«Relazione di viaggio: "Chavín de Huantar"» di Felice Bellotti
Arroccata come un nido di condor sulle pendici orientali della Cordillera Blanca, dominata dalla gigantesca mole di nevi eterne e di ghiaccio dell'Huascarán, siede la più antica meraviglia architettonica dell'America del Sud, che porta il nome di Chavín de Huantar. Lontano, sul fondovalle lievemente offuscato da vapori, romba il fiume Marañón, già in corsa verso l'immensità dell'Amazzonia, e il verde cupo della vegetazione tropicale comincia a rivestire la terra rossa e pietrosa delle Ande. Al centro di un gigantesco sperone costruito anno per anno, nel corso dei millenni, da un fiume che sgorga dai ghiacciai sovrastanti e che gli Indios chiamano «l'acqua che pizzica» per la sua gelidezza, siede un formidabile castello, una massiccia costruzione di pietra a tre piani dalle ciclopiche dimensioni di 75 metri per 72. Dalle mura lievemente inclinate verso l'interno sporgono ancora oggi alcune teste di diorite, conficcatevi dentro come ammonimento ad eventuali invasori o forse anche come omaggio alla divinità, alla quale sembra si rendesse il culto con il sacrificio umano mediante decapitazione. L'ingresso alla fortezza, che secondo alcuni archeologi potrebbe anche aver avuto le funzioni di tempio, si apre in direzione dell'Est. Una perfetta scalinata, protetta da un propileo nel quale figurano le sole colonne rotonde dell'America Meridionale precolombiana minutamente istoriate da complesse incisioni di soggetto mitologico, scende in rampe sempre più larghe verso una vasta corte, chiusa su due lati da altre scalinate e circondata da resti di edifici, da altre corti, piattaforme elevate, piazze e strade. Anche la corte, che si trova al centro del complesso, è aperta in direzione dell'Est, dove continua la discesa che porta alle rive dell'«acqua che pizzica» e ai resti di un acquedotto. L'impressione è di meraviglia, anche perché il complesso di Chavín riporta automaticamente alla memoria i centri sacrali maya più antichi, specie quello di Tikal, con l'unica differenza che la massiccia mole quadrata del castello sostituisce la snella eleganza e l'anelito d'elevazione delle piramidi. Tanto più che un altro elemento, questa volta esoterico, suggerisce un rapporto tra i Maya e gli ignoti costruttori di Chavín: il culto del giaguaro. E' difficilmente ammissibile che abbiano potuto intercorrere rapporti fra questi due popoli, anche se alcuni studiosi ritengono possibile che le popolazioni della costa peruviana abbiano avuto dei contatti via mare con navigatori provenienti dalle coste del Messico e del Guatemala. Il culto del giaguaro, la più grande minaccia della foresta tropicale sia nella Mesoamerica che nell'America Meridionale, è certamente stato originato dal timore che il più feroce predone della fauna americana seppe suscitare nel cuore degli uomini. Dallo studio della evoluzione dell'Uomo si apprende senza alcuna ombra di dubbio che la prima manifestazione «religiosa» è sempre consistita nella paura degli spiriti maligni e nell'offerta di omaggi, di sottomissione e di sacrifici agli stessi, al fine di esserne risparmiati. Ma alla quota del castillo i giaguari non vivono, e proprio in questa assenza è uno degli elementi fondamentali dell'importanza della «civiltà di Chavín», del più antico "stile d'orizzonte", per tale intendendo un'arte che si sia diffusa presso altri popoli e abbia finito per costituire la prima comunità intellettuale, religiosa e artistica dell'intero Continente. Dimostra infatti che il popolo senza nome che costruì la «città» oggi chiamata Chavín proveniva dall'Amazzonia e costituisce il primo legame tra la sierra (montagna) e la montaña (foresta). Se il segno del giaguaro, costituito dai formidabili canini che caratterizzano i volti antropomorfi, zoomorfi e di mitici esseri mostruosi, lo ritroviamo sulle ceramiche di Cupisnique (costa settentrionale del Perù) e di Nazca (costa meridionale del Perù), sui volti delle enormi maschere d'oro di Chongoyape (Lambayeque), tutte zone nelle quali non ci sono mai stati giaguari, ciò è dovuto all'influenza di Chavín. Chavi, nella lingua di alcune tribù amazzoniche e specialmente degli scomparsi Caraibi, significa, appunto, giaguaro; e chavina significava lancia. Ora nell'interno del castillo, in una stanza sotterranea completamente oscura, è stata rinvenuta una colossale lancia alta 4,53 metri e, nella sezione più ampia, larga 86 centimetri, isolata dalla roccia naturale nella quale è incorporata in alto e in basso, completamente istoriata, la cui parte superiore è scolpita con il volto di un mostro, che lo scopritore dottor Tello ha definito «un'immagine evidentemente felina». Oltre agli enormi canini, che escono dagli angoli della bocca, la zoologia della foresta è presente anche con numerosi serpenti, che fungono da chioma (o da criniera), ornano le orecchie e profilano l'intera immagine. Giaguaro e lancia, l'arma che precedette di forse un millennio la freccia e l'arco oppure la cerbottana fra le popolazioni selvagge dell'Amazzonia, costituiscono un richiamo più che evidente alla foresta tropicale, unitamente alle serpi. L'esploratore italiano Antonio Raimondi, appassionato di botanica, fu il primo, verso la metà del secolo scorso, a effettuare scavi superficiali nella zona e nel 1847 scoprì e fece inviare a Lima una stele, che reca oggi il suo nome, con uno dei più impenetrabili bassorilievi trovati nel