«Dostoevskij e l'anima russa» di Leonardo Pampuri
Fëdor Michailovic Dostoevskij nacque a Mosca il 30 ottobre 1821. Figlio di un medico militare, fu avviato agli studi di ingegneria, che trascurò ben presto per dedicarsi alla sua vocazione letteraria, vocazione che coltivò anche durante i due anni che dovette trascorrere nell'esercito. Nel 1844-45 scrisse il suo primo romanzo, Povera Gente, pubblicato nel 1846, e con esso si inserì di prepotenza in quel clima sociale-umanitario che si era sviluppato a partire dalla famosa novella di Gogol' Il cappotto, che la nuova scuola naturalista considerava come il suo testo fondamentale. Vi era narrata, in una trama estremamente lineare e priva di alcun intreccio, la storia di un povero impiegato che nell'amore per una ragazza, sua vicina di casa e povera come lui, sente palpitare attorno a sé la vita. Le dedica tutte le sue forze, tutta la sua umanità e la ragazza ricambia il suo affetto, senza sospettare tuttavia dell'amore; sposa infatti un facoltoso, condannando nuovamente il poveretto ad una solitudine senza vie d'uscita. Il romanzo venne accolto con entusiasmo dal pubblico, mentre la critica salutava la rivelazione di un nuovo grande scrittore. Ma altra doveva essere la via che Dostoevskij doveva percorrere e del tutto originale rispetto alla tradizione e ai contemporanei movimenti letterari russi. Già nel primo romanzo si poteva notare come il pregio maggiore dell'opera consistesse nello studio psicologico dei caratteri: è appunto verso questo terreno di indagine che si orienterà l'autore, impostandovi tutta la problematica morale, sociale e religiosa della Russia del secondo Ottocento. I racconti Il sosia, Il signor Pocharcin, La padrona si muovono già decisamente in questa nuova prospettiva: ma il pubblico rimase alquanto indifferente e il maggior critico dell'epoca, Belinskij, predisse che il giovane si stava avviando verso una irrimediabile decadenza. Dostoevskij continuò tuttavia nella strada che aveva intrapreso, poiché con la sua potente capacità di penetrazione psicologica non poteva in alcun modo considerare «umorismo» e «sentimentalismo» come espressioni d'arte risolutive. Il mutamento definitivo nella vita e nell'arte di Dostoevskij avviene dopo il periodo da lui trascorso nei campi di lavoro forzato della Siberia. Fin da giovane aveva simpatizzato con i movimenti socialisteggianti e aveva preso a frequentare il circolo Petrasevskij, dove si propugnava un socialismo utopistico, in particolar modo nella forma del fourierismo. Arrestato insieme ad altri appartenenti al gruppo, venne condannato a morte; la pena capitale, soprattutto in considerazione della sua già affermata fama letteraria, gli venne commutata, al momento dell'esecuzione, in quattro anni di lavori forzati. Scontata la pena fu costretto a un periodo di esilio, durante il quale riprese l'attività letteraria. Quella tragica esperienza lo aveva portato a scoprire un mondo, una dimensione umana del tutto nuova che la società «civile» aveva allontanato dal suo seno come qualcosa di completamente estraneo a sé, e deliberatamente ignorava. Sarà proprio a quella bassa e spregiata umanità, al mondo dei delinquenti, dei malfattori, dei maniaci, degli epilettici che egli rivolgerà tutta la sua ricerca analizzandoli nella realtà della loro condizione, notomizzandoli con una logica fredda, impassibile, che raggiunge il culmine della potenza espressiva, e li ripropone come parte integrante della realtà sociale. Frutto dell'esperienza di ergastolano è il romanzo Memorie da una casa di morti, concepito inizialmente come un articolo sul problema del rapporto fra il delinquente e il suo delitto e che venne poi via via arricchendosi di descrizioni e di ricordi personali. Vi si esamina tutta la varietà dei criminali: ladri, vagabondi, condannati politici, parricidi, criminali pazzi, uomini normali spinti al delitto da un improvviso erompere della passione; i loro gesti, le loro azioni, le loro condizioni di