«La confessione del pilota da corsa» di Lorenzo Pilogallo
Quella che segue è una «confessione» che tutti o quasi i piloti di automobili da corsa sarebbero disposti a firmare: se non in tutti i particolari, almeno in buona parte. Alla gente abituata a definire coloro che intraprendono questa carriera «dei pazzi destinati a morire uno dopo l'altro», l'uomo che corre in automobile ha molte cose da obiettare. Prima fra tutte sicuramente quella, molto semplice, che tutti, uno dopo l'altro, dobbiamo morire. Leggiamo questa confessione che in realtà nessun pilota ha mai scritto ma che è possibile desumere da dieci anni vissuti nei box degli autodromi di tutto il mondo, a fianco di esseri umani che hanno scelto una vita tanto diversa. «Si comincia quasi per caso. A moltissimi ragazzi piace andare forte in automobile, sono parecchi quelli che si interessano di meccanica, non sono pochi quelli che hanno il coraggio di cimentarsi con gli altri. Ecco, la prima molla è quella di una certa fiducia in se stessi. Si va a vedere una corsa, ci si appassiona ancor più ad un'attività che ha già suscitato i primi interessi. Ci si dice che, se ci sono altri che la svolgono, non deve poi essere una cosa da marziani. Sui giornali specializzati si leggono le prime cronache e si studiano con particolare attenzione i tempi realizzati. Poi, un bel giorno, con una macchina simile a quelle impiegate dai corridori, si torna su quella pista dove si è vista la gara e si comincia a girare. Gli alibi ai primi deludenti risultati sono numerosi. La macchina non è certo a punto e potente come quelle viste gareggiare. Quei piloti poi avevano già un'esperienza. Se appena appena il risultato di questa prima prova non è catastrofico, il dado è tratto. Si comincia così, con una corsetta in salita, al volante di una macchinetta da turismo sistemata dal meccanico di casa, all'insaputa di papà. E' difficile dormire, la notte che precede la prima gara. La calma ritorna solo quando lo 'starter' ha abbassato la bandiera. Si sente d'improvviso come un calore interno, un rilassamento, una gioia che non si può spiegare. Guidando si ha la convinzione di commettere una serie infinita di sbagli. Ma evidentemente di errori ne fanno anche quelli che non sono alla prima corsa. Così almeno risulta dalla classifica, che è insperatamente generosa. Non tra i primi, ma nemmeno tra gli ultimi. E' proprio fatta. Adesso non resta che andare avanti, sognando i grandi traguardi, gli autodromi famosi nel mondo, il nome sempre più grosso sui giornali. Come nella vita normale, anche qui ci sono varie strade da scegliere. C'è chi preferisce bruciare le tappe per arrivare nel ristretto mondo dei piloti da gran premio, e chi rinuncia alla scelta più ardua per vegetare nel sottobosco dell'automobilismo, in un anonimato solo rarissimamente interrotto. Certo, le possibilità finanziarie possono incidere nella carriera di un giovane pilota. Uno può diventare bravissimo al volante di piccole macchine da turismo ma non verrà mai convocato dalle case impegnate nei grandi premi o nelle corse internazionali di resistenza. La faccenda è già diversa per chi ha la possibilità di acquistare vetture sempre più potenti che lo portino a gareggiare in competizioni via via più importanti. Ma spesso è proprio qui che arrivano le prime delusioni. L'importante, come sempre, è conoscere se stessi, i propri limiti. Il più grande errore che possa fare un corridore è quello di cercare di gareggiare con vetture che risultano troppo impegnative per lui. L'ambizione spesso gioca dei brutti scherzi. Ci si può far male. E allora giunge il momento delle meditazioni. Qualcuno si ferma, qualche altro si ridimensiona, pochi vanno avanti. C'è invece chi brucia le tappe. Possibilità economiche, una certa dose di fortuna, qualche risultato brillante, portano il giovane aspirante campione sui palcoscenici molto prima di quanto lui stesso osasse sperare. La modestia, a questo punto, non fa più parte del bagaglio spirituale del pilota. Intendiamoci, una cosa è la conoscenza dei propri limiti e di quelli degli altri; e una cosa è credere che tutto sia facile e raggiungibile. Purtroppo, quando il pilota non è più un uomo libero che si compra delle automobili con le quali gareggiare, entra lentamente a far parte di un ingranaggio che può contribuire a lanciarlo come a distruggerlo. Dirigenti di scuderie, organizzatori, proprietari di macchine da corsa hanno ormai in pugno il giovane, che diventa solo uno strumento necessario per far andare il bolide, per richiamare pubblico sulle tribune. Il pilota accetta il gioco perché ne ricava danaro e popolarità, oltre che personali soddisfazioni di indole morale. A questo punto la sua sensibilità deve acuirsi al massimo. Quante tragedie dell'automobilismo hanno avuto origine dagli errori commessi da chi poteva indirizzare il lavoro del pilota! Quello dei corridori professionisti è un mondo irto di insidie, che non sempre si nascondono dietro la curva di un autodromo o nell'organo meccanico di una macchina. C'è un personaggio che sta scomparendo dalle scene ma che un tempo aveva una funzione importantissima: il direttore sportivo; l' uomo che alle volte deve disputare con gli ingegneri pur di difendere il suo pilota, anche quando questi ha torto. L'uomo che guida una macchina da gran premio ha il diritto di essere coccolato, vezzeggiato come un bambino. I suoi capricci da divo del