«Storia del razzismo» di Vinigi L. Grottanelli
Il termine 'razzismo' offre l'esempio classico di una parola di nebuloso significato e di etimo incerto (razza sembra derivare dai vecchio francese haraz, 'allevamento di stalloni') intorno alla quale si sono venuti cristallizzando concetti, giudizi e pregiudizi di scarsa consistenza scientifica ma di fortissimo contenuto emotivo e polemico. Nella corrente accezione lessicale, il termine significa anzitutto due cose diverse, se pure fra loro connesse: primo, la dottrina che postula o crede dimostrare l'esistenza di una gerarchia fra le razze umane, alcune 'superiori' e altre 'inferiori' per diverso patrimonio biogenetico, da cui deriverebbe l'inuguale importanza assunta da esse nello svolgersi della storia universale; secondo, il concreto applicarsi di tale premessa al fine di garantire la purezza, il perfezionamento, e in ultima analisi il predominio di questa o quella razza 'superiore'. Nel secondo dei due significati, razzismo equivale a 'politica della razza': complesso di norme legislative volto a salvaguardare l'integrità biogenetica di una data razza, vietando ogni connubio (e anche vari tipi di contatto e commistione sociale) dei rappresentanti di essa con elementi delle razze meno privilegiate o addirittura spregiate, con lo scopo dichiarato o tacito di riservare ai primi in esclusiva la pienezza dei diritti e l'accesso a tutte le posizioni preminenti nella sfera sociale, militare, politica, e così via. Di questo razzismo programmatico e militante, che dominò nel Reich hitleriano e (in forme invero più blande e meno convinte) nella stessa Italia fascista, ognuno ha avuto sentore. E' perciò più interessante analizzare qui il primo dei significati accennati, che si riallaccia ai presupposti teoretici di una dottrina razziale, valutati alla luce delle moderne cognizioni storiche e antropologiche. La prima e fondamentale constatazione è la seguente: 911 uomini di ogni continente e di ogni livello culturale sono stati da tempo immemorabile consapevoli osservatori delle palesi differenze somatiche che li distinguevano dai popoli 'stranieri'; e ciò ovviamente assai prima che si prospettasse la possibilità di uno studio scientifico delle varietà antropologiche dell'uomo. In ordine di tempo, tale consapevolezza appare una prima volta documentata presso gli Egizi, le cui raffigurazioni già nell'éra thinita, ma con tutta evidenza poi a partire dalla V Dinastia (sulla metà del III millennio), minuziosamente sottolineano le peculiarità somatico-etnografiche dei popoli vicini, nemici o tributari che siano, o delle genti d'oltremare note attraverso i commerci. L'iconografia egizia rivela un radicato etnocentrismo, e il vanto che i sovrani traevano dall'assoggettamento di popoli stranieri, neri, bianchi o rossi; ma non abbiamo argomenti per supporre che a questa convinzione di superiorità si associassero idee e norme che oggi chiameremmo razziste. Certo, tutti gli imperi costituiti su basi supra-nazionali hanno conosciuto un certo grado di egemonia del popolo dominatore su quelli assoggettati o in qualche modo aggregati; ma il massimo fra essi nell'antichità - il persiano - sembra essere stato basato, nei periodi di pace, su princìpi di tolleranza singolarmente illuminati, che in termini moderni diremmo ispirati al rispetto delle nazionalità. I bassorilievi achemenidi che ornano la scalinata est dell'apadana di Dario e Serse I a Persepoli ci commuovono ancor oggi non solo per la loro solenne bellezza, ma per la sovrana dignità con cui si snodano lungo i registri marmorei i rappresentanti dei popoli dello sterminato impero: Armeni ed Etiopi, Parti e Assiri, Sciti ed Elamiti, Traci e Fenici, in una parola le nazioni di tre continenti raffigurate nella varietà dei loro tratti fisionomici e dei loro costumi recano i loro tributi con il sereno portamento di uomini liberi e rispettati, alla pari con gli ufficiali medi e persiani che li accompagnano. Che questa immagine autorevole di fraternità non sia dovuta solo a una visione personale dell'artista, lo conferma la storia. Non furono, come ognuno sa, razzisti i Romani, i quali elaborarono un ideale civile e giuridico super-razziale della cittadinanza. Non lo furono gli Arabi, neppure nei secoli del loro splendore (eppure si tratta del popolo che più d'ogni altro ha il culto delle genealogie; e se vi è esempio di una 'razza pura' tale era quella dei nomadi che dall' Arabia irruppero dopo l'Egira a conquistare paesi occupati da altre stirpi, anche di colore); abbracciare l'Islam equivaleva a far cadere ogni barriera di razza, se non di rango. A ben vedere, manifestazioni di razzismo programmatico non si incontrano prima dei tempi moderni, con l'eccezione forse dell'India. Gli immigrati indoeuropei che penetrarono nel grande paese dal nord-ovest a cominciare dalla fine del II millennio a.C. introdussero nelle distinzioni etniche fra i loro gruppi (arya, di pelle chiara) e gli autoctoni (dasa varna, razza nemica, dove varna significa 'colore'), dalle quali derivò il sistema