«Verifica dei contenuti del film» di Guido Aristarco
Pericoli e minacce si prospettano nel largo contesto del nuovo «dover essere» dell'arte, della letteratura e quindi del cinema. L'approdo, da una parte, al «mare della soggettività», alla descrizione pura e semplice dell'animo umano (dell'«oltre», del «di là da noi stessi») ed esclusivamente di esso. E, dall'altra, al «mare dell'oggettività», delle sole cose di un miscugiio e fusione di materie informi e diverse. L'approdo, cioè, a due labirinti presi a sé stanti, e come tali considerati e descritti senza una dialettica interdipendenza, e rapporti, rimandi. Una cosa è la sfida dai «personaggi» opposta a un «trattamento veristico che li faccia coincidere con una sola delle loro molte e trasmutabili possibilità», e declinare, logicamente la loro storia su una linea a senso unico e indeformabile». Altra cosa sostenere che esistono soltanto probabilità astratte, non perseguibili: mai e comunque. Se è vero, come è vero, che la fisica ha sostituito all'idea di «legge» quella dell'«onda di probabilità», che non si puo' piu' cercare di «ogni effetto la causa unica ed essenziale, pienamente misurabile», è altrettanto vero che le probabilità quasi sempre sono negate all'uomo. Ad esse si sostituiscono cioè le possibilità impossibili: possibilità e soltanto possibilità. Noi, si sostiene, siamo vittime di forze che non possiamo controllare e combattere. Il mondo è quello che è e nulla possiamo fare per modificarlo. Nel nuovo «dover essere» dell'arte, della narrativa e del cinema, l'indicazione offerta da Brecht pensiamo possa costituire una via di uscita, la «più regolare via di scampo» sul piano culturale e dell'esistenza umana, oggi. Scrive Brecht: «Ho sotto mano tutte le possibilità; eppure non posso affermare che le concezioni drammatiche che io, per determinate ragioni, chiamo non-aristoteliche, e la recitazione epica con tali concezioni connessa, rappresentino la soluzione. Una cosa è però ormai chiara: il mondo d'oggi può essere descritto agli uomini d'oggi solo a patto che lo si descriva come un mondo che può essere cambiato». Il mare della soggettività assoluta e dell'assoluto oggettivismo - i labirinti, i livellamenti passivi di tutto e di tutti - non costituiscono la realtà, ma una parte di essa, per quanto grande oggi possa apparire, ed essere. Esistono, per dirla con Brecht, uomini per i quali i problemi valgono in funzione delle risposte ragionevoli che ricevono che si interessano delle situazioni e degli avvenimenti cui posti di fronte, sanno reagire in qualche modo. C'è anche chi crede, con il drammaturgo tedesco, che la scienza della nostra epoca sia in grado di trasformare la natura e rendere quasi abitabile il mondo, e che in tale situazione non si debba continuare a descrivere all'uomo il suo simile soltanto come vittima, come oggetto passivo di un ambiente sconosciuto quanto immutabile nelle sue possibilità impossibili. Brecht afferma che anche il problema se sia possibile una descrizione del mondo, è d'ordine sociale, e che le vere novità attaccano la base. «Novità sopra novità: l'ascoltatore - osserva - stanco di ascoltare si mette a suonare! Dalla lotta contro l' indolenze dell'ascoltatore si passa di colpo alla lotta per la sua diligenza nell'ascoltare e poi per la sua diligenza nell'eseguire. Il violonceliista dell'orchestra, padre di parecchi figli, non suonava più per ragioni ideologiche, ma per il piacere di suonare. Il gastronomismo era salvo!» Molto cinema odierno, pur nelle sue «novità» - spesso presunte, che non attaccano la base - è e rimane gastronomico, velleitario. Novità di questo genere, possiamo commentare con Brecht, sono criticabili solo finché servono unicamente a rinnovare istituzioni decrepite: esse rappresentano un progresso quando si persegue lo scopo di cambiare la funzione di tali istituzioni; allora costituiscono dei miglioramenti quantitativi, delle eliminazioni, dei processi di spurgo che solo dal cambiamento di funzione, attuato o da attuarsi, traggono il loro senso. «Il vero progresso non è l'essere progredito, ma il progredire. Il vero progresso è ciò che rende possibile o necessario il processo del progredire. E che lo fa implicando nel moto di progresso un vasto fronte di categorie aggregate. Il vero progresso ha come causa l'insostenibilità di una condizione reale, e come conseguenza il modificarla». E' nota la novità prospettata da Brecht, da lui perseguita nella teoria e nella prassi, il suo approdo dalla forma «drammatica» del teatro a quella «epica» del suo teatro. Questa - la forma epica - a differenza di quella - la forma drammatica - fa dello spettatore un osservatore (non lo involge cioè in un'azione scenica), ne stimola peraltro l'attività (non la esaurisce), lo costringe a decisioni, a un visione generale (non gli consente dei sentimenti, emozioni), lo pone di fronte a qualcosa (non lo immerge in qualcosa) gli offre argomenti (non suggestioni); le sensazioni vengono spinte