«Memoria delle Langhe» di Davide Lajolo (Ulisse)


Le Langhe hanno cominciato a diventare un luogo famoso in Italia e fuori attraverso gli scrittori, soprattutto attraverso i racconti di Cesare Pavese che hanno varcato le frontiere provinciali e nazionali. Lì, nelle pagine del tormentato poeta di Santo Stefano Belbo, il paese che sta proprio al confine tra Langa e Monferrato, un continuo susseguirsi di colline e di valli, hanno preso vita i personaggi, i paesaggi, i miti. Poi è arrivato il narratore Beppe Fenoglio, il quale, più del lirico Pavese, con «La malora» ha dato alla descrizione delle Langhe sostanza, concretezza, rompendo con i miti di Cesare per scavare financo con le unghie in quella cruda realtà del mondo contadino langarolo. Se Pavese riversa in quegli orizzonti senza fine l'angoscia del suo vivere, la sua nostalgia dell'infanzia e la sua incertezza sul futuro, Fenoglio rifiuta di arrendersi al «gramo» destino e proprio nella Langa, come i suoi compaesani, diventa un guerriero sul tipo di un soldato di Cromwell (la sua malattia d'inglesità), e difende palmo a palmo vigne e barranchi, boschi e «lericchi» vivendo l'epopea partigiana, che nelle Langhe è stata forte e drammatica, per portare a salvamento il suo irrefrenabile bisogno di libertà. Pavese e Fenoglio hanno dato slargo alla Langa fino ai confini del mondo. Erano già passati nelle Langhe in tempi non troppo lontani altri scrittori; Augusto Monti, maestro di Pavese non solo al liceo D'Azeglio di Torino, aveva già scritto un notevole romanzo sulle storie della Langa: «i sans-souci»; ma dovevano essere i suoi allievi e successori a completare l'opera. Così ora la Langa è nota anche a quelli che non l'hanno potuta visitare: quei paesi sono diventati per milioni di lettori «Paesi Tuoi» e la luna sta per tutti a confronto con i falò per un dialogo eterno tra cielo e terra che il campagnolo Pavese ha aperto per tutti i contadini della Terra. Questi scrittori - e se non è immodestia, mi ci metto anch'io a fianco con «I me» e gli altri miei racconti tra Langhe e Monferrato - hanno saputo diventare popolari e parlare con la gente perché sono riusciti ad interpretare l'uomo della terra, il sentimento di queste colline, la poesia delle Langhe. La Langa come respiro, come rassegnazione contadina, come rivolta nell'ora patriottica, come luoghi e paesi oggi quasi abbandonati - quelli più in alto - nella loro antica povertà dove chi ha resistito sta come in una trincea, con grinta. Quando sali da loro ti guardano come chi non vuole lasciare ciò che ama anche se per vivere è costretto a dura fatica e a patimenti. Il mondo si è fatto piccolo con il progresso che ha avvicinato le distanze, ma l'isola campagnola rimane ancora chiusa nei suoi steccati magari fatti di piante ricoperte di verde, riuscendo a conservare una sua voce e una sua speranza. E' un'isola quella campagnola e delle Langhe, che si estende in tutto il mondo, alle campagne d'Africa, d'Asia, in Australia, in America, in tutti i Paesi d'Europa, perché i contadini, quelli abituati a curvarsi sulla terra, si somigliano, hanno tutti un loro comune modo di guardare, di camminare, di pensare. Questi delle Langhe li esprimono tutti, perché sono piantati qui da secoli come le loro colline, i loro bricchi, come il tufo e le pietre, su campi e vigne che s'ingerbidano e poi si rinnovano. Quando li vedi stagliarsi, sulle coste più alte, quasi come balconi sui barranchi, hai proprio il senso che l'anima contadina sfiori l'eternità - come fossero di scorta alla terra, i garanti della vita. Nella camminata i langaroli sono lenti come portassero