamente o meno, una gerarchia censitaria. Questa nuova gerarchia, basata sul patrimonio, fu confermata dall'importanza che assunsero i comizi centuriati. I comizi centuriati erano delle suddivisioni in classi basate esclusivamente sul patrimonio: essi nacquero come un'istituzione della repubblica e furono voluti dai patrizi, che in questo modo pensarono di scaricare sui plebei parte delle spese e degli oneri derivanti dalle campagne di guerra. Tuttavia, grazie a questi organi, i plebei entrarono di diritto nella vita cittadina e poterono far sentire la loro voce. Il funzionamento dei comizi centuriati era molto semplice: la popolazione romana fu suddivisa in cinque classi, ognuna delle quali doveva fornire all'esercito un certo numero di centurie. La prima classe, ad esempio, quella dei più ricchi, doveva fornire 18 centurie di cavalieri e 80 centurie di fanteria pesante e così via, sino alla quinta classe che aveva l'onere di fornire solo 30 centurie di frombolieri e arcieri. L'importanza di questi comizi era soprattutto di tipo politico: infatti, poiché le votazioni avvenivano per centuria e il numero delle centurie della prima classe era superiore al numero di tutte le altre classi prese assieme, il voto dei patrizi e dei plebei ricchi aveva un peso assolutamente predominante per la formazione della maggioranza. Con la comparsa dei comizi centuriati, quindi, la repubblica patrizia andò scomparendo e in suo luogo si affermò una nuova repubblica di tipo oligarchico in cui, alla superata contrapposizione fra patrizi e plebei, si sostituì la contrapposizione fra ricchi e poveri. La riforma apportò un'altra importante modifica: la popolazione romana, prima divisa in gruppi gentilizi, venne suddivisa in tribù territoriali (4 urbane e 17 suburbane), che raccoglievano i cittadini non secondo la loro stirpe o la loro famiglia, ma secondo il luogo di domicilio. Tale suddivisione contribuì anch'essa ad attenuare le antiche differenze nobiliari tra individui e gruppi diversi.

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I GALLI

Nel IV secolo a.C. la città di Roma, che ormai aveva assunto un'importanza crescente nell'Italia centrale, dovette affrontare una nuova minaccia. I Galli, di stirpe celtica, scesero dai loro territori (quelli dell'attuale Francia) verso il sud e, dopo aver attraversato le Alpi, giunsero nella Pianura Padana. Da qui mossero verso l'Italia centrale, mettendo a ferro e fuoco borgate e città. Durante una di queste scorrerie raggiunsero la città di Chiusi e, dopo aver vanamente tentato l'assedio, si diressero verso Roma, colpevole di aver preso le difese della città etrusca. I Romani, decisi a fermare l'avanzata straniera, affrontarono i Galli in prossimità del fiume Allia e, colti di sorpresa dall'irruenza dei barbari, furono clamorosamente sconfitti (390 a.C.). La popolazione romana abbandonò la città e si rifugiò nella vicina Veio, mentre un gruppo di uomini armati rimase a difendere il Campidoglio. Roma fu così saccheggiata e distrutta dai Galli, che si allontanarono dalla città solo dopo aver ottenuto un forte riscatto in oro. La tradizione romana ha cercato di nascondere la grave sconfitta, inventando una serie di episodi atti a far risaltare il coraggio e l'amore per la patria dei cittadini. In realtà la sconfitta fu molto grave, tanto che molti proposero di abbandonare la città di Roma e di trasferirsi in massa a Veio, dove ricostruire l'antica fortezza. Ma il console Camillo si oppose e la città fu ricostruita in breve tempo più bella e fiorente di prima. Secondo le leggende romane i Galli, dopo aver raso al suolo la città, tentarono un attacco di sorpresa al Campidoglio. Qui, le famose oche del Campidoglio, sacre a Giunone, diedero l'allarme e le guardie eroicamente riuscirono a respingere il nemico. Dopo sette mesi di assedio i due popoli vennero a patti: i Galli si impegnarono ad abbandonare la città in cambio di mille libbre d'oro. Ma mentre si pesava il prezzo del riscatto, i Romani si accorsero che le bilance erano alterate e protestarono. A questo punto Brenno, capo dei Galli, gettò la sua spada sul piatto e gridò la famosa frase «Guai ai vinti!». La leggenda narra che in quel momento sopraggiunse Camillo, con un esercito composto dai superstiti di Allia, il quale gridò a sua volta «Col ferro e non con l'oro si riscatta Roma!». Quindi assalì con impeto gli invasori e li sgominò. Come abbiamo detto, la leggenda romana ha stravolto completamente la realtà storica e ha coperto una grave sconfitta con il racconto di gesta epiche e la celebrazione di uomini eroici disposti a tutto pur di difendere la propria patria. Ma lo scacco subito dai Romani diede avvio ad una serie di rivolte da parte delle popolazioni confinanti, stanche del predominio di Roma. La prima metà del IV secolo fu così caratterizzata da una serie di guerre intestine fra Romani ed Etruschi, Equi, Volsci e Latini. La città di Roma comunque riuscì a riconquistare il predominio sull'Italia centrale, dimostrando di avere superato rapidamente e brillantemente il difficile momento attraversato durante l'invasione dei Galli.