vita, la loro dimensione di normalità, l'assenza del rimorso e del pentimento, il gusto dei piaceri normalmente vietati vanno al di là dei semplice intendimento umanitario che l'autore si era proposto, dell'accusa a un aspetto della società, per porsi come i temi centrali di una problematica che investe tutto l'uomo e la sua morale. «Io sono pronto per primo a testimoniare - dichiara infatti l'autore in una lettera - che nel più ignorante e soffocato degli ambienti, in mezzo a questi sofferenti, ho incontrato tratti del più fine sviluppo spirituale». Da ciò quella opinione così importante per la comprensione di tutta la sua opera, che il delitto è una sventura e i delinquenti degli infelici. Collaborò a varie riviste con numerosi articoli di critica letteraria, pubblicandovi racconti e romanzi, fra i quali Umiliati e offesi (1862), dove cede al sentimentaiismo sociaie di stampo francese e alla Dickens. Non riusciva a trovare quella tranquillità che si era proposto ritornando dall'esilio. L'avversione per la civiltà occidentale provocata da alcuni viaggi in Europa, le traversie della rivista letteraria diretta dal fratello Michail, prima sequestrata dalla polizia, poi, rifondata con altro nome, fallita; gli amori tormentati, la morte della moglie e del fratello, le sue cattive condizioni di salute minacciarono di travolgerlo del tutto. Nel 1866 pubblica nel Messaggero russo il romanzo Delitto e castigo, il primo della serie dei grandi romanzi che avrebbe dovuto porlo come uno dei maggiori scrittori di tutti i tempi. Tema centrale dell'opera è l'analisi del delitto: come l'idea ne sorge in un uomo, come viene attuata, quali ne sono le conseguenze immediate e mediate. Raskolnikov, studente in legge, è costretto in una situazione di indigenza estrema date le condizioni economiche della famiglia, a impegnare il proprio orologio d'argento presso una vecchia strozzina che accetta pegni a un interesse del 20 per cento al mese. Di natura generosa e caritatevole, l'idea di assassinare la vecchia gli si insinua inconsapevolmente e contro la sua volontà, ma diviene sempre più insistente a contatto con un ambiente miserabile che ferisce particolarmente la sua natura, fino a diventare una idea fissa. Da allora tutto ciò che gli accade intorno e dentro contribuisce a spingerlo verso l'assassinio della vecchia: prima è una discussione fra colleghi, durante la quale uno afferma che uccidere la strozzina sarebbe un beneficio per l'umanità; poi gli ritorna alla mente una teoria che aveva esposto in un articolo pubblicato su una rivista di diritto, e cioè che l'uomo straordinario può passare sopra ogni morale corrente; infine sono i fantasmi ad assediarlo. Compiuto il delitto, la logica della ragione non lo guida più: è travagliato dalla paura di essere scoperto e di venire colpito nel proprio orgoglio, di essere umiliato di fronte a tutta l'umanità; il sospetto lo spinge a rifiutare la compagnia degli amici più intimi, la presenza della madre e della sorella e nello stesso tempo lo porta a sfidare il commissario di polizia. L'amore per una ragazza che si prostituisce per venire incontro ai bisogni della famiglia lo porta alla comprensione del «dolore universale» e lo spinge infine a costituirsi per riscattarsi attraverso la pena. «Raskolnikov - scrive lo stesso autore puntualizzando l'idea centrale del romanzo - è costretto a costituirsi; perché anche a costo di morire nell'ergastolo egli vuole ritornare agli uomini; il sentimento di distacco e di separazione dall'umanità che egli ha provato subito dopo compiuto il delitto è il suo tormento». Il problema del delitto viene così inserito in una problematica molto più vasta, quella del Bene e del Male, che trova alimento nella complessità dell'anima russa, in quel periodo portata a scontrarsi in forme anche violente con la civiltà occidentale e il suo razionalismo. Il romanzo ebbe un grandissimo successo. Spinto dalla necessità, Dostoevskij, strinse allora un contratto assurdo