sulle spalle le loro colline e i campi e le vigne, e gli alberi e tutti quelli che sono i frutti e le avarizie della terra, ma se alzano gli occhi non sopportano scherni, sono pronti sempre ad incontrarsi col cielo e basta una mano per farsi riverbero al sole contro gli occhi. Il paesaggio delle Langhe non è così festante come quello del Monferrato che è più agile, più dolce, più vario. Quello delle Langhe si ripete da una collina all'altra. La diversità è nella piana attorno alla capitale naturale, Alba, fino a quando si sale quasi a imitare la montagna sulle Langhe alte a S. Benedetto, a Garzegno, a Murazzano, a Monesiglio. Dall'altra parte salendo per Monforte si incontra Grinzane Cavour col suo castello intoccato e tutto intorno la cornice di altri paesi: Serralunga, Sino e tanti altri sui cucuzzoli più alti. Attorno vigne, noccioleti, boschi. I cani latrano sempre in lontananza. Raramente sono legati nei cortili. Passano lenti per le strade, molti sono bianchi di pelo e portano a coda bassa una loro incomprensibile malinconia negli occhi mansueti. Sono anch'essi nel paesaggio della Langa. Non dimenticherò mai di essermi sempre convinto che Pavese per un verso, e Fenoglio per un altro, avevano riflesso nel volto il paesaggio della Langa: più cupo, quasi tetro quello di Pavese, con gli occhiali che facevano da schermo all'intima nostalgia; grintoso, segnato quello di Fenoglio, con le lunghe gambe da camminatore senza fine e le braccia capaci di imbracciare un fucile. Ecco: la Langa, pur oggi così spopolata, è soprattutto il viso della gente. Il contadino con la zappa sulle spalle e quello che porta la gerla, nei loro occhi, nei loro visi che a tutta prima paiono impenetrabili ti fanno capire tutto. Persino le grosse vene delle mani ossute ripetono i rami dell'olmo, tanto asciutta e provata è la pelle fino a ripetere la durezza e le linee della corteccia della gagga e della quercia. Gli occhi dei langaroli guardano sempre lontano. Si fermano appena un istante nel tuo sguardo, anche se stai parlando con loro. Se vai in Langa alla stagione del grano, nei paesi che hanno brevi distese di piano, trovi i trebbiatori schierati davanti alle mastodontiche macchine, nel rumore del motore, avvolti in nugoli di polvere, impavidi, come nessuno li sfiorasse. Nell'afa le donne contadine accanto all'uomo, come scriveva Pavese, emanano odore, sentore di sesso, come se tornasse il selvaggio, e allora il paesaggio si incupisce al modo che si oscura l'orizzonte quando il tuono rotola da una collina all'altra e il fulmine minaccia tragedia. Le Langhe sono un po' luogo di tragedie come io sono di festa. Ma domina il tragico. Anche nei rari giovanotti che hanno resistito sulla terra magra, forti come torelli, capaci di fatiche ingrate, c'è una espressione di rabbia, magari verso la città dove sanno che si vive meglio e vi sono tante cose che qui mancano. Verso di te che vieni dai palazzi però ti confermano subito che vogliono stare lì, nella loro povertà, perchè lì c'è stato a sudare il loro padre che ora sta là - e ti indicano il cimitero - a vedere l'erba dalla parte delle radici sempre affondato in quella terra che si è ostinato a dissodare. I langaroli, più di altri contadini, sono avari di parole e di gesti. Un contadino incontrato una mattina sulla strada di Sino m'aveva fatto correre nel ricordo a mio padre, come lui contadino. Forse perchè aveva la cote in mano per affilare la falce, come era quel giorno mio padre quando gli ero corso incontro tornando dal collegio dove ero stato rinchiuso per studiare. Lui mi aveva visto spuntare di corsa e gli si erano