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I SANNITI

Nel 354 a.C. i Romani, per premunirsi contro la crescente ostilità del popolo dei Latini, si allearono con i Sanniti: un popolo barbaro e forte stanziato nel Sannio, ovvero nella regione montuosa dell'entroterra campano. Questi nuovi alleati si dimostrarono però molto scomodi in quanto, spinti dalla povertà, miravano a scendere nella pianura campana, ricca di risorse e sede delle prospere città di Capua e Teano. L'obiettivo di conquistare la pianura campana faceva parte anche dei programmi di Roma, così fu inevitabile la rottura del patto di alleanza. Ciò avvenne quando la città di Capua, minacciata dai Sanniti, chiese l'appoggio della repubblica romana che, malgrado il patto, non esitò a concederglielo. Ebbe così inizio la guerra sannitica che, in tre fasi, durò per circa mezzo secolo: dal 343 al 290 a.C. La prima guerra sannitica (343-341 a.C.) sostanzialmente non mutò di molto le cose. I Sanniti, preoccupati dall'offensiva condotta da Taranto contro i Lucani, e i Romani, minati dall'ostilità dei Latini e timorosi del malcontento diffuso tra le file dei legionari, giunsero ben presto ad un accordo che prevedeva l'abbandono da parte di entrambi della regione di Capua. La città di Capua, una volta perduta la protezione dei Romani, si rivolse ai Latini, i quali furono ben lieti di aiutarla e di entrare in conflitto con la repubblica. Cominciò così la cosiddetta guerra latina, che durò dal 340 al 338 a.C.. In quest'occasione i Romani dovettero impiegare tutte le forze disponibili per domare la ribellione, in quanto i Latini erano scesi in campo con un'organizzazione militare assolutamente competente e simile a quella di un grande regno. La ribellione, non senza problemi, fu domata soprattutto per merito dei due consoli in carica, che si distinsero per eroismo e patriottismo. Gli episodi riguardanti Manlio Torquato e Decio Mure si riferiscono alla battaglia svoltasi a occidente del Vesuvio e sono entrati a far parte della leggenda romana. Nel primo caso, il console Manlio Torquato fece giustiziare il figlio, che incautamente si era lasciato trascinare in uno scontro personale prima che il console stesso avesse dato il segnale di battaglia. L'altro console, Decio Mure, fu protagonista di un gesto eroico pagato con la vita: resosi conto che l'ala dell'esercito a lui affidata cominciava a vacillare, per incoraggiare i suoi soldati e intimorire quelli del nemico si lanciò con il suo cavallo contro il folto delle schiere latine, creando in questo modo un notevole scompiglio che favorì la vittoria romana. La guerra latina si concluse con un'ennesima vittoria di Roma, che seppe dimostrarsi molto saggia nell'amministrazione del successo: la Lega Latina venne sciolta e i consoli stabilirono dei patti con le singole città, alle quali fu proibita la creazione di una nuova lega autonoma. L'atteggiamento di Roma verso le singole città fu molto conciliante e per nulla vendicativo, tanto che le città disposte alla fusione divennero parte integrante dello Stato romano e i loro cittadini acquistarono la pienezza dei diritti civili e politici. Questa nuova politica di annessione procurò a Roma un'ampia fedeltà e alcune adesioni spontanee, tanto che la città poté disporre di riserve morali e materiali tali da poter affrontare i più disparati problemi senza mai perdere l'unità spirituale dello Stato. Nel 326 a.C. il contrasto fra Romani e Sanniti emerse nuovamente e diede il via alla seconda guerra sannitica che, con alterne vicende, si sarebbe protratta sino al 304 a.C. La causa di questo secondo scontro può essere attribuita ai Sanniti che, alleandosi con Napoli in una guerra contro Capua, contravvennero ai patti del 341.

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Roma si sentì così in diritto di intervenire in difesa di Capua e scendendo con il suo esercito occupò la città di Napoli. Questa seconda guerra rimase celebre per l'episodio delle Forche Caudine: l'esercito romano dopo aver occupato Napoli si addentrò imprudentemente fra le impervie montagne del Sannio, nel tentativo di raggiungere la roccaforte del nemico. Appena entrati nella stretta gola sulla via fra Capua e Benevento, detta appunto delle Forche Caudine, i Romani furono accerchiati e costretti, per non essere annientati, ad arrendersi ai Sanniti. L'esercito romano e i due consoli furono liberati solo dopo essere passati, disarmati, sotto un rudimentale giogo improvvisato con delle lance. Oltre a questa umiliazione i consoli furono costretti ad accettare una pace che imponeva ai Romani l'abbandono del Sannio. La tregua durò cinque anni, poi i Romani in cerca di una rivincita si ripresentarono sul campo di battaglia: dopo una parziale vittoria dei Sanniti a Lautule presso Terracina, i Romani riuscirono a respingere il nemico sulle montagne del Sannio ed arrivarono a minacciare la città di Boviano, capitale dei Sanniti. Nel 304 a.C. il popolo sannita fu costretto a chiedere la pace e, pur mantenendo intatto il dominio sul proprio territorio, vide gravemente compromesse le future possibilità politiche ed economiche. Nel 298 a.C. ebbe però inizio la terza guerra sannitica che sarebbe durata otto anni, sino al 290 a.C. La potenza raggiunta da Roma incominciava a preoccupare le popolazioni vicine, compresi i Galli stanziati sulla riviera adriatica e nella valle padana. Nacque così, sotto il comando dei Sanniti, una coalizione antiromana composta da numerosi popoli: gli Etruschi, i Galli, gli Umbri, i Marsi, i Lucani e i Sanniti. La guerra fu combattuta su diversi fronti, ma lo scontro culminante e decisivo avvenne a Sentino e fu soprannominato la battaglia delle nazioni per l'alto potenziale bellico schierato dalle due fazioni. Era l'anno 295 e l'esercito romano riuscì a sconfiggere e a distruggere parzialmente l'esercito della coalizione italica. Solo i Sanniti proseguirono gli scontri per altri cinque anni sino a che furono costretti a chiedere la pace, nel 290 a.C. I Romani, ordinati in vario modo i territori conquistati lungo la costa adriatica (dal Gargano alle Marche), riorganizzarono il loro dominio su tutta l'Italia centrale, dall'Adriatico al Tirreno. La nuova estensione della repubblica romana incominciò a preoccupare anche le colonie greche del Mezzogiorno, che iniziavano a intuire la potenzialità politico-militare dello stato nascente.