con un editore, in base al quale era costretto a consegnare un'opera entro un troppo breve periodo di tempo. Fu allora che scrisse Il giocatore, con l'animo agitato dalle persecuzioni dei creditori e dalla passione per il gioco. Nel 1868 pubblica un nuovo grande romanzo. L'idiota, dove rappresenta in modo positivo un uomo effettivamente buono. «Non vi è nulla più difficile di ciò - annota - specialmente oggi. Il bello è un ideale: ma né ii nostro ideale, né quello dell'Europa civilizzata è realizzato minimamente [...] Fra tutte le belle figure della letteratura cristiana, quella di Don Chisciotte è la più perfetta. Ma Don Chisciotte è bello appunto soltanto perché anche nello stesso tempo ridicolo...». Se in Delitto e castigo aveva voluto affrontare il problema del ribelle nei confronti della morale corrente, in questo romanzo si muove su di un piano metafisico che si contrappone alla concezione puramente materialistica della morale com'era predicata dai nichilisti. Tutti gli eroi di Dostoevskij si presentano con un apparente carattere di eccezionalità, eccezionalità che non viene adottata come assunto, ma che è il risultato di un particolar modo di indagare l'uomo. Normalmente i suoi romanzi sono impostati su tre figure centrali, tre tipi principali di uomini; il saggio che nella sua imparzialità commenta e giudica i fatti, dietro al quale è avvertibile la figura dell'autore; vi è poi l'uomo onesto, di un'onestà che non è coscienza acquisita ma semplicemente la conseguenza della sua fiacchezza e inettitudine d'animo e di carattere; vi è infine l'eroe per eccellenza, l'uomo anormale, corrotto, nichilista, incarnazione della negatività umana. Tutti i caratteri si muovono in una problematicità e in una complessità che non derivano dalla loro situazione oggettiva o dalle loro caratteristiche soggettive, ma dal particolare procedimento adottato nell'analisi dei personaggi: l'autore mette a fuoco il processo di esteriorizzazione del loro interiore, di modo che le loro stesse azioni non appaiono altro che il concretarsi in termini di realtà di quello che viene chiamato l'inconscio, quella parte dell'animo umano che si presenta come un abisso imperscrutabile, costantemente in preda al caos, al quale soltanto l'agire esterno riesce a dare un'apparenza di ordine. Di riflesso anche la realtà si presenta come caotica e disordinata non appena si valicano i limiti della coscienza e del senso comune, di modo che la normalità, di fronte alla quale i personaggi appaiono anormali, non è altro che il risultato della convenzione di occultare la duplicità della natura umana. Ne I dèmoni Dostoevskij affronta decisamente la problematica sociale del delitto e della delinquenza ricorrendo a una molteplicità di antitesi, cristianesimo-nichilismo, religione-materialismo, Russia-Europa, per accentuare il respiro della problematica morale. Vi sono analizzati la vita, l'ambiente, le condizioni, i caratteri di un gruppo di rivoluzionari nichilisti, composto da folli, maniaci, epilettici, nevrastenici, mentre i migliori sono caratteri deboli e inconseguenti. Stavroghin con la sua intelligenza e il suo fascino ha un grande ascendente sui suoi compagni, ma è lunatico ed epilettico; Stefanovic, il capo del partito rivoluzionario, non molto intelligente ma astuto e tenace, non esita a dar fuoco a un quartiere per salvare il suo gruppo e a uccidere la moglie e il fratello di Stavroghin per costringerlo a entrare nelle file del partito; Sciatov, già rivoluzionario fanatico in America, ha un fondo di onestà che contrasta con l'ambiente putrido in cui vive; rinnega la religione e la scienza in nome di una sua teoria che è un miscuglio di fede e di ateismo; i compagni lo uccidono temendo che la sua bontà lo porti a denunciare il partito; Kirilov, il sognatore, convinto che il suicidio sia la piena affermazione del libero arbitrio e totalmente guadagnato alla causa del partito, non esisterà ad uccidersi non appena sembrerà esigerlo la salvezza