«Europei in Mongolia» di Luciano Petech


Nel corso di quel XIII secolo che vide l'apogeo della civiltà medievale anche le conoscenze geografiche dell'Occidente ebbero un rapido e vastissimo incremento. I motivi sono di carattere soprattutto economico; si tratta infatti di uno dei vari aspetti della profonda modificazione strutturale dell'Europa iniziata appunto in quel periodo, per la quale è entrato oggi nell'uso il nome di «rivoluzione commerciale». Tuttavia il forte potenziale economico accumulatosi lentamente in Europa aveva bisogno di una scintilla occasionale per esplicarsi nel concreto. E questa scintilla fu fornita dalla formazione dell'impero mongolo di Gengis Khan e dalla sua rapida espansione attraverso tutta l'Asia a nord dell'Himalaya. La creazione dell'impero mongolo, di importanza fondamentale nel quadro della storia asiatica, si ripercosse in Europa in due tempi e due modi differenti. In un primo tempo la minacciosa avanzata dei cavalieri nomadi rappresentò un tremendo pericolo per il nostro continente, lacerato dal serrato contrasto tra l'imperatore Federico II e il Papato; la grande invasione del 1236-1242 gettò la Russia per due secoli e mezzo sotto il giogo dei Mongoli ed espose la Polonia e i Balcani alle loro scorrerie devastatrici. Da ciò la necessità per l'Europa di ottenere informazioni su queste genti, chiamate per lo più col nome pauroso di Tartari. Occorreva allacciare relazioni diplomatiche e fare il possibile per stabilire un modus vivendi, onde evitare una catastrofe che poteva travolgere la civiltà europea e cristiana. Questa fase durò all'incirca dal 1240 al 1270. In un secondo tempo l'enorme impero, cessata la fase delle invasioni e delle atroci carneficine, trovò una certa stabilità, sotto la quale però si delineavano già le linee di frattura foriere della futura dissoluzione. La pax mongolica, instaurata col sangue e mantenuta con energia ma anche con severa giustizia, favorì e allargò l'attività diplomatica; ma allo stesso tempo invogliò gl'intraprendenti mercanti italiani a tentare la grande avventura, al centro della quale fu sempre l'importazione della seta, che poi veniva lavorata a Lucca e in altre città italiane. L'impero mongolo cessò di essere una realtà viva dopo il 1294. Ma il breve periodo della sua esistenza effettiva bastò per stabilire una rete d'interessi economici e di relazioni commerciali abbastanza solida ed elastica da resistere, anzi da raggiungere il suo culmine proprio durante quella prima metà del XIV secolo che vide la decadenza e la rovina degli Stati successori dell'impero in Cina e in Iran. Dopo il 1350 circa questo rigoglioso movimento di traffici e di idee non è più che un ricordo del passato. I cento anni dal 1250 al 1350 ebbero nella storia delle esplorazioni un'importanza maggiore che non l'intero millennio precedente. Diplomatici e missionari da una parte, mercanti e avventurieri dall'altra, fecero conoscere in Europa le notizie essenziali riguardanti i paesi da loro visitati e le vie percorse; l'orizzonte geografico ne risultò allargato fino a comprendere praticamente tutta l'Asia. Sebbene questa conoscenza si oscurasse alquanto durante il XV secolo, essa non venne mai meno; basti ricordare che Cristoforo Colombo, partendo per il suo immortale viaggio, cercava di raggiungere per l'Occidente proprio il favoloso Catai di cui tanto si parlava da 200 anni. Come abbiamo accennato, i viaggiatori europei nell'impero mongolo appartenevano a due categorie distinte: diplomatici e mercanti. I primi, come spesso nel Medioevo, erano ecclesiastici, o meglio frati domenicani o (più spesso) francescani; erano quindi dei letterati che sapevano vedere e narrare, inoltre erano tenuti quasi per obbligo d'ufficio a dar conto della loro attività, mezzo diplomatica e mezzo missionaria. Da ciò il carattere particolare delle relazioni di viaggio di questi frati, attenti soprattutto al fatto religioso ma spesso buoni osservatori e descrittori di costumi, di luoghi, di istituzioni. Già il domenicano ungherese fra Giuliano aveva nel 1236-37 compiuto un primo viaggio verso il Volga, raccogliendo notizie sui Mongoli i quali, attestati sul grande fiume, preparavano la loro avanzata in Europa. Passata la bufera e ritiratisi gli invasori, non già per la resistenza incontrata ma perché la morte del Khan supremo esigeva la presenza in patria della nobiltà mongola per l'elezione del successore, papa Innocenzo IV decise di inviare come suo legato fra Giovanni da Pian del Carpine. Nel 1246 questo francescano intrepido, pio, ma umanamente aperto al nuovo mondo che gli si rivelava, arrivava al grande accampamento dell'aristocrazia della steppa nel cuore della Mongolia, e vi assisteva all'elezione del nuovo sovrano. La sua relazione (Ystoria Mongalorum) descrisse per la prima volta al mondo cristiano ii grande organismo creato da Gengis Khan sulla base dell'economia pastorale nomade, la cui tremenda efficienza militare era stata sperimentata dall'Europa pochi anni prima. Minore rilievo ebbe invece la legazione, di poco posteriore, del domenicano fra Ascelino presso il comandante dell'esercito mongolo in Iran. Le notizie così pervenute in Europa indussero Luigi IX di Francia ad approfondirle ed a cercare ancora una volta un accordo