«Toro-Juve» di Gian Paolo Ormezzano
Torino ha due squadre di calcio le quali fanno una storia così spessa che tenerla tutta insieme non si può. Ecco perché o si parla del Torino, o della Juventus. E quando per avventura le due entità sono fuse in una, mettiamo la Nazionale, subito la cosa appare blasfema: la rappresentativa azzurra formata da bianconeri e granata è amata più a Roma che a Torino. Questo perché a Torino appare creatura innaturale, empia, mostruosa. Di solito, la presenza massiccia di una squadra torinese in Nazionale era anche una punizione per l'altra squadra. Alla fine degli anni Settanta c'è la cosiddetta fusione in azzurro. Per i puristi, un orrore. Non si può pensare ad un poema facendo scrivere un verso al Carducci, un verso al Pascoli. Il vero tifoso del Torino vuole, in primo luogo, la sconfitta della Juventus. E viceversa, si capisce, il vero tifoso di una delle due squadre interpreta questa sua specie d'amore come il mezzo migliore per significare l'odio verso l'altra squadra. E se domani per caso apparisse in città un'altra entità calcistica, valida per combattere quella odiatissima, il tifoso lascerebbe la squadra sua e passerebbe a quella nuova, in pratica scegliendola come arma migliore, più efficiente. A fondere le due squadre, prima materialmente poi almeno moralmente, si sono provati in molti. Durante l'ultima guerra i giocatori del Torino evitavano il servizio militare, o la deportazione in Germania, lavorando per la Fiat, cioè per l'industria mamma della Juventus. Vent'anni dopo la fine dell'evento bellico Gianni Agnelli propose l'unificazione anche per resistere al grande calcio milanese. Sognava uno stadio grandissimo, fuori città, verso Novara, e spettacoli di calcio assoluto. La gente prese a chiamarlo «Giôanin 'l fôndeur», Giovannino il fonditore, e parlò di condannarlo, per quel pensiero blasfemo, a lavorare a vita negli altiforni Fiat. Neppure si sa bene quale delle due società sia nata prima. Per la Juventus è ufficiale il 1897, ad opera di un gruppetto di studenti che si trovavano su una panchina di corso Re Umberto. Erano studenti del ginnasio-liceo Massimo d'Azeglio, il più severo della città. Il mese era novembre. Il primo nome fu «Sport Club Juventus», dopo cernita vasta, passando anche per «Pro Patria et Libertate», «Vis et Robur», «Forza e Coraggio». Maglia rosa con cravattino nero, per via di una fornitura tessile a poco prezzo da parte dei padre di un ragazzo. Il Torino ha celebrato i settant'anni nel 1976, ma questo non vuol dire che sia nato nel 1906. Perché nei 1890 esisteva già l'«Internazionale Torino», nel 1894 il «Football Club Torinese», nel 1897 la «Ginnastica Torino». E se si vuole mettere una retromarcia ancora più importante, nel 1887 c'era un «Football and Cricket Club». E pare che il Football Club Torino, dicembre 1906, sia nato da tutte queste società, delle quali specie il Football Club Torinese praticava già ii vero gioco del calcio, agli albori del secolo (e l'Internazionale poi era arrivata, nel 1898, alla finalissima contro il Genoa, perdendo per 2 a 1). Comunque, si è deciso nel 1976 che il Torino aveva settant'anni, nel 1977 che la Juventus ne aveva ottanta. Curiosamente, alla fine del 1977 dieci anni e dieci scudetti separavano le due squadre come importanza di risultato e magnanimità di lombi: la Juventus, più vecchia di dieci anni, lo era anche di dieci vittorie. Ovviamente questo non potrà mai significare, per il tifoso granata (a proposito, quello fu subito il colore del Torino, mentre la Juventus approdò al bianconero, a imitazione del Nottingham, reso popolare da racconti di esploratori in Inghilterra, solo nel 1903), non potrà mai significare, dicevamo, superiorità della Juventus, ma soltanto sua migliore alleanza con gli dèi. E sia in ogni caso subito chiaro che non esiste mai, per il granata o il bianconero, il problema della superiorità di una squadra sull'altra: semplicemente, l'altra squadra non esiste, o meglio prende ad esistere soltanto quando va male, e allora viene derisa, sbeffeggiata. Nel campionato 1976-77 il Torino ha fatto 50 punti, la Juventus 51: entrambe le squadre hanno