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PIRRO

L'organizzazione dello Stato romano, agli inizi del III secolo, risulta piuttosto complicata a causa dell'occasionalità con cui si susseguirono le conquiste. Inizialmente la politica romana fu impostata sul modello delle poleis greche e quindi intesa ad uno sviluppo da cittàstato. Ma nel giro di tre secoli, grazie anche a combinazioni fortuite, Roma era già padrona dell'Italia centrale, un territorio quindi troppo vasto da governare per una sola città. I consoli romani stipularono allora una serie di trattati con le varie città conquistate. Il sistema politico romano si organizzò così in quattro suddivisioni: la città di Roma, le colonie, i municipi e le città confederate. La città di Roma comprendeva il territorio dell'agro romano ed era abitata dai cittadini di diritto romano che godevano di tutti i diritti, sia civili che politici. Cittadini a pieno diritto erano anche quelli delle colonie di Luceria e Venosa. Ma il diritto politico era spesso più inteso in senso teorico che pratico, poiché le votazioni si svolgevano a Roma e solo lì si poteva esercitare il diritto di voto. Le colonie erano città fondate da Roma o dai suoi alleati ed avevano il diritto di «connubio e commercio» con la capitale. I cittadini delle colonie godevano del diritto di voto ma lo potevano esprimere solo recandosi a Roma. I municipi avevano un'autonomia amministrativa ristretta e i loro abitanti, pur beneficiando di diritti e doveri civili, erano esclusi dalla vita politica e quindi non potevano né votare né essere eletti come magistrati. Le città confederate erano legate a Roma da patti di alleanza che ne regolavano i rapporti. Tutte queste quattro realtà dovevano contribuire al sostentamento dello Stato pagando dei tributi e fornendo le legioni di soldati in caso di guerra. Fra le città federate faceva spicco Taranto, che era la più fiorente delle colonie greche dell'Italia meridionale. Il trattato fu stipulato dopo la seconda guerra sannitica, nel 303, e prevedeva la reciproca promessa di non belligeranza e limitava l'ingresso nel Mar Ionio ai Romani non oltre il Capo Lacinio. Il patto fu rotto per la prima volta dai Romani nel 285, quando un contingente romano intervenne in favore della città di Turii minacciata dai Bruzi e dai Lucani. Questo episodio guastò i rapporti fra Roma e Taranto e gettò le premesse per un conflitto armato. Nel 282 a.C. Roma inviò una squadra navale composta da 10 unità in assetto di pace che, dopo aver sorpassato il Capo Lacinio, puntò verso il porto di Taranto. Le intenzioni pacifiche romane furono però mal interpretate dai Tarantini, che reagirono affondando parte della piccola flotta e scacciando il contingente romano dalla città di Turii. Roma tentò una seconda volta la via pacifica, ma Taranto si dimostrò ostile e, non avendo un esercito proprio, contattò il celebre condottiero Pirro, re dell'Epiro. Pirro, che accettò volentieri l'invito con l'intenzione di estendere il proprio regno alla Magna Grecia e alla Sicilia, sbarcò con 30.000 uomini nel porto di Taranto nel 280 a.C.. I Romani, per evitare che Pirro ricevesse i rinforzi promessi dai Bruzi e dai Lucani, attaccarono subito il suo esercito a Eracle. La falange macedone di Pirro con i suoi elefanti (animali fino allora sconosciuti ai Romani) riuscì ad avere la meglio e respinse i legionari da Taranto. Le ostilità ripresero nel 279 con la battaglia di Ausculum (Ascoli di Puglia) che vide ancora una volta vittorioso il re dell'Epiro, pur con ingenti perdite. Pirro cambiò i suoi piani e propose a Roma una tregua perché intenzionato a dirigersi in Sicilia in sostegno delle città greche, minacciate da Cartagine. I Romani rifiutarono la proposta, sostenuti da Cartagine, mentre Pirro entrava in Sicilia ottenendo buoni successi. Nonostante le vittorie egli si rese conto dell'impossibilità della missione e abbandonò l'isola (276 a.C.). I Romani si scontrarono con la falange di Pirro presso Maleventum (l'attuale Benevento) ed ottennero una grande vittoria, che costrinse il re dell'Epiro a ritornare in patria e permise alla repubblica di Roma di ottenere il dominio sulla città di Taranto e sullo Ionio (272 a.C.). Grazie alle vicende politiche di questi anni, Roma allargò la propria area di influenza su quasi tutta la penisola: dal Rubicone sino allo Stretto di Messina. Si trattava naturalmente di un'unificazione più territoriale che politica, in quanto nell'organizzazione statale continuavano ad esistere i rapporti di dipendenza delle colonie, di alleanza e di sudditanza e non esisteva ancora il concetto di solidità imperiale che avrebbe caratterizzato la storia futura di Roma.

