«Lo zen e la pittura giapponese» di Sante Spadavecchia
Quando, nella seconda metà del 500, venne introdotto in Giappone il buddismo, nessuno poteva prevedere quale importanza la nuova religione avrebbe assunto nel paese e quale influenza avrebbe esercitato in ogni campo della vita nipponica. Affermatasi in un primo tempo solo nell'ambiente di corte, la nuova religione presto si diffuse anche negli altri strati sociali, fino a consolidarsi a fianco della religione originaria del paese, che ebbe allora bisogno di essere denominata «shinto» (= via degli dei) per distinguerla del «butsudo» (= via del Buddha). Si sa che il Giappone è un paese naturalmente bello, dal clima mite e dalla flora rigogliosa; ma occorre anche ricordare che la sua terra è di origine vulcanica, che terremoti e maremoti vi si scatenano con frequenza intensissima, e che in determinati periodi dell'anno sopraggiungono i tifoni a sconvolgerne le coste. Giornalmente, quindi, il giapponese si trova di fronte a rivolgimenti naturali, così come ad ogni ora si trova di fronte alla morte. Nessuno, meglio di lui, poteva perciò comprendere quanto il buddismo veniva insegnando: nella vita nulla c'è di permanente, tutto è perituro. Questo senso di provvisorio, di perituro, che è alla base della dottrina del Buddha, lascia la sua traccia anche nell'arte nipponica. Nei secoli XVIII e XIX (epoca Tokugawa, 1603-1868) si affermano quelle stampe che prendono il nome di «ukiyo-e», che significa «pittura del mondo transitorio». Tutto ciò che si vede nella vita giornaliera forma oggetto di questa particolare pittura, ma la donna ne rappresenta il soggetto principale. Ella è l'immagine del tempo che passa più reale e più vicina all'uomo: nasce, cresce, fiorisce, avvizzisce, muore. Alle fanciulle esili, flessuose, quasi eteree di Harunobu (1725-1770), il vero ideatore delle stampe policrome, si sostituiscono i gruppi di donne di Torii Kiyonaga (1752-1815): maestose, esse sembrano inseguire con lo sguardo un loro vago sogno sul mare lontano. E le cortigiane dei quartieri allegri di Yoshiwara, di Kitagawa Utamaro (1753-1806), lungi dall'esprimere sensualità, danno appena a vedere, nella loro immobilità, un che di mesto subito smentito da quella grazia che l'educazione di lunghi anni ha inculcato in loro. Torii Kiyonobu II (1702-1752), Torii Kiyomitsu (1735-1785), Katsukawa Shunsho (1726-1792), Toshusai Sharaku dipingono attori del teatro «Kabuki». Yoshiwara, quartiere del piacere, e il teatro «kabuki» sono manifestazioni della vita dell'epoca Tokugawa, quando veniva affermandosi la nuova classe borghese dei mercanti, favorita dalla mancanza di lotte interne e, quindi, dalla decadenza e dall'indebitamento dei «daymio» (= principi feudali) e dei loro guerrieri (= samurai). Ma il giapponese autentico non poteva dimenticare la natura in cui ogni essere, ogni cosa vive e muore. Katsushika Hokusai (1760-1849) e Ichiryusai Hiroshige (1797-1858) lo confermano: del primo ci limitiamo a ricordare le «Trentasei vedute del Fuji», che è monte sacro del Giappone; dell'altro: le «Cinquantatrè stazioni sulla strada del Tokaido», le «Sessantanove stazioni sulla strada del Kisokaido». Si tratta di due pittori che non abbandonano la grande tradizione del paesaggio giapponese, Hokusai subendo l'influenza della scuola cinese, Hiroshige quella della scuola naturalistica di Shjio. L'amore verso tutti gli esseri viventi, predicato dal buddismo, si rivela in Hokusai, il quale spesso dipinge animaletti delle specie più piccole, quali insetti, farfalle, pesci, con una vivacità tale da dare l'impressione della sua sentita partecipazione alla loro vita. Nei paesaggi di Hiroshige la solitudine di luoghi tanto conosciuti e tanto cari ad ogni giapponese è attutita dalla visione di piccoli uomini che si muovono in lontananza, quasi fantasmi. Donde vengono e dove vanno questi uomini irreali? Sono la rappresentazione viva di ciò che il buddismo insegna: tutto nella vita è fatica e, quindi, dolore; tutto soggiace alla legge dell'impermanenza e della transitorietà. Da questo tutto non è escluso l'uomo, che si trascina pesantemente in un mondo di cui fa parte ma che non domina, fino a che non sarà riuscito