«L'esperienza di direttore de L'Unità» di Davide Lajolo (Ulisse)


Circa undici anni dietro la scrivania di direttore de «L'Unità» - edizione Italiana Settentrionale - in una città come Milano, sono stati una esperienza straordinaria: dalla metà del '47 al '58, anni di guerra fredda, anni di rissosa polemica anticomunista, anni di guerra e successivamente di disgelo. Non sempre la guerra fu soltanto fredda. Al ministero dell'interno, imperante Mario Scelba, la guerra da fredda diventava calda con centinaia di lavoratori, braccianti, mondine, operai proletari senza terra e senza lavoro, accusati dell'unico delitto di chiedere pane e possibilità di guadagnarselo. Si battevano per l'attuazione della costituzione scritta con il sangue dei partigiani che avevano fatto la Resistenza al nazismo e al fascismo, poi dagli uomini che erano stati scelti per scrivere gli articoli della Carta fondamentale che doveva rinnovare lo Stato. La sedia di direttore non era una poltrona che poteva servire come pensatoio: era calda come la vita che si viveva in quegli anni noi comunisti con la testarda volontà non solo di resistere all'urto scelbiano e ai rigurgiti fascisti ma di continuare a operare, come durante i mesi tragici della guerra civile, per unire gli italiani e dare ai lavoratori e al popolo la coscienza della loro forza. Dirigere «L'Unità» era diverso dall'essere responsabile di altre testate giornalistiche cosiddette indipendenti; grandi quotidiani come «Il Corriere della Sera» o «La Stampa» ecc. avevano alle spalle una organizzazione diffusionale, la possibilità di ottenere tutti i mezzi economici occorrenti dalle casseforti di editori i quali facevano giornali per difendere gli interessi dei grandi capitalisti: volevano il ritorno alla normalità, che allora significava, come massimo, tornare alla democrazia zoppa dell'anteguerra, proprio quel modo di sgovernare che aveva aperto le porte al fascismo. «L'Unità» alle sue spalle aveva una tradizione opposta. La testata, quella parola Unità inventata e voluta da Gramsci quando contro il partito comunista appena sorto di scagliavano tutte le forze reazionarie; poi la fine della libertà di stampa per gli oppositori del fascismo, «L'Unità» clandestina. Ma come la partecipazione massiccia alla Resistenza dei comunisti, organizzatori dei giovani che erano nati sotto il fascismo ed avevano patito le folli avventure di guerra mussoliniane aveva ricreato un partito non solo combattivo ma di massa, così «L'Unità» divenne rapidamente la bandiera dei lavoratori, un quotidiano di libertà. Il 26 aprile, appena deposta la divisa partigiana, su intimazione, ancora un po' alla maniera partigiana, di Giorgio Amendola, fui chiamato a lavorare a «L'Unità» di Torino, lasciando ad altri il compito di smobilitare il raggruppamento Divisioni Garibaldi Monferrato di cui aveva tenuto il comando nei mesi della guerriglia. Di lì cominciata la mia esperienza di giornalista comunista. Quattro tavoli in corso Valdocco, due stanzoni, pochi redattori, metà ancora in divisa partigiana, e avanti con Ludovico Geymonat, e costruire i primi numeri del quotidiano per l'edizione piemontese. Dopo poche settimane ero tra i pochi con conoscevano il mestiere, fui nominato redattore capo, con direttore Amedeo Ugolini, che era stato uno dei protagonisti del C.L.N. piemontese, poi sostituito da Ottavio Pastore. Fin da allora alternavo la costruzione del giornale con conferenze e comizi a Torino e in Piemonte. Un ruolo nuovo per conoscere meglio le esigenze dei lettori, non soltanto continuando le tradizioni di Gramsci e de «L'Ordine Nuovo», e cioè con ogni sera gruppi di operai e di intellettuali che venivano a discutere il giornale in redazione, ma andando a parlare loro e ad ascoltarli nelle fabbriche e nelle cascine. Non posso non ricordare, di questa esperienza torinese, cosa hanno significato per me i contatti con la massa operaia così compatta della Fiat, gli incontri con Pastore, Parodi, Santhià, e altri che erano stati con Gramsci, Togliatti e Terracini nel tempo della occupazione delle fabbriche, degli «operai di carne ed ossa», così come non posso non ricordare che nella redazione di corso Valdocco è nata l'amicizia e il sodalizio con Cesare Pavese, coi pittori Casorati e Spazzapan, i poeti Antonicelli, Alfonso Gatto, Ungaretti, gli scrittori Silvio Micheli, Serini, Calvino (che è stato per un periodo anche redattore, con Raf Vallone), e tanti altri che erano il nucleo della cultura torinese, da Bobbio a Galante Garrone, e da Filippo Burzio a Mario Soldati, da Enrico Emanuelli a Bonfantini e tanti altri. Alla metà del '47 fui trasferito a Milano, dopo tre giorni di conversazioni con Longo e Togliatti