Trapani Modello tridimensionale di nave romana

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CARTAGINE

La città di Cartagine sorgeva sulla costa mediterranea dell'Africa, in prossimità dell'odierna Tunisi. Cartagine era stata fondata dai Fenici della città di Tiro verso la fine del IX secolo a.C. e col tempo aveva assunto l'autonomia politica. Retta da un'oligarchia mercantile, già da secoli controllava tutto il Mediterraneo centro-occidentale, grazie alle sue imponenti flotte e alla sua vasta egemonia che si estendeva dalla Libia sino alle colonne d'Ercole, comprendendo inoltre Sardegna, Corsica e Sicilia occidentale. Finché Roma rimase un piccolo Stato dell'entroterra italico fra le due potenze non vi furono ragioni di rivalità né contrasti d'interesse. Ma quando la repubblica romana si estese sino allo Stretto di Messina, incominciando a mostrare interesse per il Mediterraneo, le relazioni fra i due popoli mutarono. I rapporti tra Roma e Cartagine erano regolati da un trattato del 509 a.C. che regolava la navigazione e il commercio nel Mar Tirreno: i Romani potevano commerciare liberamente in Sicilia, mentre ogni attività in Africa e in Sardegna doveva essere soggetta al controllo dei funzionari locali; i Cartaginesi invece potevano commerciare liberamente con le popolazioni del Lazio, ma senza compiere atti ostili e senza costruire fortezze. Con la conquista della Magna Grecia, gli antichi contadini romani si trasformarono in mercanti e navigatori e divennero i più temibili concorrenti dei Cartaginesi. Roma, dal canto suo, vedeva il pericolo di un'incursione Cartaginese nella Sicilia orientale e di conseguenza la possibilità di un controllo esterno sullo Stretto di Messina, che costituiva un passaggio obbligato di vitale interesse per le città mercantili del sud e per la stessa Roma. I timori del Senato non erano infatti infondati: nel 265 a.C. i Cartaginesi, su richiesta degli abitanti di Messina in conflitto con Siracusa, inviarono un contingente militare che si stabilì in prossimità del famoso stretto. Gli abitanti di Messina però, dopo aver sperimentato a loro spese l'esosità di Cartagine, si pentirono amaramente della loro iniziativa e si rivolsero al Senato romano in cerca di aiuto. Il Senato, ben consapevole che l'invito avrebbe significato l'inizio della guerra con Cartagine, temporeggiò, timoroso della potenza navale del nemico. Tuttavia, sotto la pressione dei ceti imprenditoriali che consideravano la Sicilia una terra molto importante dal punto di vista sia agricolo che commerciale, l'invito venne accolto e nel 264 a.C. una guarnigione romana occupò la città di Messina, costringendo alla ritirata il presidio cartaginese. Aveva così inizio la prima guerra punica (dal latino Poeni » «Cartaginesi»). Il forte esercito romano ottenne subito una serie di successi sulla terraferma, che costrinsero i Cartaginesi a trincerarsi nelle imprendibili roccaforti del Lilibeo e di Trapani. Roma, che nel frattempo con un'abile politica diplomatica era riuscita a firmare un'alleanza con Gerone, tiranno di Siracusa, si rese conto che l'unico modo per cacciare il nemico dall'isola era quello di attaccarlo via mare, nonostante l'indiscussa abilità marinara dei Cartaginesi. Dopo intensi preparativi, il Senato approntò una flotta di centoventi grosse navi da guerra, provviste di ponti mobili (detti corvi) che, abbassati sulle navi nemiche, le agganciavano creando le condizioni per un combattimento del tutto simile a quelli terrestri. Nonostante la completa inesperienza romana, la flotta allestita era perfetta sotto ogni punto di vista, grazie anche al determinante aiuto offerto dalle città marinare del Mezzogiorno. La flotta romana prese il mare nel 260 a.C. e, guidata da Caio Duilio, si scontrò con il nemico presso Milazzo. I Cartaginesi, sicuri della loro superiorità, erano preparati ad una battaglia navale manovrata: i ponti mobili dei Romani li colsero alla sprovvista.

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La vittoria romana scatenò l'entusiasmo della popolazione e a Caio Duilio fu tributato un meritato trionfo. Dopo quattro anni, nel 256 a.C., i Romani decisero di attaccare direttamente la città di Cartagine: l'audace piano fu attuato dal console Attilio Regolo che sbarcò in Africa al comando di un piccolo esercito. Dopo la vittoria navale di Ecnomo, i Romani ottennero alcuni successi anche sulla terraferma, giungendo a conquistare la stessa Tunisi. Ma a questo punto il Senato, per motivi finanziari, obbligò la flotta a ritornare in Sicilia e Attilio Regolo con il suo esercito fu facilmente sconfitto dai Cartaginesi. Il console, fatto prigioniero, fu inviato a Roma affinché persuadesse il Senato a trattare la pace, con il patto che in caso di mancato successo egli sarebbe dovuto ritornare a Cartagine. Attilio Regolo, giunto nella capitale, consigliò al Senato di non firmare la pace perché i Cartaginesi erano ormai stremati e vicini alla resa; aggiunse anche che un eventuale scambio di prigionieri sarebbe stato controproducente perché avrebbe comportato la restituzione di uomini validi a combattere contro Roma. Quindi, facendo fede alla parola data, ripartì alla volta di Cartagine ben conscio di andare incontro alla pena di morte. Il Senato a questo punto si rese conto che la conclusione della guerra era legata ad un ennesimo scontro navale; così nel 241 a.C. duecento navi guidate dal console Caio Lutazio Catulo sconfissero presso l'arcipelago delle isole Egadi la flotta cartaginese, costringendola al rientro forzato in patria. Dopo più di vent'anni di guerra i Romani riuscirono ad allontanare il nemico dalla Sicilia e a stipulare una pace a loro esclusivo vantaggio: i Cartaginesi furono costretti ad abbandonare la Sicilia e le isole minori, a pagare un tributo di 3.200 talenti d'argento e alla restituzione dei prigionieri. Tre anni dopo la conclusione della prima guerra punica i Romani, approfittando della debolezza dell'avversario, conquistarono anche la Sardegna e la Corsica.

