«La vedova di Svevo» di Mario Soldati


A Trieste, una decina di anni fa. Un amico mi presenta, per telefono, a Livia Veneziani, la vedova di Italo Svevo, e le chiede a mio nome se posso renderle visita. Con gentilezza e semplicità, l'anziana signora acconsente. L'indomani, all'ora stabilita, vado: da solo. Non ricordo più l'indirizzo, adesso. Ricordo soltanto che era nella città vecchia. Una via in salita, grigia, deserta, silenziosa: verso l'ora del mezzogiorno, con un sole pallido, fine febbraio. Guardavo, mentre salivo, i numeri alle porte: man mano che mi avvicinavo alla casa di Svevo, provavo un'incertezza, un disagio crescente. Quasi mi pentivo di avere sollecitato quel colloquio, le cui ragioni mi parevano, all'improvviso, estremamente futili: indice, da parte mia, di fianciullesca vanità, e non di curiosità filosofica. Se avessi potuto tornare indietro, se avessi potuto rinunciare senza scortesia, lo avrei fatto molto volentieri. Al tempo stesso, cercavo di persuadermi che l'errore, se c'era, non era poi così grave. Non dovevo temere nulla. Sapevo benissimo che la grandezza di Svevo era tutta nei suoi scritti. E ricordavo perfettamente (dai suoi scritti lo si poteva dedurre già allora, e l'epistolario lo ha confermato) quale fosse il suo atteggiamento verso la moglie: appassionato, ma insieme divertito e leggero; e quale fosse il suo giudizio su di lei: affettuoso ma insieme piuttosto limitativo. Ciononostante, all'idea che, di lì a qualche minuto, mi sarei trovato davanti, in ogni caso, a un'ombra, a un riflesso di quella grandezza, a una creatura vivente che Svevo aveva amato e con la quale era vissuto lungo tempo, mi sentivo mancare. Era al primo piano. Mi feci coraggio, e suonai il campanello. Livia Svevo Veneziani venne ad aprirmi lei stessa. Piccola, grassottella, vestita di un blu non troppo scuro. Capelli bianchi come diventano soltanto i capelli delle vere bionde. Guance ancora piene; occhiali rotondi, di metallo bianco; occhi chiarissimi, sorridenti, sfavillanti, e tuttavia stranamente freddi o distratti, come se mi guardassero e non mi vedessero. Mi fece accomodare in un salotto. Non era più, mi disse subito, «la casa di Svevo»: non era, come io istintivamente avevo pensato, l'ultima casa abitata da lui. Ma i mobili, sì. E quelli del salotto in cui ci trovavamo, il divano stesso su cui sedevo in quel momento accanto a lei, erano proprio «i mobili dello studio di Svevo». Cominciai a guardarmi attorno, commosso, attento. Lo stile aveva dell'umbertino (forse sarebbe meglio dire del biedermayer) e insieme già del Liberty. Divano, poltroncine, sedie di legno verniciate di bianco, un bianco ancora lustro ma assai screpolato: cuscini e imbottiture di tela grigioazzurra. Alle finestre, mantovane e tende grigioazzurre. E, in un angolo, una scrivania, anche quella di legno verniciato in bianco, e ricoperta, nel centro, di un panno cenerognolo. Sulla parete, in mezzo alle due finestre, e perciò nella penombra della controluce, era un quadro a olio. Domandai scusa, mi levai, e mi avvicinai per guardarlo meglio. Rappresentava una giovane donna, biondissima, sorridente, con gli occhi verdi. Colori vivaci, pennellata alla brava, maniera postimpressionista. Credetti di riconoscerlo subito, per averlo già visto riprodotto: non era forse il ritratto di lei stessa, Livia Svevo Veneziani, dipinto dal Veruda, l'amico di Svevo? «Sì, ma probabilmente lei ricorda la fotografia di un quadro un po' diverso. Quello che lei ricorda è stato regalato a Joyce. Questo è un altro. Me ne ha fatti tanti». Sempre commosso e imbarazzato, tornai a sedermi accanto a lei; e, nel silenzio, guardai verso la scrivania, dov'era un calamaio di bronzo e di vetro blu, una penna, un libro. «E' la sua scrivania», disse subito la signora, interpretando il mio sguardo, «il suo calamaio e la sua penna». Guardai di nuovo il quadro, che ormai vedevo bene anche contro luce e anche di lontano: «Il Veruda...» esitai: mi vergognavo a rivolgerle le stesse domande che chissà quanti le avevano rivolte prima di me: «... il Veruda è proprio il personaggio del Balli di Senilità?» «Sì, ma mio marito diceva sempre: "Soltanto fino a un certo punto". Il Veruda è stato, forse, la prima persona al mondo a dire quello che tutti gli altri hanno detto molti, ma molti anni dopo, quando lui era già morto, e cioè che mio marito era uno scrittore nato e che doveva scrivere. Perché mio marito, in principio, era impiegato di banca. Tre anni dopo il nostro matrimonio, per desiderio dei miei genitori, lasciò la banca ed entrò nella nostra Ditta, la Ditta Veneziani. Invece lui...» accennò verso il quadro. «Lui, Veruda?» dissi rapido io, che ascoltavo teso spasmodicamente, e temevo di fraintendere qualche particolare. «... sì Veruda... Veruda approvava che lasciasse la banca, soltanto che gli diceva che avrebbe fatto bene a dedicarsi completamente alla letteratura...». Domandai, sebbene lo sapessi di già, che cosa fabbricasse la Ditta Veneziani. Da come aveva detto «Ditta Veneziani», avevo intuito che le faceva