a Roma perché ero recalcitrante ad abbandonare Torino e il Piemonte, tanto che Togliatti mi sfotteva dicendo che ero «un testardo soldato di Cavour». L'impatto con Milano non fu dei più facili. La città aveva un respiro diverso da Torino. Non c'era la massa operaia organizzata della Fiat, la stessa classe operaia divisa in tante fabbriche grandi e medie aveva altre caratteristiche. Bisognava organizzarsi con un'altra redazione più numerosa, con provenienze diverse. Ma fare il giornalista era per me una tal passione che mi aiutò a superare rapidamente ogni difficoltà. Mi affiatai nel giornale in cui ero arrivato con la qualifica di vicedirettore, con la città, con gli operai, con altri intellettuali. Milano, se riesci ad ascoltarla e a sentirla, ha il fiato caldo. E' una città più avanti. Milano è già metropoli ed è già Europa. Ma parliamo de «L'Unità». A Torino avevo lasciato un'edizione che vendeva oltre centomila copie, resistendo bravamente anche quando erano tornate ad uscire «La Stampa» e la «Gazzetta del Popolo». L'edizione di Milano si diffondeva in molte più regioni: dalla Lombardia, all'Emilia Romagna, al Veneto, all'Alto Adige. La tiratura superava le duecentocinquantamila copie e andava allargando la sua influenza. Dopo pochi mesi il partito mi chiamò a sostituire Renato Mieli alla direzione del giornale. Ciò significò aumentare, se era possibile, il ritmo già febbrile di lavoro; le giornate e la parte di notte lavorativa erano lunghissime, le ore di sonno poche. Si lasciava la redazione alle tre e mezza del mattino, e alle nove e trenta si era già al posto di lavoro. Con in più l'estensione dei comizi, delle riunioni, delle conferenze e degli incontri in tante più città e paesi, da Rimini a Trieste; credo cha non siano molti anche i piccoli centri dove non sia stato a parlare un direttore de «L'Unità»: se il lavoro giornalistico è di per sé abbastanza impegnativo, vario, scattante, quello di giornalista comunista accentua il significato di tutti questi aggettivi. Costruivamo tante pagine - le cronache locali - alla pari con altri quotidiani a larga diffusione, ma con meno della metà dei redattori e con lo stipendio dei funzionari di partito (è noto che non è allettante neppure oggi, negli anni Ottanta, lo stipendio dei funzionari, ma negli anni Cinquanta serviva giusto giusto al mantenimento). Eppure era anche questo tipo di vita eguale a quella di un operaio che ci manteneva onesti, volonterosi, attivi e dava alla nostra fede politica e ai nostri ideali la prevalenza su ogni cosa. Ho già detto che erano gli anni, prima, della guerra fredda, e poi, molto per la nostra azione - anche della stampa, che si esprimeva nella linea del partito - gli anni dei primi dialoghi tra forze politiche diverse e dell'unità delle sinistre. I ricordi, gli episodi di quegli anni di lavoro sono tanti. Porterebbero a scrivere altrettante pagine di quelle scritte sul giornale. Personalmente scrivevo ogni giorno un corsivo di prima pagina, oltre agli editoriali, alle corrispondenze dalle località italiane o estere dove mi recavo, sempre per il giornale, e alle collaborazioni letterarie in terza pagina. Se a Torino avevo trovato il modo di rubare qualche ora al lavoro del giornale e al sonno per scrivere, su precisa ordinazione di Luigi Longo, il diario delle vicende partigiane «Classe 1912», ristampato successivamente da Rizzoli nella B.U.R. col titolo «A conquistare la nostra primavera», a Milano non ho più potuto scrivere una sola pagina che non fosse per il giornale. I libri che ho pubblicato, dal «Vizio assurdo - storia di Cesare Pavese», ai troppi altri fino a quello su Beppe Fenoglio sono stati scritti tutti dopo, quando ancora una volta per volontà di Giorgio Amendola sono stato staccato - con mio grosso rammarico - dal giornale, ed eletto deputato nella circoscrizione di Milano per tre legislature. Quali i momenti più importanti vissuti come direttore del giornale? Anzitutto le lotte quotidiane contro la guerra fredda e le spedizioni punitive di Scelba. L'episodio degli operai di Modena crocifissi di pallottole della polizia contro i cancelli delle officine Orsi, è stato il più drammatico. Ha scosso l'intero Paese e costretto il ministro dell'interno e il governo a rendersi conto che quella da loro intrapresa era una strada sbagliata che non andava soltanto contro i lavoratori dando piombo al posto del pane, ma anche contro l'indipendenza e l'interesse della nazione. Non dimenticherò mai la tensione e l'emozione della sfilata tra milioni di donne e uomini per le strade di Modena accanto a Togliatti, dietro il gonfalone de «L'Unità». Altro ricordo vivo: il dialogo con i cattolici intrapreso assieme sulle