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NUOVE CONQUISTE

Con la vittoria su Cartagine, Roma si trovò ad avere un ruolo di grande importanza marittima e commerciale nel Mediterraneo. Grazie a questa sua posizione di privilegio, la città cominciò ad intravedere la possibilità di estendere la propria supremazia su un territorio molto più ampio. Inoltre il ritrovato benessere spinse molti contadini a modificare lentamente la propria posizione, dedicandosi sempre più ad iniziative mercantili ed imprenditoriali. Dopo l'annessione della Sardegna e della Corsica, il Senato rivolse la sua attenzione alla situazione della costa orientale dell'Adriatico, e più precisamente al regno dell'Illiria. Questo regno, alleato con il re di Macedonia, combatteva contro le città greche della costa e dava largo impulso alla pirateria. I commercianti italici, danneggiati nei loro traffici, fecero ricorso al Senato pretendendo una giusta protezione. Così Roma, forte del proprio prestigio, nel 228 a.C. intervenne nell'Illiria privandola di parte del territorio, obbligandola al pagamento di un tributo e limitandone la navigazione nel Mar Adriatico. L'importanza di questo episodio va ben al di là di questi modesti risultati: in questo modo Roma acquistò la simpatia delle poleis greche tanto che alcune di queste entrarono nella confederazione romana; inoltre intrattenne utili e stretti rapporti con le città di Atene e di Corinto, alleandosi alla Grecia contro la Macedonia. Ma prima ancora della fine della guerra illirica, Roma fu sottoposta ad un altra minaccia: i Galli. Nel 225 a.C. infatti un poderoso esercito gallico penetrò nell'Italia settentrionale e invase l'Etruria. Nonostante fosse impegnata sul fronte illirico, Roma prese molto sul serio il pericolo e lo affrontò in modo determinato. Dopo aver sconfitto gravemente i Galli a Talamone nello stesso anno (225), i consoli Flaminio e Claudio Marcello decisero di debellare il pericolo celtico per sempre. Nel 223 e nel 222 i Romani seguirono i Galli sino nelle loro sedi e li sconfissero ripetutamente in battaglie isolate e di poco conto: l'avanzata romana si spinse sino a Mediolanum (Milano) e portò al controllo di tutta la regione. I Veneti chiesero l'alleanza con Roma e sul Po furono fondate le colonie di Cremona e di Piacenza, allo scopo di sorvegliare la zona della valle Padana.

L'ORGANIZZAZIONE MILITARE ROMANA

La struttura base dell'esercito romano era la legione (dal latino legio cioè «scelta»), di cui facevano parte 3.000 fanti e 300 cavalieri. Inizialmente la forza offensiva romana era composta da una sola legione poi, con le guerre sannitiche, da due ed in seguito da quattro squadre di legionari. I soldati romani erano semplici cittadini che, per un certo periodo, prestavano la propria opera al servizio della patria ed erano tenuti a provvedere alle spese di armamento: quest'ultimo era composto da una spada corta (gladius), da un giavellotto (pilum), da una lancia (hasta), da un elmo, uno scudo e una corazza di cuoio. Dimenticata la tattica della falange macedone, la legione veniva articolata su tre linee disposte a scacchiera: la prima linea era composta dagli hastati che erano i combattenti più giovani; la seconda dai principi che, pur essendo ancora abbastanza giovani, avevano già una certa esperienza militare; la terza dai triarii che erano combattenti veterani di età già matura e che rappresentavano una certa garanzia nelle sorti estreme della battaglia. Un quarto tipo di corpo era quello dei veliti che, armati di giavellotto, dopo aver provocato il nemico si ritiravano velocemente sui fianchi o negli spazi esistenti tra le centurie che avanzavano alle loro spalle. Il comando supremo spettava al console stesso e, in caso di riunione di tutto l'esercito, i due consoli regnavano a giorni alterni. Gli ufficiali superiori erano i tribuni e quelli subalterni i centurioni. Tutte le cariche ufficiali non erano coperte da uomini di carriera, ma dagli stessi magistrati.

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ANNIBALE E SCIPIONE

Dopo la sconfitta subita nel 241 a.C., a Cartagine il popolo si divise in due diverse fazioni: quella dei commercianti e degli armatori, capeggiata dalla famiglia dei Barca, e quella dei proprietari terrieri, guidata dalla famiglia degli Annoni. I Barca erano naturalmente propensi alla riconquista delle rotte mediterranee e alla ripresa delle ostilità con Roma; gli Annoni invece erano favorevoli alla pace e allo sviluppo di Cartagine nell'entroterra. Roma nel 238 aveva approfittato di questa situazione, che evidenziava una chiara instabilità politica, ed aveva occupato la Sardegna e la Corsica; questa nuova sconfitta fu interpretata come un ennesimo affronto della repubblica romana e di conseguenza prese il sopravvento fra la popolazione la linea politica suggerita dai membri della famiglia Barca. Su iniziativa di questi ultimi, nel 237 a.C. Cartagine intraprese la conquista della Spagna, ricca di miniere d'argento e popolata da genti rozze e barbare. Amilcare Barca riuscì in breve tempo a impadronirsi di un'ampia fascia costiera e, alla sua morte, il fratello Asdrubale continuò sapientemente la politica espansionistica mirante al raggiungimento dei Pirenei: i Cartaginesi infatti erano intenzionati ad allearsi con i Galli per scendere in Italia contro Roma. Il Senato, intuito il pericolo imminente, impose ai Cartaginesi il cosiddetto Trattato dell'Ebro, che riconosceva le conquiste fatte da Amilcare e Asdrubale Barca ma limitava l'avanzata di quest'ultimo al fiume Ebro. Nel 221 a.C., dopo la morte di Asdrubale, il comando delle operazioni fu assunto dal figlio di Amilcare, Annibale Barca. Egli, cresciuto nell'odio verso Roma ed educato alla guerra e alla strategia, intendeva continuare la conquista della Spagna per riprendere la guerra contro la repubblica romana. Così, nel 219, Annibale attaccò la città di Sagunto, situata a sud dell'Ebro e quindi in territorio cartaginese, ma alleata dei Romani. Roma approfittò della situazione per intimare a Cartagine il ritiro delle truppe da Sagunto e, dopo la caduta di quest'ultima, per richiedere la consegna di Annibale, colpevole di aver rotto i trattati. Al rifiuto da parte di Cartagine, fu dichiarata la seconda guerra punica (218 a.C.). Annibale, consapevole della superiorità romana sul mare grazie al possesso delle isole, partì in direzione delle Alpi per attaccare Roma dall'Italia settentrionale. Egli contava molto sul fatto che la presenza di un esercito cartaginese nella penisola avrebbe indotto molte città ad abbandonare la protezione romana e ad insorgere al fianco del nuovo invasore. Il geniale condottiero in realtà fu deluso: egli aveva sotto gli occhi il modello del regno cartaginese nel quale le città, sottoposte ad una pesante egemonia, non avrebbero esitato a ribellarsi al dominatore. Roma, che nel frattempo attendeva una prima mossa cartaginese, si apprestava ad una guerra Afro-Spagnola e fu presa completamente in contropiede quando, nell'autunno del 218 a.C., Annibale si presentò nella pianura Padana. Il console Publio Scipione si portò immediatamente verso il nord Italia, mentre Sempronio Longo si apprestava a risalire dal Mezzogiorno per unire le sue forze a quelle del collega. Il primo scontro avvenne sulle rive del fiume Ticino e vide una netta vittoria dell'esercito di Annibale, al quale si erano aggregati anche i soldati galli. Scipione stesso venne gravemente ferito e costretto ad allontanarsi dai campi di guerra.