Continente, che ha permesso agli studiosi di scatenare la fantasia nelle ipotesi più disparate. Alta 1.95 e larga 0.75, e di uno spessore di 17 centimetri, di durissima diorite, la stele monolitica presenta delle stranissime incisioni, una figura antropomorfa con una serie di volti sovrapposti e capovolti con straordinaria simmetria. Gii elementi del felino e i serpenti contrassegnano l'intero bassorilievo, di stupefacente precisione geometrica e architettonica, specie se si considera che il popolo di Chavín non conobbe che metalli teneri - oro, argento e rame - e che l'esecuzione non poteva permettere alcun errore. Più che di un bassorilievo, si tratta infatti di una incisione su un monolito perfettamente levigato. La stele Raimondi faceva parte di una serie di lapidi che ornavano all'esterno il castello. Benché gli scavi non siano mai stati condotti in modo organico, ne sono state trovate altre nei templi più recenti ed altre ancora, a memoria della popolazione del borgo vicino, dovrebbero trovarsi in un piccolo museo locale, che rimase sepolto nel 1945, quando un lago ghiacciato esplose a monte e una valanga di terra e pietre ricoperse buona parte delle rovine archeologiche e metà del villaggio indigeno. Come le colonne istoriate del propileo, queste lapidi accuratamente levigate sono istoriate con estrema precisione, raffigurando per lo più animali stilizzati che inorgoglirebbero qualunque artista moderno. Il motivo dominante, questa volta, è però quello del condor, ossia lo spirito protettore del popolo - il dio buono - in opposizione al giaguaro - il dio malvagio. Appollaiato sul fianco di una altissima montagna sopra la foresta amazzonica, il popolo di Chavín doveva considerarsi in rapporto alle genti della bassa e della foresta proprio come il condor nei riguardi di tutti gli animali. Benché le terre più a valle fossero alquanto più fertili e il clima decisamente migliore, gli abitanti della città morta della Cordigliera Bianca rimasero sulle loro inespugnabili posizioni, proprio come il condor, che raramente fa il nido sotto i seimila metri di quota, e ama stare dove non vive alcun altro animale, neppure il coriaceo topo delle nevi. Una serie di teste umane, alte cinquanta centimetri, scolpite nel basalto o nella diorite, esprimono con impressionante realismo il dolore e la gioia degli uomini. Oggi sono accatastate negli scuri corridoi del castillo e nessuno è in grado di sapere che funzione avessero al tempo dello splendore di Chavín. Il «fischiatore» e la «vecchia» dimostrano una tecnica e un realismo non solo notevoli dal punto di vista artistico ma anche per l'eccezionale conoscenza dell'anatomia. Il gioco dei muscoli facciali del «fischiatore» è perfetto, le guance sembrano palpitare nello sforzo. Le sculture di Chavín non sono mai state eguagliate da nessun artista dell'America precolombiana. Se la scultura fu la forma d'arte più spontanea del popolo di Chavín, come dimostrano le ceramiche rituali nere o rosse a seconda del sistema di cottura, lavorate in rilievo e tali da sembrare di pietra, o i pochissimi oggetti d'oro reperiti, l'architettura e l'arte muraria costituiscono le manifestazioni del genio di Chavín che giustificano la definizione di più antica civiltà dell'America Meridionale, perché servirono da modello alle due grandi civiltà posteriori, quelle di Tiwanacu e degli Inca. Se si considera che neppure il popolo di Chavín conosceva la scrittura e i numeri (il celebre quipu, il «pallottoliere» di corda, fu inventato dagli incaici) appare stupefacente come gli architetti abbiano potuto ideare un colossale edificio come ii castello e risolvere i problemi dei corridoi interni, la cui larghezza è in rapporto alla lunghezza delle lastre di pietra che ne costituiscono i tetti, dei piani sovrapposti e delle terrazze. Non seppero inventare l'arco e non possedevano un impasto tale da assicurare una pietra all'altra. Tutto il castello è un mirabile gioco di equilibrio, un lavoro di precisione degli scalpellini, il risultato di trovate veramente geniali come quella di elevare le mura a strati successivi di pietre grandi e piccole. E' lo stile che ritroviamo a Tiwanacu, unitamente alle cabezas clavas (le teste-chiodo sporgenti dalle mura), le quali ornano il "templete semisubterraneo" riportato alla luce nel 1964 dall'archeologo boliviano Carlos Ponce Sanginés; è quello delle fortificazioni preincaiche del sistema andino, ove doveva fiorire il periodo incaico, durante il quale l'arte muraria fu portata alla perfezione. Qua e là la lunga catena andina rivela ogni tanto una stele che reca l'inconfondibiie impronta di Chavín. Si estese sino al Cuzco, l'influenza di questa civiltà fiorita tra il 1000 e l'850 a.C.? Gli dèi o messaggeri che ornano il mirabile fregio della celeberrima Porta del Sole di Tiwanacu sono o non sono d'ispirazione Chavín? Certamente sì. Anche se dispiace distruggere il mito della primogenitura di Tiwanacu, la «città» che, secondo le leggende aymara, sorse intatta dal mare quando Dio creò la terra. Certo, in Chavín sono richiami che rammentano altre culture della pietra, oltre a quella di Tawanacu. Per esempio di S. Agustín, la misteriosa cultura colombiana, annidata tra la Cordigliera Centrale e quella Orientale. E' la intuibile ma introvabile pista della «civiltà della pietra», che inizia appunto a San Agustín per esaurirsi sotto il massiccio delle Tre Croci: duemilacinquecento chilometri in linea d'aria.
