«Origine dello stemma Visconteo dell'Alfa» di Gonzalo Alvarez Garcia
Gli stemmi moderni risalgono al periodo feudale. Derivano dalle insegne usate dai feudatari laici ed ecclesiastici per distinguere i propri soldati. In realtà, emblemi e bandiere sono stati usati dagli eserciti di tutti i tempi. I Cimbri e i Teutoni, ad esempio, portavano come emblema figure di bestie feroci. L'emblema dei Longobardi, dai quali i Visconti raccolsero le tradizioni, era un serpente. I Visconti divennero signori di Milano nel 1277 e tennero la Signoria fino all'estinzione della loro dinastia, nel 1447. Capostipite dei Visconti fu Ottone, signore di Invorio e di Oleggio Castello, che partecipò alla prima Crociata e morì nel 1111. La fortuna dei Visconti, che fino al 1277 era modesta, ebbe inizio con la nomina di Ottone Visconti ad arcivescovo di Milano. La vita a Milano non era tranquilla. Nobili e popolo guerreggiavano aspramente tra di loro con alterna fortuna. Napo Torriani, capo del popolo, sconfisse i nobili e li cacciò dalla città. I nobili allora si raccolsero intorno all'arcivescovo Ottone e lo scelsero a proprio capo. Il 20 gennaio 1277, a Desio, Ottone diede battaglia a Napo Torriani e lo sconfisse, divenendo padrone della città. L'unione del potere temporale e spirituale di Milano nella persone dell'arcivescovo fu decisiva per il formarsi della Signoria viscontea. Ottone fondò abilmente il potere della sua famiglia sui diritti ecclesiastici. Egli governò Milano in nome della Chiesa e, contemporaneamente, come delegato dei nobili; ma, cosciente del fatto che per diventare padrone assoluto della città aveva bisogno anche del sostegno del popolo, con grande abilità politica riuscì ad ottenere la fiducia di coloro che aveva appena sconfitto. La fiducia concessagli dal popolo gli conferiva la facoltà di nominare direttamente due autorità che erano della massima importanza per il buon governo della città: il podestà e il capitano del popolo. Ottone aveva preparato sagacemente le basi giuridiche che facilitavano la presa del potere da parte della famiglia Visconti. Nessuno, infatti, si meravigliò quando egli conferì entrambe le due importanti cariche al nipote Matteo, detto il Grande. Solamente la Chiesa reagì quando, alla morte dell'arcivescovo avvenuta nel 1295, Matteo affermò la propria autorità su buona parte dei possedimenti ecclesiastici. Matteo fu scomunicato, ma nonostante la scomunica riuscì nel giro di pochi anni a consolidare la Signoria viscontea. Per giustificare ufficialmente la sua posizione e per contrastare l'influenza della Chiesa, si fece conferire dall'Imperatore il titolo di Vicario imperiale, grazie al quale riuscì a vincere l'ostilità del partito guelfo e a neutralizzare la scomunica e l'interdetto lanciato dal Papa contro la città di Milano. Il titolo di Vicario imperiale dava a Matteo il diritto di esercitare la propria autorità non solo sul territorio milanese ma anche su tutte quelle città lombarde che per risolvere i propri conflitti interni decidessero di accettare il Visconti come Signore. Si apriva così per Milano l'ultimo capitolo dell'annosa lotta tra guelfi e ghibellini che divise gli Italiani durante il medioevo. Con i Visconti trionfava il partito imperiale e Matteo il Grande poteva dedicarsi a consolidare e allargare il proprio potere. Considerati i precedenti oscuri del casato, era necessario creare la saga dei Visconti da tramandare ai posteri. Quindi Matteo chiese agli scrittori di corte di elaborare sia la storia che la leggenda della famiglia, inventando, in particolare, le imprese gloriose degli antenati. Racconta il Fiamma, cronista del medioevo milanese, che tra i reduci della prima Crociata, dopo la guerra di Gerusalemme nel 1099, si trovava quell'Ottone signore di Invorio e di Oleggio Castello, capostipite dei Visconti morto a Roma nel 1111. Duellando intorno alle mura della Città Santa, Ottone avrebbe ucciso un nobile saraceno il quale portava come stemma inciso sullo scudo un serpente divorante un uomo. Secondo altre opinioni, il trofeo strappato da Ottone al saraceno non sarebbe stato uno scudo, bensì un cimiero. Il cimiero era simbolo della gloria militare che incoronava l'eroe. In effetti, lo stemma dei Visconti è coronato da un cimiero con il drago che divora un uomo. Racconta ancora il Fiamma che quando Ottone Visconti partì per la Terra Santa al comando dei crociati milanesi, l'arcivescovo gli consegnò «una bandiera con la mosaica vipera di bronzo». Si tratta di leggenda diffusa al tempo di Matteo il Grande, il