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Il secondo scontro avvenne alla fine di dicembre presso il fiume Trebbia ed oppose Annibale alle legioni di Sempronio Longo. In quest'occasione l'esercito romano subì una clamorosa sconfitta e dei 40.000 legionari solo 10.000 riuscirono a scampare rifugiandosi a Piacenza. Dopo aver svernato a Bologna, nel maggio del 217 Annibale superò gli Appennini ed entrò nell'Etruria. Il console romano Flaminio, rendendosi conto della netta superiorità militare della cavalleria cartaginese, preferì evitare un combattimento campale ed attese i rinforzi dell'altro console Gneo Servilio. Ma ancora una volta Annibale dimostrò la sua superiorità tattica e in un mattino nebbioso attaccò di sorpresa le legioni romane che stavano sfilando lungo la riva settentrionale del fiume Trasimeno. I Romani, attaccati su un fianco di sorpresa, non seppero reagire con sufficiente energia e furono completamente sterminati: lo stesso Flaminio cadde in combattimento. Il disastro del Trasimeno allarmò il Senato, che decise di sospendere il consolato ed elesse come dittatore Quinto Fabio Massimo. Quest'ultimo alla guida di quattro legioni raggiunse Annibale in Puglia ma preferì non attaccarlo, prevedendo un'ulteriore disfatta. La politica di attesa e di studio di Fabio Massimo, peraltro molto intelligente ed opportuna, fu fortemente osteggiata dal popolo, che era costretto a subire le continue violenze e i saccheggi dei Cartaginesi. Scaduti i sei mesi della dittatura, Fabio Massimo si ritirò e al suo posto vennero eletti i due consoli Terenzio Varrone e Lucio Emilio Paolo. Annibale oramai era penetrato nell'Italia centrale e cominciava a minacciare la stessa Roma, così i due consoli si trovarono d'accordo sulla necessità di attaccare l'esercito cartaginese accampato a Canne, in Puglia. Il 2 agosto del 216 a.C., 80.000 legionari sferrarono un gigantesco attacco contro gli uomini di Annibale. Approfittando della netta superiorità numerica, i due consoli riuscirono a far arretrare il nemico. Ma, prima che la manovra di sfondamento romana andasse a termine, Annibale riuscì con i suoi uomini ad accerchiare le legioni consolari, dando luogo ad una vera carneficina che vide cadere circa 70.000 Romani, tra i quali lo stesso Lucio Emilio Paolo. Dopo la battaglia di Canne parecchi alleati di Roma si schierarono dalla parte dei Cartaginesi: dopo i Galli anche i Bruzi e i Lucani abbandonarono la repubblica; Capua e Taranto accolsero Annibale come un liberatore; Siracusa passò dalla parte di Cartagine, creando un fronte anche in Sicilia; ed infine lo stesso re di Macedonia, Filippo V, si alleò ad Annibale ed attaccò i territori romani dei Balcani. L'unica parte del regno rimasta fedele a Roma fu l'Italia centrale, che aiutò il Senato a ricostruire le energie morali e materiali in vista della ripresa della lotta. I Romani ritornarono alla tecnica introdotta da Fabio Massimo e si limitarono a controllare l'operato di Annibale e contemporaneamente a rafforzare le legioni. Lo stesso Annibale nel frattempo si trovava in forti difficoltà: a Cartagine il partito degli Annoni, che non credeva nella guerra contro Roma, si rifiutò di mandare aiuti e uomini. A poco a poco, Roma incominciò a dare segni di ripresa: nel 211 il console Claudio Marcello s'impadronì della città di Siracusa e concluse sul piano diplomatico la guerra contro Filippo V di Macedonia senza perdite territoriali per Roma.

