«La saga dell'Iran» di Francesco Gabrieli


Jules Michelet, passando in rassegna nella sua Bible de l'Humanité le grandi religioni ed epopee dei popoli diceva di sentirsi soffocare nella piccola Grecia, nell'arida Israele, e di anelare al «mare di latte» delle grandi epiche d'Oriente. Egli pensava in primo luogo all'epica indiana, del Mahabharata e dei Ramàyana, e poi a quell'epopea iranica che a un altro romantico spirito, lo Schack, parve paragonabile a un rutilante complesso di costellazioni. Anche alla non romantica visione del Novecento, il ciclo epico iranico si impone per la ricchezza e al tempo stesso la organica e misurata simmetria della materia. Per la continuità della evoluzione storica che vi si rispecchia, e infine per la nobile forma d'arte in cui esso ha trovato la sua ultima espressione: il Libro dei Re del persiano Firdusi (secc. X-XI d.C.). La media cultura italiana ha effettivamente, o piuttosto aveva alla fine del secolo scorso qualche conoscenza dell'opera firdusiana, che Italo Pizzi (1849-1920) rese integralmente, con una vita di strenuo lavoro, in endecasillabi italiani lodati di Giosuè Carducci. Ma ciò che il Pizzi non mancò di far rilevare, e i più dimenticano, è che la elaborazione firdusiana è solo la fissazione in età abbastanza tarda, quando cioè la Persia era stata conquistata dagli Arabi e islamizzata, del suo superbo patrimonio epico nazionale. Le sue origini vanno cercate assai più indietro nella storia e civiltà indigena dell'Iràn, anteriormente alla conquista stessa di Alessandro, nell'età dell'Avesta (prima metà del primo millennio a.C.). Negli inni avestici compaiono già, in più arcaica forma onomastica e in sparsi miti ed accenni, molti dei più illustri eroi del ciclo epico iranico come Fredùn, Sam, Rustem stesso. Quest' ultimo, che doveva divenire l'Achille ed Orlando della saga epica persiana, sembra in verità non aver fatto parte del più antico ciclo, ma esservi stato incorportato da una fase più recente e locale, sembra del Sigistàn. Comunque, una volta assunto nel firmamento degli eroi primigenii, egli vi prese una parte predominante, e in lui si incentra e culmina la redazione canonica dell'epopea quale la leggiamo in Firdusi e in altri stadi intermedi della tradizione. Fra la tradizione avestica e quest'ultima di tarda età musulmana, si interpongono tracce di elaborazioni ulteriori, che sembrano essere state definitivamente codificate nell'età sasanidica (secc. III-VII d.C.), ultimo periodo della indipendente Persia pre-musulmana. A questo punto, i miti e le gesta dei più antichi re ed eroi dell'Iran, come quelli che abbiamo sopra nominato, si saldano con le memorie della effettiva storia persiana: i deboli ricordi degli Achemenidi e della conquista greca e i debolissimi degli Arsacidi, ma sempre più ricche e precise notazioni, epicamente atteggiate, della storia più recente, quella appunto di Sasanidi, rivali di Roma e di Bisanzio sino a che gli Arabi di Maometto non posero fine, nella prima metà del VII secolo, all'indipendenza nazionale e al predominio dello Zoroastrismo, fino allora religione ufficiale della Persia. Le sue lontane origini, con Zaratustra e l'opera sua di profeta e legislatore, appaiono nell'epica assai vagamente abbozzate, e immesse in un rapporto, che la moderna critica in generale rifiuta, con la realtà storica rispecchiata nel resto dell'epopea. Questo rapporto fra quella che divenne la religione nazionale dei tempi più tardi e l'evoluzione storica dell'Iràn accertata per via storiografica, epigrafica e monumentale, è uno dei più dibattuti problemi dell'iranistica moderna. Comunque, accennato così al processo di formazione del ciclo epico, contempliamolo nella forma definitiva che assunse già in tarda epoca sasanide, e poi nella prima età islamica, in prosastiche redazioni verseggiate infine, nel suo grande poema d'arte, da Firdusi. Come dice ii titolo stesso di «Libro dei Re» (Shah-name), l'epopea iranica si inquadra nella serie dei sovrani, mitici e storici, dell'antico Iràn dal primo uomo (Gayumerth) che fu insieme il primo re, fino all'ultimo epigono della dinastia