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«Sport e dollari: la boxe negli Stati Uniti» di Mario Gherarducci

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«Sport e dollari: la boxe negli Stati Uniti» di Mario Gherarducci

 

 

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«Sport e dollari: la boxe negli Stati Uniti» di Mario Gherarducci

Questa storia me l'ha raccontata Saverio Turiello nel suo bar-ristorante di New York, cinquantaseiesima strada, tra la sesta e la settima «avenue». E' una storia che può dare un'idea sui sistemi in uso nell'ambiente pugilistico americano sino a qualche anno fa. Saverio Turiello è milanese. Fu campione d'Europa dei pesi welters prima di trasferirsi oltre Atlantico, dove concluse la sua carriera di pugile e sposò una graziosa ragazza francese che oggi dirige un istituto di bellezza. Sia da pugile sia da ex-pugile, Turiello ha sovente lavorato all'ombra di Frankie Carbo - all'anagrafe americana Paul John Carbo, a quella italiana Francesco Carbone, da molti chiamato semplicemente «the killer», l'assassino - cioè il potente «boss» della malavita, che andò a finire i suoi giorni, minato dal diabete, in una cella del famoso penitenziario californiano di Alcatraz, dove l'avevano rinchiuso per scontare i 25 anni di carcere inflittigli il 3 dicembre 1961 per i suoi molteplici reati, tra cui quello di aver «truccato» un centinaio di incontri di boxe. Non sperate di ascoltare Turiello che parla male di Carbo. Sarebbe inutile. Come pugile, Turiello ha guadagnato parecchi quattrini grazie alla «protezione» di Carbo. Da ex-pugile ha trovato sovente aiuto e comprensione presso il «boss» di origine pugliese che amava farsi chiamare «mister Gray», il «signor Grigio», per i suoi capelli spruzzati di bianco.

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E' una storia il cui inizio risale ad una notte del febbraio 1950. Erano le tre del mattino quando una telefonata di Frankie Carbo destò Turiello. «Saverio, vieni subito qui. Ti aspetto». L'indirizzo era quello di un elegante «night club» dell'East Side, una delle molte proprietà di «mister Gray». Turiello si vestì in fretta, spiegò alla moglie che il «boss» lo aveva convocato per qualcosa di urgente, e prese un taxi. «Saverio, ho sentito parlare di un paisano che sul ring va forte. Si chiama Taibirio Mitri». Frankie Carbo pronunciò Tiberio all'inglese: Taibirio. «Saverio, vai subito in Italia e portamelo, qui. Pensaci tu. Voglio farne un campione mondiale dei pesi medi». Poche ore dopo Turiello era già in viaggio per l'Italia. Due mesi più tardi volava da Roma a New York in compagnia del triestino Tiberio Mitri, della moglie Fulvia Franco - «miss Italia» dell'epoca e sposa solo da poche settimene del pugile - e del «manager» italiano di Mitri. Cominciava una delle molte «operazioni» pugilistiche di Frankie Carbo: ingaggiare un pugile poco noto, «montarlo» giorno per giorno, portarlo al titolo mondiale, giocarci sopra una montagna di dollari e poi mollarlo, infischiandosene della fine che avrebbe potuto fare. Tiberio Mitri - allora ventiquattrenne - era un ragazzo biondo, slanciato, splendido. Sul ring possedeva rapidità, precisione, eleganza. Picchiava meno di Benvenuti ma disponeva forse di una maggiore varietà di colpi. Era dinamico nell'azione e solido nel fisico. Un pugile da spettacolo, insomma.

