«Un virtuoso del jazz: John Coltrane» di Franco Fayenz
Il punto caratterizzante dell'immenso contributo che Coltrane (Hamlet 1926 - Huntington 1967) ha dato come compositore, saxofonista tenore, saxofonista soprano e flautista alla musica afroamericana moderna e contemporanea va individuato nella sua ansia di ricerca senza limiti. Gli ultimi dodici anni della sua vita rassomigliano a una lotta contro il tempo, quasi avesse saputo che non gli restava molto a disposizione. Un'indagine artistica così inesausta e rivolta in ogni direzione non ha termini di paragone nella storia del jazz. Eppure nella sua carriera c'è qualcosa di strano che non è stato ancora ben chiarito. E' scaduto a luogo comune affermare che l'artista di jazz esprime il meglio di sé negli anni giovanili: lo insegna l'esperienze ma ci sono motivazioni più profonde. Per il jazzman il talento e l'originalità, se ne ha, costituiscono capitali da spendere subito. La musica attraverso cui si esprime è in buona misura improvvisata, autobiografica, raccordata alla vita quotidiana, e pertanto corre in fretta; ma più oltre agiscono nello stesso senso la forza livellatrice dell'american way of life, la concorrenza nell'ambiente musicale, l'intervento pesante delle industrie del disco e dello spettacolo. Il musicista americano (ma anche l'operatore figurativo o lo scrittore) capisce molto presto, più spesso per intuizione che per riflessione, che il suo coraggio, la volontà, la tensione genuina sono destinati a spegnersi in un tempo relativamente breve e a diventare ripetizione e routine. Il pericolo maggiore viene dalle multinazionali del disco, cioè proprio dagli enti che per il musicista di jazz - a meno che non riesca ad autogestirsi - costituiscono un passaggio obbligato se vuole fissare e tramandare nel tempo le sue opere e avere ragionevoli probabilità di comunicazione, di fama e di successo. Ma ormai sono noti i procedimenti seguiti da questi enti: una volta adocchiato l'artista emergente (che al limite può essere fabbricato in laboratorio) lo si lega a doppio filo con un contratto apparentemente vantaggioso che in realtà lo obbliga a frequentare la sala di registrazione al di là delle sue possibilità creative, e quando inevitabilmente la vena si appanna, quando cominciano le ripetizioni e il pubblico volta le spalle, il contratto non viene rinnovato. In altre parole, il musicista viene spremuto come un limone e poi buttato via. Fatte le debite proporzioni, il sistema è simile a quello adottato coi divi della canzone e del rock, e i jazzisti che più ne hanno sofferto in rapporto alla loro notorietà e alla loro statura sono Gato Barbieri e Keith Jarrett. Anche a John Coltrane è stato usato lo stesso trattamento (l'obiettività comunque impone di ricordare che la sua etichetta discografica, in quegli anni, oltre che dollari ha accumulato molti meriti verso il jazz degli anni Sessanta) ma la sua creatività era tale da poter «tenere» qualsiasi ritmo. E malgrado la sua già copiosa discografia, si continua a riscontrare un'affannosa pubblicazione di matrici rimaste nel cassetto, di registrazioni di fortune, di inediti di qualunque tipo. Si è assistito perfino al reciproco sfruttamento fra l'industria e la vedova di Coltrane, Alice, pianista mediocre ma abile amministratrice del proprio cognome. La disinvolta signora è arrivata a sovrapporre una sua orchestrazione per archi a una vecchia matrice del grande saxofonista e a farne un long playing, per cui un giorno bisognerà effettuare un lavoro di restauro dell'originale come si suole coi quadri antichi e preziosi sconciati da incrostazioni posteriori. Queste considerazioni vogliono porre in risalto che John Coltrane è stato un'eccezione alla regola dell'exploit giovanile. Nel jazz ce ne sono poche altre, Miles Davis e in parte Duke Ellington fra le più vistose. Ma ciò che lascia perplessi è il fatto che, sebbene il suo nome non abbia detto nulla a nessuno fino alla soglia dei trent'anni, Coltrane aveva collaborato con Dizzy Gillespie dal 1949 al 1951, con Earl Bostic dal 1952 al 1953 e con Johnny Hodges dal 1953 al 1954. Non ha lasciato niente di significativo nei dischi ai quali ha partecipato in quei cinque anni, tuttavia è impossibile che le sue doti straordinarie non siano mai state notate (si pensi al fiuto di un Gillespie, per esempio) oppure si siano manifestate all'improvviso senza alcuna premonizione. E' plausibile piuttosto che egli si sia tenuto in disparte di proposito fino al momento in cui non si è sentito preparato a dovere. Ciò si accorda col suo tratto mite e gentile, proprio di un uomo che non era mai certo di aver dato il meglio e quindi continuava a cercarlo. Coltrane si fa notare per la prima volta nel 1955 come solista duttile e fantasioso nel complesso di Miles Davis. Verso la fine degli anni Cinquanta comincia a piacere al pubblico la sua sonorità strumentale che è insieme nasale, liscia e forte, e rammenta quella di Charlie Parker ma con accenti tali di originalità da poter rappresentare un nuovo archetipo. Piace pure quel suo modo di perlustrare le linee melodiche a lungo, quasi con sadismo, traendone variazioni interminabili e nuovi tempi fino ad annullarsi nella sua stessa musica. Nel groviglio delle sue tendenze si delinea un itinerario progressivo verso la libertà, perseguita con uno spirito da pioniere. S'interessa al folclore musicale neroamericano, al flamenco, agli ancestrali stampi africani. Quando adotta il sax soprano dona dei capolavori nei quali la sua sonorità ha toni bucolici e il fraseggio ha sequenze da nenia araba. Il sentimento religioso, sempre presente nell'arte di Coltrane come una seconda anima, nascosta ma attiva, si fa più scoperto col passare del tempo e determina in specie la struttura e lo slancio del famoso A Love Supreme, una suite per quartetto che di sicuro verrà ricordata come uno dei risultati più nobili del jazz contemporaneo. La sua adesione, meditata e definitiva, alla causa dei dissenters di colore ha un esito musicale particolarmente incisivo in Ascension. Subito dopo nascono alcune opere ispirate alla religiosità dell'India che intendono gettare un ponte fra l'occidente e l'oriente. Sono note e accordi proiettati nel tempo e nello spazio pancromatico, e suoni onomatopeici forse un po' ingenui ma intensamente vissuti. «Negli ultimi anni della sua vita - ha scritto di lui il critico americano Nat Hentoff - la crescente preoccupazione di Coltrane fu di calare nella sua musica il significato dell'essere, l'unicità della vita, l'assoluta necessità della pietà e della mutua comprensione, per far sì che la vita sia qualcosa di più di un banale e ottuso esistere.» Ma forse questa è una delle pochissime chiavi di lettura comuni a tutte le sue opere. La proposta di Coltrane che si può definire finale solo perché dopo è sopraggiunta la sua morte, è un jazz da camera che rifiuta qualsiasi compromesso o contatto con la musica dei bianchi, e nel medesimo tempo mette in disparte la gamma dei suoi mezzi più ricorrenti come la tensione consumante, gli urli strumentali, il desiderio di non concludere mai e di annullarsi nel proprio suono. L'ascolto di queste indicazioni estreme, e comunque delle sue creazioni-esecuzioni più ricche di significato, è a volte addirittura traumatizzante per chi abbia a cuore il rinnovamento continuo del linguaggio musicale afroamericano. Se ne riceve l'impressione che dopo di lui, nel jazz, non sia accaduto più nulla.