a liberarsi delle scorie terrene, del proprio io, per raggiungere il mondo della pace, nel «nirvana». I pittori dell'«ukiyo-e» sono coloro che più hanno impressionato gli intenditori occidentali: dopo le mostre di Londra e di Parigi della seconda metà dell'800, l'influenza dell'«ukiyo-e» si fa sentire anche nella pittura occidentale e non ne vanno esenti artisti come Toulouse-Lautrec, Manet, Degas. Nell'«ukiyo-e» si hanno stampe diverse a seconda dei procedimenti usati. L'incisione eseguita con una sola tavola ad inchiostro nero («sumi») è un «sumizuri-e». Un «tan-e» è l'incisione colorata, con prevalente terra rossa (= «tan»), a mano. Quando uno dei colori usati con una o due tavole, oltre quella riproduttrice del disegno, è il «beni» (= colorante vegetale d'un rosa chiaro, molto pallido), si ha un «benizuri-e» o «beni-e». La riproduzione policroma con almeno cinque tavole, oltre quella produttrice del disegno, dà un «nishiki-e». Se la stessa stampa si effettua su carta di tipo diverso da quella impiegata per il «nishiki-e», ottenendo colori tenui, si ha un «surimono». Se, infine, su certe zone scure si applica colla a mano, si ha una incisione, con effetti della lacca, che prende il nome di «urushi-e». E' da sottolineare, ancora, che nell'«ukiyo-e» la pittura viene eseguita su carta, anziché su seta: anche questo serve a rafforzare l'idea del transitorio, del perituro, propria del buddismo. Sotto l'aspetto tecnico occorre precisare che la carta è assorbente, così che richiede da parte del pittore una capacità, una rapidità ed una decisione nell'uso del pannello, che non si possono acquisire se non dopo lunghi anni di esercizio. Se finora è stato posto l'accento sulla pittura laica dell'«ukiyo-e», è necessario almeno ricordare lo «zenga» (= pittura «zen»). Senza voler qui spiegare cosa sia lo «zen», ci limitiamo ad accennare solamente che esso è la manifestazione di una setta buddista, avversa al buddismo tradizionale, a tutto ciò che è teoria, speculazione metafisica, ragionamento. E' la negazione di ogni sistema. Secondo lo «zen», l'«illuminazione» dell'individuo, con la conseguente sua salvezza, non può avvenire gradualmente, ma solo istantaneamente, attraverso l'intuizione. Le piccole cose della vita, i fatti giornalieri, un qualsiasi incidente possono improvvisamente illuminare un adepto. Penetrato in Giappone nel periodo Kamakura (1186-1332), lo «zen» ha profondamente influenzato ogni attività della vita nipponica, e quindi anche la pittura. Lo «zen-ga» è dovuto a monaci-pittori, i quali si preoccuparono non tanto di produrre opere d'arte, quanto di rendere più facile la comprensione di ciò che andavano insegnando. Con i loro dipinti cercavano di indurre i discepoli a guardare in se stessi per giungere al «satori» (= illuminazione). Paesaggi, figure di maestri «zen» e di discepoli in atto di risolvere «koan» (= domanda sopra un determinato problema che non ammette risposta logica), «enso» (= disegni di cerchi che rappresentano il simbolo dell'entità del vuoto con l'universo), spesso completati dal «san» (= spiegazione di particolari o fatti dello «zen» posta nella parte superiore di un dipinto) formano il soggetto dello «zen-ga». Questo genere di pittura si adatta alla società del tempo e si evolve con essa, in modo da riuscire chiaro a tutti coloro ai quali si rivolge. Sorto con l'aristocrazia, si sforzò di esprimere aspetti sempre più semplici a mano a mano che, nell'epoca Tokugawa, venivano affermandosi la nuova borghesia mercantile e il popolo minuto. Anche la tecnica del «suiboku» (dipinto in bianco e nero) viene semplificandosi e diventa sempre più espressiva. Ci limitiamo ad accennare alcuni nomi di monaci-pittori, come Sesshu, Takuan (1573-1645), Isshi (1608-1646), Ungo (1582-1659), Hakuin (1685-1768), Suio (1716-1789), Sengai (1750-1837). Essi, che per un lungo arco di tempo hanno prodotto dipinti di indubbio valore e di particolare significato, meriterebbero ciascuno una profonda trattazione. Ricordiamoli qui per l'ansia che li animava nel tentativo di rendere più facile e comprensibile il loro non semplice insegnamento. Che è, poi, la testimonianza del grande amore che portavano al loro prossimo.