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Sempre nel 211 Capua fu riconquistata e duramente punita per il suo passaggio al nemico. Nel 209 anche la città di Taranto dovette subire lo stesso trattamento riservato ai traditori. Nel 210 a.C. avvenne la svolta decisiva a favore di Roma: Publio Cornelio Scipione, figlio di quel Publio Scipione perito nella battaglia sul Ticino, venne eletto generale e inviato in Spagna nel tentativo di approntare una valida controffensiva. Tra il 209 e il 208 Scipione, recatosi nella penisola iberica, capovolse la situazione e, dopo aver sconfitto per tre volte consecutive i Cartaginesi, giunse ad occupare la città di Cartagena, il maggior arsenale militare del nemico. Scipione, abile stratega e intelligente uomo politico, introdusse nell'armamento e nello schieramento dell'esercito romano importanti innovazioni, dimostratesi poi decisive. Infatti rese più agili le legioni facendole combattere in formazioni meno serrate e le dotò di una daga più lunga di quella tradizionale (il gladius hispaniensis), che si dimostrò molto valida nei combattimenti contro la cavalleria. Nel 207 a.C. Asdrubale, sconfitto da Scipione, tentò di raggiungere Annibale e si presentò nella pianura Padana con un grosso esercito. Ma qui, i consoli romani in carica, Claudio Nerone e Livio Salinatore, temendo che si dovesse ripetere la drammatica situazione di dieci anni prima, lo attaccarono subito in forze e riuscirono a bloccare l'esercito cartaginese nella valle del Metauro. Scipione, che nel frattempo venne eletto console a sua volta, intuì che l'unico modo per scacciare Annibale dall'Italia era quello di attaccare direttamente Cartagine. Così, dopo aver convinto il Senato, nel 205 egli si recò in Sicilia per allestire il corpo della spedizione e, stretto un accordo di alleanza con Massinissa, principe dei Numidi e nemico di Cartagine, sbarcò in Africa. Nel 204 a.C. Scipione attaccò Cartagine che, sotto i colpi dell'esercito romano, si affrettò a richiamare in patria Annibale. Quest'ultimo, dopo quindici anni di vittorie, dovette abbandonare la penisola nel 203, senza peraltro essere mai stato sconfitto. Lo scontro conclusivo fra Annibale e Scipione avvenne a Naraggara, vicino a Zama, nel 202 a.C.. In quest'occasione Scipione sfoggiò tutta la propria abilità tecnica e riuscì a vincere l'importante battaglia, decretando la fine della seconda guerra punica. Nel 201 a.C. Cartagine fu costretta ad accettare una pace a tutto vantaggio di Roma che prevedeva una limitazione del suo territorio in Africa, il veto di ogni altra guerra a scopo espansionistico, la consegna degli elefanti, di 10.000 talenti d'argento e di tutta la flotta, escluse dieci triremi. Al suo ritorno a Roma Scipione venne accolto come un'eroe e venne soprannominato, a titolo d'onore, «l'Africano». Annientata la potenza cartaginese, Roma godeva ora dell'assoluta supremazia sul Mediterraneo occidentale e incominciava a pensare alla possibilità di espandersi verso oriente.

Trapani Fasi e ambientazioni della seconda guerra punica

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LA DISTRUZIONE DI CARTAGINE

Negli anni che seguirono la pace del 201 a.C., la città fenicia mantenne fede ai patti e, nel tentativo di recuperare l'antico benessere, si dedicò unicamente allo sviluppo dei commerci e della produzione di manufatti. L'intesa fra le due città sembrava una formula collaudata, soprattutto tenendo conto dell'aiuto che Cartagine diede a Roma per i suoi tentativi espansionistici verso oriente. Nel 195 a.C. il governo oligarchico di Cartagine, d'accordo con Roma, si era ribellato addirittura ad Annibale, che proponeva di riorganizzare le strutture costituzionali della città in maniera più democratica. Nonostante le ripetute prove di fedeltà offerte dalla città fenicia, a Roma si affermava sempre più l'opinione del senatore Marco Porcio Catone, esponente dei tradizionalisti, secondo la quale Cartagine stava ritornando ad essere un pericolo per l'integrità dello Stato Romano. In realtà Cartagine stava incominciando a godere dei frutti dell'impegno speso a restaurare l'antico fasto, e poteva essere considerata come un pacifico centro marittimo, teso ad incrementare i propri commerci e la propria economia. Le intenzioni pacifiche della città africana furono ampiamente dimostrate quando, durante la prima metà del II secolo a.C., essa non reagì all'intervento armato da parte di Massinissa, re dei Numidi, che rivendicava una parte di territorio con il benestare di Roma. In quell'occasione Cartagine, pur di non indispettire l'antica avversaria, accettò il sopruso e concesse a Massinissa quello che chiedeva. Verso la metà del secolo Roma dovette respingere i moti rivoluzionari della Macedonia, della Grecia e della Spagna; in Senato cominciò così a vagare il sospetto di un accordo generale a danno del dominio romano e al quale poteva partecipare anche la città di Cartagine. Questa tesi, suffragata dal solito Marco Porcio Catone, fu accettata per vera quando, nel 151, Cartagine, esasperata dalle continue pretese di Massinissa e guidata dal partito democratico nemico dei Romani, dichiarò guerra alla Numidia senza prima chiedere il permesso al Senato della Repubblica, come invece era stato pattuito. L'occasione fu sfruttata appieno da Porcio Catone che, con l'appoggio della classe mercantile, gelosa dell'autonomia commerciale di Cartagine, convinse il Senato a dichiarare guerra alla città africana. Nel 149 a.C. aveva così inizio la terza guerra punica. Cartagine, riconoscendo la propria inferiorità, si affrettò a chiedere una pace o un compromesso e giunse ad accettare qualsiasi condizione ponesse Roma. Ma il Senato romano, che ormai era deciso a distruggere la civiltà cartaginese, non valutò la possibilità di una pace negoziata e propose, in segno di smacco, una condizione inaccettabile: la città doveva essere rasa al suolo e ricostruita nell'entroterra africano a non meno di 15 chilometri dal mare. Il governo Cartaginese comprese che il destino della città era ormai stato deciso dai Romani e di conseguenza si preparò allo scontro. Tutti gli abitanti raccolsero viveri, armi e mezzi di sostentamento e si rinchiusero nella città fortificata da tre cinte di mura, decisi a resistere sino alla morte. Dopo due anni di infruttuoso assedio, il Senato romano inviò sul campo Publio Cornelio Scipione Emiliano che, dopo aver riordinato le legioni, sferrò l'attacco decisivo. Nella primavera del 146 a.C. l'esercito romano riuscì a penetrare nella città e, dopo aver combattuto casa per casa contro i tenaci Cartaginesi, li costrinse alla resa. Mentre i superstiti arresi furono ridotti in schiavitù, 900 irriducibili difensori dello spirito cartaginese si rinchiusero nel tempio di Esculapio, situato nella parte alta della città, e dopo avergli dato fuoco perirono nell'incendio. La fine di Cartagine fu resa definitiva con la distruzione della città e con la maledizione del territorio su cui sorgeva. Lo stesso territorio fu dichiarato Provincia d'Africa e fu affidato al governo di un magistrato residente a Utica.