ingranditi gii occhi. Capivo che avrebbe voluto anch'egli corrermi incontro ma aveva nelle mani la falce, e il volto troppo sudato. Apriva il volto al sorriso e sparivano le rughe: io gli avevo gridato: papà, sono stato promosso! Allora mi toccò la testa con la mano e mi disse il suo «bravo» pieno di orgoglio, di calore, di ansietà, diverso dal «bravo» del professore e degli altri parenti. Poi parlò: «Sei doppiamente bravo perché studi e ti guadagni le tasse con i bei voti. Hai capito che è meglio studiare per sfondare nella vita e non essere costretto alla falce e alla zappa come me per tutta la vita. Noi che siamo rimasti a fare i contadini mordiamo la terra da vivi e da morti». Poi tornò al lavoro per vincere l'emozione. Così, in quel ricordo di mio padre, ristudio sempre, ogni volta che l'attraverso, la gente della Langa. I cercatori di tartufi coi loro bastoni fatati e il cane che cerca con il muso piantato tra le foglie secche, e i cercatori di funghi; e se incontro un cacciatore mi ritornano in mente i soldati di Carlo Alberto, gli alpini del Carso, i miei compagni partigiani. Le trattorie delle Langhe sono quasi tutte sulle piazzette dei paesi. Dentro semibuie, quasi a ristorare dal calore del sole che batte fisso sulla pietra della piazza. C'è dentro sempre una donna pronta a servirti ma senza troppi convenevoli. Solo alla sera, quando si è cenato e si sta con le gambe sotto il tavolo e uno intona un canto, allora anche la donna lascia la cucina e si unisce al coro con la voce in falsetto per fare «da prima». D'estate, nei prati rimasti senza fabbriche ritrovi ancora alla domenica il ballo e il palchetto e la musica che suona il liscio, la stessa che suona marce nei cortei per le ricorrenze patriottiche. C'è il bombardino, il clarino, il trombone e i suonatori sanno la musica a memoria e non hanno fogli davanti. Il suono riempie la vallata, l'armonia si ripete in mille echi. Allora è festa e il vino fa la sua parte col formaggio fatto sul posto che pizzica e invita a bere. Sulla piazza s'è fatto ii vuoto per lasciare campo libero ai giocatori del pallone a pugno. Qui sono nati tutti i campioni, da Manzo a Balestra, da Vudue a Bertola, dal Mancino al Merzino, infallibile nel fermare il pallone per la «caccia» buona per la squadriglia. La gente ai bordi applaude, grida «traversa». Girano soldi, magari in piccoli tagli, ma il tifo dà sfogo anche qui. Allora si fanno avanti quelli più scherzosi, quelli che sanno far ridere raccontando buffonate. La loro fantasia è più viva di quella degli scrittori. Hanno trovate straordinarie, che purtroppo trodotte dal dialetto all'italiano perdono tutto il sapore. Proprio ai margini di uno sferisterio improvvisato sulla piazza di Feisoglio ho conosciuto un giorno un ometto che per soprannome, poiché era piccolo e magro con un viso non più grosso di una mela di montagna, chiamavano «il gneru», come dire il nano. Passava una ragazza di corsa e i seni risaltavano in movimento sotto la camicietta gialla. E il «gneru» pronto: «Quella mi fa alzare al solo vederla passare il creapopolo». Non avevo mai sentito definire così il sesso virile. E il contadino accanto altrettanto spiritoso: «Taci, peccatur». Ecco la Langa; colline, bricchi, terra rossa e terra nera. Alberi e vigne, gerbidi dove imperano le bisce e noccioleti dove trovano l'ombra per cantare il merlo e l'usignolo, a Langa si percorre salendo con i suoi colori tipici e le sue voci lente. Quelle Langhe di cui Pavese diceva: «Vai lontano finché vuoi, magari in capo al mondo ma le Langhe non si perdono». Mai.

 

eXTReMe Tracker

Shiny Stat

free counters