battuto ogni precedente record di punteggio. I bianconeri hanno preso in giro i granata, i quali hanno replicato decidendo che la Juventus «non è». Ci sono enormi profondità filosofiche nel tifo calcistico, e male fa chi si limita a sorriderne. In quale misura le due squadre torinesi sono storia, e in quale misura antistoria, della città? Qualcuno potrà obiettare che l'antistoria è anche, e sempre, la storia. Ma noi vogliamo dire che esiste il modo di vivere con, ed il modo di vivere contro. Di solito si pensa allo sport, specie nei suoi massimi fatti lucidi, come ad un qualcosa legato ai grandi cicli storici, e invece molto autonomo per quel che riguarda la cronaca spicciola. E cioè lo sport spartirebbe (non potrebbe non spartire) i grandi respiri, ma al tempo stesso sarebbe antitesi permanente di certi affanni, di certi sospiri. Sarebbe insieme alimento per una crescita o quanto meno una sopravvivenza globale, e pastiglietta tranquillante per soluzioni d'emergenza in opposizione a realtà spiacevoli. E' questo un modo molto comodo di pensare allo sport: gli si dà diritto di esistenza, ma intanto si ridimensiona la sua vita. Facciamo un esempio molto legato a Torino, anzi alla Juventus. La Juventus è anche Fiat, nel senso che la proprietà azionaria è di Gianni Agnelli per metà, dell'Ifi (la finanziaria vicinissima alla Fiat) per quasi tutta l'altra metà: ora, la Juventus viene presentata insieme come espressione storica e contraltare cronistico della Fiat. Della quale Fiat vive appunto la storia grande, nel bene e nel male, contribuendo a creare questa storia, che è poi storia della città e anche d'Italia; ma della quale Fiat è pure antidoto, medicina, se la partita domenicale, con la sua eco, vale a far scordare l'affanno quotidiano, l'impegno di lavoro. Queste «categorie», però, cronaca e storia, si stanno mescolando nella vita di tutti i giorni, e secondo noi anche nello sport, che è appunto vita di tutti i giorni (non può non esserlo, essendo vita tout court). Ormai ogni episodio cronistico è «storico», lo si legge tutti i giorni nei titoli di giornale. Ed intanto la storia non può esimersi dall'agganciarsi, proprio per acquisire storicità, alla cronaca. Così anche le più recenti vicende del calcio torinese furono cronaca, e intanto sono diventate storia. Si pensi alla geopolitica della Juventus, cominciata in fondo come cronaca del mercato estivo dei calciatori. La Juventus ha «creato» titoloni sui giornali acquistando giocatori di ogni parte d'Italia, e specialmente del Sud: ad un certo punto ha avuto il sardo, il siciliano anzi il siciliano di Palermo e quello di Catania, il pugliese, il calabrese... La squadra si è trovata a riprodurre esattamente, nei suoi componenti, il «mosaico Fiat», cioè l'etnos dell'industria più grande d'Italia e d'Europa, popolata, a Torino, di immigrati (a proposito, non è mai stato dimenticato il veneto, così importante nella geografia torinese). La cronaca della Juventus, domenica dopo domenica, è stata anche storia della Fiat, cioè d'Italia. E quanto al Torino, la cronaca sanguigna delle sue vicende, dei suoi sentimenti crassi, popolareschi, da suburra però timorata di Dio, è identificabilissima in una certa ultima storia d'Italia, con la piazza assai virulenta però ancora emotiva, malleabile, e con un senso di persecuzione e di adattamento insieme, e con tanta filosofia popolare, e con la protesta a voce alta e il cosiddetto «dovere» eseguito a voce bassa. Diciamo che, se la Juventus ha riprodotto nel suo mosaico quell'Italia ideale che il miracolo economico ci aveva voluto far credere che fosse possibile far esistere e poi far vivere e poi far sopravvivere, il Torino nelle sue vicende ha riprodotto quell'Italia piazzaiola, contestatrice e intanto onesta, di una sana onestà plebea, che è diventata Italia di tutti i giorni, sollecitata ad esserlo da una cronaca abnorme. Violenta, cattiva, fornita da avvenimenti esterni, così esterni da sembrare davvero provenienti da un altro mondo. Completiamo il ragionamento: se qualcuno crede ancora - e deve esserci qualcuno che ci crede - in una certa Italia programmata e programmante, un'Italia che