sino alla consapevolezza (non conservate come tali). Lo spettatore sta di fronte e studia (non nel bel mezzo, e non si immedesima nel personaggio): l'uomo è oggetto di indagine (non si presuppone noto), è mutabile e modificatore (non invariabile e inerte), inteso come processo (non fermo, non dato fisso); l'esistenza sociale determina il pensiero (e non viceversa); gli accadimenti hanno un corso a curve, presentano salti (non è lineare, e secondo un determinismo evoluzionistico). Insomma, la ratio prende il posto del sentimento. Questi e altri spostamenti di peso dal teatro drammatico a quello epico, non indicano - avverte Brecht - contrasti assoluti, ma solo il modo in cui si cambiano gli accenti. «Così, in un processo comunicativo, si può cercar di agire con i mezzi intuitivi della suggestione, o con quelli puramente razionali della persuasione». Perché con tanta insistenza si difende il godimento, l'ebbrezza, - domanda Brecht - e l'interesse per le nostre faccende è così scarso fuori dei propri quattro muri? Perché si evita la discussione e si dice che da questa non ci si può ripromettere niente? «Una discussione sulla forma attuale della nostra società o anche soltanto sulla condizione dei suoi componenti meno importanti, costituirebbe immediatamente e irreparabilmente - egli risponde - una minaccia totale alla forma di questa società stessa». Comunque, nel processo di fusione dei vari elementi in un'opera, non deve venir incluso mai lo spettatore - sottolinea Brecht -; fondendosi, egli finisce col rappresentare, nell'insieme, una parte passiva. Come accade, osserviamo, troppo spesso nel cinema; ed è questo uno dei suoi maggiori limiti. Una simile magia è naturalmente da combattersi. Bisogna rinunciare a tutto ciò che rappresenta un tentativo di ipnosi, a tutto ciò che è atto a produrre indegne ubriacature e nebulosità». Possiamo ripetere per il film quanto Brecht dice sulla funzione sociale del teatro: rinunciando a creare illusioni si crea La possibilità di discutere, ed essendo lo spettatore messo in grado non già di provare delle emozioni, ma di dover assegnare per così dire il proprio voto, non già di identificarsi ma di prendere posizione, si dà inizio a un'autentica trasformazione. Anche il cinema ha la facoltà di far propri i principi brechtiani (sistema, strutture, non le tecniche), di assumere - e in diversi casi ha già assunto - la funzione assegnata al teatro «epico»: il mondo d'oggi può essere espresso anche per mezzo del film, purché sia visto come un mondo suscettibile di cambiamento. Perché dunque, e tenendo presente tutta una serie di obiezioni, il cinema dovrebbe trascurare tendenze, impulsi, comportamenti di uomini operanti e vivi pur nelle crisi laceranti che possono attraversare e attraversano, pur nelle antinomie profonde, nelle tenebre che li circondano e circondano il mondo in cui vivono? Nell'individuare in quella brechtiana una delle vie maestre del cinema nel suo nuovo «dover essere» (senza escluderne altre), non si allude naturalmente alla necessità di opere edificanti o addirittura consolatorie, all'«eroe positivo» a suo tempo condannato proprio da Marx. La commemorazione del personaggio-uomo, della sua morte, può darsi sia davvero provvisoria. Le poetiche del personaggio-particella, in quanto poetiche - sottolinea Giacomo Debenetti - hanno una sorprendente, innegabile contemporaneità col modo odierno di guardare, studiare, saggiare il mondo; di qui forse, la loro fortuna, un po' sproporzionata - aggiunge - all'attendibilità teorica delle formulazioni e al valore reale di molte delle opere che finora ne sono uscite. «Mettendo da parte le teorie, la pratica - conclude - ci lascia intravedere il pericolo che stia nascendo o sia già nata un'arcadia dell'antipersonaggio. E allora, a chi votarci se non al vecchio, ma ancora vegeto, solerte e servizievole personaggio-uomo?». «Il poeta non parla un linguaggio sacro. Deve parlare un linguaggio vero», afferma Brecht. E, con Walter Benjamin, sostiene che il cinema può e deve superare la vecchia concezione e diffusione dell'arte; che esso non ha bisogno affatto dell'arte tradizionale, cui anzi si oppone, contribuendo a creare dell'arte una nuova idea, concetto. «Il cinema non è uno svago» e spiega: l'acuta opposizione tra lavoro e svago (propria dei metodi della produzione capitalistica) divide tutte le attività intellettuali fra quelle che servono allo svago e quelle che servono al lavoro, e dà delle prime un sistema della riproduzione del lavoro; lo svago, si dice, non deve contenere nulla di ciò che contiene il lavoro: nell'interesse della produzione, è dedicato alla «non produzione». Anche lo svago (e quindi il film) deve contenere ciò che contiene il lavoro, anch'esso è dedicato alla produzione. Comprando il biglietto, conclude Brecht, lo spettatore non si deve trasformare davanti allo schermo in un «ozioso», in uno sfruttatore: mentre gli viene consegnata la preda, non deve diventarne una vittima.