di caste che ha retto per tre millenni la società indiana. Ma va osservato che tale sistema sembra avere avuto già agli inizi carattere religioso e ritualistico più che di distinzione antropologica; ed esso comunque non impedì se non in parte gli incroci interrazziali, com'è dimostrato dall'attuale composizione antropologica dei popoli indiani. Per i popoli dell'Europa occidentale la prima presa di contatto con l'Africa nera avvenne nel sec. XV e fu opera dei Portoghesi, a tutt'oggi la nazione meno razzista d'Europa; gli interessi che li movevano, arricchirsi coi commerci e predicare il Vangelo, sconsigliavano del resto atteggiamenti razzisti. Non diversa fu la disposizione degli Spagnoli nel colonizzare le Americhe: nonostante gli atroci stermini degli indigeni da essi perpetrati, non considerarono mai gli indios una razza inferiore, né si astennero dal mescolare il loro sangue con essi; se mai, le loro pregiudiziali erano di natura classista, reputandosi onorevole sposare la figlia di un cacicco purché convertita, assai meno sposare un'india plebea. Atteggiamenti analoghi perdurano a lungo in tutta Europa. Si prenda, esempio fra tanti, il caso del «principe» Aniaba della Costa d'Avorio (che in realtà, come troppo tardi si scoperse, era uno schiavo!) capitato a Parigi, presentato nel 1690 a Mme de Maintenon e da lei a Luigi XIV, accolto come ufficiale nel reggimento del Re, vezzeggiato a corte, e riaccompagnato infine al suo paese con ogni onore, con scorta ai suoi ordini composta di gentiluomini francesi! Le prime avvisaglie del razzismo si avvertono invece nelle classificazioni antropologiche di J. F. Blumenbach (1790 - 1826), nelle storture sciovinistiche dello storico francese A. S. D. Thierry (1828, 1840-1847), e soprattutto nelle teorie dell'etnologo tedesco G. Klemm (Allgemeine Kultur-Geschichte der Menschheit, Storia culturale generale dell' umanità 1843-1850), che ripartiva le razze del mondo nelle due categorie delle 'attive' e 'passive'. E' dunque inesatto far coincidere l'atto di nascita del razzismo con la pubblicazione dell'Essai sur l'inégalité des races humaines, Saggio sull'ineguaglianza delle razze umane (1853-1855) di J. A. de Gobineau, cui spetta tuttavia il demerito di aver suscitato nuovi proseliti alle correnti razziste. I fondamenti ideologici di quest'ultima opera (la quale paradossalmente, scritta da un francese, si risolve in un inno alla supposta razza germanica) sono individuabili in parte nella reazione dell'aristocratico autore contro l'egualitarismo propugnato dalla Rivoluzione francese, ma hanno anche radici più lontane: la fortuna del nuovo concetto di 'razza', elaborato dagli zoologi, a partire da Linneo, per designare le varietà delle singole specie animali; la convinzione, non del tutto nuova ma affermatasi con il tardo illuminismo, che lo studio dell'uomo dovesse essere sottratto alla sfera filosofico-teologica e affidato invece alle scienze biologiche; il corollario che anche le varietà umane potessero classificarsi secondo una gerarchia 'scientifica'. Su un piano diverso, influì su tali nascenti teorie la necessità di definire i nuovi rapporti sociali e giuridici fra razze diverse (soprattutto fra bianchi e negri) dopo l'abolizione della tratta degli schiavi e, in seguito, della stessa schiavitù: processo che investiva poderosi interessi finanziari e politici. Ed entrava beninteso in gioco, se pure in forme inconsapevoli, il normale etnocentrismo dei popoli egemonici; al quale si vennero poi sommando i fattori violentemente emotivi suscitati per reazione dalle politiche razziste (come è avvenuto in seguito, per esempio, in Sudafrica). Triste paradosso: il nostro secolo, che ha visto tragicamente inasprirsi le tensioni razziali, ha al tempo stesso sanzionato il totale svuotamento delle loro già fragili giustificazioni scientifiche. La certezza del fatto che le razze non sono entità fisse, ma sono in continua evoluzione fin dagli albori dell'umanità; la loro alta variabilità interna; la illimitata interfertilità fra individui di «razza diversa», e altre considerazioni ancora, rendono nebulosa e arbitraria ogni delimitazione di una data razza, tanto che delle molte classificazioni tentate, da Blumenbach a oggi, non ce ne sono due che collimino. Inoltre, i tentativi di attribuire a ciascuna 'razza' un patrimonio distintivo di congenite attitudini, capacità e qualità o deficienze ereditarie, è fallito o sfociato in assurde contraddizioni; se già la cosiddetta 'psicologia dei popoli' conduceva a interpretazioni controverse, la 'psicologia delle razze' si è dimostrata ancor più inconsistente, perché è notorio che popoli aventi fra loro affinità antropologiche presentano spesso caratteri e atteggiamenti assai diversi. Al fondamentale quesito pratico, «se le attitudini congenite di gruppi razziali in senso ampio siano diverse al punto di influire sulla loro capacità a partecipare alla cultura tecnica moderna», gli scienziati (genetisti, antropologi, etnologi, sociologi) rispondono oggi concordemente in senso negativo.
