«Ricordo del padre» di Alessandro Quasimodo


La prima immagine che riaffiora nella memoria è quella di mio padre durante il nostro ultimo incontro, pochi giorni prima della sua partenza per Amalfi da dove non sarebbe più tornato. Era un po' strano, quel giorno, più affettuoso del solito, diverso. Ricordo che mi disse di essere stanco, preoccupato. Mi ha dato una medaglia in argento con la sua effigie, coniata per celebrare i premi Nobel italiani per la letteratura. Non riusciva a trovarla, ma ha voluto cercarla, a tutti i costi, finché è saltata fuori: quasi un presentimento del distacco. E' l'ultima cosa che ho avuto dalle mani di mio padre. I miei rapporti con lui furono complessi e difficili; per mio padre la paternità è stata una scoperta lenta e tardiva: questa fu la segreta angoscia della mia adolescenza. La scuola mi aiutò, stranamente, a sciogliere la barriera che ci separava, creando le basi di un dialogo aperto da «uomo a uomo», che si fece sempre più profondo, desiderosi come eravamo di riguadagnare gli anni perduti in un ostinato silenzio. La prima occasione di «disgelo» fu quando il mio professore mi assegnò, come compito, la composizione di un sonetto sul tema del Natale. Con la forza della mia ostinazione riuscii a far sedere mio padre al mio tavolino di studio e a costringerlo al lavoro, per un paio d'ore, accanto a me. Il risultato della nostra «collaborazione» mi fruttò un otto in italiano. Ma l'opportunità più favorevole per un'intesa mi fu offerta dagli esami di maturità. C'era un'atmosfera un po' tesa in quei giorni; ricordo che mio padre mi disse: «Se non sei promosso, ti mando a fare l'operaio». Come per sfida, lo invitai ad assistere ai miei esami. Venne infatti, si fermò a lungo a sentirmi, poi mi confidò: «Lo sai, fanno certe domande, io non sarei stato capace di rispondere. Mi avrebbero bocciato, pensa!». Ci mettemmo a ridere, e cominciammo a parlare, da amici, come se ci scoprissimo in quel momento preciso. Da allora cambiò ogni cosa e negli ultimi anni i nostri rapporti erano completi, la nostra reciproca comprensione, assoluta. La natura di mio padre era duplice e combattuta. Univa un profondo amore per la sua origine mediterranea e solare ad una incapacità quasi fisica di staccarsi dal Nord e soprattutto da Milano. Il suo paesaggio del cuore erano divenuti i Navigli, le nebbie sull'acqua ferma della pianura, i quartieri popolari immersi nel grigiore dell'inverno, la strada di casa. Non pensava mai né alla vecchiaia, né, anche se questo tema ricorre tanto nella sua poesia, alla morte. Era generoso della sua vita come lo era del suo denaro, degli affetti, dell'intelligenza. Forse possedeva il superiore fatalismo degli uomini del Sud, per cui tutto quanto si verifica nel nostro destino è scontato; una volta rispose: «Ho paura della morte? No e sì. La morte, che figura scandalosa. Nuda, più nuda di un nudo». Forse per meglio comprendere questo suo modo di concepirla, bisogna risalire agli anni dell'infanzia di mio padre, vissuti in quotidiano contatto con la morte, tra le macerie di Messina distrutta dal terremoto. Il trauma di quei lunghi mesi passati nei carri merci dello scalo ferroviario, adibiti ad abitazione, in condizioni di estrema povertà, ha fortemente inciso i propri segni nella precoce formazione poetica di Quasimodo. Ma lasciamo la parola a lui: «Il dramma è sempre stato presente nella mia opera dal primo verso scritto, mi pare a dieci anni, fino all'ultimo. La guerra ha fatto reale un presentimento che, sebbene creativo, era di natura umanamente sensibile alla storia ricca di sangue che si preparava dal tempo della mia cosiddetta mitica infanzia. Mi resi conto che potevo scrivere poesie quando cominciai a soffrire la fame, in cerca di un lavoro coesistente, letterario. Dovevo fare l'ingegnere e ho studiato ingegneria. Frequentavo il Politecnico a Roma, ma ero sempre alla ricerca di un lavoro per vivere. Così divenni disegnatore tecnico di una grande impresa di costruzioni, commesso in un negozio di ferramenta, e impiegato in un grande