«Il mio paese» di Piero Chiara
Quando ero in collegio dai preti al De Filippi di Arona e frequentavo la seconda ginnasiale, il professore d'italiano, don Franceschi, che era nasuto come San Carlo, dava un tema per settimana:«Come passerai le vacanze», «Scrivi una lettera allo zio augurandogli il buon onomastico», «Racconta quale è stato il primo dispiacere che hai dato alla mamma». Ma un giorno dettò questo tema:«Parlate del vostro paese ». Aveva capito che i suoi allievi avrebbero finalmente riversato sulla carta la piena dei loro cuori, spesso attanagliati dalla nostalgia del paese nativo e dell'ambiente famigliare al quale erano stati tolti poco più che infanti. Per il mio paese, che era distante da Arona quattro o cinque ore di battello e nascosto dai promontori che segnano le contorsioni dei Lago Maggiore tra le Alpi e la pianura, spasimavo in segreto fin dal primo giorno di collegio. Mi pareva il più bel paese del mondo, il luogo di tutte le delizie, dove ogni casa, ogni pianta, ogni ciottolo delle rive aveva parole per me. Aspettavo di tornarci nelle brevi vacanze di Natale e di Pasqua e in quelle più lunghe dell'estate, contando come un carcerato i giorni che mi separavano dai rientro. L'anno prima, liberato dal collegio in ritardo a causa d'una reprimenda che un prefetto aveva pensato di farmi proprio l'ultimo giorno di scuola e un momento prima che partisse il battello per l'alto lago, arrivai di corsa con la mia valigia al pontile quando il Regina Madre lentamente se ne staccava. Il capitano mi vide dall'alto del suo ponte, ma ormai il battello stava muovendosi e non era pensabile che per un ragazzetto magari bocciato agli esami, quel padreterno gallonato ordinasse una retromarcia e un nuovo accostamento della fiancata al pontile, con relativo lancio della passerella, anche mezza passerella, come accadeva qualche volta quando un ritardatario arrivava al momento in cui si ritirava il barcarizzo. Il marinaio che stava arrotolando il cavo d'ormeggio, vedendomi arrivare aprì la bocca in una risata additandomi ai viaggiatori che stavano in coperta. Guardavo con strazio filare l'ultimo battello della giornata, dove erano imbarcati due o tre miei compaesani e compagni di collegio arrivati per tempo. Proprio loro, comparsi a un parapetto, mi fecero segno di gettarmi dal pontile dentro il battello, che sfilando lentamente accostava la parte di poppavia ai piloni di legno dell'imbarcadero. Lanciai la valigia fra i cordami e saltai dentro il battello andando a fermarmi, con un ruzzolone, contro un sedile. Fui subito afferrato per un braccio dal marinaio, che mi portò davanti al capitano a render conto. Fortuna si trattava del capitano Caccia, amico di mio padre, che da anni mi vedeva andare su e giù col battello da Luino ad Arona. «Lo lasci qui!» disse al marinaio, con i piccoli occhi azzurri fuori dalla testa, come se volesse mangiarmi in due bocconi o passarmi in sala di tortura per farmi dare il «gatto a nove code». Ma appena andato via il marinaio mi prese paternamente per la collottola e dandomi uno scrollone disse: «Sei un diavolo, che anche nella vita non perderà mai la corsa!» Ne persi invece moltissime, ma forse solo quelle che mi avrebbero portato a cattiva destinazione. Tanto che al mio paese torno ancora, dalla città dove abito, almeno una volta la settimana, e ci corro il giorno dopo quando ritorno da un viaggio, per riprovare quel senso d'essere arrivato al cuore della mia terra, che mi esalta fin dal tempo dei collegio. Tornando ai professor Franceschi ormai di santa memoria certamente, e al tema che ci aveva dato, ricordo che fui travolto, scrivendo il mio componimento di getto su due o tre fogli doppi, dalla nostalgia per il mio paese lontano e forse, per