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Per convincerlo ad attraversare l'Atlantico, Turiello aveva usato un' arma diabolica: aveva parlato a Fulvia Franco di Hollywood, della possibilità di diventare una diva dello schermo, delle migliaia di dollari che la ragazza triestina avrebbe potuto guadagnare. E Fulvia aveva indotto il marito ad accettare la trasferta americana. Guidato da Turiello, Mitri sbarcò a New York nella primavera del 1950. Lo scortavano la bella moglie ed il «manager» italiano, che pochi giorni dopo venne rispedito a casa con tremila dollari in tasca per addolcirgli la rinuncia. «Voglio un campione mondiale italiano - aveva spiegato Frankie Carbo ai suoi collaboratori- L'America è piena di italiani, ogni giorno ne arrivano a centinaia. Un paisano sul trono dei medi sarebbe un affare per tutti». Per il debutto statunitense di Mitri venne scelto Dick Wagner. Esistono pareri contrastanti - tra i cronisti sportivi dell'epoca - sulle reali condizioni in cui Wagner salì sul ring. Nella «Gazzetta dello Sport» di qualche anno dopo si poteva leggere un pittoresco articolo in cui era detto che «Wagner venne praticamente dissepolto da un cimitero dell'Oregon per rimetterlo sul quadrato». Nel libro «Angeli e demoni del ring», di Giuseppe Signori, invece, si afferma che Dick Wagner era sposo da appena tre giorni quando gli offrirono il «match» con Mitri. I ragazzi di Carbo - scrive Signori - andarono nell'Oregon per tirarlo fuori dal letto nuziale».

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Qualunque sia l'esatta versione dei fatti, è chiaro che Wagner - mediocre artigiano della boxe - non poteva essere un avversario valido per il biondo campione triestino. Proprio quello che Carbo desiderava. Ma Mitri - irritabile, scontroso, assente, abulico, troppo intento a pensare alla bella moglie che andava scorazzando per gli Stati Uniti - non convinse nessuno quando riuscì a battere faticosamente il modesto e fiacco Wagner, davanti a poco più di quattromila spettatori, sul ring del celebre Madison Square Garden di New York. Carbo non si smontò. Gli era capitato di peggio nella sua carriera di truccatore di incontri e di inventore di campioni. Il «boss» decise che Mitri non avrebbe più sostenuto incontri di presentazione per farlo conoscere meglio al pubblico americano. Lo innalzò direttamente al rango di sfidante di Jack La Motta per il titolo mondiale dei pesi medi. La Motta - detto «testa di martello», italo-americano, un pugile fisicamente sgraziato ma dal pugno solido e dalla volontà indomabile - ha confessato qualche anno fa, davanti ad una commissione d'inchiesta sul «racket» della boxe, di aver venduto una diecina di incontri nel corso della sua carriera, accettando di farsi battere pur di consentire colossali guadagni ai suoi padroni-scommettitori. Una delle più clamorose «combines» di La Motta fu quella allestita il 14 novembre 1947 per l'incontro con Billy Fox, un negro destinato a trascinarsi penosamente per le strade di New York chiedendo l'elemosina.

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Quella sera La Motta si lasciò sconfiggere per k.o. alla quarta ripresa, ispirando articoli densi di indignato stupore ai cronisti sportivi dell'epoca. La Motta accettò di vendere anche il «match» del 12 luglio 1950 con Mitri. Il piano di Frankie Carbo era evidente. Ben pochi avrebbero scommesso sulla vittoria del giovane e poco noto triestino. Tutti avrebbero puntato sul più famoso e solido La Motta. Sul ring, invece, si sarebbe verificata la sorpresa: ed il successo di Mitri avrebbe reso migliaia di dollari a Carbo e ai suoi soci. Persino La Motta scommise centomila dollari sulla vittoria del suo rivale. Tutto pareva combinato in modo impeccabile. Quella sera oltre sedicimila spettatori si radunarono sotto le volte del Madison. Ma Carbo aveva trascurato un particolare: Mitri in poche settimane di soggiorno americano era diventato irriconoscibile. Nervoso e spaurito, non aveva dormito quasi mai nelle ultime notti. Saverio Turiello racconta di averlo scoperto più volte mentre, abbandonato il «ritiro» in collina, spiava furtivamente il rientro della bella moglie in albergo nel cuore della notte. Sul ring del Madison, quella sera, salì un Mitri al trenta-quaranta per cento delle sue possibilità. Una larva di pugile, insomma: incapace persino di battere un avversario che non aspettava altro. Per quattro riprese Mitri indietreggiò di fronte ad un La Motta che non tirava neppure un pugno.