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PICCOLO LESSICO

CENTURIE

Suddivisione del popolo romano, a scopo militare, che risale secondo la tradizione a Servio Tullio. Le centurie erano 193; la cavalleria ne aveva 18, la fanteria era divisa in 5 classi, la prima di 80 centurie, la seconda, terza e quarta di 20, la quinta di 30. Alla prima classe inoltre erano aggregate due centurie di fabri; infine le tre centurie di tubicines, cornicines, accensi velati. Tale divisione era fondata sul censo. Nel campo politico, l'ordinamento in centurie vigeva nell'assemblea popolare; nel campo militare invece, la centuria era originariamente l'unità strutturale della legione; nel riordinamento del IV sec. a.C., due centurie costituivano un manipolo, divenuto l'unità di base.

FORCHE CAUDINE

Stretto passaggio tra la Campania ed il Sannio. Pare corrispondano allo stretto di Arpaia. In questo luogo due legioni romane, sconfitte dai sanniti, furono costrette a subire l'umiliazione di passare sotto il giogo. L'episodio si verificò nel 321 a.C. durante la seconda guerra dei Romani contro i Sanniti. Da qui ha origine l'espressione «Passare sotto le forche caudine» che significa essere sottoposti a condizioni umilianti.

IL DIRITTO ROMANO

Il regolamento legislativo romano aveva l'importante caratteristica di suddividere il diritto pubblico da quello privato. Gli interessi dei singoli cittadini erano così tutelati da una regolamentazione più dettagliata.

PERSONAGGI CELEBRI

PUBLIO CORNELIO SCIPIONE

Figlio di Publio Scipione, il console perito nella battaglia sul Ticino, ricoprì la sua prima carica importante quando nel 210 (a soli 25 anni) gli venne affidato il comando delle legioni romane nella guerra contro la Spagna. Qui raccolse molteplici vittorie e, dopo essere stato eletto console, attaccò direttamente Cartagine e, a Naraggara, presso Zama, si scontrò in una battaglia epica con Annibale. Dopo aver sconfitto Annibale, Scipione poté occupare un posto di alto rilievo nella vita politica romana e, nel decennio successivo, la famiglia dei Corneli ottenne il consolato ben sette volte. Cornelio Scipione a poco a poco assunse la funzione di guida politica e morale del Senato; ma le sue idee liberali e filoelleniche suscitarono molte antipatie. L'esponente più significativo di questo moto di scontento fu Marco Porcio Catone che, rifiutando la fusione della cultura greca con quella latina, approfittò della guerra contro la Siria per mettere sotto accusa la famiglia degli Scipioni e lo stesso Publio Cornelio; quest'ultimo, indignato e offeso, abbandonò la vita pubblica e si ritirò in Campania, dove morì nel 183 a.C.

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RIASSUNTO CRONOLOGICO

ca. 1500 a.C.: Primi insediamenti nel Lazio primitivo. ca. 1000 a.C.: Fondazione della città di Alba sui Colli Albani. 753 a.C.: Fondazione di Roma. ca. VI sec. a.C.: Roma viene sottomessa all'influenza etrusca. 509 a.C.: Fine del dominio etrusco e nascita della repubblica. 499 a.C.: Battaglia del lago Regillo contro i Latini. 396 a.C.: Occupazione della città etrusca di Veio. 390 a.C.: Calata dei Galli e saccheggio di Roma. 389-351 a.C.: Guerre contro Equi, Volsci ed Etruschi. 343-341 a.C.: Prima guerra sannitica. 340-338 a.C.: Guerra contro i Latini, ex-alleati di Roma. 326-304 a.C.: Seconda guerra sannitica. 312 a.C.: Le Forche Caudine. 298-290 a.C.: Terza guerra sannitica. 280 a.C.: Inizia la guerra fra Roma e Taranto. Pirro sbarca in Italia e batte i Romani ad Eraclea. 278 a.C.: Sbarco in Sicilia di Pirro. 275 a.C.: Vittoria Romana a Maleventum. 272 a.C.: Roma occupa Taranto. 264 a.C.: Roma interviene in Sicilia e inizia la prima guerra punica contro i Cartaginesi. 260 a.C.: Vittoria romana nella battaglia navale di Milazzo. 256 a.C.: Vittoria romana a capo Ecnomo e sbarco in Africa di Attilio Regolo. 241 a.C.: Fine della prima guerra punica. 218 a.C.: Dopo la rottura del Trattato dell'Ebro (226) scoppia la seconda guerra punica. Annibale varca le Alpi. 216 a.C.: Vittoria cartaginese a Canne. 210 a.C.: Scipione inviato in Spagna. 204 a.C.: Scipione dopo le vittorie iberiche sbarca in Africa. 202 a.C.: Vittoria romana nella battaglia di Zama, che contrapponeva Scipione ad Annibale. Fine della seconda guerra punica. 149-146 a.C.: Terza guerra punica e distruzione di Cartagine.

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