la prima volta, da un sottile e misterioso piacere: quello di scrivere, di far rivivere i fatti, i luoghi, le persone che mi andavano apparendo nella mente e che trattenevo con gioie il tempo necessario per fissarle sulla pagina, nella quale prendevano un nuovo aspetto, più gradevole di quello vero. Quando arrivai in fondo al mio lavoro, mi accorsi di aver scritto dieci pagine, nelle quali avevo raccontato la storia del mio balzo sul Regina Madre l'anno prima, poi avevo parlato del mio paese descrivendolo compiutamente, con le colline alle spalle, il bel fiume Tresa allato, nello sfondo la curva aerea del monte Lema e davanti il bel golfo azzurro sempre ravvivato dal vento fresco delle Alpi. Mi profusi nel decantare la mia casa, nell'antica via dei Mercanti, col suo balcone barocco sopra la doppia scala di granito rosa della facciata, dissi del piccolo porto dov'ero cresciuto tra le barche con i figli dei barcaioli e dei pescatori, raccontai un'impresa aviatoria che avevo compiuto gettandomi dal tetto di casa con un paracadute improvvisato e tante altre mie vicende legate alle poche strade dei vecchio borgo dove ero nato e dove avevo vissuto felicemente fin quando, per i tristi suggerimenti del coadiutore don Alessandro, mia madre si era indotta a chiudermi in collegio. Il professor don Carlo Franceschi, Carlo come il Santo del quale portava il nome, quando lesse il mio componimento trasecolò. Un asino che era sempre arrivato con fatica alla sufficienza, non poteva aver scritto quella specie di poema. Ma era chiaro che non avevo copiato da nessun libro: il compito era stato scritto in classe nel corso di due ore e l'argomento non consentiva interventi altrui. Mi diede un voto mai toccato a nessuno: dieci. E gliene sono grato ancora oggi, come d'un regalo spropositato che doveva avviarmi molto più tardi a un'arte che è l'unica, se ci penso, adatta ai miei pochi talenti, quella di raccontare, faticosa ed esigente quant'altre mai, ma anche consolatoria. Il mio paese, dandomi allo scrivere, divenne lo sfondo di molte delle mie storie. Tutto è accaduto in quel paese, perché tutto è accaduto in me. Guai, scrisse qualcuno, allo scrittore che non ha dietro di sé un territorio preciso, una geografia e addirittura una topografia ben definita, vissuta, nei confronti della quale possa verificare passioni e sentimenti. Ma è chiaro che un paese o un territorio, usati in tal modo, finiscono col diventare emblematici, che è come dire, almeno nell'aspirazione di chi li elabora in tal modo, universali. Quel paese che ha ormai da tempo titolo di città, è sempre là, dove è sorto non prima dell'età medievale nonostante qualche tomba romana, ed è rimasto pressapoco quale l'ho trovato nescendo. Intatto o quasi nel suo nucleo antico, benché in questi ultimi anni abbia avuto, come tutti i paesi e le città, il suo sviluppo periferico e qualche manomissione all'interno: palazzi di sei o sette piani innalzati sopra strade secentesche e case d'altra epoca, negozi e boutiques disegnati da pretenziosi architetti, terrapieni avanzati nel lago e divenuti pubblici passeggi, posteggi di macchine e spazi per luna-park che i miei occhi sorvolano e non vedono, soffermandosi invece sulle vecchie facciate e talvolta fissandosi a un portone, a un'insegna, a una finestra o a un intonaco non mutato in nulla, come se il tempo fosse ancora quello della mia infanzia. Così come è, rimarrà per un bel po' di anni e certo per tutti quelli che mi restano da vivere. Di tempo in tempo ci andrò, per misurarmi con lui, per constatare fino a che punto gli sono rimasto fedele, per rendermi conto che è il paese di tanti altri che neppure conosco, e «mio» soltanto nell'immagine che me ne sono fatta, che cerco di conservare in me.