emporio di piazza Colonna». Si impiegò infine al Genio Civile e dopo un lungo peregrinare ottenne un giorno l'atteso trasferimento a Milano. Ma una volta a Milano, racconta mio padre, «il mio nuovo capo non sopportava i poeti e mi confinò in Valtellina». Così ogni sera prendeva il treno da Sondrio per unirsi agli amici artisti e letterati del gruppo milanese che faceva capo al Savini. Una vita difficile, un clima pesante nel quale l'incontro con Maria Cumani, che sarebbe divenuta mia madre, allora giovanissima danzatrice della scuola di Ja Ruskaja, ebbe l'effetto di una folgore. «En aimant on apprend à saisir infiniment plus de choses, à les comprendre meiux, parce qu'on a tout ce qui est profond près de son coeur»: queste parole di Jacques Rivière, riportate da mio padre in una sua lettera alla Cumani, si attagliano particolarmente al suo stato d'animo che sentiamo vibrare inquieto, avido, insofferente, nel compiere attraverso l'amore un passionale esame di coscienza. «Ma quello che si perde chi potrà mai ridarcelo? - scrive il giorno di Ferragosto del 1936 - Chi potrà mai farci rinunciare al bene o al male che un nostro necessario gesto può fare accadere? Ripenso Eschilo: "Sapevo già tutto e volli peccare". Io sapevo, sapevo quando cominciai ad amare la poesia che per essa avrei sofferto fame e patimenti della carne, e uragani dello spirito. Le donne sono servite da "schermo alla tristezza". Ma non erano "la donna". Quella era il suo stesso "sognato". Ora io sono certo che tu riuscirai ad esprimerti nella danza con una potenza e una chiarezza lirica che nessuna danzatrice ha mai raggiunto. E tu lo sai, sei la "Donna", quella che ogni uomo (anche gli uomini sono pochi sulla terra) costruisce con i suoi gelosi smarrimenti, quella alla quale non si può rinunciare senza morire...». Quell'incontro, rivelandogli i segreti della danza, come numero ed armonia, segnò l'inizio di una stagione poetica felice e irripetibile. «Anche se dovessi distruggermi voglio pensare al tuo cuore: al cuore che hai mentre danzi e scavi le braccia e il capo sollevi come a donarti intera all'aria. Quel cuore io cerco...». Anche se fu un padre «difficile», sia io che mia sorella Orietta, la figlia natagli da una relazione precedente al matrimonio con mia madre, lo amammo molto, certo più di un padre come gli altri, perché eravamo consapevoli della grande difficoltà di conciliare la sua indole indipendente, insofferente di legami tenaci, con gli slanci del suo cuore capace di amore ostinato, passionale ed esclusivo. Passava da momenti di straordinaria affettuosità, ad altri, quasi di chiusa indifferenza, di sotterranea ostilità e diffidenza verso chi, in quel momento, poteva rappresentare un impedimento ad una sua maggiore disponibilità affettiva. In realtà era sempre pronto, ad un minimo segno, a lasciarsi vincere dalla commozione. «La commozione è un sentimento minore. Dicono. Ma i fatti intensi dell'uomo o degli animali non mi lasciano indifferente». Un ricordo di lui? La sua distrazione. Racconta: «Una sera ero in un caffè quando mi alzai dal mio tavolino per uscire. Tentati più volte di passare attraverso la porta che conduceva nell'ingresso del locale, ma un tipo dal volto scuro, il cappello e i baffi, continuava ad intralciarmi il passo per indecisione sulla precedenza. Io facevo altrettanto. Ad un certo punto dissi: "Insomma, basta! Ora passo io". Per fortuna avevo il cappello, che urtò con forza nello specchio attraverso il quale volevo uscire». Ricordo mio padre al suo tavolo di lavoro. Scriveva sempre di notte. Le sue poesie gli nascevano dovunque, un verso, un'ispirazione improvvisa, due parole o un'assonanza. Prendeva appunti dove capitava, perfino sui biglietti del tram. Una delle sue più belle poesie, quella che, tra le altre, egli avrebbe salvata se fosse stato costretto ad una scelta perentoria, nacque appunto da pochi versi scritti nell'interno di una scatola di cerini: era intitolata «Lettera alla Madre», da lui molto amata.

 

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