cinema devono essere accettati con tolleranza, i suoi momenti di depressione studiati e risolti, le sue pericolose illusioni dolcemente frenate. Il prevalere di corridori britannici, dal particolare temperamento, ha svilito il compito del direttore sportivo sino al punto di ridurlo a quello di maresciallo d'"alloggio". Prenota gli aerei, le camere negli alberghi, le macchine da noleggio. Spesso oggi si sente dire che il pilota è un professionista come tanti altri e quindi ha il dovere di svolgere il suo lavoro senza tante storie, con puntualità e precisione. Una volta un campione del mondo fu messo sotto accusa perché si era presentato a una corsa col mal di pancia e aveva commesso il grande errore di comunicare i propri dubbi e le proprie incertezze al suo direttore sportivo. Un altro pilota, esploso anni fa come una stella di prima grandezza, fu presto abbandonato al suo destino in quanto ritenuto colpevole di non impegnarsi al massimo quando la macchina che guidava non aveva alcuna possibilità di vittoria. Ecco, questo è uno degli argomenti che più spesso travagliano la vita di un corridore. Nessuno ha mai potuto stabilire con esattezza in quali percentuali influiscano il comportamento del pilota e quello del mezzo meccanico nel conseguimento del risultato. La leggenda narra di corridori che hanno compiuto miracoli con macchine più in disordine o meno veloci di altre. Ma la realtà è che ben difficilmente arriva primo al traguardo un pilota la cui macchina non sia ottima, se non in assoluto, almeno in quella circostanza. Eppure capita, a chi guida per conto di una casa o di una scuderia, di sentirsi fare più o meno velati rimproveri per un comportamento in corsa ritenuto non sufficientemente combattivo. La casa impegnata nelle competizioni ha determinati interessi da difendere e spesso tende a giustificare un insuccesso scaricando la colpa sul pilota. Non si è mai sentito dire da un tecnico: abbiamo perso perché la nostra macchina è meno buona di quelle avversarie. Fra le leggi dell'automobilismo professionistico ce n'è una molto difficile da digerire: il pilota, quando è costretto a fermarsi per un guasto, non deve mai dire ai giornalisti, o ad altri che non appartengano alla casa per cui corre, la vera ragione dell'arresto. Al massimo, in casi troppo evidenti, gli viene concesso di ammettere un proprio sbaglio di guida come causa del guasto irreparabile. Una fabbrica non costruisce tutte le parti di una macchina da corsa. E allora, in molte occasioni, i tecnici attribuiscono i guasti a quelle parti che non vengono costruite in fabbrica. Per il pilota professionista barcamenarsi in questo mondo non è certo facile. La sua fortuna o la sua decadenza sono strettamente dipendenti dalle vicende tecniche della casa alla quale è legato. Si capisce ora quale importanza possa avere nella vita e nella carriera di un corridore la vicinanza di un buon direttore sportivo, di un uomo capace di difenderlo in ogni occasione, anche di fronte al padrone, di un uomo in possesso della rara virtù di capire gli stati d'animo altrui, di prevederli e di influenzarli nel modo migliore. La maggior parte dei piloti professionisti ha una vita molto incerta, non tanto per i pericoli insiti nelle competizioni, quanto per le spietate leggi che governano il loro mondo. Sono rare le prove d'appello negli autodromi e, quando ci sono, risultano oltremodo drammatiche. Anche gli organizzatori fanno parte di coloro che possono indirizzare il destino di un pilota. L'improvvisa popolarità raggiunta da un corridore in una categoria inferiore può indurre chi organizza un gran premio a promettere lauti ingaggi per offrire al grande pubblico la nuova «attrazione». Al riguardo si assiste da sempre a quella sconcertante abitudine di ingaggiare a tutti i costi dei corridori italiani per il gran premio d'Italia, spagnoli per il gran premio di Spagna, tedeschi per il gran premio di Germania. Si arriva al punto, mascherando le vere intenzioni con l'aria di favorire degli sportivi nazionali, di far correre in competizioni di livello mondiale uomini che non hanno mai avuto l'occasione di pilotare bolidi di quel genere. Il pilota accetta. E' felice di accettare. Ormai in lui non c'è più il freno della saggezza. Scatta la molla dell'ambizione. Dice a se stesso: tanto ci deve pur essere una prima volta. Il pilota d'automobili da corsa ha paura, come tutti gli uomini di coraggio. Possiede la coscienza di quello che fa e quando intraprende strade sbagliate istintivamente avverte che il pericolo aumenta. Ma difficilmente si tira indietro. Anche perché indietro nessuno lo vorrebbe più. L'automobilismo ideale sarebbe quello dilettantistico, con i corridori che si comprano le macchine. Potremmo scoprire qualche campione in meno, ma ci sarebbe tanta maggiore serenità per tutti. Invece si va verso un professionismo sempre più severo. Si tende a fare della macchina e dell'uomo una cosa sola, addirittura a far prevalere la macchina sull'uomo. E questa è la fine di una cultura, di una libertà. Si tira avanti con quella specie di droga che sono i lauti ingaggi, le fotografie e gli articoli sui giornali, la popolarità. Si gira il mondo alla ricerca della fine che non si sa quando avverrà. Come fanno tutti, in fondo, anche quelli che hanno scelto un altro mestiere. Sì, siamo dei pazzi destinati a morire uno dopo l'altro. E chi non lo è? Forse l'impiegato di banca?».