con il pantografo riproduce un po' dovunque le stesse situazioni, un'Italia in cui anche l'urlo domenicale è la risultante di un processo storico, senza scaturigine in un'invenzione provvisoria, la Juventus va benone, è una squadra di calcio generata dalla Fiat come le auto vengono generate dalla catena di montaggio; se invece qualcuno crede in un'Italia che tutto sottomette alle regole della fantasia sanguigna, dell'improvvisazione, e che proprio in questa precarietà «rituale» trova la sua autentica forza, il Torino è, nella città ormai più italiana, in quanto tipica, d'Italia, una espressione ad hoc. Ci si può chiedere se le due squadre non si odiano, per caso, visto come sono entrambe egualmente emblematiche di due mondi, o di due modi d'essere profondamente diversi. Non si odiano le due squadre, si possono odiare le due tifoserie. Si può dire, paradossalmente ma non troppo, che la tifoseria juventina non ha ancora compiutamente capito se stessa, nel senso che non accetta le definizioni, pur giuste, che le vengono rifilate. E quella granata idem, non si capisce, non accetta d'essere sanguigna di sangue rosso, insegue il sangue blu che è invece dell'altra sponda. Nessuna delle due tifoserie accetta di essere lievito alla storia, entrambe confidano, quasi barbaramente, nella cronaca, per vivere di vita «vera». Il respiro storico che abbiamo cercato di identificare qualche riga più sopra non le riguarda. In ogni momento, darebbero tutta la loro storia, tutto il loro senso storico, tutta la loro aderenza ai grandi temi della vita, pur di vincere un derby, «il» derby. Se la tifoseria juventina avesse il senso della sua storicità ormai totale, e quella granata della sua provvisorietà artistica e dunque validissima, potrebbero organizzarsi meglio, senza sbavare per essere una simile all'altra. La Juventus non avrebbe i suoi nidi di tifosi ultras, da suburra, nella curva Filadelfia, e il Torino non avrebbe il tifo industriale, organizzato come in una catena di Mirafiori, alla curva Maratona. Quale squadra è più popolare nella città? Premettiamo che fuori Torino la Juventus è decisamente più popolare: non ha colori, il bianco e il nero non essendo colori, e si può tifare per la sua maglia tifando intanto per la coloratissima maglia della squadra del posto dove si è nati o dove si vive, magari lontanissimo da Torino: ha un nome latino che significa «gioventù» e che va bene per tutti (è impossibile tifare contemporaneamente per una squadra che si chiama Milano e per una che si chiama Napoli, non è impossibile per una che si chiama Juventus e una che si chiama Bologna; e alla base di questa considerazione filologico-psicologica sta uno dei segreti della popolarità dell'Inter, cioè dell'Internazionale, seconda soltanto alla Juventus nelle simpatie italiane). E ancora: la Juventus è legatissima alla Fiat, la si pensa immagine anche di una certa sanità nazionale, di una intraprendenza premiata. E infine: la Juventus ha vinto diciotto scudetti, dei quali cinque consecutivi nel periodo (1930-1935) in cui l'Italia sembrava andare bene, aveva un'immagine decente, quasi raccomandabile, comunque costruita con sapienza o furbizia; e in un certo senso la Juventus apparve (e appare) come la cosa giusta in un paesaggio giusto (o ingiusto: allora c'è la forza del contrasto). Che poi la «cosa giusta» fosse il fasullo dell'Italia fascista di allora non c'entra: la regìa era buona, la mistificazione funzionava. Nella città, sino a pochi anni or sono, il Torino aveva una grandissima maggioranza di tifosi. Il torinese del popolo era (ed è) granata. Il suo tifo era assai macerato, si richiamava sempre a Superga, al rogo del 4 maggio 1949, era una continua seduta medianica, lo scudetto era ormai un ectoplasma evocato per un rito di autoerotismo, i cinque campionati vinti dal 1943 ai 1949 erano oggetto di un voyeurismo retrò. Però Torino era granata, essere della Juventus significava ancora essere aristocratici. I primi immigrati sposavano il Torino, del quale spartivano la vis insieme umile e sanguigna: magari arrivavano innamorati della Juventus, vissuta al paesello attraverso saghe e sagre, ma gli