colonne de «L'Unità» di Milano e sul settimanale «Adesso» diretto da Don Mazzolari, dialogo che portò a scrivere su «L'Unità» uomini di varia tendenza politica e ideale. L'iniziativa fu elogiata da Togliatti e precedette il famoso appello dello stesso Togliatti, all'indomani della scomunica ai comunisti da parte vaticana (Pio XII), al dialogo tra cattolici e comunisti. Ancora: il dramma vissuto a «L'Unità» nei giorni dell'entrata dei carri armati sovietici in Ungheria. Il palazzo dei giornali di piazza Cavour era circondato dai fascisti urlanti contro «L'Unità» che gremivano la piazza dal mattino alla notte. Da ogni parte arrivavano compagni isolati o delegazioni per chiedere chiarimenti o protestare. Dalle Federazioni delle varie regioni le telefonate si susseguivano con impressionante affanno. Che succede? Naturalmente tutte le risposte doveva darle il direttore. Firmavano i «corsivi» con lo pseudonimo partigiano «Ulisse» e dovevo essere pronto alla battaglia. Giorni e notti di tensione. Per le strade di Milano erano appese alle piante minacce di morte per me unite ad insulti a «L'Unità». Gli scontri con i compagni più fragili o più decisi nel rispondere contro i sovietici si susseguivano; forse io pativo più di tutti gli altri: quei carri armati che sparavano contro lavoratori e comunisti di un altro paese, sparavano anche sulla mia testa. Crollavano certezze, crollava la credenza che il socialismo potesse creare l'uomo nuovo e che tra comunisti non vi fossero discussioni o scontri che non potessero essere chiariti pacificamente. Alla dialettica si sostituivano le accuse sanguinose, gli spari, i morti. Moriva dentro di me l'ideale che doveva salvarmi dall'aver creduto in falsi miti della gioventù. Ero dunque passato da un inganno a un altro, da una tirannide a un'altra? Per fortuna il tormento che provano mi si leggeva negli occhi e si capiva anche nelle risposte dure che ero costretto a dare. Da Roma non arrivavano più né consigli né disposizioni. Non riuscivo a parlare al telefono con Togliatti né con Ingrao. Anche là era caduto il silenzio dei momenti tragici. Eppure io ero in trincea, la piazza urlante di fascisti mi imponeva di resistere, il partito non aveva risposto indignato all'occupazione sovietica. Alla testa dell'U.R.S.S. non c'era più Stalin col suo monolitismo da desposta ma Krusciov che pareva avere aperto al disgelo e alla libertà. In troppe guerre fatte avevo appreso che non si può scappare dal proprio passato mentre sei in battaglia né per viltà né perché hai capito che altri ti hanno spinto a combattere una guerra sbagliata. La tua fuga è la morte degli altri. Dovevo tenere il mio posto. «L'Unità» non era il mio giornale personale ma l'organo di un partito. Finita la bufera avrei detto la mia. Passarono anche quei giorni, drammatici soprattutto per noi comunisti. Dopo di allora accentuai le mie critiche, le mie intemperanze. Pubblicai a carattere di scatola la dichiarazione di Di Vittorio che si schierava con gli ungheresi, che le altre edizioni avevano messo in seconda pagina. Da allora mi cominciò a rodere il dubbio e il rimorso, se era giusto avere titolato sempre vistosamente e consentito a tutto quanto veniva dall'U.R.S.S. Gli altri paesi capitalisti facevano di peggio contro la libertà e la pace ma questo non giustificava che le stesse cose si facessero in U.R.S.S. e negli altri paesi socialisti. Poi è cominciata anche nel partito la fase dello sganciamento dall'Unione Sovietica, la possibilità della critica. «L'Unità» di Milano sottolineò ogni risposta in tale direzione. Non volevamo fare un giornale antisovietico ma non accettavamo più il trionfalismo, e i titoli, anche per gli atti di politica estera sovietica, furono sempre dosati. Cresceva nella realtà il partito nuovo, che aveva sempre avuto una chiara impronta nazionale e aveva sempre servito fedelmente e coraggiosamente come durante la Resistenza la causa del Paese e dei lavoratori, ma ora cominciava a dare il suo contributo per un rinnovamento del marxismo-leninismo e dei rapporti con l'U.R.S.S. e con gli altri paesi del campo socialista. Queste le esperienze che ho potuto citare, ma ogni giorno il giornale portava a sempre nuove decisioni. Non c'era fatto che non trovasse posto su «L'Unità». Ho cercato, più di altre edizioni, di fare sempre un giornale popolare che non mancasse di alcuna notizia, anche a scapito di qualche comunicato politico. Sono stato il più possibile fedele all'impegno di considerare i lettori come degli adulti in grado di valutare e commentare da soli fatti e iniziative politiche. Di questo posso in buona coscienza dichiararmi contento.

 

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