dei suoi compagni: quando la polizia comincia ad avere le prime prove sui delitti commessi da costoro, egli si toglierà la vita addebitandoseli tutti; Lebiadkin, falso, ubriacone, spregevole come un verme; e tanti altri. Essi ragionano in modo diverso dal comune, vedono le cose sotto un altro punto di vista; per essi la moralità non esiste o è basata su altri principi. Tutta la vicenda si svolge tra una serie ininterrotta di passioni bestiali e assurde, di sentimenti anomali, come quelli delle donne che vanno a vedere il suicida perché la vita è così noiosa che non bisogna privarsi di certe soddisfazioni. Visionari, allucinati, che cosa vogliono? Non si sa: distruggere, sempre distruggere. La composizione formale di questo romanzo è una delle più tipiche dell'autore; stile rude, scabroso, senza sollecitazioni formali, che aderisce con forza al contenuto e allo svolgimento del pensiero; mancanza di unità, di coordinamento, di sintesi; dallo sforzo di penetrare nelle profondità dell'animo umano quasi fino ad esaurirne i singoli momenti deriva un insieme di quadri staccati, scene che sembrano messe in modo meccanico l'una accanto all'altra, particolari che esulano da quella che ci pare essere l'azione principale; la tesi si perde negli anfratti del racconto ed emerge soltanto verso la fine, quasi d'improvviso, illuminando quella che risulta essere una solida e potente costruzione. Nell'Adolescente, il tema del delitto viene ripreso in chiave che potremmo definire mistica, affermando la possibilità per un animo isolato e dall'individualità prepotente di venire arrestato sull'orlo stesso di un'azione delittuosa da una influenza di carattere religioso. In questo romanzo viene simbolicamente espressa la capacità del pensiero russo di comporre ad unità i suoi due elementi caratteristici e per molti versi contrapposti: il popolo e l'«intellighentzija». L'ultimo grande romanzo di Dostoevskij, I fratelli Karamazov, riprende in tutta la sua complessità la tematica del negativo svolta nei precedenti romanzi, dandoci nell'intreccio di momenti che oggi definiremmo da romanzo giallo e nei momenti di alto pathos rivestito di contingenza realistica una delle massime espressioni della sua arte. L'autore era venuto concependo un ciclo in cui comprendere e unificare tutta la sua produzione letteraria, e di cui I fratelli Karamazov avrebbero dovuto essere il preludio: quell'«enorme romanzo religioso-filosofico», intitolato inizialmente L'Ateismo e poi Vita di un grande peccatore, dove il peccato sarebbe stato vinto a favore dello spirito, e si sarebbe realizzato il grande ideale continuamente perseguito nella ricerca artistica: l'universale fratellanza fra gli uomini, in seno alla quale, nel raggiungimento dell'armonia e della serenità, sarebbero finalmente state debellate le disarmonie e le contraddizioni della vita umana. Di questo romanzo ci rimangono soltanto pochi appunti. Durante il periodo 1873-76, e poi nel 1831, anno della sua morte, Dostoevskij pubblicò mensilmente il Diario di uno scrittore, che, oltre ad accrescere la fama che si era creata ed a moltiplicare le controversie che già si agitavano intorno ai suoi romanzi, ci offre una esatta caratterizzazione del clima culturale della Russia nella seconda metà dell'Ottocento, l'epoca cioè del passaggio della funzione intellettuale ed educatrice dalla nobiltà ai cosiddetti «raziocincy», la classe degli esclusi composta dai borghesi, dai funzionari, dai professionisti, dal clero. Ai problemi sollevati da queste nuove forze, che, soprattutto se ci riferiamo all'evoluzione storica successiva, possono essere sintetizzati nello scontro fra la civiltà europea e le peculiarità dell'anima russa, Dostoevskij schierandosi dalla parte degli «slavofili» diede un suo originale e fondamentale contributo, mostrando come razionalità e irrazionalità vengano a scontrarsi dal punto di vista della valutazione intellettuale, e normalità e anormalità si fondano nella penetrazione psicologica.