politico e religioso. A tale scopo egli inviava nel 1249 il domenicano Andrea di Longjumeau, che penetrò fino all'odierno Kazakistan, ma il cui racconto (se mai fu scritto) andò perduto. Nel 1253 il santo re inviava poi alla capitale mongola Qaraqorum il francescano fiammingo Guglielmo di Rubrouck, il cui Itinerario sobrio, preciso, acuto, è senza dubbio la migliore tra le relazioni di viaggio dovute a questi ecclesiastici. Figura di maggior rilievo fu il francescano Giovanni da Montecorvino, inviato in Cina dal papa nel 1291 e più tardi consacrato arcivescovo di Cambaluc, l'odierna Pechino, dove morì nel 1326. Fu lui a creare la missione e ad organizzare la prima chiesa cattolica di Cina, cercando e trovando i suoi neofiti soprattutto fra gli stranieri colà residenti al servizio dei Mongoli; il che spiega come quella comunità cristiana si disgregasse e scomparisse con la decadenza e la fine del dominio mongolo. Dal punto di vista geografico, le tre epistole conservateci di questo missionario hanno tuttavia un'importanza minore rispetto alla relazione di viaggio del B. Odorico da Pordenone, che visitò l'India e poi la Cina (1324-1328), paesi di cui fu pittoresco ma superficiale descrittore, più attento al colore esotico che non alla realtà delle cose. La serie dei legati papali al Catai si conclude col francescano Giovanni da Marignolli, il cui viaggio (1342-1347) e soprattutto il cavallo da lui portato in dono all'imperatore, sono ricordati nei testi cinesi, che pure ignorano tutti gli Europei di quel secolo, Marco Polo compreso. Ma il dominio mongolo ormai agonizzava, e con lui la chiesa di Cina. E' patetico osservare come l'unico cimelio sicuro che di essa rimanga sia la lastra tombale di Andrea da Perugia (m. 1330), vescovo di Ch'üan-chou, dove essa è venuta alla luce qualche anno fa. Al commercio nell'impero mongolo, dapprima monopolizzato dai musulmani d'Asia Centrale, parteciparono ben presto mercanti europei, quasi esclusivamente italiani. Già nel 1264 il veneziano Pietro Vilioni si era stabilito a Tabriz nell'Iran occidentale, dove gradualmente si formò una fiorente colonia italiana destinata a durare fin circa al 1336. In quegli anni ebbe luogo il primo viaggio in Cina dei fratelli veneziani Niccolò e Maffeo Polo, partiti da Costantinopoli nel 1261. Ricevuti cordialmente dall' imperatore Qubilai Khan, rientrarono in patria, per ripartirne nl 1271 conducendo con sé il giovane Marco figlio di Niccolò; solo nel 1296 i tre Polo rivedevano definitivamente la patria. Marco, che in Cina non fu un mercante, ma un gentiluomo al servizio dell'imperatore, impiegato in missioni di fiducia, dettò al pisano Rustichello la descrizione dei paesi da lui veduti; e il suo libro conobbe subito una popolarità straordinaria, trasformando completamente le conoscenze che l'Europa aveva dell'Asia meridionale e orientale. Dei due vecchi Polo invece, che pure erano i capi della famiglia e dell'impresa, quasi nulla sappiamo. Il fatto è che quegli arditi mercanti, tutti dediti ai loro traffici, non ebbero né il tempo, né le capacità letterarie, né soprattutto l'interesse economico a parlare troppo dei propri itinerari. Infatti certi documenti notarili dell'epoca attestano una voluta reticenza sulle mete dei viaggi commerciali, certo per non aiutare i possibili concorrenti. Così solo i documenti d'archivio e poche fonti indirette ci fanno intravvedere le figure di alcuni grandi mercanti, quali il genovese Buscarello di Gisolfo, a due riprese tra il 1289 e il 1303 ambasciatore in Europa dei sovrani mongoli d'Iran; Pietro di Luca Longo, forse veneziano, che nel 1305 donava a fra Giovanni da Montecorvino un terreno a Pechino per edificarvi la cattedrale; e il genovese Andalò di Savignone residente in Cina, inviato nel 1336 dall' imperatore come suo ambasciatore al papa e al re di Francia, con l'incarico di procurargli cavalli e gioielli dal lontano Occidente. Ancora nel 1344 una comitiva di mercanti genovesi partiva per il Catai. Ma più eloquenti delle carte d'archivio appaiono due pietre ritrovate nel 1951 a Yang-chou nella Cina centrale; sono le lapidi tombali di Caterina e di Antonio, figli di Domenico Vilioni, morti laggiù rispettivamente nel 1342 e nel 1344. Così il ciclo del commercio italiano nell'Asia mongola si aprì e si chiuse con la stessa famiglia Vilioni. Questi frammenti d'informazione non danno che una ben scarsa idea di quanto ricchi, vivaci e direi quasi normali fossero quei traffici; tanto normali che un commesso di banca, Francesco di Balduccio Pegolotti, senza muoversi da Firenze, poteva offrire, nella sua Pratica della Mercatura, un vero manuale, preciso e minuzioso, delle strade, delle monete, delle merci, degli usi commerciali del Catai. Nella prima metà del XIV secolo l'Asia a nord dell'Himalaya formava un'unica area economica e commerciale con l'Europa. Dopo il 1368 la Cina si chiuse quasi completamente allo straniero, e nel resto dell'Asia il commercio passò di nuovo completamente nelle mani dei mercanti musulmani. Bisognò arrivare alla metà del XIX secolo perché si raggiungesse e poi si superasse la somma di conoscenze geografiche e l'intensità di rapporti commerciali di cui aveva goduto l'Europa di Marco Polo.

 

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