sasanidica, quel Yezdegerd III che finì ucciso mentre fuggiva davanti agli Arabi invasori. La parte più antica e anche artisticamente più bella del poema narra appunto dei primi re, come Hosheng e Gemshìd, e poi di quel Fredùn, che passa per il campione della indipendenza nazionale, insorgendo contro la tirannia dell'usurpatore arabo Dahhàk. Coi discendenti di Fredùn si profila il grande antagonismo fra Irani e Turani (gli abitatori arii dell'Iràn, e i Turchi dell'Asia centrale), che costituirà un leit-motiv dell'intero poema. Re ed eroi iranici come Kai Qobad, Kai Khusrev, Rustem e i suoi avi, sono fra le più luminose figure dell'epopea, che naturalmente pone i campioni dell'iranismo nella più favorevole luce: dalla parte opposta, campeggia a lungo l'implacabile avversario degli Irani, il re turanico Afrasiàb, che soggiace infine a Rustem dopo lunghe lotte, e dopo aver perfidamente messo a morte il principe iranico Siyavish, per intrighi di corte rifugiatosi presso di lui. Rustem, le cui gesta occupano una buona parte del poema, arriva vecchissimo a vedere l'introduzione dello Zoroastrismo in Persia (cui egli però da eroe pagano si oppone, e ne uccide il campione Isfendiyàr); grave d'anni e di gloria, muore alfine trafitto a tradimento dal fratellastro Sheghàd. E con la sua morte si chiude la più brillante epoca del ciclo, che da qui in poi va rapidamente avvicinandosi alla storia: conquista di Alessandro, suoi successori ed eredi (i «Re delle fazioni», o sovrani iranico-ellenistici), i Sasanidi. Dopo essere scesa a sempre più aridi toni di cronaca verseggiata, l'epica riavvampa un'ultima volta nella patetica vicenda di Yezdegerd e nel malinconico finale, che dichiara chiusa l'età degli antichi eroi al sopravvenire della fede islamica. Il vasto poema canta così nei suoi oltre 60 mila versi tutto il passato dell'Iràn, in una forma già rigidamente stilizzata, la cui genesi anteriore a Firdusi resta per noi oscura. La ricchezza della materia, la varietà degli episodi, l'importanza storica, storico-religiosa e culturale del materiale così conservatosi, e in misura ancor poco precisabile variato e arricchito dall'invenzione del poeta, hanno spesso influito sul giudizio del poema firdusiano come opera d'arte, provocando iperbolici apprezzamenti e per contro diffidenze e svalutazioni. Sembra innegabile, a una più scaltrita coscienza estetica, che il bardo di età musulmana ricevé un complesso già formato ed elaborato di tradizioni, e lo verseggiò spesso alquanto meccanicamente; donde il senso di monotonia che sopraffà a lungo andare il moderno lettore del «Libro dei Re», dinanzi all'eterno luccichio di armi e conviti, di battaglie e mirabolanti ma in fondo poco varie avventure. Debole è la caratterizzazione psicologica degli eroi, a cominciare dallo stesso Rustem, scarse le aperture di respiro e di idillio nella tesa, affocata atmosfera di guerre e avventure. Con tutto ciò, gustato a misurate dosi, il grande poema può ancora affascinare per l'immenso arazzo che vi si dispiega, dalle mitiche origini alla islamizzazione della Persia, e per quanto Firdusi stesso vi ha saputo infondere del suo animo, nostalgicamente vagheggiante l'età eroica della patria. Egli fu nella vita pratica, sembra, un buon musulmano, ma ebbe pieno l'animo di ammirazione e compartecipazione per gli antichi fasti da lui rinarrati, e oltre i fatti si piegò più volte, con pensoso turbamento, a interrogare la condizione umana, l'incomprensibile e inesorabile fato (un atteggiamento, questo, poco consono in verità a un credente in Allàh); onde il suo poema è stato ben detto dai Bausani «un poetico studio sul Tempo». Conservatore del patrimonio epico nazionale, esso sta a capo della letteratura persiana nella sua ultima fase islamica, ma solo per ragioni cronologiche e linguistiche; nello spirito, esso chiude piuttosto l'età eroica dell'antico Iràn, con la quale un po' artificialmente, scavalcando i tredici secoli del periodo islamico, cercava di ricongiungersi il nazionalismo culturale della Persia del deposto Scià.

 

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