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La farsa cominciava a diventare evidente, la gente rumoreggiava, la parola «combine» stava già serpeggiando nelle prime file intorno al quadrato. Se ne accorse anche «Blinky» Palermo, un altro italo-americano che fungeva da luogotenente di Carbo e che si affrettò a telefonare al suo «boss» in un lussuoso albergo di Manhattan. Pochi attimi dopo, Palermo si accostò all'angolo di La Motta. «Jack, gli ordini sono cambiati. Picchia pure, se vuoi. Quell'italiano ha troppa fifa. Sarà per un'altra volta. Il capo dice che devi vincere. Non pensare ai centomila dollari della tua scommessa. Ti risarciremo». In quel momento «testa di martello» cominciò il suo incontro: si era verso la settima ripresa. Mitri, gonfio e sanguinante, strinse i denti con orgoglio disperato: riuscì a giungere al limite delle quindici riprese ma al prezzo di una tremenda punizione, i cui segni rimasero per un pezzo sul fisico e sul morale del biondo triestino. La Motta conservò, suo malgrado, il titolo mondiale dei medi. E Mitri - uscito dal «grande giro» della boxe americana - se ne tornò a Trieste con pochi dollari in tasca e con una moglie ingrugnita perché aveva visto sfumare il suo sogno hollywoodiano. Di lì a poco, la coppia Mitri si separò davanti al giudice. Storie come questa che mi ha raccontato Turiello - uno dei protagonisti della vicenda - ne sono accadute a centinaia oltre Atlantico.

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Incontri truccati, pugili cui veniva ordinato di perdere, rivincite a risultato già stabilito, migliaia di dollari che cambiavano tasche in un vorticoso giro di scommesse, giornalisti che venivano picchiati a sangue o addirittura uccisi perché tentavano di far luce sui loschi retroscena di troppi «matches». Un altro pugile italiano - una figura leggendaria - fu l'involontario protagonista di incontri truccati: Primo Carnera. La sua odissea statunitense risale a qualche anno prima dell'avvento di Frankie Carbo sulle scena del «racket» pugilistico ed è stata narrata in un film intitolato «Il gigante d'argilla», interpretato da Humphrey Bogart e Rod Steiger. Pugile gigantesco ma tecnicamente mediocre, il friulano Carnera venne condotto sino al prestigioso titolo mondiale dei pesi massimi attraverso una lunga serie di confronti addomesticati. Lui solo - di tutto il suo «clan» - era all'oscuro di ogni cosa, al punto che la facilità con cui otteneva i successi per k.o. gli fece ritenere di essere in possesso di una eccezionale - ma, in effetti, inesistente - potenza demolitrice. In pochi anni i «padroni» di Carnera - Billy Duff, Owney Madden, Boo Hoff ed altri «gangsters» di quei tempi - intascarono più di un milione di dollari. Al gigantesco italiano di Sequals rimasero pochi spiccioli: 360 dollari in tutto dopo un centinaio di incontri. E Carnera, abbandonata la boxe, dovette dedicarsi al «catch» - la spettacolare lotta libera americana - per garantire un decoroso avvenire alla sua famigliola.

