«Le aree sottosviluppate» di Gianni Fodella


Il problema di una più equa distribuzione della ricchezza fra gli uomini di un dato paese è certo più sentito dai cittadini di quel paese, di quanto non lo sia la necessità di distribuire più equamente questa ricchezza fra le nazioni. La solidarietà internazionale non è fino ad ora stata capace di concretarsi in un'istituzione che prenda di petto i problemi reali di questa natura e cerchi di risolverli. All'interno di quasi tutti i paesi economicamente evoluti freni e incentivi, predisposti da opportune norme legislative, permettono di favorire una più equa distribuzione territoriaie della ricchezza. Lo stesso non accade nella comunità internazionale, dove gli antichi sistemi della concorrenza rimangono pressoché inalterati, con il crisma delle cose da lungo tempo accettate e non più discutibili, a frenare ogni possibilità di evoluzione che non sia soltanto marginale scalfittura del sistema. I paesi sottosviluppati comprendono oltre il 70% della popolazione mondiale. Questo dato, pur approssimativo, è sufficiente a mettere in evidenza le proporzioni del problema. La causa del permanere dell'arretratezza di una certa area è dovuta a squilibri anche lievi che si verificano nel sistema economico mondiale. Una volta che in un luogo si sia verificato uno sviluppo economico maggiore che negli altri, gli investimenti nel luogo più sviluppato diventano più convenienti di quelli fatti altrove, perché proprio per effetto dello sviluppo viene creato un complesso di attrezzature «sociali» che fornisce una base decisiva per i progetti di investimenti futuri. La teoria economica tradizionale non aveva tenuto conto di questi elementi affermando che, purché non si ponessero ostacoli alla libera circolazione dei capitali, le zone meno sviluppate, in quanto dotate di mano d'opera retribuibile con salari minori di quelli delle zone più sviluppate, avrebbero attratto capitali fino a che lo squilibrio fosse eliminato. Questo modo semplicistico di vedere le cose non tiene conto di numerosi fattori, quali ad esempio la qualità della manodopera. Tale qualità è molto più elevata in un paese economicamente evoluto, dove le attrezzature sanitarie, la scuola e i centri di formazione funzionano bene. Nel periodo 1815 - 1914, sebbene le condizioni richieste dalla teoria classica si fossero verificate in misura sufficiente, gli squilibri iniziali non solo non furono riassorbiti ma si accentuarono a tal punto che l'enorme incremento di reddito verificatosi nel periodo è andato a vantaggio pressoché esclusivo di un terzo della popolazione mondiale, mentre gli altri due terzi sono rimasti a un livello di vita sostanzialmente non dissimile da quello vigente all'inizio del periodo. La teoria classica del commercio internazionale, che segue quelle troppo semplicistiche dei mercantilisti (la ricchezza di un paese si misura con l'oro contenuto nelle sue casse) e dei fisiocratici (vivificare l'agricoltura prima di tutto), si fonda sul concetto di nazione. Formulata da Ricardo e da Mill è stata soltanto lievemente modificata dalle argomentazioni degli economisti successivi e gode ancor oggi di largo credito. Essa si basa sulla divisione internazionale del lavoro: la divergenza fra i costi comparati di due paesi nel produrre beni diversi fa sorgere automaticamente la convenienza ad attuare la divisione internazionale della produzione e quindi lo scambio internazionale, dato che ciascun paese ottiene una maggior quantità di una data merce con un eguale costo-lavoro. Il vantaggio che scaturisce dagli scambi internazionali consiste quindi in un più efficiente impiego dei fattori produttivi. Le critiche alla teoria classica si appuntano sul complesso delle ipotesi fissate - troppo semplificatrici della realtà economica -, sul metodo di ricerca, sulle conclusioni non sempre forzatamente valide e sull'aver adottato il postulato della staticità della realtà economica. Le teorie del commercio internazionale sono state in gran parte utilizzate allo scopo di giustificare o invocare determinati indirizzi in materia di politica del commercio internazionale, le cui due principali categorie sono il libero scambio e il protezionismo. La distinzione in due categorie è troppo semplicistica per aver riscontro nella realtà: tra questi estremi sta tutta una serie di politiche di intervento, caratterizzate da diverse gradazioni di protezionismo. Infatti nella realtà storica, anche se il libero scambio è stato da molti validamente sostenuto, le pratiche protezionistiche hanno sempre finito col prevalere. Il panorama economico contemporaneo segna ancora un distacco profondo dall'indirizzo politico-economico dominante nel secolo scorso e poi fino alla prima guerra mondiale, quando imperava il libero gioco delle forze economiche all'interno, e delle maggiori potenze nei rapporti internazionali. A questo sistema aperto si à sostituito un mondo diviso in aree monetarie e doganali collegate artificiosamente e superficialmente tra di loro mediante accordi fra governi e non automaticamente mediante il naturale movimento internazionale delle merci, delle persone, dei capitali. Il ritorno al liberalismo economico degli scambi internazionali come esisteva prima del 1914 non è più pensabile, almeno nel prossimo futuro, soprattutto perché, se di