piacere parlare dell'industria di famiglia, più forse che di Svevo. Infatti, quello che Svevo chiamò «voce di contralto» vibrò, come eccitata, mentre mi rispondeva: «Vernici sottomarine per le navi! C'era una qualità speciale che si chiamava Vernice Moravia, o anche, semplicemente, la Moravia. Era il cognome di mia madre, Olga Moravia Veneziani. Anche la madre di Svevo era una Moravia, Allegra Moravía: era sorella di mio nonno, Giuseppe Moravìa. Proprio Moravìa, e non Moràvia. Perciò Alberto Pincherle, che è nostro lontano parente e che ha scelto in famiglia il suo pseudonimo di scrittore, dovrebbe esigere che si pronunzi correttamente, con l'accento sulla i e non sulla a: Moravìa...». Mi levai un'altra volta, per vedere che cosa fosse il libro che era sulla scrivania, accanto al calamaio e alla penna. Era una copia molto usata di Senilità. La signora Livia fu pronta a spiegarmi: era una copia della prima edizione (1898) che era servita a Svevo da bozza, per apportarvi alcune correzioni in vista di una ristampa, molti anni dopo. Mi ricordai che la rivalutazione, anzi la rivelazione di Svevo era incominciata nel dicembre del 1925, con il saggio di Montale sull'Esame. Chiesi il permesso di sfogliare quella copia del capolavoro di Svevo. «Faccia, faccia pure» disse la signora Livia. A questo punto, mentre prendevo il libro tra le mani, mi resi conto di qualche cosa che mi aveva colpito fin dal primo momento. Era una singolarità, una stranezza che avevo avvertito senza capirla e che, perciò, doveva avere contribuito ad aumentare il mio disagio: nella voce, nella docilità, nella stessa prontezza con cui la vecchia signora rispondeva alle mie domande, c'era una straordinaria indifferenza per la letteratura, anche per quella di suo marito: una freschezza giovanile: e, adesso, quasi la sorpresa che io mi fossi accostato a quel libro con tanta reverenza, come alla reliquia di un santo. Ammetto: forse tradivo addirittura un certo tremore. Forse esageravo. Ma, sentendo tra le mie mani il peso del libro, pensavo che lo stesso libro, materialmente, era stato tra le mani di Svevo. Osservando le correzioni, qua e là, con la sua calligrafia germanica, in un inchiostro di china che cominciava ormai a rosseggiare, immaginavo Svevo che le apportava, mentre forse il libro era posato appunto su quella scrivania che toccavo. E continuando a sfogliare, e incontrando quasi ad ogni pagina il nome «Angiolina», rivedevo Angiolina come lui la aveva amata e ricreata. Che effetto dovevano avere fatto, su di lui, quelle stesse pagine, a distanza di tanto tempo, quando si era deciso a correggerle? Che cosa era diventato, per lui, allora, il ricordo della «vera» Angiolina? Era una storia, senza dubbio, precedente il suo matrimonio con Livia. L'addio ad Angiolina era di trentacinque, forse di quarant'anni prima. Ebbene, dopo che questo grande romanzo e il tempo in cui Svevo lo aveva scritto erano fuggiti, si erano allontanati senza rimedio da lui, Angiolina era per lui ancora qualche cosa di vivo? Sentivo crescere in me una oppressione fatta di tenerezza, di pietà e insieme di sdegno. Pensavo a Svevo come se lo avessi conosciuto personalmente, e come se lo ricordassi vivo, come se fosse un amico, un padre che avevo perso. Pensavo alla sua morte, che pure era avvenuta tanti anni prima, e quando lui era già vecchio, come a una crudele ingiustizia che lo colpisse in quel momento: oh, la gloria era bella, ma che cos'era di fronte al bene della vita? e d'improvviso, a tradimento, mi assalì un bisogno assurdo di sfogo. Posai Senilità sulla scrivania di Svevo, e scoppiai a piangere, di un pianto dirotto e convulso, che certamente era ridicolo e che inutilmente cercavo di trattenere. Piangevo ancora, due o tre minuti dopo, allorché vidi accanto a me la signora Svevo, che tranquillamente, silenziosamente, si era avvicinata. Mi mise una mano sulla spalla: «Che cos'è, eh?», mi disse scrollando il capo in segno di compassione «Poveretto, forse qualche dispiacere? Qualche dispiacere, non è vero?». Capii che era impossibile rispondere sinceramente: impossibile dirle che piangevo perché Svevo era morto. Feci con la testa segno di no, di no, mentre mi asciugavo le lagrime con il fazzoletto, e mi sforzavo di fermarle. Riuscii a mormorare: «Scusi, sa, non è niente...» confermandola così nella sua opinione che piangessi per ragioni mie private, che fossi stato sopraffatto dal pensiero di qualche dolore che riguardava soltanto me. Poco dopo, ringraziandola e chiedendole scusa, me ne andai. La rividi l'anno seguente, quando tornai a Trieste in occasione di una conferenza al Circolo della Cultura e delle Arti. Credo che avesse dimenticato la scena ridicola delle mie lagrime, o che, per delicatezza, fingesse di averla dimenticata: in ogni caso, il sospetto della verità, e cioè che Svevo, soltanto Svevo fosse la causa del mio turbamento, non l'aveva nemmeno attraversata, e se qualcuno gliene avesse parlato, ne avrebbe certamente riso, come di un'assurdità.
 

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