«La risicoltura in Italia» di Gigliola Magrini
Diffusa da tempo immemorabile in tutto il continente asiatico, la coltura del riso raggiunge il territorio europeo all'epoca delle conquiste arabe, imponendosi soprattutto nella penisola iberica e in Sicilia, dove condizioni climatiche e natura del terreno erano evidentemente le più rispondenti all'ambientazione della delicata pianta. Con il trascorrere del tempo il riso (Oryza sativa) si andò diffondendo in tutta la Spagna, mentre la sua coltura si disperdeva lentamente nel territorio siciliano, cadendo ben presto in disuso. Fu soltanto nel 1400 ad opera dei mercanti veneziani, che compivano frequenti viaggi verso l'Oriente, che il riso fece la sua ricomparsa nell'italia settentrionale, dove finì ben presto per trovare un habitat ideale. Documenti in questo senso attestano che già nella seconda metà del XV secolo esistevano vaste zone coltivate a riso in Lombardia, nel Veneto e in Piemonte, lungo la pianura alluvionale che accompagna parallelamente il corso del Po e che allora era costituita in buona parte da distese paludose e incolte alternate a fitte boscaglie, fra cui si notavano rari spiazzi seminati a grano e avena e qualche zona prativa destinata a pascolo. Probabilmente furono proprio le opere di bonifica e di scasso operate per rendere possibile la coltivazione risicola a far sì che tutta la plaga potesse divenire utilizzabile trasformandosi, coll'andare dei secoli, nella zona più fertile e produttiva di tutto il nostro Paese. E la canalizzazione, la distribuzione razionale delle acque, condizione essenziale ad assicurare vita e prosperltà all'Oryza sativa, fece sì che anche la coltura prativa e quindi l'allevamento del bestiame assumessero sempre maggiore importanza e addirittura consentissero di dare una particolare strutturazione a tutta la nostra economia agricola. E' possibile affermare, quindi, che il riso è un po' il benemerito di molte altre coltivazioni, senza contare che il progressivo sorgere dei «molini da riso» lungo i corsi dei fiumi e dei canali non fece che dar vita ed incremento a zone che diversamente avrebbero conosciuto uno sviluppo assai più lento o probabilmente avrebbero seguito il destino di molte altre plaghe «depresse» e dalla produttività assai scarsa. Dopo che i mercanti veneziani ebbero portato in Italia il seme dell'Oryza sativa furono quasi sicuramente i monaci a preoccuparsi della diffusione della nuova pianta e a curarne gli impianti, avvalendosi delle profonde cognizioni botaniche e tecniche che le antiche confraternite avevano già ampiamente sperimentato in altre realizzazioni come, ad esempio, nella creazione delle famose marcite lombarde, che anche attualmente sono alla base dell'economia di una regione che può essere considerata all'avanguardia nel campo della produzione agricola. Ad avvalorare il merito dell'attribuzione delle prime colture risicole alle confraternite religiose è risaputo che nel Vercellese (zona che oggi produce oltre il 40% del raccolto di riso di tutta la Penisola) furono proprio i monaci a portare la coltura della nuova pianta allo scopo di poter contare su un raccolto sufficiente ai fabbisogni dei diversi conventi. I Benedettini introdussero il riso nella zona di Muleggio e i Cirstercensi verso Selve e Lucedio, e da queste prime risaie ben presto la nuova coltura si estese da Vercelli sino alle lontane colline per raggiungere poi le Prealpi biellesi. Ritenute dapprima apportatrici di malaria, le risaie presero a moltiplicarsi lungo tutto l'arco della pianura padana, mentre man mano andava prendendo credito la certezza che la coltura del riso non aveva alcuna responsabilità nel periodico insorgere della temibile malattia che mieteva ogni anno un notevole numero di vittime. Si giunge così, nel 1800, a contare su una superficie coltivata a riso aggirantesi sui 200.000 ettari, con una produzione globale di 750.000 tonnellate di «risone» e quindi con un raccolto di poco più di 3 tonnellate per ettaro. Una media bassa, se si considerano le cifre attuali (oltre 5 tonnellate di raccolto per ettaro) ma non trascurabile se si pensa all'ingrata fatica che allora doveva essere sostenuta durante le diverse fasi di coltura del riso, all'inesperienza nel campo della concimazione e del diserbo, alla quasi assoluta inesistenza di macchine adatte allo specifico lavoro legato alla risaia. Già all'inizio del nostro secolo le condizioni della coltura del riso apparivano notevolmente