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Gli ultimi e più clamorosi esempi di incontri truccati risalgono alla doppia sfida tra Sonny Liston e Cassius Clay per il titolo mondiale dei pesi massimi. Il primo incontro ebbe luogo il 25 febbraio 1964 a Miami Beach. Sonny Liston - ex-raccoglitore di cotone, cresciuto nella malavita, semianalfabeta, sospettoso, irascibile, incarcerato una diecina di volte per furti e rapine, dotato di una rara potenza - salì sul ring con una spalla a pezzi ma dopo essersi assicurato che metà della «borsa» spettante a Clay sarebbe finita alla «Intercontinental Promotion Incorporated», una società di cui Liston stesso era il presidente, e dopo essersi garantito una fetta di guadagno su tutti i successivi incontri del suo avversario. Dopo sette riprese, Liston convocò un medico nel suo angolo e, con una smorfia di dolore, gli mostrò la spalla rovinata in allenamento. Il «match» venne interrotto e Cassius Clay conquistò il titolo mondiale. Quindici mesi dopo - a Lewistone - la rivincita. Il trucco fu ancora più sfacciato ed evidente. Liston non esibì malanni veri o immaginari, non badò neppure a simulare una parvenza di combattimento per qualche round. Toccato appena al mento nella prima ripresa, il «vecchio orso» - come lo definiva Clay nelle sue pittoresche interviste - rotolò sul tappeto e si fece «contare» dall'esterrefatto arbitro sino al k.o. Il giorno dopo, articoli roventi apparvero su tutti i giornali del mondo. Un inviato speciale italiano - Lamberto Artioli - scrisse: «L'onestà, la moralità e la dignità non fanno parte del pugilato statunitense, dove gangsters e mafiosi finiscono sempre per avere partita vinta.

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La boxe USA andrebbe ripulita da cima a fondo». Il deputato Haward Plumadore dichiarò: «Io chiedo che si mettano freni energici alle malefatte che infestano il pugilato nel nostro paese o che si abolisca del tutto la boxe negli Stati Uniti». Qualcosa, tuttavia, è cambiato da allora. Frankie Carbo è finito in carcere, «Blinky» Palermo è uscito dal «grande giro» della boxe, gli organizzatori di oggi sono ricchi e distinti signori - come i proprietari del nuovo Madison Square Garden - che si affidano a validi funzionari nel cui vocabolario non esiste la parola «combine». Una spintarella al pugile prediletto, ovviamente, è sempre possibile: ma restando nei limiti dei lecito. Com'è accaduto, ad esempio, in occasione del terzo incontro tra Nino Benvenuti ed Emile Griffith per la corona mondiale dei pesi medi. Poche ore prima che i due pugili salissero sul ring del Madison, un italo-americano che fa l'importatore di vini e che a New York gode di una vasta e solida reputazione mi confidò di aver ricevuto una telefonata da un alto funzionario della commissione sportiva dello Stato. «Mi ha consigliato di puntare qualche centinaio di dollari su Benvenuti - mi spiegò l'italo-americano -. Ha aggiunto che difficilmente perderò i miei soldi». Quella sera non accadde nulla di illecito sul ring del Madison: anche perché Griffith mai si sarebbe assoggettato a perdere su ordinazione. Ma qualcuno consigliò all'arbitro Johnny Lo Bianco di tendere, nei limiti del possibile, una mano a Benvenuti.

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Ad esempio, consentirgii di «legare» nei momenti in cui si fosse venuto e trovare in difficoltà, oppure richiamare Griffith più energicamente del consueto per le sue scorrette testate, o attribuire - nel probabile caso di un «match» incerto - un punticino in più a Benvenuti piuttosto che a Griffith. Niente di grave, sia chiaro: ma quanto poteva eventualmente bastare per rompere l'equilibrio di un incontro tra due pugili egualmente forti. Lo stesso Griffith, del resto, disse con amarezza dopo la sconfitta: «Stasera sembrava che il pugile di casa fosse Benvenuti e lo straniero io». In realtà, Benvenuti era diventato l'uomo su cui il Madison intendeva puntare le sue carte. Come, diciotto anni prima, Frankie Carbo aveva tentato di puntare su Mitri. Con ben altri sistemi, però.

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