liberalizzazione economica possono parlare i paesi ricchi, non altrettento possono fare quelli sottosviluppati dove la nascita delle prime industrie incontra difficoltà e resistenze tali che, senza barriere doganali, queste non soltanto verrebbero in breve spazzate via dalla concorrenza estera, ma addirittura non vedrebbero mai la luce. Inoltre bisogna considerare che in un paese in cui sia scarso il capitale fisso sociale, singole imprese possono non trovare convenienza alcuna ad investire giacché ogni loro progetto risulterebbe avere una redditività bassissima, se non addirittura nulla o negativa; mentre un vasto complesso di più progetti di investimento tra loro coordinati e integrati, nel quale fossero comprese anche le varie opere dirette alla creazione delle necessarie infrastrutture, potrebbe avere una redditività molto alta, ferma restando la necessità, almeno iniziale, delle barriere protezionistiche. Prima della Grande Guerra esisteva une rete di rapporti, nella comunità mondiale, molto più fitta di adesso. Ma soltanto una piccola parte del mondo vi partecipava, mentre i più ne erano esclusi. Questi paesi privilegiati - da e per i quali uomini, merci e capitali potevano circolare liberamente - erano strettamente integrati fra di loro economicamente. I progressi tecnologici raggiunti negli ultimi 50 anni avrebbero dovuto accrescere in misura notevole le occasioni per una ulteriore integrazione internazionale. Si è manifestata invece una tendenza continua alla disintegrazione economica internazionale. Il modo in cui i paesi ricchi regolano le loro relazioni è naturalmente d'importanza predominante anche per quelli sottosviluppati. Ma si deve tener presente che i paesi ricchi dispongono della potenza che è loro conferita dalla ricchezza, e che sono liberi di fare ciò che loro aggrada nel campo delle reciproche relazioni commerciali e finanziarie, nonché, in misura notevole, nei loro rapporti con i paesi sottosviluppati i quali, in sostanza, devono conformarsi in un modo o nell'altro alle politiche di quelli ricchi. Come già accennnato, i paesi sottosviluppati hanno più forti ragioni per proteggere le loro industrie di recente formazione di quante non ne abbiano i paesi ricchi. Valgano ad esempio i limitati mercati interni: senza la possibilità di esportare, le industrie in queste condizioni non possono svilupparsi. I paesi in questione hanno ragioni più valide per un «mercato comune» che non i paesi ricchi dell'Europa Occidentale che, come gli Stati Uniti, avrebbero dovuto agire in modo da essere oggi in grado di aprire i propri confini al mondo intero per il flusso di beni e capitali, invece di coalizzarsi tra loro in blocchi. Sarebbe nell'interesse dell'integrazione economica internazionale che i paesi ricchi offrissero a quelli poveri degli sbocchi all'esportazione e quindi, a lungo termine, sarebbe nel loro stesso interesse, anche se dovrebbero far fronte a disturbi temporanei dovuti ai più bassi salari dei paesi sottosviluppati e alla liquidazione di qualche attività economica meglio gestita altrove. Mutamenti e assestamenti ben piccoli tuttavia, se si paragonano a quelli che ogni paese dovrebbe affrontare e programmare in caso di guerra o di forte recessione. L'evidenza quotidiana dimostra tuttavia come ogni volta che taluni paesi poveri, nelle organizzazioni internazionali e più particolarmente nelle commissioni regionali, hanno fatto passi per sollevare la questione di una maggiore cooperazione regionale riguardo a taluni problemi specifici relativi al commercio, ai trasporti marittimi o allo sviluppo, i paesi occidentali li hanno, generalmente, avversati e si sono ritrattati solo in seguito a forti pressioni. Se le nazioni prospere si muovessero realmente nel senso di foggiare le loro politiche economiche generali maggiormente a favore dei paesi sottosviluppati, ciò avrebbe una conseguenza di gran lunga più vasta sullo sviluppo economico di quei paesi di quanta non ne avrebbe qualsiasi aiuto ch'essi abbiano mai sperato di ottenere. Trattandoli con gretto nazionalismo, anche l'aiuto più generoso si riduce a un puro palliativo. I paesi evoluti, mentre con una mano offrono aiuti, con l'altra ricevono con gli interessi quanto hanno elargito. Ciò avviene perché gli aiuti sono forniti in prodotti fabbricati nel paese che presta il suo soccorrevole aiuto, aggiungendo alla soddisfazione anche il beneficio di far lavorare le proprie industrie. Si comprende facilmente come non di rado una simile politica finisca per essere più vantaggiosa per chi dà che per chi riceve l'aiuto. La realtà è che gli aiuti finanziari non provocano squilibrio alcuno nel complesso sistema delle politiche pubbliche che costituisce la sostanza dello Stato del Benessere nazionale né danneggiano le singole coalizioni di interesse, come invece farebbe un mutato assetto dei rapporti commerciali internazionali a favore dei paesi sottosviluppati. Al contrario i paesi ricchi hanno spesso agito insistendo in una politica protezionistica a loro favore mentre predicavano le virtù del libero scambio al mondo sottosviluppato. Senza una politica sopranazionale condotta con lo scopo dichiarato e reale di favorire le aree sottosviluppate non potranno esservi speranze di riscatto per i paesi meno fortunati.

 

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