cambiate, sia sotto l'aspetto dell'incremento produttivo sia in relazione alle tecniche impiegate. Si andavano infatti imponendo «varietà» più prolifiche, tratte da incroci di risi orientali con tipi autoctoni, e l'uso di concimi minerali diveniva sempre più diffuso e capillare esaltando la fertilità dei terreni, senza dimenticare l'avvento del diserbo chimico che consente la miglior utilizzazione dello spazio disponibile e permette alle piante il più ampio sviluppo. A dimostrazione delle ben diverse condizioni raggiunte dalla moderna risicoltura italiana varrà ricordare che i terreni adibiti alla coltivazione dell' Oryza sativa, pur essendo stati ridotti a circa 130 mila ettari, sui 200.000 occupati nel secolo scorso dallo stesso tipo di coltura, forniscono sempre riso per un peso che supera le 700.000 tonnellate, senza contare che il riso italiano è oggi riconosciuto tra i migliori del mondo. La produzione risicola italiana impegna circa 25.000 aziende, 400 stabilimenti risieri e oltre 125.000 lavoratori. Due terzi del raccolto annuale, e quindi più di 500.000 tonnellate, sono assorbiti dal mercato nazionale mentre il resto è destinato all'esportazione sotto la tutela organizzativa dell'Ente Nazionale Risi, che si occupa anche del miglioramento genetico delle varietà coltivate e delle creazioni di ibridi particolarmente adatti alle caratteristiche dei nostri terreni e del nostro clima, senza contare le esigenze di gusto indicate dalle preferenze dei consumatori, siano essi italiani o esteri. E' evidente che questi risultati sono resi possibili grazie all'impiego sempre più vasto di mano d'opera specializzata, di macchine agricole appositamente progettate e dei diserbanti selettivi che hanno affrancato soprattutto le donne dalla ingrata fatica della «monda», ormai retaggio di un mondo arcaico e superato. Il terreno più adatto alla realizzazione delle risaie è quello costituito da depositi quaternari adagiantisi su un fondo omogeneo di rocce porfiriche e granitiche. In genere si tratta di terreni «poveri», spesso caratterizzati da compatti strati di silicati argillosi, la cui bonifica è stata resa possibile da tre fattori concomitanti: la naturale ricchezza idrica dei luoghi, il rinnovarsi delle colture a riso che sono un ottimo correttivo dei terreni poveri e infine l'ostinato lavoro che per secoli ha legato l'uomo alla fatica dura ma affascinante della risaia, al madreperlaceo specchio delle sue acque, alla sequenza delle sue arginelle fiorite, regno delle libellule e delle gracidanti ranocchie, luogo di sosta e di riposo degli uccelli di «passo». A esempio di tutto questo ancora una volta è opportuno ricordare i risultati ottenuti nel Vercellese, provincia risicola per antonomasia, le cui realizzazioni ed i cui successi in campo agricolo si debbono in gran parte all'opera illuminata del Cavour, ideatore dell'imponente opera irrigua che, sfruttando la preziosa linfa del Po e della Dora, costituisce la spina dorsale del sistema idrico padano, da cui traggono beneficio il Vercellese, il Novarese e la Lomellina. La base delle elevate medie produttive raggiunte sia dal nostro Paese che dalle nazioni considerate fra le maggiori produttrici di risriso è da attribuire in buona parte alla nuova tecnica delle concimazioni che prevedono l'uso di fertilizzanti in cui entrano azoto, fosforo e potassio nella proporzione di 1:1:1. E' evidente che la dose e il modo d'impiego di questi concimi complessi variano assai da zona a zona, da nazione a nazione, da terreno a terreno, ma in linea di massima l'impostazione generale di questo tipo di nutrimento per l'Oryza sativa è da considerarsi positiva. Continue prove in questo senso, esperimenti di laboratorio e su parcelle in pieno campo, sono svolte dall'Ente Risi e dalle Stazioni di risicoltura delle diverse regioni proprio per stabilire l'optimum delle varie esperienze e giungere alla definizione di regole colturali di sempre maggiore efficacia e di più razionale impiego. Così, a distanza di secoli dalle prime esperienze di Cistercensi e Benedettini, il riso ha raggiunto una posizione di preminenza sul parametro economico dell'attività agricola italiana ed ha assunto un livello considerevole sul piano competitivo internazionale anche per quanto riguarda la qualità intrinseca del prodotto risicolo «made in Italy», ricercato sui mercati di tutto il mondo e riconosciuto dai buongustai come il riso più saporito e a maggior «tenuta» di cottura.