stessi juventini blasés li respingevano. E poi essere del Toro voleva dire essere un po' meno della Fiat che li aveva chiamati per possederli. Passata la frontiera del milione di abitanti, e cominciata la legge politica bianconera, la Juventus ha riconquistato tutto il terreno, ed è passata in testa. C'era il boom, il siciliano trovava in bianconero il suo compaesano, idem il pugliese, il sardo... I giocatori gli apparivano fratelli più fortunati, ma intanto anche simboli sui quali trasferire la fortuna sua. Ancora all'inizio degli anni Settanta, la Juventus dominava, numericamente e anche quanto a risultati sul campo. Poi c'è stato l'antiboom, il calo dei posti di lavoro, la crisi italiana generale, quella torinese particolare. La mamma Fiat è diventata arcigna, la città ha fatto in fretta a rivelare i suoi grigi. C'è stato un ritorno al Torino come segno di protesta. Sono cominciate le scritte «politiche» sul calcio. Il meridionale ha scoperto che Torino lo aveva attirato con simboli che la realtà economica rendeva meno validi. Se non si è buttato con ferocia ad amare il Torino, è stato soltanto perché, in un revival di piemontesite o meglio di torinesite, la tifoseria granata, ai tempi della minoranza, si era come chiusa pretendendo di impreziosirsi, nel culto del dialetto, nella guerra ai «terroni». Comunque a livello di tifo e di delusione ci si capisce in fretta. All'inizio degli anni Settanta si è anche cominciato a parlare del football come di un deterrente, anziché di un tranquillante. In attesa dell'arrivo nel mondo del calcio del terrorismo organizzato e travestito da teppismo, si è cominciato a reperire nello psicodramma sportivo la riproduzione degli affanni di ogni giorno. Proprio a chi scrive queste righe, Enrico Berlinguer ha dichiarato che «lo stadio non è oppio». Torino e Juventus hanno pienamente recepito questo fatto nuovo: e d'altronde non c'era niente da fare. Le vicende delle due squadre sono diventate insieme originale e terminale di tanta psicologia con alta applicazione politica. Anche nei sogni del torinese benpensante, borghese, impiegato Fiat, lo stadio ha smesso di essere il posto dove la brava gente alienata dal lavoro va a scaricarsi e ricaricarsi per un'altra bella settimana al tornio. Il processo è in corso, durerà anni prima di tollerare anche una prima identificazione. I calciatori già si sono accorti di essere interpreti di uno psicodramma che coinvolge tutti, anziché dei divi isolati, venerati. La loro vita si è fatta difficile, sono dei managers che gestiscono la psicologia di una gente più attenta, di spettatori più preparati. I dirigenti delle due società hanno profondamente capito ciò. Torino e Juventus si sono unite per dare una risposta autenticamente politica al momento della città, della gente. Si sono infittiti gli incontri col sindaco. Più nessuno ha parlato del calcio soltanto come di una festa, da tenere a tutti i costi. Lo spettacolo domenicale non è stato più servito in opposizione a qualcosa. Con sottigliezza e intelligenza, anche le due massime società di calcio hanno preso parte consapevole alla tensione, all'inquietudine. Gli stessi giocatori hanno cominciato ad essere chiamati «lavoratori del pallone», non per demagogia, ma per necessità e verità insieme. Si è cominciato a parlare di «efficienza industriale» nella conduzione delle due società, e non più di «fantasia premiata». Il linguaggio usato dai presidenti Pianelli e Boniperti verso i loro atleti è stato simile a quello usato dagli imprenditori quando parlano alle maestranze. Le squadre sono state calate nella realtà cittadina, non presentate come entità avulse, raccomandabili solo perché stranianti. Lo stadio ha smesso di essere un atollo felice, è diventato un vascello sballottato dai marosi. I tifosi sono stati invitati a passare dall'amore all'interesse, dall'affetto all'attenzione. La Juventus è stata quotata in borsa. Il Torino ha diviso azioni fra i giocatori. Non c'è la data esatta della rottura della campana di vetro sotto la quale stava il calcio torinese: ma è certo che alla fine degli anni Settanta della campana di vetro non si trovavano manco i cocci.