quale aveva bisogno di titoli ufficiali per affermare su basi legali la sua recente signoria, ma anche di leggende eroiche per affermarla nella fantasia dei suoi sudditi. Nella leggenda raccolta dal Fiamma il popolo aveva confuso già due simboli assai diversi: il serpente che poteva contemplare tutti i giorni nella basilica di Sant'Ambrogio, e una tradizione pagana che andava scomparendo, quella del serpente azzurro, emblema e animale totemico della gente longobarda. I Longobardi, infatti, portavano un serpente come amuleto in una borsetta appesa al collo e lo usavano come insegna militare. Il simbolo pagano venne sopraffatto, come spesso succede, dal simbolo cristiano e rivestito di un significato solo nominalisticamente diverso. La bandiera con la vipera che sarebbe stata consegnata a Ottone non veniva dalla mitologia biblica ma dalle saghe longobarde. I Visconti raccolsero l'eredità dei Longobardi appropriandosi di storia e leggenda. In questo modo il totem longobardo si convertì nell'emblema dei Visconti, espressione della loro potenza e delle loro ambizioni. Il drago, simbolo araldico di fedeltà, di vigilanza e di valore militare, divenne il loro cimiero, mentre l'uomo o il bambino raffigurato tra le sue fauci rappresenta i nemici dei Visconti che il Biscione è sempre pronto a distruggere. Per la raffigurazione grafica del drago e del bambino gli araldisti di corte s'ispirarono probabilmente al Salterio di Arnolfo, scritto e miniato a Milano sulla fine del X secolo o nei primissimi anni dell'XI, che oggi si trova nel British Museum con la segnatura «Egerton 3763». Matteo il Grande sfogliò sicuramente più di una volta, quando era vivo ancora suo zio Ottone, questo splendido codice composto per l'arcivescovo Arnolfo da un ignoto monaco artista. Nel foglio 104 di questo codice c'è una miniatura dell'Arcangelo S. Michele il quale con la destra trafigge il drago, simbolo del demonio, mentre con la sinistra libera dalle sue fauci un bambino nudo che rappresenta il popolo di Dio. La miniatura interpreta una pagina dell'Apocalisse. Religione e araldica usano gli stessi simboli, benché con significati diversi: mentre per il cristianesimo drago e serpente significano crudeltà e perfidia, in araldica sono simbolo di prudenza e di eroismo. In questo gli araldisti della corte viscontea si riallacciavano senza saperlo alla mitologia universale, molto più vecchia della Bibbia, dove il serpente appare spesso non come simbolo del male, ma come simbolo benefico, donatore di vita. I primi stemmi viscontei che possediamo sono molto semplici. Risalgono al tempo di Matteo il Grande e si trovano nella chiesa di Sant'Eustorgio di Milano, dove Matteo fece costruire nel 1297 la sua cappella-mausoleo, e nella chiesa di San Gottardo in Corte, dove si trova il mausoleo di Azzone Visconti. Il Biscione porta sempre la testa di drago e non di serpente. Gli araldisti di corte che elaborarono lo stemma riunirono in un unico simbolo l'insegna militare longobarda - serpente in campo azzurro - e le miniature medievali che illustrano testi biblici. Con il passare degli anni nuovi simboli vanno ad arricchire lo stemma. Per ricordare il titolo di Vicario Imperiale ottenuto da Matteo il Grande nel 1297, venne aggiunta l'aquila imperiale. Gian Galeazzo introdusse i gigli di Francia per celebrare il suo matrimonio con Isabella di Valois. A fianco dell'araldica ufficiale o di Stato, nella corte dei Visconti fiorirono le «imprese» o «divise» innalzate dai signori seguendo l'ispirazione del proprio gusto, a ricordo di avvenimenti storici o come allegorie di reali o presunte virtù. Tra le «imprese» più diffuse notiamo nello stemma di Gian Galeazzo il bastone con la fiamma alla base, dal quale pendono due secchi d'acqua, allegoria dell'audacia (fiamme-bastone), temperatura dalla prudenza rappresentata dall'acqua; il «capitergium cum gassa» o nodo fatto con un velo, innalzato da Filippo Mario Visconti in occasione del suo matrimonio con Beatrice di Tenda; e la tortora in mezzo al sole con il motto «à non droit», divisa creata per lo stesso Filippo Maria del Petrarca durante il suo soggiorno nella corte milanese. Con la morte di Filippo Maria, avvenuta nel 1447, si estinse la dinastia dei Visconti, ma il Biscione continuò ad essere riprodotto negli stemmi degli Sforza e restò anche dopo il declino di quest'ultima famiglia, accanto alle aquile imperiali, come simbolo del Ducato di Milano, e quindi dell'Alfa Romeo, azienda giustamente considerata onore e vanto del lavoro di questa industriosa città.
